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Inside the white cube, Sintesi del corso di Arte

iside the white cube

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 07/10/2015

Matilde.Ciullo
Matilde.Ciullo 🇮🇹

4.5

(14)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Inside the white cube e più Sintesi del corso in PDF di Arte solo su Docsity! INSIDE THE WHITE CUBE INTRODUZIONE Lo studio si incentra sugli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore: il contesto ha divorato l’oggetto, rubandogli la scena. L’eternità evocata dai nostri spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica, della bellezza immortale, del capolavoro: l’Occhio e lo e lo Spettatore sono tutto quello che rimane di chi è “morto” entrando nel white Cube. Nelle gallerie d’avanguardia tradizionali come nelle chiese non si parla con un tono normale, non si ride, mangia, beve, dorme né ci si sdraia poiché il white Cube promuove il mito secondo cui essenzialmente siamo esseri spirituali - l’Occhio è l’occhio dell’anima. OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO La galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere “arte”. Essa è isolata da tutto quello che potrebbe nuocere alla sua autovalutazione. In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori. La sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dell’estetica unica. Una volta fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena. È l’oggetto introdotto nella galleria a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Poiché il mondo esterno deve restare fuori in genere le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, il soffitto diventa fonte di luce. Il pavimento di legno è così tirato a lucido che si avverte distintamente il rumore dei passi oppure è coperto da un tappeto che attutisce quel suono, permettendo di riposare i piedi mentre gli occhi prendono d’assalto la parete. Il Salon in effetti definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Una galleria è un luogo dotato di un muro a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. La “Galleria del Louvre” di Morse sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mò di trono. Tralasciando l’accozzaglia di periodi e stili - per noi orrenda - quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della nostra comprensione. Tanto l’alto quanto il basso sono ingrate. In realtà iascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato dal suo incombente vicino da una massiccia cornice esterna e al suo interno grazie a un sistema prospettico completo. La scoperta della prospettiva coincide con il successo del quadro da cavalletto che a sua volta conferma la promessa illusionistica propria della pittura. Visti da vicino i murali tendono a esibire apertamente i propri strumenti: i murali proiettano una rete di vettori ambivalenti e instabili rispetto ai quali l’osservatore cerca di allinearsi. Il quadro da cavalletto sulla parete, invece, gli indica immediatamente dove guardare. È il modello classico della prospettiva presentato nella sua cornice accademica a permettere che i quadri possano essere allineati come sardine. Nulla suggerisce che lo spazio all’interno del dipinto possa prolungarsi ai suoi lati. I dipinti che, focalizzandosi su un frammento indeterminato di paesaggio, spesso sembrano “sbagliare” soggetto introducono l’idea di un occhio che scruta. Questo sguardo “accelerato” sfida il carattere assoluto della cornice rendendola una zona incerta. La separazione dei dipinti lungo la parete diventa inevitabile. Il fenomeno venne accentuato e in larga misura innescato dalla nuova scienza, o arte, dedicata a estrarre il soggetto dal suo contesto: la fotografia. La fotografia ha imparato subito a rifuggire le cornici pesanti e a montare una stampa su un foglio di cartone. La cornice poteva circondare il cartone solo dopo un intervallo neutro. 1 Monet: uno dei tratti distintivi dell’impressionismo è il modo in cui la scelta casuale del soggetto attenua il ruolo strutturale del margine nel momento stesso in cui questo subisce pressioni da parte di uno spazio sempre meno profondo. La resa letterale del piano pittorico è un tema sconfinato. Il concetto di struttura del Cubismo manteneva lo status quo della pittura da cavalletto: i dipinti di questo movimento sono centripeti, si raccolgono verso il centro e si dissolvono verso il margine. Seurat è riuscito a definire molto meglio i limiti di una formulazione classica. Spesso i suoi bordi dipinti, composti da un agglomerato di puntini colorati, si dispiegano verso l’interno; a volte cosparge tutta la cornice di puntini n modo che l’occhio possa uscire dal dipinto, e rientrarvi, senza scosse. Nei grandi dipinti di Matisse non abbiamo quasi mai coscienza della cornice. Egli non privilegia il centro a discapito del margine o viceversa. L’allestimento. il modo di appendere un dipinto fornisce molte indicazioni su ciò che viene esposto. Esso esprime un’interpretazione e un giudizio di valore, ed è inconsapevolmente influenzato dal gusto e dalla moda. In epoca moderna, la prima occasione in cui un artista radicale creò uno spazio e vi espose i propri dipinti fu il Pavillon du Realisme personale che Courbet allestì all’esterno dell’Exposition del 1855: era la prima volta che un artista moderno si ritrovò a ideare il contesto della sua opera e, di conseguenza, a pronunciarsi sul valore di quest’ultima. Alla prima mostra del 1874 gli impressionisti appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon. Quando, in occasione della grande retrospettiva di Monet tenutasi al Museum of Modern Art nel 1960, William Seitz fece togliere le cornici, all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Quel minimo spessore del telaio equivale a un abisso formale. La pittura da cavalletto domina l’arte fino al Color Field e la liberalizzazione del piano pittorico è praticata contro i requisiti dell’illusionismo. Gli attacchi sferrati alla pittura negli anni 60 hanno trascurato di specificare che il problema non era la pittura generale, bensì il quadro da cavalletto. Il Color Field è rimasto una pittura da Salon: aveva bisogno di grandi pareti e di grandi collezionisti. Il Minimalismo, al contrario, ha riconosciuto le illusioni proprie della pittura da cavalletto e non si è fatta illusioni sulla società. Non si è alleato con la ricchezza e il potere, e il suo tentativo abortito di ridefinire il rapporto tra artista e le diverse istituzioni è rimasto perlopiù inesplorato. La pittura tardo modernista ha avanzato alcune ingegnose ipotesi su come spremere qualcosa di più da questo recalcitrante piano pittorico: oggetti piatti che si fondevano con la superficie letterale (le Flags di Jasper Johns, i Platform Painting di Cy Twombly) o la soluzione che consiste nell’incidere il piano pittorico (Fontana), fino a far sparire la tela e attaccare direttamente l’intonaco della parete. Il cubismo è stato un movimento conservatore in questo senso: ha prolungato la vitalità della pittura da cavalletto posticipandone il crollo. Nell’arte moderna la potente voce dell’opposizione fu quella di Henri Matisse, il quale formulò alla sua maniera, razionale e un po’ in sordina, una visione del colore che di primo acchito paralizzò il grigiore cubista. In Art and Culture Clement Greenberg racconta come gli artisti newyorkesi abbiano puntato astutamente gli occhi su Matisse e Mirò: i dipinti dell’espressionismo astratto si sono liberati della cornice e gradualmente hanno cominciato a concepire il margine come un’unità strutturale attraverso cui il dipinto entrava in comunicazione con la parete. È qui che entrano in scena l’agente e il curatore. La maniera in cui entrambi, con la collaborazione dell’artista, esponevano queste opere, ha contribuito, tra la fine degli anni 40 e 50, alla definizione della nuova pittura. Nel corso degli anni 50 e 60 viene a delinearsi un nuovo tema di cui si acquista una progressiva consapevolezza: di quanto spazio ha bisogno un dipinto per, come si diceva allora, respirare? 2 IL CONTESTO COME CONTENUTO Il soffitto, fino al momento in cui Duchamp vi si “installò” nel 1938, sembrava relativamente al riparo dagli artisti. Era già occupato da lucernari, lampadari, circuiti e impianti elettrici. Oggi quasi non lo guardiamo più. In altri periodi lassù c’era tanto da vedere. Nel Rinascimento, esso chiudeva le figure dipinte in celle geometriche. In età barocca, si spacciava sempre per qualcosa di più di un soffitto, come se il concetto di copertura dovesse essere trasceso: il soffitto è in realtà un arco, una cupola, un cielo, un vortice che turbina di personaggi. Con la luce elettrica il soffitto è diventato una coltivazione intensiva di impianti e il modernismo l’ha semplicemente ignorato. L’unica grazia che la tecnologia ha concesso al soffitto è illuminazione indiretta: l’illuminazione indiretta è il Color Field del soffitto. L’”Exposition internationale du Surrealisme” del 1938 alla galerie Beaux-Arts, fu la prima volta in cui l’artista, Duchamp, ricopriva il ruolo di Generatore-Arbitro della mostra. Se lo avessero accusato di monopolizzare la mostra, avrebbe potuto dire che si era limitato a prendere quello che non voleva nessuno: il soffitto e un pezzetto di pavimento. Sospesa sopra la testa, l’opera più voluminosa della mostra era tutto sommato discreta ma, sul piano psicologico, totalmente invadente. Con i suoi “1200 sacchi di carbone”, Duchamp mise letteralmente “sottosopra” la mostra costringendo i visitatori a stare a testa in giù: il soffitto si è trasformato il pavimento il pavimento nel soffitto. Tant’è che la stufa era diventata il lampadario. Era la prima volta che un artista abbracciava un’intera galleria in un solo gesto, per di più mentre pullulava di altre opere. Mettendo a nudo l’effetto che il contesto aveva sull’arte, il contenitore sul contenuto, Duchamp riconobbe una zona dell’arte che non era ancora stata inventata. I gesti sono una forma di invenzione, il cui brevetto conta molto di più del contenuto formale, sempre che ne abbiano uno. Con un unico affondo il gesto sbaraglia il toro che è la storia. E tuttavia ha bisogno di quel toro, perché all’improvviso opera un cambiamento di prospettiva su tutto un insieme di assunti e di idee. Se insegna qualcosa, lo fa con l’ironia e l’epigramma, l’astuzia e la provocazione. Un gesto ci fa aprire gli occhi e il suo effetto dipende dal contesto delle idee che trasforma e mette in relazione. Forse non è arte, ma le somiglia. I gesti sono mutevoli e alcuni di essi possono, a posteriori, diventare progetti. Nei due compiuti allora da Duchamp nella galleria c’era la perspicace intuizione di un progetto. Sopravvissuti alla loro irriverenza, sono diventati materiale storico, illuminando lo spazio espositivo e la sua arte. La destinazione di “Sacchi di carbone” come pure “Mile of string” realizzato quattro anni dopo nel 1942 per la mostra “First papers of Surrealism” organizzata al 551 di Madison Avenue, resta ambigua. Quei gesti erano indirizzati al pubblico, alla storia, alla critica d’arte o ad altri artisti? Ovviamente a tutti, ma l’indirizzo risulta illeggibile. L’interferenza dell’artista, fine conoscitore di ogni tipo di aspettativa, nella sfera dello spettatore, faceva parte della sua maligna neutralità. Quello spago che teneva i visitatori a distanza dalle opere diventò l’unica cosa che avrebbero ricordato. Lo spago affonda le sue radici nel Costruttivismo ed è un cliché della pittura surrealista: esso non fa altro che tradurre alla lettera lo spazio illustrato da molti dei dipinti esposti. Dipingere una cosa vuol dire incassarla nello spazio dell’illusione: il dissolvimento della cornice ha trasferito quella funzione allo spazio espositivo. Ridurre lo spazio a scatola o, viceversa, trasformare la scatola in spazio espositivo è uno dei nodi formali dell’arte di Duchamp: quello del contenimento-interno-esterno. Lo spago rimbalzante avvolge lo spazio della galleria, bacino di idee dell’avanguardia; la Boite en valise è la memoria, il grande vetro l’apoteosi pseudomeccanica dell’apertura e dell’inserimento; le porte (aperte-chiuse?) e le finestre (opache-trasparenti?) sono gli inaffidabili sensi attraverso cui l’informazione transita in una direzione o nell’altra. Duchamp adora i trabocchetti; tiene in sospeso lo spettatore, che è sempre lì di sua spontanea volontà, sui suoi stessi codici, impedendogli di disapprovare il maltrattamento di cui è vittima e procurandogli così un ulteriore fastidio. 5 L’ostilità nei confronti del pubblico è uno degli elementi chiave del modernismo e si potrebbero classificare gli artisti in funzione dell’intelligenza, dello stile e della profondità con cui la mostrano. Uno scambio negativo è fondamentale: l’artista cerca di fare in modo che il collezionista si entusiasmi per la sua ottusità e rozzezza e quest’ultimo a sua volta lo incoraggia a esibire la sua irresponsabilità. La tipica ostilità dell’avanguardia si esprime attraverso il disagio fisico (il teatro radicale), il rumore eccessivo (la musica) o l’eliminazione dei punti di riferimento percettivi (lo spazio espositivo). Comuni a tutti sono la trasgressione della logica, la dissociazione dei sensi e la noia. La classica galleria d’avanguardia è un limbo tra lo studio e il salotto, in cui le convenzioni di entrambi si incontrano su un terreno reso rigorosamente neutrale. Qui l’orgoglio dell’artista per le sue creazioni si sovrappone perfettamente al desiderio borghese di possesso. L’arte del tardo modernismo in realtà è irreparabilmente dominata dai presupposti, perlopiù inconsapevoli, della borghesia, come profetizzava la velenosa e solenne prefazione che Baudelaire scrisse per il Salon del 1845 intitolata “Ai borghesi”. A colpi di paradossi, l’idea di libera impresa applicata ai beni artistici e alle idee rafforza le costanti sociali tanto quanto le attacca. Attaccarle, del resto, è diventato un gioco di società tollerabile, di cui entrambe le parti sono relativamente soddisfatte. Forse è questo il motivo per cui l’arte degli anni 70 concentra il suo radicalismo non tanto nelle opere, quanto negli atteggiamenti verso il sistema “artistico” ereditato, del quale lo spazio espositivo è l’emblema. L’arte degli anni 70 è una moltitudine di generi eterogenei e non gerarchici, di soluzioni spiccatamente provvisorie, per non dire instabili. Il grosso delle energie non confluisce più nella scultura e nella pittura formale ma nelle categorie miste (performance, post-minimalismo, video, environment), che prospettano situazioni più temporanee e richiedono un esame di coscienza. L’arte degli anni 70 sconfina nei media in maniera gentile e senza velleità polemiche: l’understatement, infatti, rientra nel suo basso profilo. Appare intima e personale, a tratti narcisistica. Non è in cerca di certezze perché tollera bene l’ambiguità. Benché si focalizzi sulla dimensione personale, non mostra alcuna curiosità per le questioni di identità. Concentra in sé in interessi sui dove (lo spazio) e sul come (la percezione), laddove il cosa si percepisce - basta pensare a generi agli antipodi come l’Iper-realismo e il post-Minimalismo - non è importante. Molta dell’arte degli anni 70 sembra alla ricerca di una serie di verifiche su scala progressiva: fisiche (là fuori), fisiologiche (interno), psicologiche e mentali. L’uomo degli anni 70 è una monade funzionale. L’arte degli anni 70 rigetta il pubblico degli anni 60. Tenta spesso di comunicare con chi non è ancora entrato in contatto con le opere, spostando così il cuneo che l’arte aveva conficcato tra la percezione e la cognizione. L’arte degli anni 70 resta tormentata dalla storia, anche se il suo carattere provvisorio determina il rifiuto di qualunque consapevolezza di natura storica. Mette in dubbio il sistema attraverso cui si presenta, anche se in gran parte è fruita attraverso quel sistema. Con il Postmodernismo, lo spazio espositivo perde la sua “neutralità”. La parete diventa una membrana attraverso cui valori estetici e valori commerciali si scambiano per osmosi. Quanta parte del contenuto eliminato dell’oggetto può essere sostituito dalla parete bianca? Il contesto fornisce un’ampia porzione di contenuto all’arte tardo modernista e post-moderna: è questo il problema principale dell’arte degli anni 70, la sua forza e insieme la sua debolezza. L’apparente neutralità della parete bianca è un’illusione. Essa rappresenta una collettività con idee e presupposti comuni. Lo sviluppo del white cube immacolato e privo di identità è uno dei trionfi del modernismo: uno sviluppo al tempo stesso commerciale, estetico e tecnologico. L’arte si mette sempre più a nudo, fino a offrire allo sguardo un misto di produzioni formaliste e frammenti della realtà esterna. La parete immacolata della galleria è impura. Comprende commercio ed estetica, artista e pubblico, etica e opportunismo. È l’immagine della società che la sostiene, e in questo 6 senso propone una superficie ideale su cui far rimbalzare le nostre paranoie. Ma può essere compresa. E questa comprensione la trasforma, perché il suo contenuto è costituito da proiezioni mentali basate su assunti non formulati. La parete è i nostri assunti. Ed è fondamentale che ciascun artista conosca questo contenuto e il modo in cui incide sulla sua opera. Nel bene o nel male, il white cube è l’unica grande convenzione attraverso cui l’arte viene fruita. Ciò che lo rende stabile è la mancanza di alternative. Esso simboleggia piuttosto degnamente la preservazione di quello che la società trova oscuro, privo di importanza e senza utilità. È stato una specie di incubatrice di idee radicali che lo avrebbero abolito. All’epoca del modernismo, l’artista non si rendeva conto che non stava accettando soltanto un rapporto con il mercante. E, se guardava un po’ oltre, accettare un contesto sociale su cui non poteva incidere granché era una dimostrazione di buon senso. Le sue armi sono l’ironia, la rabbia, l’arguzia, il paradosso, la satira, il distacco, lo scetticismo. La sua è una mentalità senza fissa dimora, empirica, sempre pronta a sperimentare, consapevole di sé e quindi della storia, ma ambigua su entrambe. Questa combinazione si applica grosso modo a un gran numero di artisti moderni, da Cézanne a De Kooning. Oggi, in effetti, la contraddizione fa parte del nostro vernacolo quotidiano, e noi la guardiamo con una rabbia passeggera, ironia e un’alzata di spalle perplessa. Tolleriamo la necessaria anestesia degli altri, e gli altri fanno lo stesso con noi. Il modernismo ha prodotto anche un altro archetipo: l’artista che, inconsapevole del suo ruolo minore, è convinto che l’arte possa trasformare la struttura sociale. Dopo che sono falliti, tendiamo a guardare i grandi ideali dall’alto al basso, ma la mentalità newyorkese liquida troppo facilmente gli idealisti/utopisti. In una società in cui le classi si rimescolano ogni due generazioni, le loro idee, elaborate in un contesto diverso, non passano. Una mentalità di tipo europeo, invece, permette tranquillamente di pensare ai problemi sociali e ai poteri di trasformazione dell’arte. Scrive Mondrian a proposito del suo progetto del 1926 per il “Salon de Madame B. à Dresden”: “Quando l’opera è spogliata di qualsiasi oggetto, il mondo non è separato dallo spirito, ma al contrario è posto in un’equilibrata opposizione con esso, poiché entrambi sono stati purificati. Ciò crea una perfetta unità tra i due opposti”. Dal momento che le pareti rappresentano una natura subordinata, chi occupa la stanza è a sua volta incoraggiato a trascendere la propria natura brutale. La sua stanza proponeva un’alternativa al white cube che il modernismo ha ignorato: “Con l’unificazione di architettura, scultura e pittura verrà creata una nuova realtà plastica; essendo puramente costruttive, esse concorreranno alla creazione di un ambiente non meramente utilitaristico o razionale, ma puro e completo nella sua bellezza”. Se le sale trasformate di Duchamp - ironiche, spiritose e infallibili - accettavano ancora la galleria come luogo legittimo del discorso, la stanza immacolata di Mondrian cercava al contrario di introdurre un nuovo ordine che l’avrebbe resa superflua. Mondrian e Malevic avevano in comune una fede mistica nel potere di trasformazione sociale dell’arte. Tutti e due erano candidi sotto il profilo politico. Tatlin, al contrario, era tutto impegno sociale e debordava di grandi progetti e di energia. El Lissitzkij fu probabilmente il primo preparatore-ideatore di un progetto espositivo. Nell’inventare la mostra moderna, ricostruì lo spazio museale: è a lui che dobbiamo il primo serio tentativo di incidere sul contesto in cui l’arte moderna e lo spettatore si incontrano. LA GALLERIA COME GESTO Una volta completata dal ritiro di tutto il contenuto manifesto, la galleria diventa il grado zero dello spazio, soggetto a infinite mutazioni. Quello compiuto da Yves Klein il 28 aprile 1958 alla Galerie Iris Clert fu forse un tentativo di cercare “un mondo senza dimensioni. E che non ha nome. Per capire come entrarci, bisogna abbracciarlo tutto. Eppure non ha 7 Gli imballaggi di Christo sono una sorta di parodia delle divine trasformazioni dell’arte. Si appropriano dell’oggetto, ma in modo imperfetto. L’oggetto è perduto e mistificato.Il museo, il contenitore, è a sua volta contenuto in qualcosa. L’opera riporta i temi estetici nel loro contesto sociale, per poi impegnarsi in un’operazione di mediazione politica. Una posizione deve essere presa non solo dal mondo dell’arte, ma anche dal pubblico del momento. La decisione di imballare il Museum of Contemporary Art era sintomo della profonda serietà di Christo e di Van der Marck, i quali avvertivano il malessere di un’arte spesso soffocata da un’istituzione che, come l’università, adesso tende ad assomigliare a un’azienda. Il progetto di certo mirava a raggiungere una più profonda comprensione di un tema importante degli anni 60 e 70: l’isolamento, la descrizione e la messa a nudo della struttura attraverso cui si fruisce l’arte, incluso ciò che accade nel processo. In quel momento la galleria è oggetto di una certa dose di ostilità puramente formale, anche se gli artisti la usavano perché tollerava la loro esistenza su due livelli, necessaria per sopravvivere. STUDIO E GALLERIA. IL RAPPORTO TRA IL LUOGO IN CUI L’ARTE SI CREA E LO SPAZIO IN CUI VIENE ESPOSTA Nel 1964 Lucas Samaras trasferì il contenuto della sua camera da letto-studio dal New Jersey a New York, più precisamente alla Green Gallery. Lì ricostruì la stanza e la espose come fosse un’opera, inserendo dunque lo spazio in cui l’arte viene creata in quello in cui viene esposta e venduta. Con il suo gesto Samaras costrinse studio e galleria a coincidere sovvertendo il loro tradizionale rapporto. Nel suo lavoro la galleria incorniciava lo studio, che a sua volta incorniciava il modo di vivere dell’artista, che a sua volta incorniciava gli attrezzi dell’artista, che a loro volta incorniciavano l’artista, che non c’era. Non siamo poi così distanti dall’inquietante aforisma di Oscar Wilde secondo cui essere naturali è una posa. La consapevolezza ci rende tutti artificiali. E così fa la galleria. Nella galleria tardo modernista gli osservatori sono in qualche modo artificiali, consapevoli di essere consapevoli: la consapevolezza cita se stessa. Uno dei compiti principali della galleria e separare l’opera dal suo artefice, mettendola in circolazione ai fini della vendita. Samaras ci rammenta che è l’artista a generare la propria mitologia, trasferendola poi allo studio che, per il pubblico, diventa il locus misterioso dell’atto creativo. Durante la performance Seedbed tenuta a New York nel 1972, Vito Acconci se ne stava nascosto sotto una pedana inclinata della Sonnabend Gallery con il chiaro proposito di masturbarsi per tutta la durata della mostra. Anche Acconci portava con sé il suo studio, vale a dire il suo corpo. Nell’arte europea possono essere individuati quattro celebri passaggi in cui lo studio diventa soggetto esplicito dell’opera, quattro tappe caratterizzate da una sempre maggior consapevolezza dello spazio dell’atelier e da una diversa configurazione sociale: Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, Las Meninas di Velasquez, l’Arte della pittura di Vermeer e L’Atelier del pittore di Courbet. L’artista che dipinge se stesso nell’atto di dipingere è uno strano circolo chiuso, in cui il pittore si presenta come il mezzo attraverso cui si realizza l’opera. L’atelier del pittore di Courbet è un manifesto in cui è riassunta, per citare le parole dell’autore, “la storia morale e fisica del mio studio”. Non si tratta tanto delle opere che si possono realizzare in questo studio quanto dei pensieri che lì si possono elaborare. Se questa rappresentazione del suo atelier conteneva un messaggio, il messaggio era socialista, la compassione profonda, l’egoismo grandioso, persino ottuso, i testimoni a destra inappuntabili, gli emblemi dell’oppressione a sinistra irreprensibili. Per la prima volta un dipinto asseriva in maniera moderna e politica che il pennello può essere più potente della penna. Guardando i due gruppi di peso morale diverso che si equilibrano nel fulcro centrale di curve, ciò che abbiamo davanti in termini di personaggi e temi di cui sono portavoce è un 10 romanzo di potenza balzachiana, nato da una mente onnivora dotata di grande forza e fiducia in se stessa, ma di perspicacia incostante. Sulla parte sinistra della tela di Courbet si trova un elemento che stuzzica la curiosità: il retro di un quadro. Cosa c’è sulla tela di cui vediamo soltanto il retro? Le arti visive implicano tutta una storia legata all’attenzione, o piuttosto al modo di rendere visibile ciò che è stato visto ma non guardato. La stessa distinzione si può fare riguardo a sentire e ascoltare. Nel 1967-1968 l’artista newyorkese Lowell Nesbitt visitò gli studi dei suoi colleghi in compagnia di un fotografo; pensava che gli atelier fossero “ritratti degli artisti in cui non c’erano né volti nei corpi”. Confrontando la fotografia dello studio di Nesbitt con la sua riproduzione su tela, si nota un tocco di ordine in più, ma in generale tutto è rimasto al suo posto. Nel dipinto sono incluse le macchie di colore sul muro. Siamo così abituati ad ad “artificare” che con un pizzico di ingenuità finiamo per conferire valore estetico a semplici macchie. Con Nesbitt e altri, l’artista è scomparso. Lo studio è diventato l’artista manqué. Il creatore è un intruso nel suo stesso spazio, dove ritorna con vari pretesti e travestimenti, come in “Study for skin 1, 1962, di Jasper Johns, il disegno in cui l’artista assente preme la faccia dall’interno contro la finestra dello studio-piano pittorico, lasciando solo tracce della sua presenza. Nel frammento terreno dell’atelier di Delacroix è implicita l’idea che l’immaginazione romantica possa svilupparsi soltanto in contesti di povertà e solitudine. Quando sono catturati dalla macchina fotografica, questi spazi frugali sembrano avere quasi un’aria sorpresa, come l’atelier di Picasso nel Bateau-Lavoir nel 1908. Non sanno ancora di essere documenti storici, ma rappresentano l’inizio della parabola che si concluderà con l’artista celebre nel suo studio da celebrità, diventando uno dei feticci principali del tardo modernismo. Lo studio come luogo in cui gli adepti di un culto decidono di vivere, formando una sorta di comune con tanto di leader, per sperimentare pratiche non ortodosse agli occhi dell’opinione popolare e produrre arte per gli sciocchi che la vogliono: sembra la descrizione dello studio che Warhol chiamo ironicamente “Factory”. All’estremo opposto, rispetto a Warhol, nella cultura dello studio a New York negli anni 60 troviamo Rauschenberg. Dal 1961 al 1965 egli fu animato da un appetito onnivoro e il suo studio fu una sorta di stomaco gigante che digeriva le scorpacciate di possibilità espressive del Novecento. Attraverso la serigrafia i due riuscirono a dominare qualsiasi soggetto. Lo studio di Rauschenberg era una sorta di comune animata da un’innocenza radicale, nel solco della tradizione dell’atelier come circolo sociale. Nel suo stile carismatico e arbitrario univa l’arte, la scienza e la danza con i collezionisti, il denaro, il mondo degli affari e la cultura della carta stampata nella piacevole promessa di una gratificazione immediata. Nel saggio “Fonction de l’atelier”, 1979, Daniel Buren fu il primo a riflettere e scrivere su quella che chiamava la “traversata pericolosa dallo studio” (che a suo parere era il luogo di appartenenza dell’opera) alla galleria o museo, la cui mancanza di specificità isola e rettifica la creazione artistica. Lo studio è sempre più o meno affollato da opere e si svuota periodicamente quando queste emigrano nella galleria. Esse giacciono in giro per la stanza, parcheggiate, ignorate in angoli nascosti, ammassate contro il muro, rimescolate con l’atteggiamento sprezzante concesso soltanto al loro creatore. Le opere, e lo studio stesso, esistono nel segno del processo, che a sua volta definisce la natura del tempo dello studio, molto diverso dal presente uniforme e bianco della galleria. Visitare un atelier era un cliché del modernismo che persiste ancora, con una sua etichetta, malintesi comici inclusi. L’ospite anticipa lo sguardo del pubblico e porta con sé una sorta di aura ambientale: collezionista, galleria, critico, museo, rivista. La visita può 11 rivelarsi un esaltante successo o un disastro, una “scoperta” profondamente desiderata o un’intrusione infernale. Un esempio perfetto di studio inteso come opera d’accumulazione è il Merzbau di Scwitters, iniziato ad Hannover nel 1923. Simile a una sorta di organismo industrioso, l’artista si spogliò del proprio esoscheletro a mano a mano che lo studio lo espelleva e limitava l’accesso ad un solo visitatore per volta. Questo genere di studio dell’accumulazione ha un valore didattico, perfino leggendario, rispetto alle installazioni postmoderne che ingombrano e offendono lo spazio bianco delle gallerie. Anche lo studio di Francis Bacon era un collage vivente, un “cumulo di compostaggio”, come lo definiva lui stesso. Ogni studio deve avere una qualche forma di scambio con l’esterno. Nel caso di Bacon non si trattava soltanto di fotografie e riproduzioni, ma anche di parole. Quella piccola stanza ingeriva e digeriva riviste e libri. Oggi ricostruito nella Hugh Lane Gallery di Dublino, lo studio rimane una tale presenza che scrutando dalla porta dalla finestra si ha l’impressione di vedere come in un’allucinazione la grande, inquieta e notoriamente pericolosa belva al suo interno. Il quartier generale di Mark Rothko era spoglio, funzionale, puritano, un autentico “studio povero”. Noto per la sua estrema serietà, l’artista ignorava le banalità e i disagi della vita quotidiana. Lo studio alto e in penombra sembrava un’anticamera della trascendenza, un’ambizione di cui era facile prendersi gioco ma che invece si sarebbe rivelata mortalmente seria. La luce declinava lentamente, con variazioni appena percettibili, finchè i bordi delle tele non si confondevano nell’oscurità. Lui adorava quel momento, mentre l’illuminazione più stabile e costante della galleria non gli era gradita perchè era convito che togliesse ai suoi dipinti la loro gamma di umori. Ben distante l’opera di Marcel Duchamp, che negli ultimi anni della sua vita espose uno studio vuoto per dimostrare che aveva abbandonato l’arte. Nessuno sapeva che Duchamp, che nessuno vide mai al lavoro, praticasse la sua arte segreta in uno studio segreto - e a giusto titolo, dal momento che Etant donnés, l’opera che ne emerse, riduceva il visitatore-spia a uno sguardo scopofilico attraverso un buco. Lo studio frugale, spogliato di tutto quanto non è strettamente necessario all’attività del pittore, trova la massima espressione ottocentesca bel celebre dipinto in cui Georg Kersting ritrasse Caspar David Friedrich nel suo atelier. Lo studio è assolutamente nudo: non contiene altro che un cavalletto, una sedia e un tavolo. Kersting, che dipinge Friedrich ispirato, con lo sguardo concentrato mentre osserva il quadro del quale a noi è mostrato solo il retro, ripiega il processo pittorico su se stesso e lo raddoppia. Un processo è contenuto nell’altro poichè Kersting sta praticando ciò che rappresenta. La pittura è presentata nella sua versione romantica, come celebrazione del processo pittorico in sè. Questo processo di progressiva “autonomia dell’arte” porterà all’isolamento dell’opera autosufficiente all’interno del white cube. La crescente autonomia dell’artista, ormai diventato una belva magica nel suo studio-guscio, finisce per trasferirsi, soprattutto con l’invenzione dell’astrazione, alla sua creazione custodita nello splendido isolamento della galleria immacolata. Quando l’artista “non vede niente dentro di sè”, diceva Friedrich, “dovrebbe evitare di dipingere anche ciò che vede fuori”. Nelle rappresentazioni della finestra dello studio, l’opposizione tra interno ed esterno risulta particolarmente potente. Altro tema ricorrente è quello che sottolinea l’atto del guardare: in “Donna alla finestra” del 1822, egli pone l’osservatore all’interno della tela, inventando un’estetica della schiena, parallela a quella del retro del dipinto. La finestra, aperta o chiusa, resta sempre un piano dotato di altezza e di ampiezza, ma non di spessore, simulando la potenza di una tela vuota. E’ una soglia e insieme una barriera. La finestra cieca, con la sua implacabile piattezza respinge lo sguardo, che rimbalza o scivola verso i bordi. 12
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