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La Cina e gli Europei: Gesuiti e Conquista Intellettuale, Appunti di Filosofia della Scienza

Il ruolo dei gesuiti nella conoscenza europea della cina, descrivendo la loro attività di traduzione e studio della cultura cinese, nonché i conflitti con le autorità locali. Il testo tratta anche della motivazione europea dietro queste iniziative, come la volontà di espansione e la ricerca di conoscenza. Vengono citati importanti figure come matteo ricci, adam schall e ferdinand verbiest, e si discute della loro importanza come fonti di informazione sulla cina.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 13/01/2024

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Scarica La Cina e gli Europei: Gesuiti e Conquista Intellettuale e più Appunti in PDF di Filosofia della Scienza solo su Docsity! INTRODUZIONE Fino al ‘900 la Cina era conosciuta in Occidente solo per ristretti settori (interessi commerciali e linguistici del ‘500, porcellane del ‘700) Illuminismo: concetto di “dispotismo orientale” (in particolare riferito alla Cina) ‘600: viene di fatto dimenticata. L‘incontro tra Occidente e Oriente è stato riportato più nella storiografia occidentale che in quella orientale  figure occidentali della mediazione, quasi sempre Gesuiti  Chateaubriand: sostiene una visione eurocentric della scoperta della Cina Come gli europei costruirono il proprio sapere (saperi) sulla Cina? (è questo il tema del libro) “Spazio” nel ‘600  polarizzato su due centri: Roma e la Spagna. Missionari e cinesi Gli europei danno un’identità alla Cina nel periodo delle loro espansioni e scoperte geografiche. La Cina era vista come una terra da evangelizzare (!) Dibattito sui riti cinesi  per lungo tempo l’unico scopo con cui si studiava la Cina è stato quello di sostenere una posizione o un’altra in merito a questo dibattito (cfr. più avanti per sapere in cosa consisteva; in generale questa disputa ha destabilizzato la teologia e per questo ci si è concentrati tanto sopra, all’epoca). Per questo motivo, sono i gesuiti a raccogliere una prima storiografia della Cina per gli occidentali (ovviamente i cinesi avevano già una loro storiografia) Gesuiti come uno dei centri del mondo culturale europeo nel ‘500-600 a causa della loro strategia intellettuale per portare avanti l’evangelizzazione, ecc. Fratture tra l’apparato religioso-politico romano e le nazioni moderne (all’inizio soprattutto Spagna e Portogallo), che pure condividevano un piano di conquista del mondo (per il primo spirituale, per il secondo militare)  il lavoro intellettuale di incontro con la Cina (traduzione di Confucio, ecc.) fatto dai Gesuiti sarebbe avvenuto per questi obiettivi finali di Roma (anche se il pensiero gesuita era eterogeneo su questo). La maggior parte dei lavori si concentra, per questo sui gesuiti e la Cina e in particolare su Matteo Ricci – Adam Schall – Ferdinand Verbiest I testi gesuiti forniscono una grande quantità di di informazioni: infatti essi sono non solo fonti di missione, il cui oggetto è appunto la missione, la sua organizzazione, ecc. ma anche fonti di sapere, il cui oggetto è appunto il sapere, la sua raccolta, la sua diffusione, ecc.  COMPLESSITA’ DEL GESTO DI CONOSCENZA fatto dai gesuiti verso la Cina (per fede ma anche per scienza, per sapere). La stessa cosa avviene anche nelle Americhe (e non è scontato perché, cfr. prox. capitoli, in Europa la civiltà cinese era ritenuta civilizzata o quasi-civilizzata, mentre quelle americane no). La Cina e il mondo Studio dell’incontro (in Europa e Cina)  sviluppato ai margini della storia cinese L’Europa è diventata un oggetto del sapere in Cina? Ovvero: i cinesi hanno studiato, allora, l’Europa? - No; nel periodo Ming, gli europei sono visti come marginali La Cina Ming, e Qing poi, rimase chiusa agli stranieri, sebbene già prima dell’arrivo europeo avesse contatti commerciali (e non solo) con Persia e Impero Moghul. Questo per due motivi: - Sinocentrismo; i cinesi ritenevano tutti gli stranieri, anche quelli già conosciuti come coreani, giapponesi, tartari, ecc. come inferiori - Avevano un impero già multietnico: gli stranieri li avevano già in casa. Il contatto tra Europei e Cinesi non avveniva solo per terra (Eurasia) ma anche per mare, con le nuove rotte. Nel ‘500 gli Europei stanno scoprendo e mettendo in connessione tutto il pianeta, tutto il globo  “inglobamento” o “globalizzazione” del mondo. Cap.1 Al cuore delle profonde mutazioni che investirono l’Europa del XVI secolo si trova, prima di tutto, la dilatazione dello spazio-mondo della cristianità medievale, che portò a un rinnovamento delle maniere di misurare, definire e rappresentare lo spazio del mondo nel momento in cui questo giungeva a coincidere con il globo. I saperi dello spazio ne furono profondamente rinnovati e ci fu un inglobamento del mondo conosciuto. Un tale processo invita a considerare la storia dell’America e dell’Asia sotto la stessa angolazione, ovvero interrogare le relazioni dell’Europa con queste due masse continentali come se derivassero da una medesima storia, e non da due storie parallele. Così facendo, lo sguardo si sposta e si vede la Cina emergere progressivamente sulle carte dei marinaio e dei cosmografi venuti da Oriente ed Occidente: anche l’Impero di Mezzo entra nei questionari europei. Sulle carte, sui globi, nelle corrispondenze, nei testi giuridici, nella letteratura, la topografia tese ad arricchirsi di toponimi che trascrivevano nomi di luoghi visitati, partecipando a un certo “affinamento“ del mondo, attraverso un crescente accumulo di conoscenze. Consolidarono un vocabolario dello spazio in cui le divisioni regionali erano instabili e varie: continenti, regioni, paesi non erano stati ancora oggetto di una distinzione sempre precisa, di una definizione unica, di una chiara gerarchizzazione. L’Europa del XVI secolo vide sorgere simultaneamente due Indie, quella orientale e quella occidentale. La scoperta dell’America ed il superamento del Capo di Buona Speranza che consentì di collegare l’Europa al subcontinente indiano, furono due movimenti contemporanei. La registrazione dell’allargamento del mondo si fonda sull’esperienza di realtà che ne fece una piccola minoranza di attori: soldati, mercenari, diplomatici e missionari. A partire dalle informazioni che si furono in grado di raccogliere ci fu un lavoro di rielaborazione che produsse un arsenale di fonti sui vegetali, sulle tecniche di costruzione, sulle credenze riguardo la cura del corpo e della malattia, sugli animali e sulle modalità dello scambio economico, su fatti e sui luoghi. C’erano ovviamente diversi generi di scrittura come per esempio le storie ufficiali: cronache principesche, dell’espansione e della conquista. Juan Gonzàlez de Mendoza (1545-1618) è stato un vescovo spagnolo, lui non visse mai in Cina, ma in Messico, nonostante ciò la sua opera più conosciuta è: “Historia de las cosas más notables, ritos y costumbres del gran reyno de la China (La storia del grande e potente regno della Cina e della sua situazione). L’opera è realizzata grazie allo studio dei diari di viaggi di Miguel de Luarca che viaggiò nel 1580 in Cina, ma anche dalle conoscenze di altri esploratori e religiosi. Mendoza con la sua opera voleva dare sviluppo agli interessi spagnoli verso la Cina soprattutto dopo la conquista delle Filippine che nell’ottica del vescovo dovevano fungere come ponte per la conquista dell’Impero cinese. L’opera di Mendoza era dedicata al pontefice Sisto V, questo stava ad indicare la superiorità nel tema della conversione del papato sulla corona iberica. Il testo è un’opera di accumulo di testi già precedentemente scritti e svolgeva il ruolo di informatore dell’Europa a beneficio dell’impero spagnolo che soppianta il Portogallo come base delle informazioni dei territori asiatici. Al termine della sua opera Mendoza annuncia l’avvio dell’evangelizzazione dell’Asia e della Cina e utilizzando una metafora militare con la quale chiude l’opera Mendoza intende dire che la missione di evangelizzazione non deve essere lasciata solamente in mano alla Compagnia di Gesù, ma anche all’Ordine di Sant’Agostino, di cui lui né è membro. Nell’opera non compaiono riferimenti economici e militari, ma solamente tentativi di iniziare una conversione delle terre cinesi. L’opera di Mendoza è possibile dividerla in 3 parti: 1) Ci parla della struttura delle città e degli abitanti della Cina, ossia dei loro modi di vestire, di mangiare, dell’esercito e della struttura dei loro edifici 2) tratta della religione e delle “cose cerimoniali” per far comprendere bene la situazione a Roma per adottare un’efficacie politica di conversione; riflessioni sulla precedenza in Asia della stampa, polvero da sparo che in Europa. Se nella prima parte si vede molta ammirazione nella seconda parte si definisce la loro religione “idolatria”, superstiziosa nonostante il loro ingegno 3) Parla della possibilità della conversione al cattolicesimo, Mendoza, a differenza di de Cruz, vede proprio nel carattere docile e nell’alto tasso di cultura dei cinesi la possibilità della loro conversione. Teme soltanto per l’apprendimento della lingua e della scrittura cinese per gli europei. Capitolo 3 Nel corso degli anni 80 del XVI secolo l’interesse europeo si sposta momentaneamente, per il fattore convertibilità, dalla Cina al Giappone. L’idea proveniva da Alessandro Valignano, il quale ricopriva il ruolo di visitatore generale della Compagnia di Gesù. Proprio il suo incarico, creato per assicurare il legame tra il centro europeo e le terre di missione gli permise nel 1582 di spostare l’attenzione verso il Giappone, grazie alla creazione di una testa di ponte a Nagasaki per portare il cristianesimo nell’arcipelago. Valignano scrisse la “Historia del principio y progresso de la Compania de Jesùs en las Indias orientales” nel 1858, una sintesi della presenza cristiana e dello sviluppo del cristianesimo in seguito all’attività della Compagnia di Gesù. Fa diverse considerazioni. Mette in paragone la Cina con il Giappone e successivamente i due paesi asiatici con la realtà europea. Valignano non ha una conoscenza diretta della Cina, le sue informazioni provengono soprattutto da Matteo Ricci, che lo portano comunque ad esaltare questi territori, affermando della loro amministrazione efficiente e soprattutto del loro grado culturale, notando come le università cinesi avessero un altissimo numero di iscritti e che la loro preparazione fosse superiore sotto alcuni aspetti a quella degli europei. Valignano nella sua opera sottolinea, secondo il suo punto di vista, le debolezze dell’Impero Cinese, ossia la tirannia dei mandarini, la vigliaccheria dei sudditi, la crudeltà, il furto e un insieme di peccati odiosi. La ragione di questa inferiorità rispetto all’Europa è dovuta alla mancanza della religione, ma proprio a causa dell’assenza di un credo, Valignano sostiene la fattibilità dell’evangelizzazione in Cina. Il trattato presenta un’ampia discussione sul Giappone, l’autore considera maggiormente per i nipponici la questione religiosa, che porta due grandi problematiche: la prima è la sua organizzazione politica, la seconda è la diffusione dei vizi e della lussuria. Nel complesso Valignano fece sicuramente un quadro poco seducente del Giappone soprattutto a causa delle “sette”, ossia rami del buddismo, mentre nota che in Cina, essendo maggiormente preparati culturalmente non riescono ad attaccare la popolazione. In queste mancanze del Giappone in confronto alla Cina, Valignano vede una grandissima opportunità ossia la maggior facilità di portare il benessere e la giustizia cristiana. In Asia si era creata l’idea che gli europei andassero a predicare nelle loro terre a causa della povertà delle loro terre e che il Dio che predicavano non rivolgesse ancora lo sguardo verso di loro. Valignano ha l’idea di creare un’ambasciata giapponese composta da sei adolescenti di nobile origine per mostrargli la grandezza dell’Europa cattolica con la visita delle case reali fino a giungere a Roma presso il pontefice. Per il successo della missione era necessario rendere i giovani giapponesi conformi ad un “costume europeo” riconoscibile dalle persone a cui sarebbero stati presentati: quindi durante gli anni di viaggio c’è stata molta cura per la scelta di abiti, cambiati in base al rango e status degli ospiti, quindi predisporre un guardaroba adeguata al cerimoniale europeo. Essenziale anche il “dono”, pratica comune nel mondo tra le élite, anche di diverse entità politiche e culturali: è alla base del linguaggio diplomatico che dal 1500 si sta elaborando. Ovviamente devono organizzare la “reciprocità del dono”: Chiesa di Roma e Giappone portano doni che mostrano la propria ricchezza. La pratica del dono aveva lo scopo di mostrare la ricchezza della Chiesa e delle élite europee; in particolare bisognava trasferire verso il Giappone i fasti della Chiesa cattolica e quindi condurre in Giappone dei paramenti sacri lussuosi in oro. I giapponesi non vennero mai abbandonati nel loro viaggio per l’Europa affinché vedessero solamente la grandezza dell’occidente, visto che non si doveva intercorrere nel rischio di vedere le debolezze dell’Europa. Sul passaggio dei giapponesi a Roma, scrisse un membro dell’amministrazione pontificia di Sisto V, Guido Gualtieri. Gualtieri nella sua “Relazioni della venuta degli ambasciatori giapponesi a Roma”. Il testo è organizzato intorno alle tappe del viaggio, quella romana è più ricca di dettagli. Il testo è diviso in sedici capitoli che narrano il viaggio degli ambasciatori, fin da subito Gualtieri afferma che l’idea di Valignano funzionò abbastanza bene; quindi, l’amministratore papale credeva fortemente nella conversione del Giappone grazie all’opera dell’ambasciata. Il 1585 segna il “il momento asiatico” dell’universalità cattolica, nello stesso anno l’ambasciata giapponese viaggiava per l’Europa e in contemporanea veniva pubblicata la situazione in Cina di Mendoza indicavano alla cattolicità l’Estremo Oriente come un terreno di conquista spirituale. L’ambasciata giapponese rientrò nel 1590 in patria, ma non riesce ad ottenere dei risultati importanti a causa della situazione interna. Nel 1587 viene pubblicato un bando per i gesuiti sotto Hideyoshi, signore feudale. Allo sbardo di Valignano e dei 4 giovani giapponesi c’è una riapertura che permette nuovamente ai gesuiti di entrare in Giappone. A causa dei casini prodotti dagli spagnoli in arrivo e dagli ordini mendicanti avviene l’esecuzione di alcuni cristiani nel 1597 e un nuovo decreto di espulsione dei missionari. L’inizio del 1600 è segnato dalla fine dell’espansione religiosa europea e l’arrivo degli olandesi. In questo periodo Jose de Acosta (1539-1600) gesuita e scrittore spagnolo nel 1588 realizza un’opera in cui cerca di dividere i “barbari” a seconda dei loro gradi di apprendimento e di conoscenza. 1 Grado. Poco distanti dalla ragione giusta e dalle maniere degli umani: hanno governi, leggi, città, commercio e usano la scrittura (cultura e letteratura). In questo gruppo c’è la Cina, poi il Giappone, paesi che grazie alla loro intelligenza e istruzione sono disposti ad accettare la conversione al cristianesimo: Acosta afferma che l’uso della forza per la conversione alimenta solo ribellione e allontanamento 2 Grado. Sono quei barbari che non possiedono la scrittura (quindi leggi, studi, ….), ma hanno un governo e magistrati, esercito, religione, una certa ragione umana; in individua le distinzioni tra lingua scritta e lingua parlata, riflette sulla fonetica, sulle regole di pronuncia. L’Idea che la conversione passasse per l’apprendimento delle lingue non era una novità nel contesto missionario: l’America fu uno dei terreni privilegiati di questa sperimentazione tanto che sin dalla metà del 500 sul mercato librario europeo e americano si trovano grammatiche indiane. Fu così che Valignano nel 1578, prese posizione perché alcuni padri fossero assegnati all’apprendimento della lingua imprimendo così una svolta nella storia della presenza europea in Cina. Auspicava la presenza a Macao di circa quattro fratelli il cui compito principale doveva essere quello di imparare il mandarino, di scriverlo e di leggere il cinese ed ancora di studiare i costumi e tutto quello che poteva servire per intraprendere l’opera di conversione. Malgrado le resistenze e opposizioni il progetto seguì il suo corso. Subito era possibile vedere i primi frutti di quest’operazione: Ruggeri aveva cominciato “ad acquistare non solo familiarità con questi mandarini, ma anche il credito“ che gli aveva permesso di stabilire una prima residenza a Zhaoqing. Due punti sono fondamentali: 1) la decisione dell’ordine di far imparare la lingua da alcuni dei suoi membri 2) difficoltà a padroneggiarla che conobbero anche i migliori allievi. Quest’ultimo emerge sin dalle prime lettere scritte da Ricci. Ma, consapevole della necessità di disfarsi degli interpreti, già nell’ottobre 1585 poteva scrivere che era solo e sapeva leggere scrivere, benché mediocremente. La padronanza della lingua sarebbe rimasto un obiettivo costante ma mai pienamente raggiunto. Se Ricci o Ruggeri passarono da una lingua all’altra, essi passarono anche da una cultura all’altra: comprendere l’astronomia cinese significava spostarsi non solo da un sistema astronomico ad un altro ma anche da una concezione del mondo ad un’altra caratterizzata dall’importanza assegnata alla lettura dei messaggi della natura nel governo degli uomini. La dimensione politica del controllo dei segni del cielo in oriente avrebbe costituito il motivo principale dell’investimento sulla matematica fatto dei missionari a partire dagli anni 20 del seicento. Nel periodo segnato dall’azione di Ricci fu l’esperienza cartografica offrirsi come moneta di un primo scambio erudito. In questo senso la lettura proposta da padre Pasquale D’Elia (sinologo, storico delle missioni e curatore dell’edizione delle opere di ricci alla fine degli anni 30 del novecento) per cui l’impegno erudito dei primi missionari fu indirizzato a meglio affermare un messaggio religioso, esige quindi qualche revisione, in particolare in merito all’opposizione che egli costruì tre erudito e missionario riducendo il primo un semplice strumento del secondo. Grazie alla progressiva padronanza della lingua Ricci giunse ad operare due trasformazioni: la prima riguarda l’abbandono dell’abito del bonzo per indossare quello del mandarino, la seconda consiste nell’intraprendere collaborazioni erudite perlopiù con letterati convertiti, considerati preliminari alla possibilità di procedere a conversioni di massa. Ciò produsse un’importante biblioteca scientifica poco visibile nell’Europa dell’epoca poiché destinata a rimanere in Cina. L’attività scientifica rappresentò la base del contatto regolare di Ricci con i funzionari locali dell’amministrazione imperiale. Ricci avviò la sua attività cartografica sin dal suo arrivo in Cina, ma essa non rappresentava una sua priorità: vi si cimentò per avvicinarsi ai letterati cinesi. La prima carta che realizzò venne stampata nel 1584 e rappresentava un mappamondo. In varie lettere Ricci si scusava per la mediocre qualità del mappamondo e gli forniva alcune ragioni, in primo luogo la fretta con cui era stato fatto il lavoro, ma soprattutto il problema della sua scarsa preparazione: la formazione ricevuta da Cristoforo Clavio, professore di matematica nel Collegio Romano sembrava insufficiente. Nei due anni che Ricci passò a Roma, il corso di matematica non avevo ancora acquistato la reputazione ed importanza che gli sarebbero state riconosciute alla fine del secolo. In questi anni, lo stesso Clavio era poco interessato alla cartografia ed era più attirato alla gnomica e dai quadranti solari. Se, contemplando una carta del mondo, i letterati cinesi potevano misurare la piccolezza della Cina nel globo, e quindi l’errore in cui vivevano a proposito del loro paese, allora potevano diventare pronti a prendere coscienza di un altro errore, più importante, quello che riguardava la loro vita spirituale, senza Dio. È questo che suggerisce l’insistenza di Ricci nella diffusione della carta nelle varie province del regno che sarebbe arrivata anche nelle province dove la Compagnia non era ancora giunta. La carta dunque precede il Vangelo. Dopo il primo mappamondo, su cui si fonda la sua reputazione di cartografo, poi di astronomo, emerse una nuova domanda, che l’avrebbe condotto a Beijing. Il lavoro cartografico si coniuga con la realizzazione di strumenti, globi terrestri celesti, orologi. In questo tempo in questi luoghi, le carte hanno un pubblico cinese, mentre quando arrivano in Europa sono prove che attestano più un consolidamento della presenza missionaria nell’Impero di Mezzo che non un arricchimento di saperi geografici sul mondo. Un importante documento di Michele Ruggeri rappresenta il tentativo di padroneggiare il territorio cinese. La sua recente pubblicazione ha tramutato un materiale cartografico composito, i cui originali sono conservati a Roma, in un “atlante“ unitario. Questo documento potrebbe essere definito un quaderno di appunti e schizzi, che rappresentano diverse regioni o città della Cina, verosimilmente tracciati a mano libera ed accompagnati da note di localizzazione. In Europa, restava limitata la presenza della Cina nelle carte che circolavano sul mercato delle stampe in espansione. E ciò che ci indica il mappamondo di Ortelio e lo stesso vale per la rappresentazione della Cina che figura sul mappamondo di Petrus Plancius pubblicato nel 1590. Non è più precisa quella dell’olandese Jan Huygen van Linschoten stampata a partire dal 1596: il fondo della carta è ricoperto da nomi di città o di provincie già identificati, i rilievi sono parziali ed approssimativi, le regioni naturali sono raffigurati tramite animali che non hanno un legame con loro. Si vede pertanto apparire il rinoceronte di Dürer, una giraffa, un elefante e un dromedario. Ricci fu ingaggiato in varie imprese collettive di produzione di mappamondi riuscendo ad aprirsi la via per Beijing. Cap.5 La ricomposizione del mondo che si affermò nel 500 non fu solo il risultato di una dinamica missionaria: fu non meno profondamente determinata dall’organizzazione romana della ricerca di saperi, mentre Roma seppe acconciarsi a luogo della loro esibizione e legittimazione. I luoghi della missione lontana, testimoni di un policentrismo esteso ai quattro continenti, rafforzavano una forma specifica di centralità romana che apri una porta ai barbari nell’ambito di un universalismo fatto di riferimenti all’antichità, al vecchio e al nuovo testamento. Claudio Acquaviva scrisse Bibliotheca selecta, un’opera profondamente romana, allestita da un uomo del papato e della Compagnia. Essa spostò la nuova riflessione scaturita dall’impiego missionario alla biblioteca quale luogo di tutti i saperi. All’interno troviamo informazioni e materiali eterogenei, frammenti di corrispondenza, pezzi di manoscritti un libri che erano stati riferiti, segni di scritture ignote. La sua Bibliotheca doveva assicurare il mantenimento di una medesima lettura del senso della storia, quello di un inglobamento di tutti i popoli nell’impresa di evangelizzazione. Anche il lavoro di Matteo Ricci era iscritto in questa prospettiva. Esso fu rimpatriato in Europa grazie all’edizione di Nicolas Trigault, un rappresentante della seconda generazione di uomini attivi sul campo che si stabilirono in Cina. A partire da Nicolas l’attenzione si concentrò sulla Cina. La produzione a stampa gesuita sulla Cina ebbe una duplice provenienza: dagli uomini della missione come Nicolas Trigaut, Martino Martini per citare alcuni dei più famosi; e dagli eruditi come Daniello Bartoli, Athanasius Kircher. Tutti si alternarono nella produzione e nella messa in circolazione non solo di informazioni ma anche di saperi (geografici, linguistici, filosofici) che a loro volta partecipano alla riconfigurazione delle scienze dei saperi europei. La morte di Matteo Ricci coincise con una svolta nella storia delle relazioni tra l’Europa per la Cina in ragione dei fenomeni più generali che investono allora quelle due regioni del mondo. Nicholas Trigault fu in quello stesso tempo testimone ed attore di questa svolta (a lui infatti spetta l’incarico di riportare in Europa la massa di materiale accumulati da Ricci); al suo arrivo a Roma, assistette alla morte del generale Acquaviva dopo 34 anni di governo della Compagnia. Appena rientrato in Cina, poté vedere le prime manifestazioni della pressione manciù, che cresceva alle frontiere dell’impero dei Ming, e costatare la fragilità della presenza missionaria. Trigault fu il primo di una lunga serie di gesuiti originari dei Paesi Bassi spagnoli presenti in Cina. Ammesso nella compagnia nel 1594, studiò teologia per due anni, quindi nel 1606 raggiunse Lisbona dove si imbarcò per Goa il 5 febbraio 1607. Arrivato a Macao nel 1610 entra in territorio cinese solo alla fine di quell’anno. Alla fine del 1615, approdò a Roma. Questo gesuita fiammingo sarebbe passato alla storia come il primo grande rappresentante della Cina in Europa. Il De Christiana Expeditione apud Sinas uscì nel 1615 ad Augusta, in Germania. Grazie a quest’opera, la figura di Matteo Ricci si impose sull’Europa. Le sue osservazioni, il suo lavoro di informazione sullo stato della Cina, la sua esperienza, le sue letture delle fonti cinesi, i suoi scambi con i letterati erano ordinati attorno ad una trama semplice: l’avventura della stabilizzazione di un insediamento nell’ultimo dei grandi imperi del globo era organizzata sul modello di racconto di conquista, in cui è questione di una spedizione il cui marchio distintivo è da cercare nella sua dimensione religiosa. Questo è il quadro generale in cui si affermò l’idea fondamentale della missione erudita-scientifica come chiave del successo dell’evangelizzazione della Cina. La pubblicazione di Nicolas giunse a imporre all’Europa la presenza della Cina in un triplo contesto: quello della compagnia di Gesù degli anni 1615-1620; quello di un’Europa cattolica in cerca di nuovi equilibri territoriali; quello di un mondo erudito scientifico che si stava organizzando intorno alle primissime accademie e alle reti di scambio di corrispondenza. L’opera viene pubblicata nel 1615 ed a lungo è stata considerata un manoscritto di Ricci. La sua edizione si compone di cinque libri, suddivisi in capitoli, il primo dei quali offre un quadro sintetico della Cina, mentre i quattro seguenti descrivono il progresso compiuto dalla Compagnia in questo territorio da Francesco Saverio alla morte di Ricci. essenziali del dibattito sono: - Scegliere il modo di designare Dio in mandarino in modo che esprima al meglio il concetto cristiano. – Quale trattamento usare con Confucio e agli antenati ai quali i cinesi sono legati. A queste due questioni ci sono due opinioni diverse: - Ordini Mendicanti → considerano i riti come pratiche religiose; quindi, non mantenibili se avviene una conversione. - Gesuiti → considerano i riti cinesi come “civili” e non religiosi; quindi, conformi ad essere integrati nel dogma cristiano. La guerra fra la dinastia Ming, già presente in Cina, e la dinastia Qing, ossia dei conquistatori, ebbe una svolta nel 1644, anno della caduta di Pechino, ma la guerra continuerà ancora per anni. Del conflitto ne parla il gesuita Martino Martini (1614-1661). Il religioso deve seguire il percorso della dinastia Ming durante la sua ritirata e collabora con i loro funzionari militari per la costruzione di una nuova tipologia di cannoni, nel 1654 ritorna a Roma. La sua opera principale è il “De bello tartarico” del 1654, libello o opuscoletto in latino poi tradotto che tratta per primo la fine della dinastia Ming che ha lo scopo di ricordare tardivamente alle autorità europee la difficile situazione dei gesuiti, messi in difficoltà dai tartari e dall’arrivo degli altri Ordini Mendicanti. Quando scrive nel 1654 della presa di Beijing nel 1644 da parte dei Qing la situazione è ancora incerta, ma comunque la conquista è considerata come una nuova occasione per il cristianesimo in Cina. L’opera “de bello tartarico”, rimane per un decennio la principale fonte in Europa della rivoluzione mancese in Cina Johann Adam Schall von Bell (1591-1666) è stato un gesuita. Molto interessante perché dopo aver riformato il calendario con gli ultimi Ming, si guadagna una posizione privilegiata presso la corte della nuova dinastia Qing come astronomo imperiale degli affari del cielo presso il Tribunale della Matematica, assicurando la sopravvivenza della missione gesuita anche durante la “transizione dinastica”. La sua nomina scatena molto scalpore con un’opposizione e attacchi tra 1660-1666. Ma “l’affaire Schall” precede questi attacchi da parte dei letterati locali di Cina: - Tractatus de Mathematices Praefectura → del 1649 di Gabriel de Magalhaes, un lungo memoriale nel quale spiega al pubblico europeo in cosa consiste il Tribunale della Matematica e i motivi per cui il gesuita Schall non dovrebbe ricoprire la carica. È un’opera ostile e aggressiva verso Schall. Magalhaes discredita questa pratica degli “affari del cielo” affermando che il Tribunale della Matematica non si può considerare uno spazio di attività scientifica ma di idolatria: quindi si considera il metodo e Schall stesso eretico. Magalhaes spiega anche la catena gerarchica di questa istituzione per mostrare la posizione di rilievo di Schall affermando che questa pratica, la consultazione del cielo, produce segni carichi di forza politica che alimentano solo l’eresia, proprio l’opposto della missione di evangelizzazione: dai risultati della venerazione del cielo dipende la felicità o la sfortuna dell’impero (idolatria e illecito). Magalhaes non condanna l’astronomia, ma l’empio uso che ne fa Schall. Si appoggia l’uso della scienza evangelizzatrice come strumento per la conversione, ma è sbagliato piegarsi ai nuovi conquistatori mettendo in secondo piano la missione: in più accettando la carica Schall contribuisce a rafforzare la legittimità del nuovo arrivato dotandolo della capacità di controllo degli astri. Quindi “l’Affaire Schall” non coinvolge la Cina direttamente ma all’interno della Compagnia: se Magalhaes si oppone a Schall, Martini appoggia il confratello in quanto la sua posizione permette dei vantaggi ai cristiani in Cina. CAPITOLO 7 – TARTARI, MA NON BARBARI Martino Martini: gesuita, invischiato nella controversia dei riti, redige una cartografia della Cina e dell’Estremo Oriente, e non solo La sua opera è infatti una trilogia: - Nel 1655 compone il Novus Atlas Sinensis (pubbl. ad Amsterdam) - Nel 1658 compone il Sinicae Historia Decas Prima (pubbl. a Monaco) - De Bello Tartarico Nei primi due associa la geografia e la storia della Cina (verso cui ha un approccio moderno; nel riportare le notizie raccolte fonda la loro credibilità su ragionamenti precisi e le collega a nozioni di altro tipo, come matematiche, astronomiche, logiche  una conoscenza non confusa ma settorializzata (come Kircher, suo maestro). Nella seconda opera, Martini cerca invece di fare un’analisi della storia cinese in sé, non mettendola in relazione con quella europea e dell’evangelizzazione  si colloca in un’epoca in cui anche altri, per la prima volta, provano a fare una storia universale non eurocentrica (cfr. p. 206) Un atlante per la Cina Novus Atlas  17 carte geografiche con paratesto  connubio geografia – storia- cultura – ecc. si va ad interrogare la concezione di spazio in sé  topos della globalità: il mondo è un globo, è assodato, ma dove si colloca la Cina in questa sfera? Bisogna coglierne l’importanza, per rispondere. Richiamo a un’importanza primordiale e biblica dell’Asia (ritenuta collocazione del Paradiso Terrestre, dalla Bibbia) Duplice dichiarazione di intenti di Martini: essere geografo ed essere storico. Analisi della prefazione (p.207 – 209): - Collocazione e importanza della Cina nel globo terracqueo - Analisi del clima - Forma e superfice: confronto con altre regioni (es. il mar di Corea è confrontato con l’Adriatico) - Riflessione linguistica: i tartari hanno particolari in comune con persiani, arabi e cinesi - Fauna: quella marina è simile a quella del Rio delle Amazzoni (paragoni Asia – America in generale) Mix tra la storia universale biblica (che non si può ignorare) e quella reale, particolare, umana delle popolazioni incontrate Ricostruzioni storiche dei nomi e dei toponimi La conoscenza di cui parla Martini è diretta, fatta durante i viaggi Tre livelli di analisi dello storica-spaziale: - Il globo - La Cina - Le province + città e distretti vari. Martini descrive le particolarità di ogni provincia e città  ogni capitolo dell’Atlas è una provincia  ogni sottocapitolo è su una città Ammirazione per l’architettura e l’urbanistica delle città cinesi, che ha conosciuto direttamente: i gesuiti erano infatti l’unico ordine, insieme con i domenicani, a vivere le città cinesi (e questo lo rivendica esplicitamente). Tuttavia il riferimento ai luoghi cristiani è parte della ricostruzione dello spazio che compie nell’opera, non ha finalità religiose (come avrebbe potuto averne, all’interno della disputa sui riti) Le fonti del sapere cartografico L’opera di Martini fu recepita come esaustiva, quindi positivamente. Essa mirava principalmente a lettori europei, con approccio quindi diverso da quello di Ricci (che, volendo accreditare il proprio valore intellettuale davanti ai sapienti cinesi, componeva i propri scritti per questi). Martini ritiene inutile scrivere di Cina per i cinesi: i gesuiti ormai sono accreditati a corte e si presume che i cinesi conoscano già la loro terra. Le fonti dell’Atlas sono principalmente tre: 1) Autori cinesi (Luo Hongxian) e le loro opere: carte geografiche, testi, relazioni ecc. 2) Esperienza diretta dei luoghi; che riporta all’interno dell’opera utilizzando il sistema delle coordinate, una novità per quegli anni. Le coordinate Martini le ricavava poi da sé, facendo i propri calcoli su parametri europei (anche se non dice in che modo, secondo quali schemi e tecniche) 3) Opere di autori occidentali (quasi sempre gesuiti; e Marco Polo, ovviamente). Martini voleva elevare la Cina Ming al livello europeo, ma se essa fosse stata distrutta dai Tartari (come infatti avvenne) come poteva riuscire questa operazione? I Tartari erano barbari: non potevano dominare un popolo più civilizzato, come i cinesi. La comparazione che ci fu tra europei e cinesi, fu quindi necessaria anche tra i cinesi e i tartari (o manciù o Qing). Nel De Bello tartarico, Martini descrive la distruzione da parte dei tartari, che interpreta come disprezzo per la cultura; per capirli ritiene necessario descrivere questa popolazione e, contestualmente, parlare dei confini della Cina in cui abitano. I tartari sono dei barbari selvaggi (non ci gira intorno): ma come hanno fatto a sottomettere sia la civilissima Cina che i più ancor civlizzati Gesuiti (che abitavano nelle città cinesi)? I gesuiti potevano infatti accettare la sottimissione ai vari imperatori, sovrani, tiranni occidentali perché erano comunque persone civilizzate e quindi meritevoli di obbedienza. Si risente, nella concezione che Martini ha dei tartari, di ciò che le fonti cinesi da lui maneggiate già riportavano su questo popolo: e cioè precisamente che sono dei barbari selvaggi (e non potevano dire altro, essendo loro nemici). Però ne è consapevole, e quindi, pur lasciandosi influenzare, lo fa con cautela e in più passi riporta ciò che gli autori cinesi dicono senza crederci davvero (smentendoli, talvolta, con i fatti e gli eventi annotati a margine delle loro considerazioni). Si fa quindi strada, nell’opera, la possibilità che i tartari siano sì dei barbari, ma non troppo. Ora: ii gesuiti avevano un loro modo per trattare la permanenza della propria compagnia nell’impero Ming. Ma come fare con i tartari? Come collaborare con i nuovi padroni, come giustificarlo e, soprattutto: è levito farlo? La risposta a tutte queste domande è in due parole: TRASLATIO CIVILISATIONIS. Martini costruisce, pur ritenendoli sempre barbari, una “storia della civilizzazione dei Tartari”, da far iniziare con il consolidamento del loro regno a Nord della Cina e l’elezione di un capo, Zungteus, che pose fine al loro incivile nomadismo anarchico. Questa già costituisce una prima legittimazione del tartaro e una giustificazione della collaborazione da ricercare con lui (mo’ capisco perché si dice “falso come un gesuita”). I veri barbari quindi, di fronte ai tentativi fatti dai tartari per raggiungere la civiltà, non sono questi: sono piuttosto quei tiranni e signori della guerra che, disgregandosi l’impero ming, si erano nominati despoti e padroni di varie città o provincie, distruggendo la civiltà politica cinese. Di fronti a questi, sono preferibili anche i Tartari che infatti li combattono e vincono, recuperando l’unità dell’impero e venendo spesso accolti come liberatori (riporta Martini). Alla luce di tutto ciò, i confini della Cina sono visti da Martini in perenne riconfigurazione: e il giudizio sui tartari anche, modificandosi da opera ad opera, in un continuo tentativo di superare una divisione tra cinesi e tartari, tra civili e barbari (ma i tartari sono sempre barbari o comunque meno civili dei cinesi, eh). p.233 “si possono cogliere i limiti della storiografia di Martini: il suo racconto deve mantenere un fragile equilibrio fra lo status storico accordato alla Cina e la considerazione della conquista di un paese civile fa parte dei barbari”. Le tre opere di Martini sono appese a un filo, con la vittoria dei tartari Per spiegare la vittorie del barbaro (che però si sta civlizzando, eh: diamogli tempo) Martini ricorre a Dio (tre urrà per Lui e uno per Martini): è Dio che ha voluto la vittoria del barbaro, perché così i cinesi trovino rifugio nella fede e diventino cristiani, ripetendo così quello che era accaduto secoli prima con i romani e il loro impero. A questo proposito, nel De Bello Tartarico, l’inizio del decadimento Ming è messo in correlazione con la persecuzione del 1618 (“nel momento in cui i cinesi turbavano la pace cinese, Dio mandò i tartari”; che mi sa un po’ di radio Maria che dà la colpa del terremoto ai gay). Martini comunque incontrò i tartari a Wnzhou, quando questi conquistarono la città: riprendendo, nel racconto di questo incontro un topos letterario di Matteo Ricci, il quale racconta che fu rispettato in cina perché riconosciuto come uno scienziato dell’Occidente. A Martini avvenne lo stesso, con i tartari.  la scienza come punto d’incontro. Vabbè poi secondo Martini i tartari si stavano quasi a convertire ma in realtà è il contrario e poi dai su ma che è sta cosa non ci crede nessuno dai: magari. Martini vuole dare un messaggio politico: se volevano restare in Cina non c’era alternativa alla sottomissione, per i missionari e per l’Occidente tutto. In questo modo si esprime anche, implicitamente, sul dibattito sui riti, rendendone manifesta l’inutilità. Martini è uno dei primi a riportare la notizia dell’invasione tartara. CAPITOLO 8 – IL CROCEVIA MESSICANO. JUAN DE PALAFOX E I FRATI MENDICANTI DI MANILA 1670  nuovo libro sulle invasioni tartariche, di Juan de Palafox stavolta. Costui costituisce un nuovo sguardo sulla Cina, proveniente stavolta dall’America: un territorio di mezzo tra l’europa e l’Asia. In contatti spagnoli con l’Asia furono limitati (conquista filippine e formosa), ma gli archivi coloniali parlavano del mar cinese tramite i gesuiti del padronado portoghese e olandese. Inoltre, dall’America spagnola partirono diversi missionari per l’Asia (passando spesso per Manila, nelle Filippine spagnole). Riflessioni palafoxiane Palafox si dedicò a diversi argomenti, dalla politica alla poesia. Giunse in America (Nuova Spagna) nel 1639 come vescovo di Puebla e “visitatore generale” del regno: aveva studiato all’università di Salamanca e nel 1629 era stato nominato nel Consiglio delle Indie. Era stato, inoltre, accompagnatore della principessa Maria Anna d’Austria nei suoi viaggi in giro per l’europa. Gli anni in cui si trova in Messico, gli anni ’40 del ‘600, sono anni turbolenti. È in atto uno scontro tra le gerarchie ecclesiastiche e gli ordini religiosi, che egli tenta in tutti i modi di riportare sotto il controllo proprio, della Chiesa e della Corona Spagnola: in particolare il problema di presenta (ma non mi dire) con i gesuiti.  antigesuitismo spagnolo. Fonderà la prima biblioteca pubblica delle americhe Nel 1642 viene nominato anche viceré (alé; anzi, olé). Nel 1649 rientra in Spagna, dove muore nel 1659. Ricordiamo Juan de Palafox perché scrisse la “storia della conquista della Cina da parte dei tartari”, databile al 1640-50 ma apparso pubblicamente solo nel 1670 (il che la rende “un’assente della storia”). Lo scritto risente dei contatti che ci furono fin dalla fine del ‘500 tra il Messico (in particolare Puebla) e la Cina, che cominciò a mandare soprattutto porcellane. Il libro è composto da 32 capitoli, ripartiti in due parti: una storica, una riguardo i costumi dei tartari. L’opera di Palafox presenta due differenze con quella di Martini: - Palafox scrive l’opera di sua sponte (Martini perché glielo chiedono) - Palafox non è mai andato in Cina, e scrive solo con le notizie che ha dalle Filippine Non essendo gesuita né avendo interessi a “civilizzare” i Tartari, li descrive poi diversamente da Martini. Il libro è dedicato soprattutto agli eventi militari. Il racconto è costruito dal punto di vista di un messicano istruito del ‘600: cioè a metà tra spagnoli e cinesi e tra antichi e moderni. Palafox ha una visione più politica della storia, diverse da quella dei gesuiti  palafox riflette sulle rivoluzioni negli Imperi (e l’assolutismo è visto come una di queste) la sua Historia si apre con un parallelismo tra la rovina dell’Impero Ming e di quello spagnolo (il 1640 è l’anno delle rivolte in Messico e Portogallo, per l’Impero Spagnolo). Sebbene il pericolo Manciù c’è dal 1618, Palafox fa partire proprio dal 1640 , per poter fare questo parallelismo Per Palafox la caduta dei Ming è inesorabile Le sue fonti sono “relazioni” sull’Estremo Oriente, che parlano anche delle altre presenze occidentali nell’area (olandesi, ecc.) oltre che di altre realtà (come il Giappone) La descrizione e analisi dei Manciù sono fatte per obiettivi diversi da Martini: considera infatti i Manciù come senza-Dio privi di una religione, che accettano ogni culto perché, adorando solo il Cielo, non gliene frega niente degli altri e possono tutti morì ammazzati, per loro.  l’assenza di religione è vista come un’opportunità per convertirla a un vero sentimento cristiano Critico contro i Bonzi cinesi: i Tartari li avrebbero fatti fuori perché inutili e Palafox considera, sulla scia di questa considerazione, il loro atteggiamento troppo riverente verso la letteratura e la scienza la causa della rovina dell’Impero Ming. Per il buon governo infatti, secondo Palafox, serve un giusto equilibrio tra lettere e armi. Sottolineando le debolezze dei Ming, Palafox vuole criticare anche l’opera di evangelizzazione dei gesuiti in Cina  se i tartari trattano i cristiani meglio dei Bonzi, questo vuol dire che i Ming non consideravano abbastanza i cristiani e che i Tartari sono la vera occasione per cristianizzare la Cina (e questo proprio perché privi di religioni e quindi di pregiudizi in materia). La storia di Palafox è quindi, in una prospettiva di tipo classico, una raccolta di exempla per fini morali  Analizzando la Cina e la sua situazione, Palafox vuole trovare materiale per costruire un buon governo (e, pensando alla sua patria, per rafforzare la Corona spagnola).
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