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immagini malgrado tutto Georges Didi-Huberman, Appunti di Storia Dell'arte

A partire da quattro foto strappate all’inferno di Auschwitz, questo libro sviluppa un’originale riflessione sulla memoria, l’immagine e l’opera d’arte.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 05/05/2020

lucrezia_mariani
lucrezia_mariani 🇮🇹

4.5

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Scarica immagini malgrado tutto Georges Didi-Huberman e più Appunti in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! IMMAGINI MALGRADO TUTTO George-Didi Huberman Capitolo 1 → Quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno Per sapere occorre immaginare → immagini malgrado tutto significa malgrado la nostra capacità di guardarle, malgrado il nostro mondo riempito di immagini. Durante l’orrore dei campi di concentramento, la necessità di fare delle foto per documentare l'orrore era fondamentale per avere una testimonianza del fatto che quello che accadeva agli ebrei era un pezzo di realtà. Il pensiero di strappare delle immagini è emerso proprio in un momento in cui non c'era posto per il pensiero e l'immaginazione. Il rullino che un coraggioso prigioniero di Auschwitz è riuscito a scattare, su richiesta del capo della resistenza polacca, è stato poi inviato a Cracovia, dove è arrivato nel settembre 1944. Sonderkommando = creato ad Auschwitz il 4 luglio del 1942, gruppo di detenuti che gestivano camere a gas e l’eliminazione dei cadaveri; la squadra successiva uccideva i predecessori per mantenere il segreto. Capitolo 2 → A dispetto di ogni inimmaginabile Confutare l’inimmaginabile → quelle foto scattate ad Auschwitz servivano a confutare l'inimmaginabile, per mostrare che ciò che tutti non pensavano fosse possibile in realtà esisteva e avveniva proprio su questa terra. La strategia nazista, infatti, puntava sul fatto che la loro impresa fosse troppo mostruosa per essere creduta; questa strategia includeva sia l'esclusione delle immagini, ma anche una manipolazione delle parole. Il gergo del campo di concentramento includeva una serie di parole che erano in apparenza ingenue, come ad esempio “Schutzstaffel”, abbreviato in SS, che significa protezione o riparo. I nazisti puntavano a far scomparire i corpi, perché far morire centinaia di ebrei non era abbastanza, la “soluzione finale” non era mai abbastanza finale; era necessario non lasciare alcuna traccia di questi corpi. Paradossalmente, gli strumenti di scomparsa, come il forno crematorio, dopo la sconfitta dell'esercito tedesco vennero a loro volta fatti sparire, in modo che recandosi ad Auschwitz non ci fosse nulla che potesse testimoniare quanto era avvenuto. Insieme ad essi, scomparvero anche gli archivi. È il potere epidemico delle fotografie, di fare in modo che esso sia collegato strettamente all'immagine e alla memoria. Le immagini scattate dentro Auschwitz sono immagini malgrado tutto, perché nonostante il divieto ferreo le immagini continuavano a circolare senza sosta. All'interno di Auschwitz era stato costruiti due laboratori fotografici, in cui venivano scattate foto dei prigionieri politici, foto segnaletiche, foto di esecuzioni e torture e delle installazioni del campo e infine non va dimenticata l’iconografia “medica” grazie alla quale venivano documentati gli esperimenti di Josef Mengele; verso la fine della guerra, i nazisti bruciarono questi archivi, ma alcuni prigionieri sono riusciti a salvare perte di questi documenti, circa 40 000. I massacri nazisti non andrebbero confinati nel campo dell'impensabile: se sono stati fatti, sono stati pensati e dunque erano qualcosa di pensabile. In questo senso, immagine e linguaggio devono collaborare: un'immagine sorge dove mancano le parole, viceversa le parole vengono in soccorso quando manca l'immagine, come nel caso di Auschwitz, dove le immagini sono venute in soccorso delle parole. Capitolo 3 → Nell'occhio della storia Per ricordare occorre immaginare → l'urgenza di creare delle testimonianze del nazismo è nata nonostante chi le ha raccolte sapeva benissimo che non sarebbe sopravvissuto. Gli storici sono però disturbati dal carattere soggettivo delle testimonianze dei sopravvissuti, perché in quanto tali sono condannate ad essere inesatte; queste immagini intrattengono un rapporto lacunoso e frammentario con la verità che testimoniano, ma sono tutto ciò che abbiamo per comprenderla. Queste immagini vengono considerate inadeguate rispetto a quanto noi sappiamo della realtà dei campi di concentramento, al punto da arrivare a sembrare inesatte, perché mancano di quei dettagli che noi già conosciamo. Viceversa, a volte domandiamo troppo alle immagini, relegandole o al rango di simulacro, estromettendole dal campo storico, oppure al rango di documento, eliminandone la fenomenologia. L'immagine, di qualunque tipo essa sia, non porta verità, secondo lo storicismo, difatti queste immagini passarono sotto silenzio fino alla fine della guerra. Queste immagini sono state vittime di disattenzione in due modi: - il primo è stato quello di ritoccare queste immagini per renderle delle icone, per renderle presentabili, ma sono state così trasformate completamente; - il secondo modo è stato quello di vedere in esse solo un documento dell'orrore, cioè renderle il più possibile informative, modificandole in diversi modi. Privilegiare la parte «luminosa» in una delle immagini, eliminando la parte oscura, significa togliere parte del valore dell'immagine, come se il fatto che il fotografo fosse nascosto in una camera a gas non avesse alcun valore, quando invece fa parte della condizione stessa dell'esistenza dell'immagine. Preferire la parte informativa dell'immagine ha preferito sopprimere la parte fenomenologica dell'immagine, tutto ciò che è collegata ad essa che la rende un evento. Mentre tre delle foto riprendono qualcosa (i Sonderkommando al lavoro e un gruppo di donne nude, pronte ad essere portate alle docce), c'è una delle immagini che non riprende nulla di particolare e spesso viene ignorata per questo. In realtà anche quest'immagine è importante, sempre per la sua importanza fenomenologica: la condizione di urgenza del fotografo, la fretta nel ritirare l'obbiettivo, il rischio corso nel compiere quell'atto; fa tutto parte della storia. Capitolo 4 → Simile, dissimile, sopravvissuto Guardare le immagini secondo la loro fenomenologia → per fare ciò, lo storico deve allargare il proprio punto di vista, in modo da restituire alle immagini il loro valore antropologico. In queste foto il dissimile è sullo stesso piano del simile e la morte è sullo stesso piano della vita. Nel combattere l'intenzione delle SS di cancellare totalmente l'essere umano e la sua immagine, conservare delle immagini era un atto fondamentale, malgrado tutto. È importante strappare a quella realtà un'attività di conoscenza: serbare l'immagine di sé, salvaguardare il proprio io in senso psichico e sociale. Il concetto di inferno è stato quello più utilizzato dai prigionieri per descrivere ciò che hanno vissuto ad Auschwitz e per quanto inesatta, quest'immagine fa parte della verità del campo di concentramento. Auschwitz rimane solo immaginabile, quindi dobbiamo affidarci solo alle immagini per poter averne una conoscenza, per quanto lacunosa e inadeguata sia. Capitolo 5 → Immagine-fatto o immagine-feticcio Il dibattito tra Didi-Huberman, Gérard Wajcman e Èlisabeth Pagnoux → Didi-Huberman è stato accusato di aver feticizzato le immagini di Auschwitz di cui parla, fino quasi a giungere ad una forma di voyeurismo perverso, ma a queste accuse egli risponde di aver solo tentato di vedere per sapere meglio. Le quattro immagini scelte rappresentano un sintomo storico in grado di riconfigurare il rapporto tra lo storico delle immagini e i suoi oggetti di indagine. Dire che “non c'è immagine della Shoah” significa dire che non tutto il reale è solubile nel visibile, cioè che l'immagine non può trasmettere tutto il reale. Il punto fondamentale è che queste sono immagini malgrado tutto, cioè non sono immagini di tutto, della Shoah intesa come assoluto, ma sono immagini strappate a un reale che non avevano il tempo di esplorare, che hanno catturato in maniera lacunosa. Era necessario vedere, per capire e dedurre da quanto si vede e non si vede; per molto tempo si è ignorato il fatto che si dovesse vedere per sapere. Didi-Huberman non ha rifiutato la teoria dell'inimmaginabile, come gli è stato contestato, ma l'ha solo criticata: il suo tentativo di conoscere qualcosa a partire da quelle immagini era comunque basato sul presupposto che non possiamo in ogni caso immaginare fino in fondo. Non ha mai rigettato l'inimmaginabile come esperienza: la parola inimmaginabile riguarda il dolore intrinseco dell'evento e la difficoltà di riguardo; i secondi danno una forma a questo insieme di problemi, da cui acquistano una cruciale importanza. La storia delle immagini può essere narrata come uno sforzo per oltrepassare visivamente le contrapposizioni tra visibile e invisibile. Wacjman afferma che ciò che non si può vedere, bisogna mostrarlo, salvo poi concludere erroneamente che le immagini della Shoah mostrano che non c'è immagine; secondo Didi-Huberman, invece, la moltiplicazione e congiunzione di immagini aprono una via per mostrare malgrado tutto ciò che non si può vedere. Il modo più semplici di fare ciò è montare un profilo figurale con più viste o tempi dello stesso fenomeno, come ad esempio un filmato. Ogni immagine ci permette di parlare meno e dire meglio, cioè parlare senza dover dire. Il montaggio conferisce alle immagini lo statuto di enunciazione che le renderà giuste o ingiuste, a seconda del loro valore d'uso. Il montaggio, inoltre, si fa carico di mostrare le differenze, poiché ciò che non può essere mostrato è necessario montarlo, affinché sia possibile conoscere malgrado tutto ciò che resta impossibile vedere interamente. Godard afferma che il montaggio è ciò che fa vedere, poiché il cinema è concepito in primo luogo per pensare, quindi dovrebbe darsi come una forma che pensa; il montaggio deve produrre questa forma che pensare, quindi è l'arte di rendere l'immagine dialettica. Godard sostiene che i campi di concentramento non siano stati filmati, anche se in realtà i nazisti hanno realizzato dei filmati; con questo vuole dire che il fatto che esistano dei filmati non significa che esista il cinema, cioè nessuno ha saputo montare, mostrare per comprendere, i documenti della storia. Montare un'immagine dei campi di concentramento non significa sminuirla della sua importanza o del suo significato, ma mostrare la differenza e il legame di questa immagine con ciò che la circonda per l'occasione. Capitolo 8 → Immagine simile o immagine sembiante Fare confusione → ignorare il lavoro dialettico delle immagini può portare alla confusione, perché l'immagine non è nulla, né una, né tutta, né due, bensì si dispiega da due punti di vista che si affrontano sotto lo sguardo di un terzo. Montare non significa assimilare, cioè due immagini poste una di fianco all'altra non significa che queste due immagini siano simili. Wajcman ribalta la somiglianza nell'assimilazione, il simile nel sembiante, facendo confusione tra somiglianza e identità. Nel mettere vicini l'immagine delle vittime e dei loro carnefici, a loro volta diventati vittime dopo la fine della guerra, Wajcman ritiene che si corre il rischio di confonderli; Didi-Huberman, invece, ritiene che il carnefice possa essere associato alla vittima proprio perché è simile in quanto essere umano, perché il loro rapporto si basa proprio sull'essere entrambi appartenenti alla specie umana. Questo però non significa che vittima e carnefice siano interscambiabili o sostituibili tra loro. Studiare un'immagine della Shoah non significa riguadagnare speranza davanti all'immagine, bensì persistere malgrado tutto, malgrado l'inaccessibilità di questo evento. Bisogna continuare a chiedersi come, per non lasciare l'intelligibilità dei crimini nazisti avere la meglio sulla possibilità di conoscere quel fenomeno. L'inimmaginabile spesso corrisponde a un semplice rifiuto di pensare l'immagine, la quale si auto-legittima tramite grandi iperboli. Tre sono le iperboli solitamente messe in campo: - se si vuole sapere qualcosa della Shoah bisogna sbarazzarsi delle immagini - se si vuole fare appello alla memoria della Shoah, bisogna rinunciare a ogni immagine - l'etica scompare laddove compare l’immagine Con “per sapere occorre immaginarsi”, Didi-Huberman vuole affermare che non ci si deve fermare alle immagine, ma utilizzare anche altri mezzi per comprenderle, perché la memoria della Shoah non dovrebbe cessare di riconfigurarsi. Inoltre è necessario mettere in gioco il soggetto nell'esercizio del sapere e del vedere, perché non si può separare l'osservatore dall'osservazione; da qui l'uso del verbo immaginarsi. Wajcman invece confonde immaginarsi e credersi in. La tragedia della Shoah sta nella disumanizzazione, cioè nell'eliminazione della capacità da parte di prigionieri di riconoscere nei propri compagni dei loro simili. Le quattro immagini sono una resistenza a questa disumanizzazione, perché ci presentano l'immagine dell'uomo malgrado tutto, che cerca di resistere. I prigionieri tentarono di dare forma all'inimmaginabile tramite l'immaginazione, perché si trattava di una realtà al di là dell'immaginazione, ma l'immaginazione non restituisce proporzionalità all'evento. Essa funzione solo in base alla sproporzione tra l'esperienza e il suo racconto. È necessario dare uno sguardo estetico alle foto di Auschwitz per chiarire il valore etico ed antropologico che i prigionieri hanno attribuito a queste foto, le quali sono state scattate per mostrare l'abbattimento del simile che era in atto. Le immagini mostrano brandelli di vestiti, luce, ombra, cadaveri, tutto ciò che il campo di concentramento voleva eliminare, il riconoscimento del simile. Quando Wacjman rifiuta le immagini della Shoah perché non sono in grado di rappresentarla, oppure perché le considera denigrazioni di un'assenza, incapaci di rendere l'orrore dello sterminio, non considera che in quanto le immagini sono lacunose e incapaci, malgrado tutto restano necessarie, perché ci mostrano ciò che irripetibilmente viene percepito e ha da essere percepito. Avere un'immagine di un campo di concentramento significa avere la consapevolezza che chi appartiene a quell'immagine ora non c'è più. L'immagine è un'immagine-lacuna, che è al tempo stesso un'immagine-traccia e immagine-sparizione al tempo stesso; ciò che resta è un lembo dell'aspetto della cosa, la sua somiglianza. L'immagine non resuscita nulla, non del tutto, bensì redime: essa recita malgrado tutto, malgrado il poco che ha in suo potere, cioè la memoria dei tempi. Il mito di Medusa ci dice che l'immagine è sia un riflesso che uno scudo contro il reale inguardabile e questo ci ricorda come l'orrore reale sia fonte di impotenza per noi. L'orrore del campo di concentramento è paragonabile allo sguardo di Medusa, che paralizza e impietrisce. Secondo Didi-Huberman, però, lo scudo non è uno strumento di fuga dal reale, come pensa Wajcman: Perseo non fugge dalla Medusa, ma la affronta malgrado tutto, che è una possibilità a dispetto di una impossibilità di principio. Il malgrado tutto è l'immagine. Lo scudo è il mezzo tramite il quale egli riesce a decapitare il mostro e al tempo stesso è la sua protezione. Nell'espressione “malgrado tutto”, il tutto indica il potere delle condizioni storiche a cui ancora non possiamo replicare, mentre il malgrado è la resistenza a questo potere. Malgrado le condizioni storiche, il fotografo ha sfidato la sorte per darci delle immagini, quindi il minimo che si può fare è guardare queste immagini, per rendere omaggio al rischio che ha corso. Bisogna imparare a guardare le immagini, per imparare a scorgervi ciò a cui sono sopravvissute. Analisi Il saggio di Didi-Huberman è uscito nel 2005. Si crede utile porre nuovamente attenzione al testo, per due ordini di ragione, che corrispondono ai due temi portanti del saggio: - perché il dibattito sul negazionismo è sfortunatamente attuale, ed è questa la ragione politica - in secondo luogo perché il saggio pone in luce temi rilevanti in ambito estetico e teoretico, che chiamano in causa l'eredità filosofica occidentale e alcuni paradigmi della tradizione ebraica. Il testo esordisce presentandoci quattro fotografie che Alex, ebreo del Sonderkommando Auschwitz- Birkenau, riuscì a scattare nell'agosto del '44. Tale operazione aveva lo scopo di rendere testimonianza di quanto sarebbe stato, altrimenti, difficilmente credibile, perché, sino ad allora, inimmaginabile. L'operazione si presenta come atto di resistenza per antonomasia, perché finalizzata a impedire la realizzazione dello scopo ultimo dell'ingranaggio nazista: l'eliminazione di ogni traccia della stessa operazione di eliminazione. Atto di resistenza perché produzione di traccia, dunque, ma anche atto di resistenza contro il tentativo di eliminare l'umanità, prima ancora che il corpo fisico, dei deportati. I sonderkommando, destinati allo smaltimento di ogni resto dei corpi fratelli, dimostrarono di restare umani perché, nella produzione di quegli scatti fotografici, si appellarono ad un'umanità esterna ai campi, cui destinare la memoria. Tali uomini, cui era impedito di immaginare un futuro alla loro propria vita, riuscirono a immaginare il futuro della vita dell'uomo e in tale atto d'immaginazione, declinatosi nella produzione del fotogramma, scamparono all'asservimento ultimo. A questo gesto di resistenza Didi- Huberman si rivolge, in qualità di filosofo e storico dell'arte, richiamandoci alla necessità di un uso consapevole di tali immagini che, per essere comprese nella loro forma, devono essere lette in relazione all'atto che le rese possibili. Tale chiarimento è essenziale, pena leggere i diversi riferimenti dell'autore come appesantimento gratuito, fuorviante rispetto al primigenio senso politico sopra detto. E' la forma stessa delle foto a sollecitare lo sguardo a un'interpretazione critica. La lacunosità di tali fotogrammi mette di fronte a due alternative: o tale lacunosità è indice della loro povertà, e allora esse vanno scartate o modificate, oppure essa è indice delle condizioni con cui vennero scattate e allora vanno assunte come prova, limitata rispetto all'evento nella sua totalità, ma proprio per questo autentica. Nella loro forma, priva di prospettiva regolare, con ingombranti zone d'ombra, ritroviamo il movimento concitato del soggetto che compì gli scatti, l'impossibilità di una presa ferma, di un'immagine stabile. Le zone d'ombra, afferma l'autore, rappresenterebbero l'interno della camera a gas, appena svuotata dai corpi, ora ammassati e su cui si sta operando una cremazione a cielo aperto (p. 26). Proprio la forma venne nella prima ricezione dei fotogrammi ignorata cercando, mediante il ritocco, di levare l'effetto sfumato (p. 55), dettato dal movimento, e togliendo le parti scure o incomprensibili (confronta p. 28 con p. 54), come il frammento di cielo intervallato dalle betulle: apparentemente senza senso, in realtà decisivo per comprendere la verità della situazione, ovvero la temporalità cui l'immagine rimanda. Il ritocco rappresenta precisamente l'approccio che Didi-Huberman vuole evitare e che rischia di condurre all'immagine feticcio. Togliere le parti ritenute marginali, frammentarie, significa sottrarci al compito di comprendere l'immagine nel gesto che l'ha prodotta, riducendola ad icona adatta al nostro sguardo, fermo e prospettico, irrimediabilmente lontano dal gesto fotografico di Alex, deformato dall'angoscia di essere scoperto. Forma e contenuto paiono quindi inscindibili. La prospettiva è ancora una volta, come scrisse Panofsky sulla falsariga di Cassirer, forma simbolica: dove la differenza ottica non è qui dettata dalla dimensione culturale ma dalla condizione esistenziale. Ciò che l'autore intende con conoscenza per immagini, dunque, non è comprensibile se non a partire dallo statuto che si fornisce all'immagine stessa. Questa se assunta, come nel caso presente, in relazione al gesto fotografico, è immagine che appella il soggetto recettore a interpretazione critica, ovvero a uno sguardo arricchito dalla ragione. In altri termini qui l'immagine non svela l'essenza, né della Shoah né, più in generale, di qualsiasi altro oggetto di conoscenza ma è strumento, tra gli altri (nel caso della Shoah insieme ai racconti dei sopravvissuti, ai documenti ecc), per approcciarci all'oggetto. Il testo si inoltra così in questioni teoretiche che, nel dibattito di opinioni che tali immagini scatenarono, hanno evidenti ripercussioni etiche. E' possibile conoscere per immagini? Cosa comporta tale tipo di conoscenza? La critica muove da presupposti che l'autore non esita a fare propri: la società occidentale contemporanea è satura di immagini, ivi comprese quelle inerenti la Shoah. La verità di tali presupposti non toglie la falsità delle conclusioni che sembrerebbero rispondere a tale problema con l'equazione immagine- idolatria. L'accusa mossa a Didi-Huberman si vorrebbe presentare, infatti, come rinnovamento del divieto biblico ora declinatosi nell'imperativo del "non ti farai immagine.." della Shoah. Solo una conoscenza epurata da ogni figuratività, sostengono i suoi critici, può permettere di evitare la banalizzazione commerciale. Al di là delle articolate risposte dell'autore, tale accusa pare, proprio in riferimento alla tradizione ebraica, fuorviante. In primo luogo è necessario ricordare che il divieto biblico fa riferimento a Dio. Sicché sostituire il riferimento del divieto da Dio alla Shoah significa approcciarsi all'evento storico in termini biblico-halakici. Tale deriva è precisamente quanto la riflessione ebraica post Shoah vorrebbe evitare. L'ebraismo, si afferma in primis in ambito rabbinico, non deve divenire religione della Shoah, culto della morte, dal che ne seguirebbe che è possibile farsi immagine della Shoah proprio perché quest'ultima non è evento che concerne il trascendente bensì il contingente. Si potrebbe però replicare che il divieto è assunto nella tradizione successiva come modus operandi generale. Non farsi immagine del divino significherebbe operare e conoscere in senso non idolatrico, quindi evitando la resa a immagine di qualsiasi oggetto di conoscenza. Tale tesi risente di una mancata interpretazione del testo biblico: se è lecito generalizzare il divieto è però necessario comprendere che questi non si riferisce al prodotto in quanto tale ma alla modalità produttiva soggiacente, responsabile di scambiare il mezzo di conoscenza per l'oggetto ultimo della stessa. Di contro, tornando all'autore, se "l'immagine non è tutto" (e quindi è "malgrado il tutto") diviene strumento, non risultato, quindi "soglia" e non luogo di corrispondenza all'oggetto stesso. Il filosofo muove verso questa concezione a partire dall'"atlante Warburg" e dall'operazione di "montaggio" che lo caratterizza. L'immagine è così pungolo alla comprensione,"strappo" e non già "velo" perché, con Sartre, "atto" e non "sintesi". Il rifiuto dell'immagine parziale, all'opposto, viene
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