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INSEGNARE La scuola può fare tutto ma non tutto, Appunti di Pedagogia

INSEGNARE La scuola può far molto, ma non può far tutto CAPITOLO SECONDO EDUCAZIONE:EMOZIONI E DISAGIO, IN CATTEDRA E TRA I BANCHI L’educazione alla competenza emotiva deve prendere avvio fin dalla prima infanzia. Per trattare die mozioni prendiamo avvio e spunto da un moto dell’animo che è stato catalogato tra i difetti ma trova spazio anche tra i pregi; che è molto comune e diffuso, ma non nella scuola oggi: l’orgoglio. 1. A scuola con orgoglio Il primo giorno di lezione per i docenti con i n

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 24/06/2020

Carolina.9
Carolina.9 🇮🇹

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Scarica INSEGNARE La scuola può fare tutto ma non tutto e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! INSEGNARE La scuola può far molto, ma non può far tutto CAPITOLO SECONDO EDUCAZIONE:EMOZIONI E DISAGIO, IN CATTEDRA E TRA I BANCHI L’educazione alla competenza emotiva deve prendere avvio fin dalla prima infanzia. Per trattare die mozioni prendiamo avvio e spunto da un moto dell’animo che è stato catalogato tra i difetti ma trova spazio anche tra i pregi; che è molto comune e diffuso, ma non nella scuola oggi: l’orgoglio. 1. A scuola con orgoglio Il primo giorno di lezione per i docenti con i nuovi alunni è sempre un momento dell’esame che va superato, l’insegnante viene in pochi minuti osservato da tutti. Coloro che insegnano vengono spesso sottoposti a pregiudizi che non hanno nulla a che fare con la loro professione. Spesso quindi le aspettative di chi deve affrontare l’anno scolastico adulto o minore sono negative e l’emozione primaria nell’entrar a scuola è l’esatto contrario dell’orgoglio di classe. Un’emozione per i docenti che devono insegnare Una figura professionale non deve solo infondere sicurezza, insieme a conoscenze e intelligenza. L’orgoglio è la causa e conseguenza dell’autostima, consapevolezza delle proprie potenzialità e capacità. Stima nei propri confronti che non deve andare oltre la realtà ma nemmeno degenerare in sfiducia. Oltre che gli insegnati vi sono anche gli studenti a scuola e possiamo dire che anche loro presentano orgoglio di prender parte all’impresa educativa dall’altra parte della cattedra. Molto diffusa è la noia, l’insofferenza, aria di sufficienza e così via. La frequenza a scuola oggi è un diritto e un dovere ma ben pochi tra i genitori e studenti sono grati a questo, per cui hanno combattuto nell’arco della storia. Accade spesso che non vi è il desiderio di autoefficacia e autostima e alcun orgoglio e senso di appartenenza a qualcosa di importante per sé e per tutti. Si è passati dalla fiducia verso l’insegnante all’insofferenza-indifferenza nei loro confronti. 2. L’alfabeto delle emozioni e la competenza emotiva L’istinto determina in modo incontrastato le azioni di tutti perseguendo gli obiettivi con efficacia di gran lunga superiore ai tentativi dell’uomo di compensare con leggi, ragionamenti e motivi. L’istinto si manifesta con la sicurezza. Non sempre l’uomo agisce di istinto ma anche di impulsi. L’impulso spinge il soggetto a comportarsi in modo da scaricare la tensione suscitata dallo stimolo e Freud ha analizzato a fondo i movimenti inconsapevoli che condizionano le condotte umane chiamandoli pulsioni. Ciò che usiamo chiamare emozione molto spesso è l’impulso che è qualcosa di biologico: a partire da uno stimolo, intervengono modificazioni fisiologiche che consentono un’efficace reazione a situazioni in cui renda necessaria una risposta istantanea ai fini della sopravvivenza. Parliamo di emozione solo se avvertiamo le modificazioni. Quando ci si lascia prendere da considerazioni che assimilano l’emozione a condizioni più decisamente fisiologiche e diffuse ci si avvicina al concetto di umore. Quando invece parliamo di un’emozione dovremmo parlare di più di sentimento che sarebbe la capacità di percepire attraverso i sensi. Se l’emozione ne sottolinea invece la forza si tratta di passione, provare passioni è positivo se queste diffondono calore emotivo su ogni attività e sentimento; se invece è una passione che concentra il proprio fuoco su un unico punto allora non va. Le emozioni sono esperienze complesse che attivano all’azione sulla base di in mediate componenti edoniche ma anche elaborate e meditate considerazioni cognitive. Io non sono i miei stati d’animo A partire dagli studi di Gardener sull’intelligenza interpersonale, negli anni 90 prende piede il concetto di intelligenza emotiva fino ad arrivare a una competenza emotiva che consisterebbe nella capacità di comprendere e valutare un’emozione. Gestire significa saper accedere ai propri sentimenti per facilitare il pensiero e la soluzione dei problemi. Il mondo della scuola sembra essere particolarmente interessato alle scoperte e alle applicazioni educative delle ricerche sulle connessioni tra emozioni e sapere. Tutti ormai sanno a livello teorico di queste due sfere che vanno pari passo insieme e molto spesso attribuiscono agli insegnati le responsabilità dei fallimenti delle giovani generazioni non più solo nell’ambito degli obiettivi di apprendimento ma anche in quello socio-emotivo e relazionale. Nelle scuole intercorrono complessi rapporti tra i diversi ambiti e livelli di finalità e operatività: le dinamiche emotive si innescano ovunque tra le persone a scuola. L’educatore e l’insegnate devono gestire tutto questo sapendo cogliere la musica di ciascuno nell’intera sinfonia ma non è semplice come dire. Le emozioni in gioco tra i docenti e tra gli studenti attivano circuiti virtuosi se generano legami positivi, infondono fiducia, sostengono nelle frustrazioni e aiutano a pensare evitando ansie generalizzate e confusone oppure ingenerano circuiti viziosi di disperazione, risentimenti e insuccessi. Ma il disagio emozionale è solo lo specchio di una crisi che è più di tipo culturale prima che psicologica, relazionale e collettiva prima ancora che individuale, crisi di pensiero e parole per dirlo prima ancora che emotiva. La competenza emotiva Alcuni pensano alla competenza emotiva come la capacità della ragione di porsi al servizio dei sentimenti. Noi preferiamo pensare a un’alleanza tra le forze a disposizione del soggetto. È vero che le emozioni fanno parte dei dispositivi bioregolatori di cui siamo equipaggiati in modo da sopravvivere ma anche l’emotività è culturalmente circoscritta. Il significato delle emozioni è definito socialmente attraverso la mediazione delle relazioni e degli scambi comunicativi che insegnano a nominare, riconoscere e comunicare l’esperienza emotiva provata. La padronanza delle emozioni avviene progressivamente nel tempo e in tempi diversi a secondo della maturazione espressiva e cognitiva del soggetto. Ognuno giunge ad avere una propria teoria delle emozioni: un insieme do convinzioni comuni e di opinioni personali relative alla funzione delle emozioni e alle modalità atte a gestirle. Un conto è - Conoscere le emozioni: comprendere la loro natura - Individuare le cause: a partire dai più palesi eventi esterni fino a cogliere l’influenza di desideri… - Gestione delle emozioni: qui prima bisogna saper distinguere tra l’emozione provata e l’emozione manifestata; dopo i 9 anni si ha la capacità di capire ciò che si prova; L’educazione emotiva gioca un ruolo importante nell’insegnare a decidere di esprimere o meno un’emozione per creare le relazioni sociali secondo quanto indicato come lecito o morale dal proprio contesto socio-culturale. La capacità di modificare gli stati emotivi è importante per giungere ad agire volontariamente piuttosto che reagire automaticamente ed è possibile utilizzare allo di strategie cognitive. Ognuno nel corso del tempo elabora una propria teoria atta a spiegare le emozioni proprie e altrui, il loro ruolo e la necessità o meni di controllare e a questo proposito la lettura e la letteratura offrono notevoli risorse come veicolo di trasmissione della alfabetizzazione normalizzazione all’interno della pedagogia è difficile vederlo. Esiste una condizione di normalità definita dal corrispondente si atteggiamenti-comportamenti del singolo ai dettami delle rappresentazioni di adultità in vigore di un determinato contesto e distinguendo i diversi piani dell’esistenza (pubblico, sociale, personale e intimo) ciascuno dei quali possiede norme e caratteri differenti. Per vivere dignitosamente il problema è sempre costituito dal livello-soglia: a fronte di marcate carenze, deviazioni eclatanti, palesi disfunzioni la situazione diviene spesso intollerabile e fonte di sofferenza per il soggetto stesso che cerca e chiede la riduzione del carico problematico e il ritorno sui binari di esistenze meno difficili in tutti i sensi. È questa la situazione che si crea di emarginazione quando non è intenzionalmente scelta e la diversità si crea per incapacità/impossibilità di adeguamento. Se invece il differenziarsi della massa degli allineati è intenzionalmente perseguito l’esistenza del soggetto corre sul filo di un rasoio. Dunque per educare occorre chiarezza circa ciò che si può ritenere normale. La norma è certamente un concetto statistico relativo alla frequenza massima di un fenomeno distribuita secondo la nota curva gaussiana. Ciò che si discosta dalla norma è raro e quindi anomalo. Ma esiste un ulteriore concetto di norma ed è quello che fa riferimento all’ideale. Anormale è colui che si discosta dal sentire/agire comune ma colui che contrasta con la norma assiologica e giuridica. Quindi si arriva a definire ciò che è normale quello che agisce come tutti gli altri, cioè come la maggioranza. Ma ovviamente bisogna dire che ognuno deve seguire se stesso, deve essere se stesso, pensare con la propria testa, saper andare anche controcorrente se necessario. A volte il disagio può essere sintomo di qualcosa che non va, altre volte invece provare disagio può essere sintomo che si è per davvero un uomo. Tipologie del disagio In primis la persona disagiata è tale perché afflitta da gravi crenze-problemi prevalentemente economici-materiali. Il secondo attributo si riferisce alla sgradevolezza di una situazione disagiosa perché irta difficoltà-ostacoli più o meno tollerabili o superabili a seconda che il soggetto si percepisca de-privato o meno. - Esistono situazioni negtive oggettive di svantaggio nelle condizioni materiali della vita o socio-culturali dei soggetti - Esistono situazioni negative percezioni soggettive dei vissuti negli individui che vedono svantaggi a ogni problema che pare frapporsi su loro cammino In entrambi i casi trattasi di elementi sui quali occorre agire in quanto sono in grado di incidere negativamente sullo sviluppo e sulla qualità dell’esistenza dei soggetti ma gli interventi saranno significativamente differenti. Infatti: - Un conto è cercare di compensare la mancanza di cosa necessaria e opportuna per garantire almeno i livelli minimi di sussistenza o di formazione - Altro è operare per ridurre il vissuto esistenziale di malessere, insicurezza, irrequietezza descritto dagli studi psico-sociali e ben noto in tutte le scuole di ogni ordine e grado sia tra gli alunni sia tra gli adulti che con loro devono interagire Possiamo distinguere quattro tipologie di disagio: - Esistenziale: è un malessere, ne la scuola e ne l’educazione possono risolvere questo malessere perché sono disagi interiori, riguardano all’esistenza della persona che li vive. Tutti possono sperimentare in alcuni momenti della vita un intimo senso di insicurezza, di interiore inesattezza, di incompiutezza che possono e devono essere superati perché il soggetto possa evolvere e maturare. Il compito complessivo dell’intera esistenza e dell’educazione iniziale e permanente è proprio la gestione di tale complessa e complicata natura umana i cui esisti danno ragione di: percorsi esistenziali definiti normali, derive patologiche più o meno gravi e anti sociali, creative soluzioni alternative. - Evolutivo: legato ai processi di crescita ed è più evidente nelle fasi di transizione da una fascia di età all’altra; l’adolescenza certamente ma non solo. Durante lo sforzo di superare positivamente i propri compiti di sviluppo si possono incontrare difficoltà secondo la qualità dei supporti esterni che non sempre sono facilitanti. Nasce e diviene progressivamente sempre più diffusa un’accezione di disagio che è comune a tutti gli interessi umani quando ci si trova a dover affrontare un cambiamento. Occorre verificare attentamente l’assoluto assioma secondo cui adolescenza-giovinezza equivale a disagio, perché il rischio di questa teoria è la prospettiva tutti a disagio nessuno a disagio. Esistono condizioni per la quale è difficile inoltre crescere: condizioni di disinteresse da parte degli adulti, condizioni di maltrattamento, condizioni di isolamento, condizioni di iperprotezione, condizioni di insignificanza personale e via degenerando. - Socio-culturale: lo svantaggio sociale, economico e culturale della famiglia di appartenenza si manifesta spesso in nuclei familiari caratterizzati da disoccupazione, basso livello di istruzione, isolamento relazionale, convivenze o separazioni conflittuali; per i minori gli esiti del disagio socio culturale sono dovuti alle concomitanti esperienze di assenza e violenza negli interventi educativi, trascuratezza e abbandono fisico, scarso sostegno psico- emotivo, relazioni e comunicazioni patologiche ecc…. pagina 75 - Cronicizzato: non è sufficiente crescere, nella maggior parte dei casi perché spuntino arti nuovi o potenzialità mai sollecitate-esercitate. Le conseguenze nei casi di mancata soluzione delle condizioni oggettive e dei vissuti negativi sono sotto gli occhi di tutti e sotto lo sguardo degli specialisti giudiziari, sanitari, psichiatrici … il disagio non risolto evolutivamente si calcifica all’incrociarsi di fattori di rischio individuali-sociali e di deprivazioni materiali- culturali. La negatività viene poi amplificata nell’esplodere di fasi evolutive non positivamente affrontate. In assenza di interventi possono scaturire: Disadattamento: relazione disturbata tra soggetto e ambiente; Devianza: comportamenti che infrangono norme e suscitano stigma sociale ma è definita meglio come comportamento improprio cioè inadeguato a consentire un efficace adattamento; la marginalità e la trasgressività si cristallizzano strutturalmente e oggi originano anche in ambienti nei quali i minori sono al riparo dalle maggiori ingiurie. Un disagio non gestito può condurre al disadattamento che non gestito quest’ultimo porta alla devianza. - Disagio scolastico: un percorso scolastico incidentato, pieno di bocciature, insuccessi, ripetizioni… soprattutto nei momenti di passaggi critici può portare inevitabilmente a disagi. Il disagio presente nelle scuole è certamente collegato agli insuccessi scolastici del quale però può essere sia sintomo e sia una causa. I disagi scolastici vengono vissuti magari a causa di disadattamente extrascolastici. La scuola però davanti a tutto ciò può essere il luogo dove può aiutarti a superare problemi interni all’ambito scolastico e anche esterni. Vi sono poi forme di disagio ai due estremi nell’arco della vita presenti fin dalla prima infanzia fino all’età adulta: - Il disagio infantile: il disagio educativo nella primissima infanzia 0-6 anni non fa rumore e se ne parla-scrive poco eppure esiste sfatando la superficiale credenza nella felicità di un’infanzia tutta trilli argentini e innocenza. Questo tipo di malessere può un disorientamento del bambino in stretta dipendenza dalla inconsistenza dell’adulto che riflette anziché contenere la fragilità del minore. Sono numerosi gli allarmi di scarsa resistenza alle prove dei bambini nel nostro tempo e a questo proposito chi si occupa di ciò si è incimentato nel discernere tra le reali debolezze del minore e quelle eccessive sia nel riabilitare i doveri del bambino tentando di arginare i disastri di un’alluvione di soli diritti. Alcuni comportamenti noti creano nell’adulto insofferenza. In questi casi che il bambino chiede aiuto e l’adulto educatore deve imparare a non reagire al comportamento del mino ma ad agire sulla base di ciò che apprende tramite l’osservazione. - Il disagio adulto: inconsistenza. L’ingresso nell’adultità? Pa.80-81 5. Conclusioni. Cosa si può fare? È importante non pretendere di trovare soluzioni solo nella scuola a un disagio che è una crisi nella crisi. L’analfabetismo emotivo può essere debellato e l’emotività può essere educata; si può insegnare a elaborare i conflitti, a prendere consapevolezza dei vissuti di disagio propri e altrui, si può imparare ad ascoltare oltre che a parlare, a rifiutare il consumismo degli oggetti e delle relazioni in un mondo dove tutto è a disposizione ancor prima che venga desiderato e conduce alle sole emozioni della noia e della nausea. … CAPITOLO TERZO LA RELAZIONE EDUCATIVA: PRINCIPI, CONDIZIONI E STILI 1. Interazioni e relazioni L’essere umano è immerso nelle interazioni: vive e si nutre di esse. Sono a tal punto importanti che la qualità delle relazioni che ciascuno riesce a costruire influenza non poco l’identità del soggetto e il suo futuro. Le relazioni vissute sono infatti elemento indispensabile per la soddisfazione dei bisogni primari si sicurezza e appartenenza, per lo sviluppo della personalità in divenire, per la coesione dell’identità. - Interazioni: contatti che coinvolgo i nostri sensi, limitati al qui e ora e che non prevedono necessariamente reciprocità - Relazioni: danno vita a situazioni che persistono nel tempo e sono correlate da reciprocità. Importante è sottolineare come non si è in relazione se si provano sentimenti ma si è coinvolti insieme in questioni vitali La relazione educativa costituisce il cuore dell’educazione ma non perché il sentimentalismo debba impregnare l’impegno formativo degli educatori-insegnanti ma perché ogni rapporto tra persone comporta intrecci fitti e complessi. Occorre avere chiaro: - Ogni relazione non data ma è letteralmente da costruire anche tra genitori e figli ancor più se è tra i soggetti che non si conoscono, non hanno familiarità e non sono scelti come è il caso degli insegnanti-studenti. - Ogni relazione educativa soprattutto nei contesti educativi formali come quelli scolastici, non è ,mai il fine del processo formativo. Il fine è costituito dalla maturazione e autonoma del soggetto, non dallo star bene insieme, spesso collusivo, tra docenti e studenti. Certo la costruzione di una buona relazione è un potente mezzo che favorisce il raggiungimento degli obiettivi propri di ogni contesto educativo ma non può sostituire gli obiettivi stessi. 2. I codici materno e paterno Secondo la teoria dei codici affettivi il codice materno parla secondo l’ordine del desiderio e il codice paterno parla quello della desiderabilità. pubblica si anima della crociata contro la violenza sul corpo. È vero che una co-presenze e levata di fattori di "stress sociale" facilita l'adozione di modelli di interazione violenta in gruppi sociali oltretutto caratterizzati dalla mancanza di cultura; ma tali cause socio-culturali non rendono certo ragione del fatto che è lecito supporre che forme di sopraffazione siano meno evidenti, ma non meno presenti proprio nelle categorie che più facilmente eludono il controllo sociale. Legittimi fattori di sensibilizzazione al fenomeno possono finire per condurre ad una ipersensibilizzazione al problema controproducente sia ai fini della prevenzione sia alle possibilità di intervento. Definizioni e i criteri. Con il termine violenza comprendiamo tutti i comportamenti o le omissioni commesse con la convinzione di causare dolore o danno ad un'altra persona, vi sono connessi il concetto di intenzionalità e quello di costrizione. Il soggetto che compie violenza lo fa sapendo di provocare danno o dolore alla propria vita. Quando si parla di abuso invece la negatività del termine va fatta risalire ad un eccesso. Trattandosi di "cattivo uso" il rinvio occorre ad un'interpretazione errata di ciò che può essere lecito, proprio e regolare fino al punto da trasformare azioni od omissioni ritenute normali in prevaricazione e vizio. Per quanto riguarda il concetto di maltrattamento la sua definizione dipende dalla consuetudine educativa di un certo periodo o di una certa società circa ciò che viene ritenuto il "trattar bene" i soggetti in età evolutiva. Si tratta di debolezza o di errore della volontà, così che l'azione educativa diventa inconsapevole e non guidata. Maltrattare ha a che fare con le mani con il maneggiare, vale a dire con l'abilità specificamente umana di dare forma, di modellare sapendo usare insieme idea, sensibilità, costanza e volontà. E giocare è un "portar fuori", dare alla luce una forma che richiede una pratica ed un esercizio oltre che una idea e un modello. Se le mani perdono la capacità sottile di plasmare rispettando le caratteristiche della materia e si fanno convulse e confuse si confonde l'energia e la capacità con la violenza e la sopraffazione. Trattando di trascuratezza meglio sarebbe parlare di atteggiamenti piuttosto che di interventi, infatti il comportamento educativo corrispondente alla trascuratezza fa riferimento ad atti di commissione: fallimento cronico nel fornire il necessario sostegno fisico e tipico a soggetti dei quali si è responsabile. La trascuratezza e determinata da una lunga serie di disattente pratiche educative e raramente produce segni immediatamente visibili. Per quanto riguarda i criteri in grado di identificare la gravità del maltrattamento, non sempre le conseguenze pesantemente negative sono il risultato di azioni eclatanti. Non è detto che forme smorzate di interventi educativi negativi abbiano valore positivo: frequenti e ripetuti maltrattamenti in sé blandi possono anch'essi produrre conseguenze deleterie. Quali che siano le modalità dell'abuso e della trascuratezza, la negatività delle conseguenze è inestricabilmente e inspiegabilmente connessa anche al significato soggettivo che assume per la vittima. Riassumendo quindi occorre considerare la frequenza, la durata e l'intensità del maltrattamento e l'età del soggetto vittima dell'abuso; ma oltre questi parametri quello che incide maggiormente è il significato soggettivo, principio estremamente qualitativo e individuale. Molti degli interventi abusanti vengono perpetrati con le migliori intenzioni. L'educatore può avere una distorta percezione della realtà dell'interazione dovuta a personali problemi o ad un'errata interpretazione dei bisogni e dei comportamenti dei minori. L'incapacità di prevedere le conseguenze degli interventi può far sì che l'intensità e la durata dell'intervento risultino decisamente sproporzionate rispetto ai risultati perseguiti. In altri casi l'intervento abusivo è talmente diffuso e tacitamente accettato nella cultura e nella comunità di appartenenza che la probabilità dell'insorgenza di risultati negativi non viene creduta né riconosciuta 2. Il maltrattamento psicologico Tipologie e manifestazioni. L'immagine che viene più facilmente vincolata, quando si parla di errori educativi, è quella di una categoria che a sua volta può essere descritta tramite alcune manifestazioni specifiche. RIFIUTARE/IGNORARE. Nel primo caso l'atteggiamento ostile si traduce in un comportamento aggressivo, nel secondo caso l'atteggiamento mentale di indifferenza si manifesta nel negare o nell'ignorare le esigenze fisiche e/o emotive del bambino. Il principale danno di queste forme di maltrattamento ha come oggetto l'auto-stima delle vittime, l'attacco è rivolto al valore delle qualità uniche e costitutive della persona-bersaglio perché il messaggio che viene trasmesso è sempre psicologico: "non hai valore e non sei amato". Rifiutare a casa e a scuola. Mentre in famiglia in generale consiste in comportamenti che minacciano intenzioni di "abbandono" fisico o affettivo a scuola si manifesta come effetto della perdita della "fiducia-speranza" e educativa, escludendo l'alunno dalla propria attenzione/impegno professionale. Nei confronti dei bambini piccoli si attua evitando le manifestazioni minime di attaccamento quali il sorriso, il coinvolgimento, il rivolger loro la parola; più avanti l'adulto può comunicare definizioni negative del minore sottolineandone di continuo gli insuccessi. Il rifiuto più frequente è veicolato dal sarcasmo, ben diverso dall'ironia che sdrammatizza. Ignorare a casa e a scuola. Consiste nel rendersi psicologicamente in disponibile in quanto occupati e preoccupati da altro; la mancanza di attenzione può essere generalizzata o può essere personalizzata e rivolta ad alcuni figli/alunni particolari, evitando di prestare loro attenzione anche nelle occasioni in cui si viene interpellati direttamente. A differenza del rifiutare questa è una modalità di maltrattamento passiva, che procede per inerzia e omissioni più che per aggressioni. Nei confronti dei bambini più piccoli comporta la mancanza di affetto tenendo a distanza il figlio- alunno o nonna proteggendolo. TERRORIZZARE. Significa dire o dimostrare ad un bambino che il mondo gli è ostile, pericoloso e capricciosamente pernicioso ponendolo in una situazione definita come "doppio legame". Il comportamento dei genitori/docenti è così contraddittorio da porre il minore nelle condizioni di sbagliare, quale che sia la scelta fatta. La paura persiste anche al di là della presenza reale della minaccia sofferenze intense possono provocare shock tali da ridurre o disorientare le stesse funzioni psichiche; ma anche a livelli di intensità meno elevata sofferenze ripetute e persistenti esauriscono fisicamente e possono distogliere da altre attività e capacità di apprendimento. La conseguenza più semplice è il rifiuto di ogni attività e la costruzione di barriere mentali ("attenzione congelata"): alla fine di evitare la punizione ci si rende invisibili e impermeabili al dolore. La conseguenza più grave è il senso di impotenza appresa. Imparare che ogni evento è incontrollabile provoca un generale deficit motivazionale, cognitivo, affettivo e dell'equilibrio estimativo. Terrorizzare a casa e a scuola. In generale consiste nel minacciare figli e studenti di sinistre punizioni estreme o vaghe ma contraddittorie. Le modalità comprendono una gestione della disciplina ad arbitrio e capriccio dell'umore dell'adulto che instaura un clima minatorio oppure pongono aspettative che eccedono le capacità di soddisfazione ponendo poi i minori per il mancato raggiungimento degli obiettivi. Nei confronti dei bambini più piccoli valgono attacchi verbali o gestuali per intimidire e spaventare (fantasmi, mostri, uomo nero, zingari e extracomunitari che rapirebbero il bambino disobbediente), mentre nell'adolescenza la minaccia più consistente è quella della pubblica umiliazione. ISOLARE. Significa dire o dimostrare ad un bambino che è solo nel mondo, privandolo di stimoli e negandogli le soddisfazioni che originano nella socializzazione. Spesso le circostanze più comuni sono la povertà e l'isolamento sociale. Poiché le relazioni umane sono il tramite per la costruzione della maggior parte degli elementi della personalità di una minore, i danni provocati dall'isolare uno soggetto sono tanto più gravi quanto più è stretta la dipendenza che ne deriva nei confronti dell'adulto trascurando te. Alcuni fattori aggravano la situazione se la relazione è particolarmente significativa e primaria per il soggetto, se l'adulto soddisfa i bisogni immediati ed elementari del minore ma con totale mancanza di partecipazione emotiva, l'identificazione del maltrattamento è quasi impossibile e il minore non è in grado di adottare le più elementari ed istintive misure di autodifesa. Isolare a casa e a scuola. Consiste nell'impedire di trarre effetti positivi nell'ambito delle normali interazioni. Non vengono né fornite né concesse opportunità di rapportarsi con altri adulti o con i pari. Rientra in questa modalità di violenza ogni intervento che tende a suscitare anche in altri soggetti sentimenti negativi nei confronti della vittima. Il minore può essere considerato negativo o considerato in qualunque modo superiore agli altri (è il caso dei super-dotati). Una volta interiorizzato il messaggio sarà il minore stesso a proseguire nell'autopunizione continuando ad isolarsi per propria scelta. Indicatori. Una negativa relazione educativa è il comune denominatore di tutte le forme di abuso nei confronti di minori. Tentiamo di indicare dall'analisi della letteratura in tema una serie di segnali del maltrattamento educativo. Battistelli (1988) identifica la sofferenza soggettiva e il danno ecologico, l'incrocio di queste variabili consente la strutturazione della seguente matrice. Schema p.115 La prima possibilità è costituita da ogni situazione di conflitto tra i bisogni del bambino e quelli dell'adulto che si risolva con la prevaricazione di questi ultimi sui primi; invece la quarta fa riferimento ad interventi educativi corretti. Il terzo quadrante descrive situazioni, definite di "gratificazione corrosiva", nelle quali il danno provocato dall'intervento dell'educatore non è immediatamente visibile e la sofferenza soggettiva non viene percepita dalla soggetto-vittima. Il carattere collusivo della gratificazione consiste nella inconscia complicità tra bambino e adulto nella "soddisfazione reciproca di bisogni regressivi": la dinamica esprime infatti la difficoltà di entrambe ad elaborare dati di realtà e/o spinte maturativa. Il secondo quadrante interessa particolarmente la correlazione tra intervento formativo e "costrizione" del minore, tra l'autorità dell'educatore e la libertà dell’educando, tra la promozione di alcune prerogative del soggetto e la inevitabile frustrazione di altre. Educazione e frustrazione. Il concetto di frustrazione consiste nella presenza di un ostacolo o impedimento più o meno insormontabile che è l'organismo incontra nel soddisfacimento di una bisogna considerato vitale. La frustrazione esiste solo quando viene ostacolato un obiettivo ritenuto importante. È possibile che subentri una sorta di "ipersensibilità" acquisita alla frustrazione per cui ogni delusione viene vissuta come frustrazione ed ogni frustrazione viene considerata una perdita irreparabile. In un'ottica psicoanalitica si sostiene che le nevrosi e le psicosi non sono dirette conseguenze di reali frustrazioni bensì l'espressione della rimozione dei traumi. A superare/ rielaborare le frustrazioni si impara a condizione che le frustrazioni risultino dal cosiddetto principio di realtà, che è il soggetto si senta preso sul serio e rispettato come una persona autonoma e accompagnato da significative persone di riferimento e che gli sia consentito di difendersi, vale a dire di esprimere il suo dolore e la sua ira. Tutti gli autori concordano sulla positiva funzione evolutiva di un certo grado di frustrazione. Ovviamente si tratta di stabilire quale sia il livello ottimale della frustrazione, onde evitare di giungere a quel sommarsi di "frustrazioni sbagliate al momento sbagliato" adottato dai sostenitori della fortificazione del carattere a tutti i costi. Altri indicatori più specifici sono disponibili sia in ambito fisico sia comportamentale, ne riportiamo alcuni esempi perché gli adulti sappiano riconoscere una minore maltrattato al comparire di alcune spie di allarme. Indicatori fisici: lesioni cutanee (ematomi, abrasioni, graffi, ferite lacero-contuse, sedi tipiche di lesione volontarie: viso, bocca, collo, d'oro solo, glutei, gambe, area genitale); ustioni (a guanto o a calza sugli arti, a stampo dell'oggetto usato, sedi tipiche: glutei, area genitale,arti,testa,collo); morsi; impronte cutanee; movimenti goffi come se fossero dovuti a sensazioni di dolore; fratture ossee ripetute; lesioni interne. Indicatori comportamentali: paura del contatto fisico, ansia, aggressività,isolamento. Indicatori di abuso sessuale: l’attenzione dell’adulto deve essere rivolta anche alle vittime “dimenticate” degli abusi sessuali e cioè i maschi. Indicatori fisici: sono spesso o troppo generici (contusioni, graffi, morsi) o di difficile e specialistica identificazione, sintomatologia dolorosa o prurito nell’area genitale con difficoltà di deambulazione o di mantenimento della posizione seduta; infiammazioni e infezioni delle vie urinarie. Il procedere dell’influenza dei loro insegnanti. Nessun’altra relazione fra minore e adulto fuori dalla famiglia coinvolge così tanti vincoli ed obblighi reciproci e la situazione risulta ulteriormente complicata dalla presenza dei compagni: anche i pari, infatti, all'interno della scuola fanno parte di quel sistema, che esercitando una fortissima influenza sullo sviluppo e sul funzionamento psicologico dei suoi membri, possono fungere da tramite o scatenare relazioni negative. Esistono numerose caratteristiche degli adulti responsabili dell'educazione dei minori che si pongono come potenziali "inneschi" del maltrattamento e che solo all'incontro con specifici "detonatori" (particolari situazioni o caratteristiche dei minori) si trasformano in cause dirette dell'esplosione dell'abuso psicologico. Denominatore comune al maltrattamento psicologico intra- o extra-familiare è che l’adulto educatore è spesso inadeguatamente supportato e super-stressato. Tra le caratteristiche dell'educatore o insegnante "a rischio" troviamo: mancanza di competenze professionali, condizioni di lavoro demotivanti, negative o assenti relazioni con superiori o responsabili scolastici e attività professionale in condizioni di continuo strass. Queste condizioni, oltre a provocare spesso l’incipit del maltrattamento, conducono ad un progressivo incremento dello stesso e alla degenerazione ulteriore delle condizioni scatenanti in un circolo vizioso che si auto-rinforza e auto-giustifica. L'insegnante autoritario. Consideriamo soddisfacente esigere nelle professioni educative e in quella docente l'adozione di un atteggiamento tale per cui nella relazione interpersonale si sia capace di riconoscere le istanze altrui ma anche le proprie e di adoperarsi perché entrambe vengano adeguatamente soddisfatte. L'autoritarismo si riferisce alla struttura della personalità stessa del soggetto. La personalità autoritaria si costituisce di modi caratteristici e relativamente coerenti di definire se stessi ed i propri rapporti con gli altri, è causa ma anche conseguenza di razionalizzazioni e di comportamenti che cristallizzano una tendenza o una disponibilità all'imposizione e al dominio. Tra le disposizioni psichiche persistenti identificate come caratterizzanti la persona autoritaria troviamo ovviamente l'aggressività, o meglio ancora la predisposizione all'aggressione, ma anche la stereotipia, il convenzionalismo, la sottomissione all'autorità, la durezza, il desiderio di potere e nei casi estremi la distruttività. Sono le persone rigide e intransigenti che pretendono di aderire al modello di perfezione, che non ammettono e non si consentono debolezze o dubbi e dunque non li tollerano negli altri. L’insegnante dis-stressato. Al concetto di stress si attribuisce comunemente un significato negativo: in quanto minaccia e pericolo per il benessere individuale. Fin tanto che lo stress viene fatto coincidere con quello di sforzo, non sussiste nessun problema, perché questo fa poco danno e soprattutto risulta essere un indispensabile meccanismo di sopravvivenza. Ma oggi questo naturale meccanismo non consiste più di una momentanea situazione di allerta, bensì durata e violenza di uno stato di allarme continuo, di una condizione permanente di emergenza nella quale le pause tra uno stato di tensione e l'altro non consentono il recupero delle energie. Al termine dello stress troviamo come risultato l'esaurimento; chiameremo "distress”, pertanto, un errato e fuorviato sforzo che accumula reazioni non rielaborate di stress provocando danni all'organismo e nuocendo psicologicamente. Il fenomeno del "distress” interessa molto oltre che per un'attenzione a favore del benessere psichico di ogni persona, anche perché è stata rilevata negli adulti maltrattandoti una significativa presenza di tali sintomi. Affinché non si banalizzi il discorso occorre studiare il problema partendo dalla descrizione degli elementi che rendono l'insegnamento uno stimolo “distressore”. Non sempre si tratta di mancanza di energie o di valore: la scuola e la classe stessa consumano le risorse personali o i talenti professionali anche dei docenti migliori. Gestire o ridurre il distress professionale vuol dire essere avvertiti del problema ed essere in grado di esaminare il disagio anche prima del momento in cui si ammetta di non riuscire a far fronte alle pressioni e alle preoccupazioni. Poiché il maltrattamento è formato da un insieme di fattori in interazione sistemica, lo studio della relazione alunno-educatore deve essere correlato anche all'identificazione delle caratteristiche del minore maltrattato. Sostenere che i minori con problemi comportamentali sono maggiormente a rischio di maltrattamento non significa affermare che solo queste categorie di alunni subiscono maltrattamenti psicologici. Tutti gli alunni possono trovarsi in situazioni di "rischio di maltrattamento" e ad ogni livello dell'iter scolastico. Poiché il valore dei singoli alunni viene soggettivamente percepito e strutturato in giudizi e pregiudizi da ogni singolo insegnante, è sempre possibile che l'interpretazione del comportamento di uno studente lo faccia rientrare in una delle categorie considerate "disturbanti" o che lo studente stesso finisca per comportarsi realmente in modo negativo. La teoria della "vittima particolare" sostiene l'esistenza di una maggiore frequenza di casi di violenza nei confronti degli alunni considerati diversi o difficili rispetto agli altri. Ma non è facile stabilire la priorità causale tra maltrattamento e disturbi comportamentali. Per determinare quale sia la causa e il quale la conseguenza viene suggerita una soluzione empirico-induttiva: spesso l'unica differenza è l'atteggiamento degli adulti; in quest'ultimo caso gli educatori incolpano i minori stessi dei disturbi attribuendo loro responsabilità inadeguate, negando il problema e rifiutando ogni aiuto. Se poi l'insegnante applica lo "stereotipo maggioritario" che privilegia i diritti e le aspettative della maggioranza del gruppo, riesce a giustificare ai propri occhi ogni reazione di emarginazione, colpevolizzazione ed esclusione di ogni diversità. L'insegnante non si rivolge a persone ma ad allievi, facendo appello unicamente a quelle qualità che vengono richieste dal suo ruolo. L'accanimento da parte dell'insegnante viene suscitato in primis dagli alunni che disturbano la disciplina scolastica. Nei primi anni della scolarizzazione rientra nell'indisciplina l’iper-attività, cui si aggiungono con il procedere dell'iter scolastico la difficoltà di concentrazione, la scarsa tolleranza delle frustrazioni alle quali l'alunno reagisce con aggressività fino a giungere nella preadolescenza e nell’adolescenza alla opposività e alla ribellione. Per quanto riguarda l'aspetto disciplinare c'è una seconda categoria che è l'esatto opposto: non disturba affatto. Vi ritroviamo il gruppo degli alunni "poco socievoli" che si compone di introversi, timidi, paurosi, ansiosi, pessimisti, scontenti, irritabili, scontrosi e cupi. Le carenze e le caratteristiche che riducono le possibilità di reazione positiva e che quindi incrementano il rischio di ulteriori maltrattamenti a seguito di eventuali episodi isolati includono l'esatto contrario dei fattori di resilienza, e cioè: la convinzione di non essere amati, l'incapacità di rielaborare le esperienze di sofferenza, l’autocolpevolizzazione di fronte ad attacchi soprattutto se da parte di adulti, l'eccessiva dipendenza affettiva, l'incapacità di chiedere l'aiuto necessario, la sfiducia e il pessimismo nei propri confronti e nei confronti del mondo esterno. Si tratta di caratteristiche che hanno come denominatore comune il concetto di carenza o di insufficienza e attengono in special modo ad alunni già svantaggiati per i motivi più disparati. 4. Conclusioni. Oltre il prevaricatore e la vittima: il rinserimento in tutti noi Solo un’avvertita e collaudata "meta-abilità" consente all'educatore di scegliere all'interno delle opzioni disponibili le modalità specifiche di "buona-trattamento" relativamente al soggetto minore considerato o, meglio, nel rispetto di tutti i soggetti coinvolti, educatore compreso. Il livello di competenza pedagogica da perseguirsi è la capacità di vigilare consapevolmente sul proprio agire o non-agire educativo e di compensare eventuali errori educativi con specifici interventi. a) La "frustrazione assistita". La coscienza del proprio valore e la serena accettazione dei propri limiti possono porsi come obiettivi di un insegnamento che tuttavia non può neppure indulgere alla tentazione di suscitare sentimenti di superiorità sopraffacendo gli altri o allontanando la realtà. Il "trattamento" deve essere precoce e ciò ribadisce la necessità che eventuali relazioni distorte tra educatore e minore vengano evidenziate tempestivamente. Alcuni suggerimenti: - non eliminare l'esposizione del minore a situazioni frustranti ma consentire che queste vengano affrontate in ambienti "protetti". Evitare sia l'artificiosa "campana di vetro" sia il sovraccarico di "prove" al fine di temprare il carattere nelle avversità. - evitare i confronti pubblici e diretti tra pari, paragonando piuttosto il minore solo a se stesso. -evidenziare alcuni elementi o tratti di "superiorità" anche temporanea, e anche se a livelli inferiori rispetto agli obiettivi perseguiti. - provocare in casi particolari vissuti di "successo" preordinando situazioni giuste che interrompano gli insuccessi e la demotivazione-scoraggiamento. - accettare la "riparazione" condivisa e correttiva. La frustrazione assistita si basa quindi sui principi del contenimento dello sforzo entro limiti che non superino la resistenza e la tolleranza individuale e dell'intensificazione dello slancio motivazionale, mentre le teorie che vengono identificate con l'incoraggiamento coincidono più con l'addestramento assertivo o terapia affermativa. b) L’agire “come se”. (Proposta operativa di Adler che abbiamo chiamato così, l'agire come se). È irrealistico ipotizzare che si possano eliminare completamente gli insuccessi o le difficoltà. Il confronto e la competizione con altri più brillanti è inevitabile, così come la percezione di trattamenti diversi rispetto ai coetanei. Per seguire la presa di coscienza dei propri limiti e delle proprie capacità è obiettivo educativo fondamentale nei confronti di tutti gli individui, anche dei soggetti "dotati". Al fine di evitare che i vissuti di inferiorità o di superiorità investono l'intera personalità occorre delimitare e settorializzare gli ambiti della competenza e della incompetenza: un'inferiorità settoriale può essere tollerata se compensata dalla consapevolezza e dall'adeguatezza di comportamenti e capacità in altri ambiti di attività. Così come il buon educatore interagisce adottando le tecniche della comunicazione che suggeriscono di tenere separato il comportamento dal soggetto dello stesso, nei casi di "rifiuto" il genitore/insegnante con un minimo di auto-analisi può separare il rifiuto di uno specifico comportamento o caratteristica del minore dalla persona del figlio/studente. Così, invece che adottare atteggiamenti di chiusura pensando "non riesco a sopportarlo", è possibile porsi obbiettivi concreti per superare uno specifico problema: "non sopporto che disturbi i lavori di gruppo" c) La "superiorizzazione". I sentimenti di inferiorità derivano nel bambino dalla presa di coscienza della propria debolezza e sono basati sulla tensione tra l'ego e l’ego ideale. Inferiorizzare non è constatare una inferiorità ma accrescere nel bambino la coscienza psicologica al punto da creare uno stato di inferiorità. I sentimenti di inferiorità non corrispondono sempre ad una inferiorità reale, ma possono nascere da una presunzione di inferiorità, da vissuti di inadeguatezza nella capacità di estrinsecare proprie capacità, dalla constatazione di differenze anche minime nei confronti con altri. Non è la superiorità a generare il sentimento di inferiorità ma la piccola differenza perché ci si confronta con i propri veri o presunti pari i sentimenti di inferiorità sono indispensabili per lo sviluppo del bambino, lo stato di insicurezza lo spinge a creare una via per raggiungere la meta costruendosi uno stile di vita. La fissazione del sentimento di inferiorità e la sua involuzione patologica è quasi sempre accompagnata da intensa sofferenza ed è dovuta a richieste esagerate da parte degli educatori. Esistono difese spontanee dell'individuo che elabora o adotta compensazioni alla fine di controbilanciare l'inferiorità e ripristinare l'equilibrio. È solo l’acquisita consapevolezza dell'impossibilità di recupero che fissa un sentimento in "complesso" o in "sindrome" di inferiorità. La “superiorizzazione” ha radici lontane e propaggini recenti. Da sempre la convinzione che l'autostima sia un artefatto e non un'ha fatto ha impegnato i pedagogisti e gli psicologi nella ricerca non solo di atteggiamenti da adottare ma di vere e proprie strategie e tecniche di quella che oggi viene definita come l'arte dell'incoraggiamento. Già Adler aveva parlato del coraggio come di una delle due componenti fondamentali per la costruzione di una positiva personalità prosociale. Se intendiamo il coraggio come quell'atteggiamento che l'individuo adotta per ottenere o mantenere azioni coerenti con le proprie convinzioni (personale visione di se stesso o valori regressivi e l'assunzione di un ruolo adulto ben integrato. Crediamo che le aspettative degli educatori inducano più che riscontrare problematicità che di per sé potrebbero anche non presentarsi se l'adolescente non fosse bombardato da immagini più o meno pressanti di ciò che ci si attende da lui. L'adolescenza dovrebbe pertanto essere l'età della vulnerabilità, dell'instabilità, della ribellione, dell'emotività. Ma questo valeva quando l'età adulta veniva considerata tale solo se sicura di sé, adatta alle richieste sociali, razionale e invulnerabile perché sempre sulla difensiva. Ancora però la maggior parte dei genitori si aspetta ansiosa che compaiono i primi sintomi dell'adolescenza tanto temuta. Tutti ormai conoscono e recitano alla perfezione i comportamenti attesi nell'età ingrata. Tutti si aspettano un periodo difficile ed esultano tranquillizzati quando possono dire che il ragazzo è normale: - è normale che il ragazzo sia maleducato e risponda male, perché è giusto che si ribelli e contesti le norme dei genitori; - è normale che studi niente o poco perché è giusto che le energie impegnate nella crescita lo distolga non dallo studio; - è normale che non lo si veda più a casa perché è giusto che stia insieme ai compagni; - è normale che faccia tutto quello che gli pare o tutto quello che fanno gli altri, poi gli passa. Al culmine della saggezza popolare ciascuno ricorda stupidaggini o mascalzonate compiute nei propri anni felici: tutte concluse felicemente e tutte amplificate eroicamente da un adulto che vuole vedere oltre che il figlio anche il proprio sè passato. E così l'aspettativa soddisfatta finisce per creare da sé il comportamento corrispondente che ogni adolescente sa ci si attende da lui: sfrontatezza come sintomo di indipendenza, rifiuto del dialogo come indice di originalità di pensiero, gregarismo con i pari come indicatore di un buon inserimento sociale, contestazione parlata e conformismo agito come spia di un sano distacco dai valori tradizionali e di un ancor più insano adeguamento ai valori correnti. Infine i genitori e gli educatori in genere fingono di protestare e di voler intervenire. Nell’ adolescenza nulla si crea e nulla si distrugge. In questa fase, quale che sia il riferimento cronologico assunto, avviene non la creazione ma la ricapitolazione e la ristrutturazione di processi già avvenuti. Le basi dell'identificazione strutturante sono perlopiù già state gettate nell'infanzia e la necessità di intervento nell'adolescenza sorge solo dove questa non abbia dato esiti accettabili. Non si pensi allora di intervenire a 12 o 14 anni convinti di poter "prevenire". Siamo convinti che l'adolescenza sia soprattutto un momento della vita in cui i nodi vengono al pettine: tutto ciò che è rimasto insoluto fa sentire la propria presenza; la presa di coscienza può essere di graduale serena accettazione oppure di sconvolgente negazione. Si dice oggi che la propria infanzia continua a vivere e influisce su quello che si prova e che si fa, non è certo una constatazione nuova. Viene definito nell’adolescenza quello che sarà il nostro atteggiamento verso noi stessi e ciò da cui dobbiamo prendere le distanze non sono tanto i codici di riferimento teorici, le norme astratte e i valori assoluti che gli educatori ci hanno proposto o imposto, ma gli atteggiamenti e gli esempi concreti che abbiamo respirato e che ci hanno costituito così come siamo al di là delle intenzioni esplicite degli adulti. Ci soffermeremo più tardi sui possibili interventi educativi nell'età adolescenziale, per fornire esperienze esistenziali e formative che sono mancate nell'infanzia. Ma che non li si chiami "prevenzione". L'adolescente deve rielaborare il lutto rispetto alla perdita della propria infanzia e dei punti di riferimento familiari che devono essere superati e integrati. Tutto ciò crea disagio e incertezza ma non può spiegare la sindrome giovanile che oggi viene definita come "senza fretta di crescere". Più probabile è che tale intolleranza all'ingresso nell'età adulta sia dovuto all'idea di età adulta che viene proposta e alla realtà degli adulti concreti che l'adolescente si trova di fronte. Gli adolescenti si trovano di fronte ad un adulto dalla doppia morale e questo proprio mentre chiede ai minori di aderire a norme etico-sociali e di comportarsi di conseguenza: immaginiamoci l'effetto su di un adolescente, intransigente soprattutto nei confronti della coerenza. Meglio allora seguire chi predica male e razzola male piuttosto che adulti o istituzioni che cadono in contraddizioni nel confronto tra parole e azione. E se l'immaturità degli adulti non consente più l'identificazione di punti di riferimento degli adulti, il giovane non può che identificarsi mimetizzandosi tra i pari. Concludiamo ribadendo la necessità di periodo di affrancamento rispetto all'infanzia e alla famiglia d'origine ma anche di distanziamento critico nei confronti di ciò che aspetta il giovane una volta varcata la soglia e, cioè, società ed età adulta. L'adolescenza nel passaggio dalle società semplici a quelle complesse si è resa indispensabile: occorre tempo per integrare passato-infantile e presente-adolescenziale, e anche per accettare il futuro-adulto. L'adolescente ha bisogno di tempi e spazi dove gli adulti consentano una sana "lotta" tra avversari che si rispettano. Nel tempo che occorre alla crescita gli educatori non devono ancora scomparire, abbandonando i minori. Il riferimento comune agli approcci più recenti resta un concetto di emancipazione: rendere l'adolescente più "potente" grazie alla forza di alcuni strumenti in grado di accompagnarlo nell'affrontare le esperienze. 2. Autostima e senso di autoefficacia Una delle preoccupazioni maggiori è il problema dei comportamenti di aggressione. Non altrimenti negativa e pericolosa è l'omologazione che spesso finisce per nascere paradossalmente da atteggiamenti di contestazione. Proprio oggi che ai giovani sembra essere riservata una larga possibilità di scelta, proprio oggi una fetta sempre più larga di giovani cade nell'essere scelto più che nello scegliere. In questa sede intendiamo preoccuparci invece della depressione, sintomo meno evidente e quindi considerato meno pericoloso. Spesso la depressione cova sotto la cenere di adolescenze ritenute normali, o perché se emerge si ritiene che l'adolescente per definizione debba esserlo o perché l'adolescente nasconde bene sotto altri sintomi un vissuto difficile da accettare consapevolmente. Consideriamo la depressione una condizione che è molto più vicino alla patologia, se non mentale almeno esistenziale. Il ritiro depressivo a fronte di mete che l'adolescente vede sempre più incerte e impegnative è molto più comune di quanto non si creda, anche se molto meno visibile. La mancanza di desideri e la demotivazione possono essere correlati sia alla depressione, originata dall'auto svalutazione, sia al narcisismo, dovuto a giudizi svalutanti ma, in entrambi i casi è difficile capire quale sia la causa e quale l'effetto. Mai come oggi la possibilità di scelta è invece più virtuale che reale. Quello che sembra un’assenza di proibizioni e di limiti alla propria espressività è invece il massimo della costrizione entro i confini dell’ininfluenza delle azioni individuali. Nel momento in cui si arriva a questa consapevolezza, l'esito della "sindrome da impotenza appresa" è assicurato e l'indifferenza nei confronti del proprio o dell'altrui destino conduce ad una depressione che trova sfogo in quelle condotte giovanili a rischio. Viene assegnato un ruolo determinante alle convinzioni di efficacia personale e ad una positivo costrutto di autostima. Se gli eventi vengono considerati sfide o pericoli dipende dalle proprie convinzioni di autorità. Ciò che incide sul livello di motivazione personale è la convinzione del soggetto di poter esercitare un controllo su ciò che accade più che la realtà oggettiva della sua efficacia. Le ricerche dimostrano l'influenza del senso di efficacia sui processi cognitivi, motivazionali, affettivi e sulla capacità di scelta. Le convinzioni di autoefficacia sono piuttosto il prodotto di un complesso processo di autopersuasione basato sulla elaborazione cognitiva di informazioni di autoefficacia provenienti da varie fonti. 1. Una relazione diretta esiste tra esperienza di gestione positiva degli eventi e il senso di autoefficacia: i successi determinano una solida fiducia nelle proprie capacità personali, ma non i facili successi. 2. Un'altra fonte di incoraggiamento è costituita dalle esperienze vicarie fornite cioè dall'osservazione di modelli: vedere persone simili a sé che attraverso l'impegno e la perseveranza perseguono i propri obiettivi aumenta nell'osservatore la convinzione che sia possibile possedere o acquisire abilità per affrontare situazioni analoghe. 3. La terza possibilità consiste nella persuasione: le persone convinte verbalmente di possedere le capacità necessarie consolidano il senso di autoefficacia. Chi vuole utilizzare questo approccio non deve limitarsi a comunicare valutazioni positive, ma deve predisporre le situazioni in modo che si sperimenti successi in un circolo virtuoso. 4. Esiti positivi producono anche tutti gli interventi e le tecniche volte al miglioramento delle condizioni fisiche o psicologiche del soggetto che può affrontare gli eventi con maggiori energie e atteggiamento ottimista. Poiché le convinzioni di controllo sono composte da "aspettative di risultato" e cioè la probabilità con cui una certa azione porterà a un certo risultato, e da "aspettative di efficacia" e cioè la fiducia nella propria capacità di compiere queste azioni, tale costrutto mentale costituisce in larga misura anche il sentimento di autostima. I costrutti mentali o cognitivi personali circa le proprie capacità di controllo non sono presenti alla nascita ma si costruiscono gradualmente. Una componente fondamentale della motivazione al successo fin dall'infanzia è la capacità di gratificazione. Il successo viene generalmente descritto come il raggiungimento di un obiettivo facente parte di uno standard personale, ma ciò non è sufficiente: ben presto nell'età evolutiva la felicità per la riuscita non gratifica. Il successo non è sufficiente, occorre potersi ascrivere il merito del successo, essere l'artefice in prima persona e senza aiuti. All'età dell'ottimismo in cui con "uno può più di sforzo” si crede di poter superare tutti gli ostacoli indipendentemente dall'abilità e dalla difficoltà del compito, subentra presto la fase del realismo. Fa parte di questo passaggio la scoperta del concetto di "fortuna", prima assente, e che subentra a risolvere situazioni irrisolvibili con la pura applicazione delle risorse personali di impegno, abilità. Una volta raggiunta l'idea che capacità e sforzo si compensano reciprocamente secondo le difficoltà del compito si è raggiunto la piena strutturazioni della convinzione di controllo e ciò entro i 12 anni circa. Se la comparsa della coscienza dell'orgoglio per un successo e della corrispondente rabbia-vergogna per l'insuccesso avvengono tra i due anni e mezzo e i tre anni e mezzo, ci si rende conto facilmente di quanto possa risultare difficile 10-15 anni più tardi, nell'adolescenza, cercare di modificare atteggiamenti radicati in esperienze talmente ripetute da generare modelli cognitivi ed emotivi di funzionamento psicologico. Dobbiamo, dunque, come insegnanti ed educatori impegnaci per condurre i nostri ragazzi ad un’alta autostima nonostante tutto? gli studi permettono di rintracciare fin nella prima infanzia le esperienze ed i meccanismi che condizionano precocemente la fiducia in se stessi o il ritiro depressivo. Siamo convinti che tale processo non compare d'improvviso nell'adolescenza. Questo non significa che non hanno spazio interventi educativi in adolescenza, però sarebbe meglio prestarvi attenzione fin dai primi anni di vita nell'educazione informale familiare e in quella formale scolastica. L’umiltà non è più una virtù? la base dell'intero processo è l'ottimismo. Oggi si è convinti che sovrastimarsi sia un vantaggio psicologico, perché un alto livello di autostima produce senso di benessere, e in quanto consente di andare oltre le proprie prestazioni ordinarie e di routine. Le persone realiste si possono bene adattare alla realtà attuale mentre quelle ottimiste, dotate di un forte senso di autoefficacia, hanno una buona probabilità di trasformare questa realtà. Altra cosa è sottostimare le difficoltà del compito, errore nel quali incorrono i bambini, che confondono le aspettative con i propri desideri. Viviamo dunque in un ambiente psichico che è largamente autoprodotto? gli approcci atti a migliorare l'autostima possono orientarsi in due differenti direzioni: o aumentando la capacità di perseguire gli obiettivi ritenuti rilevanti o valutando ad abbassare gli
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