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Inside the white cube, Dispense di Storia dell'arte contemporanea

Inside the white cube riassunto

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 02/02/2023

Ginevra.deluca
Ginevra.deluca 🇮🇹

4.3

(9)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Inside the white cube e più Dispense in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! INTRODUZIONE: INSIDE THE WHITE CUBE Lo studio si incentra sugli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore: il contesto ha divorato l’oggetto, rubandogli la scena. L’eternità evocata dai nostri spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica, della bellezza immortale, del capolavoro: l’Occhio e lo e lo Spettatore sono tutto quello che rimane di chi è morto entrando nel white Cube. Nelle gallerie d’avanguardia tradizionali come nelle chiese non si parla con un tono normale, non si ride, mangia, beve, dorme né ci si sdraia poiché il white Cube promuove il mito secondo cui essenzialmente siamo esseri spirituali - l’Occhio è l’occhio dell’anima. La galleria priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte. Il white cube è l’archetipo dell’arte del ‘900-galleria-limbo. All’interno il campo di forze percettive è così potente che fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte su concentrano su di esse. L’oggetto è mezzo per le idee, già presenti nella galleria. Legge proiettiva del modernismo: più lo spazio invecchia, più il contesto diventa il contenuto. Il mondo deve restare fuori. OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO La galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte. Essa è isolata da tutto quello che potrebbe nuocere alla sua autovalutazione. In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori. La sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dell’estetica unica. Una volta fuori l’arte può scadere in una dimensione terrena. È l’oggetto introdotto nella galleria a inquadrare la galleria stessa e le sue leggi. Poiché il mondo esterno deve restare fuori in genere le finestre sono sigillate, i muri sono dipinti di bianco, il soffitto diventa fonte di luce. Il pavimento di legno è così tirato a lucido che si avverte distintamente il rumore dei passi oppure è coperto da un tappeto che attutisce quel suono, permettendo di riposare i piedi mentre gli occhi prendono d’assalto la parete. Il Salon in effetti definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Una galleria è un luogo dotato di un muro a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. La Galleria del Louvre di Morse sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mò di trono. Tralasciando l’accozzaglia di periodi e stili - per noi orrenda - quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della nostra comprensione. Tanto l’alto quanto il basso sono ingrate. In realtà ciascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato dal suo incombente vicino da una massiccia cornice esterna e al suo interno grazie a un sistema prospettico completo. La scoperta della prospettiva coincide con il successo del quadro da cavalletto che a sua volta conferma la promessa illusionistica propria della pittura. Visti da vicino i murali tendono a esibire apertamente i propri strumenti: i murali proiettano una rete di vettori ambivalenti e instabili rispetto ai quali l’osservatore cerca di allinearsi. Il quadro da cavalletto sulla parete, invece, gli indica immediatamente dove guardare. È il modello classico della prospettiva presentato nella sua cornice accademica a permettere che i quadri possano essere allineati come sardine. Nulla suggerisce che lo spazio all’interno del dipinto possa prolungarsi ai suoi lati. I dipinti che, focalizzandosi su un frammento indeterminato di paesaggio, spesso sembrano sbagliare soggetto, introducono l’idea di un occhio che scruta. Questo sguardo accelerato sfida il carattere assoluto della cornice rendendola una zona incerta. La separazione dei dipinti lungo la parete diventa inevitabile. Il fenomeno venne accentuato e in larga misura innescato dalla nuova scienza, o arte, dedicata a estrarre il soggetto dal suo contesto: la fotografia. La fotografia ha imparato subito a rifuggire le cornici pesanti e a montare una stampa su un foglio di cartone. La cornice poteva circondare il cartone solo dopo un intervallo neutro. Monet: uno dei tratti distintivi dell’impressionismo è il modo in cui la scelta casuale del soggetto attenua il ruolo strutturale del margine nel momento stesso in cui questo subisce pressioni da parte di uno spazio sempre meno profondo. La resa letterale del piano pittorico è un tema sconfinato. Il concetto di struttura del Cubismo manteneva lo status quo della pittura da cavalletto: i dipinti di questo movimento sono centripeti, si raccolgono verso il centro e si dissolvono verso il margine. Seurat è riuscito a definire molto meglio i limiti di una formulazione classica. Spesso i suoi bordi dipinti, composti da un agglomerato di puntini colorati, si dispiegano verso l’interno; a volte cosparge tutta la cornice di puntini n modo che l’occhio possa uscire dal dipinto, e rientrarvi, senza scosse. Nei grandi dipinti di Matisse non abbiamo quasi mai coscienza della cornice. Egli non privilegia il centro a discapito del margine o viceversa. L’allestimento. il modo di appendere un dipinto fornisce molte indicazioni su ciò che viene esposto. Esso esprime un’interpretazione e un giudizio di valore, ed è inconsapevolmente influenzato dal gusto e dalla moda. In epoca moderna, la prima occasione in cui un artista radicale creò uno spazio e vi espose i propri dipinti fu il Pavillon du Realisme personale che Courbet allestì all’esterno dell’Exposition del 1855: era la prima volta che un artista moderno si ritrovò a ideare il contesto della sua opera e, di conseguenza, a pronunciarsi sul valore di quest’ultima. Alla prima mostra del 1874 gli impressionisti appesero le loro tele una incollata all’altra, proprio come avrebbero fatto al Salon. Quando, in occasione della grande retrospettiva di Monet tenutasi al Museum of Modern Art nel 1960, William Seitz fece togliere le cornici, all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Quel minimo spessore del telaio equivale a un abisso formale. La pittura da cavalletto domina l’arte fino al Color Field e la liberalizzazione del piano pittorico è praticata contro i requisiti dell’illusionismo. Gli attacchi sferrati alla pittura negli anni 60 hanno trascurato di specificare che il problema non era la pittura generale, bensì il quadro da cavalletto. Il Color Field è rimasto una pittura da Salon: aveva bisogno di grandi pareti e di grandi collezionisti. Il Minimalismo, al contrario, ha riconosciuto le illusioni proprie della pittura da cavalletto e non si è fatta illusioni sulla società. Non si è alleato con la ricchezza e il potere, e il suo tentativo abortito di ridefinire il rapporto tra artista e le diverse istituzioni è rimasto perlopiù inesplorato. La pittura tardo modernista ha avanzato alcune ingegnose ipotesi su come spremere qualcosa di più da questo recalcitrante piano pittorico: oggetti piatti che si fondevano con la superficie letterale (le Flags di Jasper Johns, i Platform Painting di Cy Twombly) o la soluzione che consiste nell’incidere il piano pittorico (Fontana), fino a far sparire la tela e attaccare direttamente l’intonaco della parete. Il cubismo è stato un movimento conservatore in questo senso: ha prolungato la vitalità della pittura da cavalletto posticipandone il crollo. Nell’arte moderna la potente voce dell’opposizione fu quella di Henri Matisse, il quale formulò alla sua maniera, razionale e un pò in sordina, una visione del colore che di primo acchito paralizzò il grigiore cubista. In Art and Culture Clement Greenberg racconta come gli artisti newyorkesi abbiano puntato astutamente gli occhi su Matisse e Mirò: i dipinti dell’espressionismo astratto si sono liberati della cornice e gradualmente hanno cominciato a concepire il margine come un’unità strutturale attraverso cui il dipinto entrava in comunicazione con la parete. È qui che entrano in scena l’agente e il curatore. La maniera in cui entrambi, con la collaborazione dell’artista, esponevano queste opere, ha contribuito, tra la fine degli anni 40 e 50, alla definizione della nuova pittura. Nel corso degli anni 50 e 60 viene a delinearsi un nuovo tema di cui si acquista una progressiva consapevolezza: di quanto spazio ha bisogno un dipinto per, come si diceva allora, respirare? Una volta diventata una potenza estetica, la parete ha trasformato qualsiasi cosa vi fosse esposta. Le prime tele sagomate di Stella piegavano o tagliavano il margine a seconda delle esigenze della logica interna che le generava. La rottura del rettangolo confermò formalmente l’autonomia della parete, alterando una volta per tutte il concetto di spazio espositivo. L’OCCHIO E LO SPETTATORE Con l’avanzare dell’arte moderna, il contenuto della tela vuota è aumentato. Da Cézanne al Color Field, la pittura tradizionale scorre lungo la parete, la misura in base alle coordinate verticali e orizzontali, rispetta la forza di gravità e mantiene l’osservatore in piedi. Quando Picasso incollò su un supporto quel pezzo di tela cerata si poteva pensare che fosse un gesto tardivo. Adesso quell’opera è il collage e segna un passaggio irrevocabile attraverso il quale dallo spazio del dipinto si entra nella dimensione laica dello spazio dell’osservatore. Il cubismo analitico non ha spostato di lato il piano pittorico, ma lo ha reso sporgente. Alcuni frammenti di cubismo analitico, allora, possono già essere considerati una sorta di collage manqué. Si verificò un cambiamento: i molteplici pdf del dipinto si riversano nella stanza con l’osservatore. Nella dimensione sacra del novecento, lo spazio, sono coinvolte tuttavia sia l’astrazione sia la realtà. Lo spazio non è solo il luogo in cui avvengono le cose: sono le cose a far nascere lo spazio. Esso si è concretizzato non solo nel quadro, ma anche nel luogo in cui l’opera è appesa, cioè la galleria che, con l’avvento del postmodernismo, si unisce al piano pittorico come unità del discorso. Se il piano della tela definitiva la parete, il collage inizia a definire l’intero spazio. Con l’arte moderna arriva lo Spettatore, quando è sparita la prospettiva. Egli non si limita ad alzarsi a sedersi a comando, ma arriva a sdraiarsi e perfino a strisciare quando il modernismo l’opprime con le sue ultime umiliazioni. Insieme a lui l’Occhio, che può essere guidato, ma con meno fiducia dello Spettatore che, a differenza dell’altro, è desideroso di compiacere. L’Occhio è l’unico abitante dell’asettica fotografia dell’installazione. Lo spettatore è assente. L’arte su cui l’occhio si applica in modo esclusivo è quella che preserva il piano pittorico: la corrente del modernismo. Tutto il resto, ciò che è impuro, favorisce lo spettatore. Quando lo spettatore è Kurt Scwitters, ci ritroviamo in uno spazio che possiamo occupare soltanto attraverso i racconti dei testimoni oculari, lasciando scorrere lo sguardo sulle fotografie che ci illudono, ma non confermano l’esperienza: il Merzbau di Hannover. I testimoni non dicono nulla su se stessi all’interno del Merzbau; lo guardano ma non fanno l’esperienza di starci dentro. L’Environment sarebbe diventato un genere quasi quarant’anni dopo. Se la sua opera aveva un principio organizzativo questo era la città, che forniva anche i materiali. Era un’opera austera a sinistra. Nacque da uno studio, cioè spazio, da materiali, da un’artista e da un processo. Lo spazio si estese e lo stesso accadde al tempo. Era una costruzione mutevole, conteneva reliquiari, era un racconto autobiografico di viaggi in città. Ma qua c’è qualcosa di involutivo e rovesciato. I concetti a cui è ispirato sono caratterizzati da una follia. La natura sacramentale della trasformazione ha un legame con l’idealismo romantico e nella sua fase espressionista si mettere alla prova, compiendo operazioni di salvataggio. All’inizio il piano pittorico è uno spazio in trasformazione idealizzato, dove la trasformazione degli oggetti è contestuale. Una volta isolati, gli oggetti trovano il loro contesto nella galleria. Alla fine essa stessa diventa una forza di trasformazione. È difficile eliminare l’idealismo dall’arte, perché anche la galleria vuota diventa una forma di art manqué che lo preserva. Il Merzbau di Schwitters può essere il primo esempio di galleria intesa come camera di trasformazione, da cui l’Occhio convertito può colonizzare il mondo. Le declamazioni di Schwitters infrangevano la prassi della vita comune, quali parlare e tenere conferenze. I pezzi del Merzbau sono assemblati in una data situazione, un ambiente, da cui ricavano energia. L’indeterminatezza del contesto favorisce lo sviluppo di nuove convenzioni, che in teatro verrebbero soffocate da quella del recitare. I primi happenings si tennero in spazi casuali e non convenzionali, tra cui depositi, fabbriche abbandonate, vecchi negozi, occupando quindi un prudente spazio intermedio tra il teatro d’avanguardia e il collage. Concepivano lo spettatore come una sorta di collage, perché tendeva ad occupare tutto l’interno. Sebbene nella maggior parte degli happenings non si parlasse molto, essi brulicavano di parole. Words, per esempio, fu il titolo di un Environment del 1961 con cui Allan Kaprow circondò lo spettatore: conteneva nomi circolanti - persone - che erano invitati a scrivere parole su fogli di carta da attaccare alle pareti e ai pannelli divisori. L’avvento dell’enviroment è tardivo. Nel 1926, mentre Schwitters lavora al suo Merzbau, El Lissitskij progetta uno spazio espositivo moderno ad Hannover, però questi gesti non derivano dal collage. L’assemblaggio e il collage ambientale si chiariscono nel momento in cui il tableau viene accettato come genere. A quel punto, per esempio con Segal e Kienholz, lo spazio illusionistico del quadro tradizionale diventa reale nella scatola della galleria. Il desiderio di rendere concreta perfino l’illusione è un segno distintivo dell’arte degli anni 60. Con il tableau la galleria diventa un bar o una stanza d’ospedale (Kienholz), una stazione di servizio (Segal), una camera da letto (Oldemburg), un soggiorno (Segal), un vero studio (Samaras). Lo spazio espositivo cita i tableaux e li rende arte, proprio come la loro rappresentazione diventa arte all’interno dello spazio illusorio di un quadro tradizionale. Quando si trova all’interno di un tableau lo spettatore ha la sensazione che non dovrebbe essere lì; tra le figure, e tra queste e il loro ambiente, c’è una sorta di vuoto lento e astratto. Lo spettatore, avvicinandosi, si sente un intruso. L’incontro con un Hanson o un DeAndrea è sconcertante: viola il dei trionfi del modernismo: uno sviluppo al tempo stesso commerciale, estetico e tecnologico. L’arte si mette sempre più a nudo, fino a offrire allo sguardo un misto di produzioni formaliste e frammenti della realtà esterna. La parete immacolata della galleria è impura. Comprende commercio ed estetica, artista e pubblico, etica e opportunismo. È l’immagine della società che la sostiene, e in questo senso propone una superficie ideale su cui far rimbalzare le nostre paranoie. Ma può essere compresa. E questa comprensione la trasforma, perché il suo contenuto è costituito da proiezioni mentali basate su assunti non formulati. La parete è i nostri assunti. Ed è fondamentale che ciascun artista conosca questo contenuto e il modo in cui incide sulla sua opera. Nel bene o nel male, il white cube è l’unica grande convenzione attraverso cui l’arte viene fruita. Ciò che lo rende stabile è la mancanza di alternative. Esso simboleggia piuttosto degnamente la preservazione di quello che la società trova oscuro, privo di importanza e senza utilità. È stato una specie di incubatrice di idee radicali che lo avrebbero abolito. All’epoca del modernismo, lo spazio espositivo non era percepito come un problema; all’artista non si rendeva conto che non stava accettando soltanto un rapporto con il mercante. E, se guardava un po’ oltre, accettare un contesto sociale su cui non poteva incidere granché era una dimostrazione di buon senso. Di fronte alle grandi questioni morali e culturali, l’individuo è impotente ma non muto. Le sue armi sono l’ironia, la rabbia, l’arguzia, il paradosso, la satira, il distacco, lo scetticismo. La sua è una mentalità senza fissa dimora, empirica, sempre pronta a sperimentare, consapevole di sé e quindi della storia, ma ambigua su entrambe. Questa combinazione si applica grosso modo a un gran numero di artisti moderni, da Cézanne a De Kooning. Oggi, in effetti, la contraddizione fa parte del nostro vernacolo quotidiano, e noi la guardiamo con una rabbia passeggera, ironia e un’alzata di spalle perplessa. Tolleriamo la necessaria anestesia degli altri, e gli altri fanno lo stesso con noi. Il modernismo ha prodotto anche un altro archetipo: l’artista che, inconsapevole del suo ruolo minore, è convinto che l’arte possa trasformare la struttura sociale. È una specie di socialista autoritario. Dopo che sono falliti, tendiamo a guardare i grandi ideali dall’alto al basso, ma la mentalità newyorkese liquida troppo facilmente gli idealisti/utopisti. In una società in cui le classi si rimescolano ogni due generazioni, le loro idee, elaborate in un contesto diverso, non passano. Una mentalità di tipo europeo, invece, permette tranquillamente di pensare ai problemi sociali e ai poteri di trasformazione dell’arte. Scrive Mondrian a proposito del suo progetto del 1926 per il Salon de Madame B. à Dresden: Quando l’opera è spogliata di qualsiasi oggetto, il mondo non è separato dallo spirito, ma al contrario è posto in un’equilibrata opposizione con esso, poiché entrambi sono stati purificati. Ciò crea una perfetta unità tra i due opposti. Dal momento che le pareti rappresentano una natura subordinata, chi occupa la stanza è a sua volta incoraggiato a trascendere la propria natura brutale. La sua stanza proponeva un’alternativa al white cube che il modernismo ha ignorato: Con l’unificazione di architettura, scultura e pittura verrà creata una nuova realtà plastica; essendo puramente costruttive, esse concorreranno alla creazione di un ambiente non meramente utilitaristico o razionale, ma puro e completo nella sua bellezza. Se le sale trasformate di Duchamp ironiche, spiritose e infallibili accettavano ancora la galleria come luogo legittimo del discorso, la stanza immacolata di Mondrian cercava al contrario di introdurre un nuovo ordine che l’avrebbe resa superflua. Mondrian e Malevic avevano in comune una fede mistica nel potere di trasformazione sociale dell’arte. Tutti e due erano candidi sotto il profilo politico. Tatlin, al contrario, era tutto impegno sociale e debordava di grandi progetti e di energia. El Lissitzkij fu probabilmente il primo preparatore-ideatore di un progetto espositivo. Nell’inventare la mostra moderna, ricostruì lo spazio museale: è a lui che dobbiamo il primo serio tentativo di incidere sul contesto in cui l’arte moderna e lo spettatore si incontrano. LA GALLERIA COME GESTO Una volta completata dal ritiro di tutto il contenuto manifesto, la galleria diventa il grado zero dello spazio, soggetto a infinite mutazioni. I gesti che la attivano in ogni sua parte possono constringere il suo contenuto a manifestarsi. Quel contenuto va in 2 direzioni: esprime opinioni sull’arte al suo interno: e commenta il contesto più ampio che lo contiene. Quello compiuto da Yves Klein il 28 aprile 1958 alla Galerie Iris Clert fu forse un tentativo di cercare un mondo senza dimensioni. E che non ha nome. Per capire come entrarci, bisogna abbracciarlo tutto. Eppure non ha limiti (quello di lui che salta da una finestra del primo piano). I gesti d’avanguardia hanno due tipi di pubblico: quello che era presente e quello, la maggior parte di noi, che non c’era. Molte volte il pubblico originale è irrequieto, si annoia per essere costretto a presenziare a un momento di cui non ha una percezione completa; noi invece, che siamo distanti dall’evento, lo comprendiamo meglio. Tornando da Klein. Il suo gesto era stato preceduto da una prova generale compiuta nel 1957. L’artista aveva laciato vuota una piccola sala per testimonariare la presenza della sensibilità pittorica allo stato di materia prima. Quella presenza fu una delle intuizioni più fatali dell’arte del dopoguerra. La mostra si chiamava Le Vide ma il titolo completo, che sviluppava l’idea dell’anno prima, era ancora più eloquente: L’isolamento della sensibilità allo stato di materia prima stabilizzato dalla sensibilità pittorica. Al vernissage c’erano 3 milapersone. La galleria si presentava come sito e soggetto al tempo stesso, ma accoglieva in sé un gesto trascendente. La galleria diventava l’immagine del sistema mistico di Klein. Klein aveva toccato lo spazio attraverso il volo dello Sputiik del 1957, circordato da un alone mistico. Le sue idee erano un mix fra arte e kitsch. Le sue creazione erano generose e offriva se stesso agli altri e gli altri lo consumavano. Eppure, alla pari di Piero Manzoni, anch’egli fu un primo motore, molto europeo, traboccante di disgusto metafisico nei confronti del materialismo borghese all’ultima moda, che voleva fare incetta della vita come se si trattasse di un bene di proprietà, alla stregua di un divano. I suoi gesti col passar del tempo sembreranno sempre più riusciti. Fu il primo di una serie di gesti che hanno usato la galleria come controparte dialettica. La galleria è il luogo in cui si conducono lotte di potere attraverso la farsa, la commedia, l’ironia, la trascendenza e, naturalmente, il commercio. Si tratta di uno spazio che cavalca le ambiguità, le ipotesi inesplorate e, al pari di suo padre, il museo, la retorica che baratta il disagio della piena consapevolezza con i vantaggi della permanenza e dell’ordine. Nell’ottobre del 1960 Le Vide di Klein fu riempito dal Plein di Arman, un cumulo di immondizia, detriti e scarti. Usa la galleria come veicolo di una metafora: riempire di rifiuti lo spazio della trasformazione e poi chiedergli di digerirlo. Per la prima volta nella breve storia dei gesti da galleria, il visitatore rimane fuori da quest’ultima. Lo spazio espositivo e il suo contenuto sono inseparabili come il piedistallo e l’opera d’arte. Il percorso artistico dei nuovi realisti stava giungendo a un denoument cruciale, ma venne interrotto dalle dinamiche internazionali dell’arte. Nella lotta per la conquista dell’attenzione internazionale, la francesità diventò uno svantaggio e i giovani artisti americani si convinsero che la tradizione a cui si ispiravano fosse fallita. Gli americani contrastarono la haute cuisine europea sfruttando il proprio concetto di semplicità. I nuovi realisti avevano una percezione più sottile della politica della galleria. La galleria europea però aveva una storia politica che risalga almeno al 1848 e in quel momento era matura come un altro simbolo del commercio europeo. Nel 1961 Daniele Spoerri si accordò con il direttore della galleria Addi Koepke di Stoccolma: lui e sua moglie avrebbero venduto prodotti alimentari appena acquistati in un negozio al prezzo corrente di mercato. Ogni articolo, su cui era posto il timbro Attention: oeuvre d’art era accompagnato da un certificato di autenticità firmato dall’artista. Una cosa simile sarebbe potuta accadere sull’asse Milano-Parigi-New York? Il gesto newyorkese aveva una natura più amabile. Negli anni 60 si poteva entrare nella Leo Castelli Gallery e vedere Ivan Karp che teneva a bada con un bastone i cuscini argentati di Andy Warhol che fluttuavano nello storico spazio dell’uptown. Quest’opera d’arte discreta, mutevole e silenziosa si prendeva gioco delle urgenze cinetiche che ronzavano e sferragliavano nelle gallerie dell’epoca, rivendicava un’origine nobile, lo spazio all over, e coniugava felicità e chiarezza didattica. I visitatori sorridevano come sollevati da una grossa responsabilità. Quali che fossero i suoi eccessi, l’avanguardia americana non ha mai attaccato il concetto di galleria, se non per un breve periodo al fine di promuovere il trasferimento all’aperto (Land Art), che poi comunque veniva fotografato e riportato nella galleria per essere venduto. In America il materialismo è un bisogno spirituale sepolto nelle profondità di una psiche che conquista i suoi oggetti dal nulla e non ci rinuncia. L’uomo che si è fatto da sé e l’oggetto fatto dall’uomo sono cugini. La Pop Art lo ha capito: quel suo combinare confusamente indulgenza e critica era lo specchio dei piaceri materiali della borghesia, potenziati da un piccolo bisogno spirituale. Il visitatore escluso, costretto ad ammirare la galleria e non l’arte, diventò a sua volta un tema. Nell’ottobre del 1968, l’artista europeo più sensibile alle politiche dello spazio espositivo, Daniel Buren, sigillò la galleria Apollinaire di Milano per tutta la durata della mostra, incollando alla porta strisce verticali bianche e verdi su stoffa. La sua estetica è il prodotto di due elementi: le strisce e la loro collocazione. Le sue opere hanno per tema la volontà di incoraggiare i sistemi del mondo a esprimersi attraverso lo sprone costante dell’artista, il suo segno distintivo, monografico e catalizzatore. Le strisce rappresentano un aspetto riconoscibile dell’avanguardia europea: un’intelligenza fredda, politicamente sofisticata, capace di analizzare le convenzioni sociali, che pur umiliandola consente la creazione artistica. Nell’aprile dello stesso anno, Buren presentò la sua Proposition didactique, dove ricoprì una parete della galleria vuota di strisce bianche e verdi. 200 cartelloni con fasce simili erano collocate in giro per la città. Fuori dalla galleria, due uomini sandwich sfilavano con cartelloni, anch’essi a strisce. Le strisce di Buren chiusero la galleria nello stesso modo in cui gli ispettori sanitari chiudono i locali infetti. La galleria è considerata un sintomo di un corpo sociale disturbato. L’arte è contenuta anche da un’altra convenzione sociale, chiamata stile. le strisce che identificano una personalità con un motivo decorativo, e il motivo con l’arte, imitano il modo di operare dello stile. questo è costante e lo sprone costante di Buren ne rappresenta una grottesca parodia. Attraverso lo stile tutte le culture comunicano qualcosa. Questa idea di un eperanto formalista può essere considerato il pendant del white cube privo di identità. All’interno delle gallerie aspaziali l’arte rappresenta, un sistema di fede e commercio. Buren conmprende questa questa forma di integrazione sociale come può l’artista contrastare la società quando la sua arte appartiene a essa? Sul finire degli anni 60 e gli anni 70 sono state molte l opere d’arte su questo tema. Le risposte fornite a questo quesito non si erano dimostrate indifferenti alla brama assimilatrice della galleria. Ciò che ebbe luogo fu un dibattito sulla percezione e suoi valori di valore che fu sempre contro l’establishment. La concettualizzazione della galleria raggiunse il suo apice un anno dopo. Nel dicembre del 1969 su Art & Project Bulletin n. 17 Robert Barry scrisse: Durante la mostra la galleria rimarrà chiusa. L’idea venne realizzata presso la Eugenia Butler Gallery di Los Angeles. Per tre settimane la galleria venne chiusa, mentre all’esterno era affisso un cartello con la stessa dicitura. Nella galleria chiusa lo spazio invisibile, abbandonato sia dall’occhio sia dallo spettatore, può essere penetrato solo dalla mente. E nel momento in cui inizia a contemplare lo spazio, essa comincia a rimuginare sulla cornice, il piedistallo e il collage: le tre energie che, rilasciate dentro il suo biancore immacolato, lo rendono in tutto e per tutto un’opera d’arte. Di conseguenza tutto ciò che si vede in quello spazio risulta di intralcio alla percezione, provocando un ritardo durante il quale si proietta e si vede l’aspettativa dello spettatore, vale a dire la sua idea dell’arte. Negli anni 60 questo raddoppiamento dei sensi diventò un segno tipico del periodo. Esso consente alla vista di vedere se stessa. Il fenomeno di vedere la vista si nutre del vuoto: l’occhio e la mente vengono riflessi per attivare i loro stessi processi. Gli anni 60 si preoccuparono di più di indebolire le barriere che x tradizione separavano colui che percepisce da ciò che viene percepito, l’occhio e l’oggetto. L’avventura minimalista ha ridotto la sollecitazione, incrementandone la risonanza all’interno del sistema. In questo scambio, la metafora è morta. Il contenitore, il white cube, è stato obbligato a rivelare parte dei suoi programmi segreti e questa parziale demitizzazione ha avuto rilevanti conseguenze sull’idea di installazione. Un’altra reazione è consistita nel trasferire letteralmente la vita o la natura all’interno della galleria; pensiamo ai cavalli di Jannis Kounellis che in modo intermittente hanno occupato gli spazi dell’arte a partire dal 1969 oppure ai pesci condannati a morire esposti da Newton Harrison alla Hayward Gallery nel 1971. In questi casi estremi le trasformazioni erano più alchemiche che metaforiche, e riguardavano più lo spettatore che l’artista. Quest’ultimo, anzi, si faceva interprete di una sorta di de-creazioni. Trasformando ciò che si trova nella galleria diventiamo creatori. In questo processo anche noi siamo artificati, estranei all’opera anche se la trasformiamo. L’arte diventa viva e purifica il pubblico, la cui coscienza fungere da agente e da medium. Nella galleria chiusa di Barry, per tre settimane lo spazio si agita e borbotta; il white cube, adesso un cervello in una ciotola, riflette. Gli occupanti della galleria vuota hanno assunto la condizione dell’arte, sono diventati oggetti d’arte e si sono ribellati contro quello status. Nel giro di un’ora si è verificato un transfert dall’oggetto (dov’è l’arte?) Al soggetto (io). La rabbia dell’artista viene sostituita dalla rabbia del pubblico nei confronti dell’artista che, secondo lo scenario classico del transfert dell’avanguardia, conferisce autenticità alla rabbia del primo nei confronti dei visitatori. L’apoteosi si raggiunse a Chicago nel gennaio del 1969, quando a Christo venne chiesto di realizzare una mostra al nuovo Museum of Contemporary Art. L’artista si assunse il compito topologico di impacchettarlo all’interno e all’esterno. Il lavoro comportò problemi pratici non da poco. Di certo si trattò della più audace collaborazione tra un artista e un direttore di museo di quegli anni. Van der Marck diventò co-creatore dell’opera: offrire il museo come oggetto d’analisi era un gesto perfettamente conforme alla pratica modernista di verificare le premesse di ogni ipotesi e sottoporle a discussione. Non rientrava, però, nella tradizione della curatela americana, tanto meno in quella dei consigli di amministrazione di un museo. Gli imballaggi di Christo sono una sorta di parodia delle divine trasformazioni dell’arte. Si appropriano dell’oggetto, ma in modo imperfetto. L’oggetto è perduto e mistificato. Il museo, il contenitore, è a sua volta contenuto in qualcosa. L’opera riporta i temi estetici nel loro contesto sociale, per poi impegnarsi in un’operazione di mediazione politica. Una posizione deve essere presa non solo dal mondo dell’arte, ma anche dal pubblico del momento. La decisione di imballare il Museum of Contemporary Art era sintomo della profonda serietà di Christo e di Van der Marck, i quali avvertivano il malessere di un’arte spesso soffocata da un’istituzione che, come l’università, adesso tende ad assomigliare a un’azienda. Il progetto di certo mirava a raggiungere una più profonda comprensione di un tema importante degli anni 60 e 70: l’isolamento, la descrizione e la messa a nudo della struttura attraverso cui si fruisce l’arte, incluso ciò che accade nel processo. In quel momento la galleria è oggetto di una certa dose di ostilità puramente formale, anche se gli artisti la usavano perché tollerava la loro esistenza su due livelli, necessaria per sopravvivere. STUDIO E GALLERIA. IL RAPPORTO TRA IL LUOGO IN CUI L’ARTE SI CREA E LO SPAZIO IN CUI VIENE ESPOSTA Nel 1964 Lucas Samaras trasferì il contenuto della sua camera da letto-studio dal New Jersey a New York, più precisamente alla Green Gallery. Lì ricostruì la stanza e la espose come fosse un’opera, inserendo dunque lo spazio in cui l’arte viene creata in quello in cui viene esposta e venduta. Con il suo gesto Samaras costrinse studio e galleria a coincidere sovvertendo il loro tradizionale rapporto. Nel suo lavoro la galleria incorniciava lo studio, che a sua volta incorniciava il modo di vivere dell’artista, che a sua volta incorniciava gli attrezzi dell’artista, che a loro volta incorniciavano l’artista, che non c’era. Non siamo poi così distanti dall’inquietante aforisma di Oscar Wilde secondo cui essere naturali è una posa. La consapevolezza ci rende tutti artificiali. E così fa la galleria. Nella galleria tardo modernista gli osservatori sono in qualche modo artificiali, consapevoli di essere consapevoli: la consapevolezza cita se stessa. Uno dei compiti principali della galleria e separare l’opera dal suo artefice, mettendola in circolazione ai fini della vendita. Samaras ci rammenta che è l’artista a generare la propria mitologia, trasferendola poi allo studio che, per il pubblico, diventa il locus misterioso dell’atto creativo. Durante la performance Seedbed tenuta a New York nel 1972, Vito Acconci se ne stava nascosto sotto una pedana inclinata della Sonnabend Gallery con il chiaro proposito di masturbarsi per tutta la durata della mostra. Anche Acconci portava con sé il suo studio, vale a dire il suo corpo. Si potrebbe dire che lo spostamento dell’attenzione che ebbe luogo nel tardomodernismo dall’opera all’artista, il cui atto creativo è incentrato sul proprio apparato mitologico, alla fine risulta valido anche per quella che Rewald e Peppiat chiamano la camera dell’immaginazione, vale a dire lo studio. Nell’arte europea possono essere individuati quattro celebri passaggi in cui lo studio diventa soggetto esplicito dell’opera, quattro tappe caratterizzate da una sempre maggior consapevolezza dello spazio dell’atelier e da una diversa configurazione sociale: Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, Las Meninas di Velasquez, l’Arte della pittura di Vermeer e L’Atelier del pittore di Courbet. L’artista che dipinge se stesso nell’atto di dipingere è uno strano circolo chiuso, in cui il pittore si presenta come il mezzo attraverso cui si realizza l’opera. L’atelier del pittore di Courbet è un manifesto in cui è riassunta, per citare le parole dell’autore, la storia morale e fisica del mio studio. Non si tratta tanto delle opere che si possono realizzare in questo studio quanto dei pensieri che lì si possono elaborare. Se questa rappresentazione del suo atelier conteneva un messaggio, il messaggio era socialista, la compassione profonda, l’egoismo grandioso, persino ottuso, i testimoni a destra inappuntabili, gli emblemi dell’oppressione a sinistra irreprensibili. Per la prima volta un dipinto asseriva in maniera moderna e politica che il pennello può essere più potente della penna. Guardando i due gruppi di peso morale diverso che si equilibrano nel fulcro centrale di curve, ciò che abbiamo davanti in termini di personaggi e temi di cui sono portavoce è unromanzo di potenza balzachiana, nato da una mente onnivora dotata di grande forza e fiducia in se stessa, ma di perspicacia incostante. Sulla parte sinistra della tela di Courbet si trova un elemento che stuzzica la curiosità: il retro di un quadro. Cosa c’è sulla tela di cui vediamo soltanto il retro? Le arti visive implicano tutta una storia legata all’attenzione, o piuttosto al modo di rendere visibile ciò che è stato visto ma non guardato. La stessa distinzione si può fare riguardo a sentire e ascoltare. Le rappresentazioni degli atelier ci consentono l’accesso a spazi privilegiati. Nel 1967-1968 l’artista newyorkese Lowell Nesbitt visitò gli studi dei suoi colleghi in compagnia di un fotografo; pensava che gli atelier fossero ritratti degli artisti in cui non c’erano né volti nei corpi. Confrontando la fotografia dello studio di Nesbitt con la sua riproduzione su tela, si nota un tocco di ordine in più, ma in generale tutto è rimasto al suo posto. Nel dipinto sono incluse le macchie di colore sul muro. Nel ritrarre l’atelier di Oldenburg mise un po’ a posto il disordine che aveva cercato, ma si attenne con fermezza al proposito di lasciare ogni cose nel punto esatto in cui l’aveva trovata. Questa idea del disordine si sarebbe poi estesa alla galleria con lo sviluppo di un altro genere: la distribuzione e/o l’accumulo di elementi sul pavimento che, diventò sensibile quanto la superficie della tel. Con Nesbitt e altri, l’artista è scomparso. Lo studio è diventato l’artista manqué. Il creatore è un intruso nel suo stesso spazio, dove ritorna con vari pretesti e travestimenti, come in Study for skin 1, 1962, di Jasper Johns, il disegno in cui l’artista assente preme la faccia dall’interno contro la finestra dello studio-piano pittorico, lasciando solo tracce della sua presenza. Le sue opere abbondando di riferimenti all’artista assente, che riappare in pezzi separati, mentre la parete del suo atelier trattiene pennellate marginali e prove di colore,
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