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Intersezionalità teorie e pratiche tra diritto e società, Appunti di Antropologia Culturale

Riassunto del libro Intersezionalità: teorie e pratiche tra diritto e società

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 13/03/2024

vanessa-andreoletti
vanessa-andreoletti 🇮🇹

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Scarica Intersezionalità teorie e pratiche tra diritto e società e più Appunti in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! INTERSEZIONALITA’: TEORIE E PRATICHE TRA DIRITTO E SOCIETA’ INTRODUZIONE: Intersectionality: in italiano traducibile con 'intersezionalità', è diventato un termine sempre più diuso, nelle scienze sociali e giuridiche, quando si arontano temi come l'identità, la dierenza, la diversità, l'uguaglianza. Il numero di studi teorici che approfondiscono lo "statuto dell'intersezionalità" - come dispositivo euristico, prospettiva, teoria o paradigma - o che adottano una lente intersezionale nelle ricerche empiriche è aumentato davvero considerevolmente da quando Kimberlé W. Crenshaw ha coniato il termine ed elaborato il concetto nel 1989 (con particolare riferimento alle donne nere nel contesto statunitense): a distanza di trent'anni, la studiosa è arrivata a parlare di "un campo di studi intersezionali". Messo in discussione il paradigma del diritto come neutro e neutrale rispetto al genere e smascherato il soggetto neutro a cui esso sembrava fare riferimento - basato, in realtà, sul parametro del titolare di diritti "maschile", eterosessuale e di classe media - l'intersezionalità infrange un'altra convinzione, ossia quella di "un soggetto-donna falsamente universale e neutrale", necessariamente accomunato da biografie e istanze simili o addirittura identiche. La prospettiva intersezionale, nelle sue varie elaborazioni, contribuisce ad arontare il tema delle dierenze all'interno di gruppi costruiti socialmente e percepiti come omogenei dall'esterno, a partire dal gruppo "donne". Prendendo in considerazione l'intersezione tra più categorie sociali e l'intersezione tra strutture sociali, essa rimette al centro dell'analisi i soggetti la cui identità è caratterizzata da tali "incroci", insieme alla loro epistemologia. Si può aermare che l'intersezionalità consista in un progetto multivocale di "contestualizzazione" del soggetto di diritto, in cui si assiste all'"esplosione del molteplice" e in cui risaltano le dierenze (di classe, di razza, ecc.) tra persone "in carne e ossa", "situate all'interno di relazioni di potere asimmetriche. L’opera di decostruzione della donna come membro di un gruppo concepito in modo essenzialistico viene fatta rientrare nella terza ondata di femminismo. A dierenza dei progetti di decostruzione influenzati soprattutto dalle teorie postmoderne e post-strutturaliste, essa non si incentra tanto sul rifiuto delle categorie dell'identità, quanto invece sulla riconfigurazione delle stesse ai loro punti di intersezione. Si tratta, quindi, di rivisitare tali caratteristiche dell'identità che, determinate socialmente e prive di valenza ontologica, si costruiscono 1 reciprocamente e continuamente in relazione ai discorsi dominanti, alle strutture sociali e alle relazioni di potere, i quali pure vengono concepiti simultaneamente. Nel contesto statunitense, il dibattito "implicito" sulle intersezioni (in particolare tra razza e genere) ha radici più lontane rispetto all'elaborazione di Crenshaw e anche a quello europeo, riconducibili alla fine del Diciannovesimo secolo. In Italia, per esempio, "anche sulla scia dei rapporti internazionali stabiliti dal nascente movimento femminista, nei primi anni Settanta forte sembrava la tensione a considerare la cosiddetta 'comunanza di oppressione' tra donne ed altri gruppi oppressi, seppure in termini analogicie non di ri-articolazione teorica. In seguito, la progressiva centralità assunta dalla dierenza di genere, in particolare nella forma proposta dal pensiero della dierenza sessuale, rende problematica l'intersezione di quest'ultima con 'altre dierenze'". Nel contesto europeo, il superamento di questo approccio analogico alle dierenze e lo sguardo alle "minoranze nelle minoranze" si sono svolti per lungo tempo attraverso studi non intersezionali o "implicitamente intersezionali", interrogandosi su temi cruciali per la riflessione giusfilosofica e sociologico-giuridica. In Italia ciò è avvenuto, per lo studio del rapporto tra genere e culture (e dunque, anche, tra femminismo e multiculturalismo), soprattutto con riferimento ai diritti delle donne nella società plurale; per la focalizzazione della tensione tra uguaglianza, dierenze e discriminazioni; nonché, da ultimo, per diverse indagini attorno alla nozione di vulnerabilità. Solo più recentemente in molti Stati europei si è diusa in modo "esplicito" la proposta di Crenshaw di non considerare le categorie come "esclusive o separabili" ma come intersecantisi. Va anche precisato che l'intersezionalità ha attirato molti sospetti e critiche negli anni un po' ovunque e si discute se si tratti semplicemente di un termine in voga, se sia diventato uno dei tanti termini mainstream, ormai svuotati di senso e depoliticizzati e se, quindi, il termine stesso e il suo significato siano vittime del cosiddetto "blackboxing eect", che si verifica quando "i concetti diventano strumenti retorici, a cui le persone si riferiscono senza riflettere sulle relative implicazioni e contesti". Se così fosse, il rischio sarebbe che il termine 'intersezionalità' venga usato in "modo decontestualizzato", alla stregua di un "token", che non tiene conto della sua essenza e del suo portato politico (e giuridico) originario. D'altra parte, il ricorso all'intersezionalità si è diuso molto nella discussione pubblica, considerando l'elevato numero di blog o di commenti sui social network che vi fanno riferimento, ed essa è stata ripresa anche in opere cinematografiche o cabarettistiche che tentano di trasmetterne in modo semplice e immediato il significato. 2 svelare molti malintesi e lacune riguardanti le istanze di giustizia sociale delle donne nere davanti alla legge”. Etimologicamente, ‘intersectionality’ è un neologismo che deriva dal termine inglese ‘intersection’, intersezione. Crenshaw, che si definisce una “pensatrice visuale”, cercava un’immagine che fosse in grado di esprimere la maniera in cui le donne nere sperimentavano discriminazioni e violenze: così ha pensato all’intersezione stradale. Il fatto che le donne nere siano situate al centro di più categorie sociali, come il genere e la razza, rende la loro esperienza di discriminazione diversa sia da quella delle donne bianche sia da quella degli uomini neri. Questa circostanza rende dicile, se non impossibile, stabilire se ciò dipenda più dal loro sesso o dal colore della loro pelle, dovendosi concludere che è l’interazione tra questi fattori che determina la loro particolare situazione di marginalità nella società. A livello strutturale, poi, Crenshaw adopera l’intersezionalità per “articolare l’interazione tra razzismo e patriarcato” (“intersezionalità strutturale”). Questi due piani di analisi sono in relazione tra loro, poiché le categorie dell’identità che, al loro punto di intersezione, determinano la marginalizzazione delle donne nere e l’interazione tra strutture si “costituiscono a vicenda”. Le corti nordamericane adottavano un approccio monocategoriale – trattando le istanze discriminatorie disgiuntamente, senza catturare la loro simultaneità – ed erano orientate dalla logica della “somiglianza/dierenza”. L’intersezionalità incorpora la critica mossa da MacKinnon al paradosso della “somiglianza/dierenza” nel diritto antidiscriminatorio. Se il ragionamento di quest’ultima è riferito in particolare all’uguaglianza tra i sessi, Crenshaw lo estende all’intersezione tra sesso e razza. In sintesi, la diversità delle discriminazioni verso le donne nere non può essere colta “né occupandosi della loro somiglianza né della dierenza rispetto agli uomini neri e alle donne bianche”. Inoltre, si può aermare che l’intersezionalità proponga una terza via rispetto a due orientamenti principali: da un lato l’approccio monocategoriale, il quale considera una categoria alla volta e, dall’altro, quello “additivo” o “moltiplicativo” – incentrato sulla sovrapposizione e sulla somma delle categorie, più che sulla loro intersezione. Va precisato, peraltro, che la stessa Crenshaw usa l’aggettivo ‘multiple’ come anche l’accezione ‘multiply-burdened’ (‘oppresso in modi molteplici’), ma nell’articolo del 1989 chiarisce puntualmente la distinzione tra “discriminazione doppia”, dovuta alla somma tra fattori 5 dell’identità (razza e genere), e la discriminazione intersezionale delle donne nere in quanto tali, che esclude la prospettiva additiva. Come commenta Baukje Prins: l’intersezionalità enfatizza che la complessità dei processi di identificazione individuale e di disuguaglianza sociale non può essere catturata da formule aritmetiche. Le categorie come genere, etnia e classe si co-costruiscono a vicenda, e lo fanno in molti modi diversi, che dipendono da fattori sociali, storici e simbolici. Nell’articolo del 1989 appena citato, Crenshaw analizza tre casi giurisprudenziali basati sulla violazione del Titolo VII del Civil Rights Act del 1964, dimostrando come in nessuno di essi i diritti delle donne nere in quanto tali fossero stati presi veramente “sul serio”. In quello più noto, DeGraenreid v. General Motors, cinque operaie nere che erano state licenziate dalla società per cui lavoravano (General Motors) hanno agito in giudizio contro la stessa ritenendo di aver subito una discriminazione basata sulla “combinazione” di due fattori, razza e sesso, proponendo così, come si legge nella sentenza, una “nuova speciale sub-categoria”. La questione originava dal fatto che detta società adottava delle politiche basate su un sistema di anzianità lavorativa e, a seguito della crisi economica degli anni Settanta, ha proceduto a una serie di licenziamenti che hanno avuto un forte impatto su molte donne nere, tra le ultime lavoratrici a essere assunte. Infatti, precedentemente al 1964 (l’anno di emanazione del Civil Rights Act), la General Motors aveva assunto donne bianche, ma non donne nere. Da ciò derivava il loro particolare svantaggio. Nella fattispecie, la Corte non ha riconosciuto alcuna discriminazione sessuale, perché la società aveva assunto donne (bianche) prima del 1964. In merito alla discriminazione razziale, la Corte ha chiuso il caso suggerendo alle ricorrenti di unirsi a un altro ancora pendente contro lo stesso datore di lavoro e che verteva sulle sole discriminazioni basate sulla razza. La Corte ha aggiunto che: la storia giuridica del Titolo VII non fornisce alcuna indicazione secondo cui il suo scopo sia di creare una nuova classificazione per le “donne nere”, le quali assumerebbero un ruolo maggiore rispetto, per esempio, agli uomini neri. Alla Corte sfugge, però, che in casi come quello appena narrato non si tratta di applicare formule matematiche, ma di analizzare l’eetto prodotto dall’intersezione tra fattori discriminatori. L’esame di tali pronunce, che descrivono l’invisibilità dei diritti delle donne nere e delle loro specifiche esperienze di discriminazione, ha uno scopo preciso, ossia di indagare il ragionamento dei giudici per comprendere “il processo ideologico per cui i loro ricorsi venivano emarginati”. In questo senso, l’articolo del 1989 è da leggere come “un argomento normativo per rovesciare le concezioni dominanti in materia di discriminazioni sottese [ad alcune sentenze], in particolar modo, il 6 paradigma della somiglianza e della dierenza” e, più in generale, la logica liberale nell’arontare le discriminazioni, fondata su un approccio monocategoriale. Il contributo di questa studiosa è, quindi, particolarmente interessante per una riflessione non solo giuridica, ma anche giusfilosofica e sociologico-giuridica. Alla luce di questi cenni, se volessimo tentare una definizione minima di intersezionalità con riferimento alle donne nere, allora si potrebbe aermare che essa analizza criticamente la situazione qualitativamente diversa che le donne nere vivono sia rispetto alle donne bianche sia rispetto agli uomini neri o alle persone nere privilegiate. Tale diversa condizione può essere compresa solo considerando simultaneamente l’interazione tra più fattori dell’identità. Essa indica come le categorie si co-costruiscano vicendevolmente in modo da creare situazioni che non sono più scindibili in singole categorie. Esamina, inoltre, come l’interazione tra strutture perpetui questa condizione. Infine, essa considera le categorie dell’identità e le strutture in continua relazione tra loro. La nascita dell’intersezionalità va contestualizzata in quel momento della storia nordamericana degli anni Ottanta in cui vi era un grande fermento intellettuale di critica nei confronti del diritto: i Critical Legal Studies (CLS) già stavano svelando le ambiguità del diritto e si andava formando la Critical Race Theory (CRT), originariamente come critica interna a essi e poi come movimento indipendente. L’idea di intersezionalità emerge dalla volontà di richiamare l’attenzione della nascente CRT e di alcune femministe bianche sull’epistemologia delle femministe nere. Crenshaw proviene dall’area disciplinare degli Africana Studies, un ramo dei Black Studies nel quale le analisi della razza erano più sviluppate rispetto a quelle del genere. La sua appartenenza al Black Feminism è derivata, quindi, dal desiderio di approfondire le implicazioni della razza nella vita delle donne nere nel contesto nordamericano. Il suo passaggio all’area disciplinare giuridica ha determinato il confronto con gli studiosi e le studiose dei Critical Legal Studies sul “modo in cui il diritto struttura le condizioni della gerarchia sociale”; e con le studiose della Feminist Legal Theory, “sul modo in cui il diritto è generato e sul suo ruolo nella riproduzione del patriarcato”. Dagli Stati Uniti all’Europa ad altre parti del mondo, studi condotti sotto l’egida dell’intersezionalità hanno indagato la complessità intracategoriale, le esperienze e le violazioni dei diritti di numerose “minoranze nelle minoranze”, tra cui donne, persone LGBTIQA+, persone con disabilità appartenenti a “minoranze visibili” – etniche, religiose, nazionali e migranti – e possono estendersi, in futuro, a molti altri soggetti ancora. 7 tutte le donne nere, salvo incorrere nell’essenzialismo che in questo mio scritto cerco di decostruire. In entrambe queste opere è interessante l’eterogeneità di documenti da cui attingono per esemplificare le esperienze delle donne nere, la loro partecipazione ai movimenti e le pratiche discorsive relative alla comunità nera. Esse spaziano, infatti, da pubblicazioni storiche e storiografiche, più accessibili ai lettori specialistici, a quelle giornalistiche e letterarie, alcune delle quali molto dif fuse nella cultura popolare dell’epoca in cui sono state scritte. L’autrice desideravo far dialogare un’attivista (Davis) e un’attivista che fosse anche una studiosa (Bell Hooks), la quale fosse quindi entrata nell’istituzione accademica, a cui molte donne nere per anni non hanno avuto accesso. Unire queste due prospettive rileva, a me pare, in considerazione sia dell’interazione tra movimenti femministi e le studiose nere, sia, nello specifico, delle diversità biografiche tra le due autrici. Un punto di vista “situato”, dunque, accomunato dall’intersezione tra genere e razza e dall’interesse per i diritti delle donne nere, ma che integra almeno in minima parte le dierenze tra donne all’interno dello stesso. Richiamo, inoltre, alcune altre fonti per approfondire punti specifici della narrazione. I due libri ripercorrono la storia collettiva delle donne nere dagli anni della schiavitù agli anni Settanta del secolo scorso, descrivendo come sessismo e razzismo fossero continuamente intersecati nel corso del tempo: a livello linguistico, hooks traduce questo intreccio con l’espressione “sexist-racist” (sessista-razzista). Partendo dalle origini, ossia dai tempi della schiavitù, le autrici considerano questo il periodo a partire dal quale sono iniziate sia l’interiorizzazione della violenza fisica e psicologica da parte delle donne nere, sia la produzione di immagini stereotipate. Entrambe insistono sull’importanza della memoria circa le pratiche messe in atto contro le donne nere in quel periodo per comprendere sia “la svalutazione della femminilità nera che permeava la psiche di tutti gli americani e ha plasmato lo status sociale delle donne nere anche dopo l’abolizione della schiavitù”, sia gli stereotipi su di loro riprodotti nel tempo. I loro stessi libri costituiscono un tentativo di risvegliare dall’amnesia su quel periodo. Tali esperienze non possono essere dimenticate. nere, il sessismo incombe tanto quanto il razzismo come forza di oppressione nelle loro vite. Il sessismo istituzionalizzato – ossia il patriarcato – formava la base della struttura sociale americana tanto quanto l’imperialismo razzista. Anche se Hooks e Davis non negano che l’esperienza della schiavitù fu traumatica per tutte le persone nere, esse ritengono però che sessismo e razzismo incisero in particolar modo sulla vita delle donne nere. La divisione del lavoro e il controllo sui corpi erano le due aree in cui questa soerenza è più palpabile. 10 Davis si soerma sul ruolo di “breeder” (letteralmente ‘animale da riproduzione’) svolto dalle schiave, anche per le drammatiche conseguenze che ciò comportava nella relazione con la loro prole: infatti, visto che le schiave erano considerate non come “madri” ma alla stregua di “animali da riproduzione”, i figli venivano spesso separati da loro e, a loro volta, venduti come schiavi. Davis spiega che, nel contesto della schiavitù, lo stupro era “un’arma di dominazione, un’arma di repressione, il cui scopo, non dichiarato, era di estinguere la forza di resistere delle schiave e, così facendo, di demoralizzare gli uomini neri”. Tornando alla storia delle donne nere, è interessante notare che, più tardi, molto spesso nei discorsi pubblici abolizionisti non si parlava di stupri ma di prostituzione, anche se il termine era inappropriato. In alcuni casi c’era, al più, qualche regalìa per quelle donne che sembravano più accondiscendenti e i problemi, alla base, erano la reale possibilità di scelta o il prezzo da pagare in caso di dissenso. Va anche detto che, se da un lato la violenza nei confronti delle donne nere demoralizzava i “loro” uomini, i quali non riuscivano a tutelarle, anch’essi si rendevano autori di violenze sessuali nei confronti delle donne nere: per nessun caso di violenza vi erano leggi che punissero gli stupri nei loro confronti. Secondo Hooks, in qualche modo il patriarcato aveva risparmiato agli uomini neri di essere, a loro volta, vittime di stupri (omosessuali) ma aveva “(socialmente) legittimato lo sfruttamento sessuale delle donne”. Le schiave che tentavano di reagire alla violenza sessuale “sfidavano direttamente il sistema”. A tal proposito, hooks aerma che: mentre il razzismo fu sicuramente il male che aveva decretato lo stato di schiavitù delle persone nere, fu il sessismo a determinare che la sorte delle donne nere sarebbe stata più dura, più brutale di quella degli uomini. Le donne bianche assurgevano a donne angelicate, idealizzate e pure; le donne nere erano o mascolinizzate o de-umanizzate se dovevano essere impiegate in lavori pesanti, al pari degli uomini neri; o sessualizzate e rappresentate come “sexual savage”. La separazione tra donne, però, avveniva anche a un livello più sottile, secondo Hooks: anche se era palese che fossero le schiave a essere le vittime di pratiche sessuali istituzionalizzate dal padrone bianco, di fatto vi era una sorta di percezione tacita secondo cui egli era, in realtà, vittima della donna nera “tentatrice”. In definitiva, le schiave spesso non potevano contare sulla solidarietà e protezione né degli uomini (bianchi o neri), né delle donne bianche che, frequentemente, a loro volta perpetravano forme di violenza e discriminazione su base razzista nell’ambiente domestico. Le schiave erano anche protagoniste di forme di resistenza che si caratterizzavano per essere ancora più “sottili delle rivolte, delle fughe e 11 dei sabotaggi. Esse comprendevano attività come l’acquisizione clandestina di competenze di lettura e scrittura e l’impartizione di queste conoscenze ad altri”. L’emancipazione non ha comportato un eettivo cambiamento nelle condizioni sociali delle persone nere. Si è assistito, secondo Hooks, a un processo inesorabile di marginalizzazione che ha portato all’“instaurazione di un nuovo ordine sociale basato sull’apartheid”, attraverso il principio “separati ma uguali” e la promulgazione delle cosiddette leggi “di Jim Crow”. Queste ultime hanno instaurato la segregazione razziale nell’istruzione e nei trasporti pubblici, nonché in luoghi aperti al pubblico. Per quanto riguarda la condizione delle donne nere, il pensiero “sessista-razzista” le ha colpite e marginalizzate anche in questo nuovo assetto. Ciò si coglie a due livelli: nella continuazione della violenza sessuale da parte di molti uomini bianchi sulle donne nere e nel vasto repertorio di immagini che le ritraevano da donne “sessualmente depravate, immorali, dissolute” a “Mammies” oppure, ancora, “matriarche”. Nel corso dei decenni, per contrastare gli stereotipi su di loro molte donne nere “hanno iniziato a emulare l’atteggiamento e l’aettazione delle donne bianche”, ma ciò non è bastato per mutare la considerazione che gli uomini bianchi avevano di loro. I mass media hanno svolto un ruolo cruciale nella perpetuazione di queste immagini e, quindi, nel mantenimento di confini materiali e simbolici tra persone bianche e nere. Anche gli uomini neri non erano esenti da stereotipi, tra cui il più violento è quello di “stupratore”. Tali rappresentazioni di donne e uomini neri assolvevano anche al compito di scoraggiare i matrimoni misti e, quindi, le possibilità di “miscegenation”. Se durante la schiavitù i matrimoni tra uomini bianchi e donne di colore parevano essere, paradossalmente, più tollerati perché costituivano delle rare eccezioni alla regola, successivamente la loro diusione è stata fortemente scoraggiata. “Dal momento che le donne bianche rappresentavano un gruppo senza potere quando non era alleato con potenti uomini bianchi, il loro matrimonio con uomini neri non rappresenta una grande minaccia alle regole patriarcali esistenti imposte dall’uomo bianco”. Essendo la donna ad adottare lo status del coniuge, era più destabilizzante per il sistema patriarcale bianco che le donne nere intraprendessero un’ascesa sociale coniugandosi con un uomo bianco, acquisendo il suo cognome e trasmettendo questo nuovo status alla prole. Non solo: a livello sociale gli uomini neri percepivano spesso le donne bianche “come vittime e l’uomo bianco come oppressore”. Per questa ragione le unioni tra uomini neri e donne bianche erano considerate 12 La seconda ragione riguarda il fatto che sia il patriarcato bianco sia quello nero avevano posto le donne di fronte a un dilemma, ossia che supportare la causa delle donne significasse tradire quella antirazzista mentre esse incarnavano anche una lotta specifica, quella delle donne nere, all’incrocio tra sessismo e razzismo. La terza, infine, riguarda ancora una volta l’ostilità, basata su classismo e razzismo, da parte di molte donne bianche, all’interno dei movimenti femministi, nei confronti di quelle donne nere che provavano a parteciparvi. Nel periodo intercorso tra i movimenti femministi del Diciannovesimo secolo e l’inizio del Ventesimo secolo non si era assistito, insomma, a un significativo avvicinamento sociale, umano o emotivo tra le donne nere e le donne bianche e, in generale, permanevano reciproci sospetti. C’erano eccezioni di attivismo femminista nero negli anni Sessanta, tra cui Hooks cita la stessa Angela Y. Davis. Ma a tal proposito mette in luce che, dal suo punto di vista, quest’ultima era a sua volta vittima di una visione “sessualizzata”. Infatti, sebbene fosse “un’eroina dei movimenti degli anni Sessanta, non era ammirata tanto per il suo impegno per la causa comunista, né per le sue brillanti analisi sul capitalismo e sull’imperialismo basato sulla razza, ma per il suo aspetto fisico” da molte persone americane: queste ultime “non volevano vedere l’Angela Davis ‘politica’”. In una prospettiva storica, però, sarebbe un grave errore pensare che le tre ragioni sopra descritte abbiano impedito alle donne nere di supportare i diritti di emancipazione delle donne. Esse vi hanno provveduto, per l’ennesima volta, dando vita a propri movimenti. Hooks spiega che fu proprio la presa di coscienza che le donne bianche si erano appropriate del movimento femminista e che “nella loro foga di promuovere l’idea di sorellanza, ignoravano la complessità dell’esperienza delle donne” a convincere alcune donne nere ad abbandonare il movimento, in alcuni casi senza intraprendere altre iniziative, in altri creando dei gruppi di “femminismo nero”. La diusione di gruppi di donne nere ha contribuito a limitare la creazione di legami tra donne bianche e nere nelle lotte, ma al tempo stesso ha determinato lo sviluppo di un luogo di lotta per le donne nere nel quale esse “trovarono aermazione e supporto per il loro interesse nel femminismo”. Questo è stato senz’altro un aspetto positivo dei gruppi di sole donne nere, anche se sarebbe stato auspicabile poter vivere tale esperienza anche nei gruppi multirazziali. La storia del Combahee River Collective e di altri movimenti femministi neri narrata dal punto di vista situato di hooks e Davis ci consegna un modo di guardare alle esperienze sociali e all’aermazione dei diritti “di tutte le donne” che amplia la prospettiva rispetto a quella di gruppi fondati su un approccio meramente monocategoriale, nei quali è 15 dicile una piena comprensione degli specifici processi di esclusione e marginalizzazione. Attraverso le parole della scrittrice e poetessa nordamericana Audre Lorde, lesbica e di origine caraibica, le femministe nere fin dai primi movimenti – attraverso la considerazione dell’intersezione tra sesso e razza (e classe) – si sono riappropriate degli attrezzi rubati (stolen tools) per cercare di “smantellare il castello del padrone” (dismantle master’s house), compito che non avrebbero potuto assolvere usando gli stessi attrezzi del padrone (master’s tools). 1.2.2 MULTIVOCALITA’: TRA PASSATO E PRESENTE Collins rileva che, proprio a causa della loro storia di oppressione, si riconduce solitamente alle donne nere “la scoperta dell’intersezionalità ancora da denominare”. La stessa studiosa nel 2016 torna sul punto, rilevando come l’intersezionalità “vivesse” in “progetti di giustizia sociale precedenti” al conio del termine e come Crenshaw abbia avuto il merito di “riconfigurare l’intersezionalità come forma di indagine e pratica critiche”. Nello stesso senso, Prins sottolinea che, fin dalla sua origine, il termine ‘intersezionalità’ è stato ritenuto da molti “come una fresca riarticolazione di un’intuizione che era già stata anticipata da molte studiose nere”, tra cui Davis, Audre Lorde e Collins. È quindi utile ricordare che nel Ventesimo secolo le donne nere erano parte “di un movimento più ampio nel quale donne Chicanas e altre Latinas, donne native e donne asiatiche (che successivamente furono ridefinite collettivamente come ‘donne di colore’)” reclamavano un’attenzione sull’“interconnessione” tra varie caratteristiche dell’identità e sulle loro esperienze di vita specifiche dai loro punti di vista situati. La multivocalità delle origini dell’intersezionalità si è tradotta oggi nella ricchezza di contributi su “specifiche intersezioni” o sui modi per teorizzarla in varie parti del mondo. I suoi campi di applicazione sono vastissimi, come dimostra la fluviale letteratura in materia. A tal proposito, Ange-Marie Hancock aerma che questa caratteristica dell’intersezionalità è oggi ancora più ampia e ricondurla “solo” ai contributi delle studiose nere rischia “di oscurare la ricchezza del [suo] contenuto – ossia la multivocalità stessa per cui l’intersezionalità è nota”. Se l’intersezionalità è stata maggiormente adottata per occuparsi della condizione delle donne all’interno delle minoranze visibili e delle loro relazioni con la società maggioritaria, in realtà sono vasti i campi di indagine in cui oggi è applicata: si pensi alle ricerche riguardanti le persone LGBTIQA+; le comunità indigene in Sud America; i giovani in generale o quelli appartenenti a specifiche minoranze; le persone migranti con disabilità; i contributi sulla maschilità/mascolinità). 16 In ambito giuridico e sociologico-giuridico è interessante estendere le analisi intersezionali ai diritti degli uomini nella società plurale, laddove il genere si intrecci con altre caratteristiche dell’identità. Stabilire “di chi sia l’intersezionalità”, d’altronde, rappresenta uno degli aspetti polemici nel dialogo “transatlantico” contemporaneo sull’intersezionalità. 1.3 SNODI CRITICI DELL’INTERSEZIONALITA’ Il maggiore contributo di Crenshaw è stato quello di aver attribuito un nome, alla particolare condizione di invisibilità dei diritti delle donne nere e, di aver individuato un modo per denominare le questioni che riguardano l'interazione tra più categorie. "Nominare" un fenomeno sociale comporta l'opportunità di attribuire un senso specifico a condotte e situazioni tralasciate pubblicamente da pratiche discorsive e assetti istituzionali, le quali non troverebbero, un' eettiva protezione giuridica. Nominare l'intersezionalità ha significato, quindi, creare una cornice all'interno della quale poter ricondurre la complessità e la molteplicità delle esperienze di discriminazione e violenza di chiunque riconosca che la propria esperienza di marginalizzazione. Crenshaw, nominando l'intersezionalità, abbia approntato uno spazio teorico e pratico per un dibattito scientifico internazionale e interdisciplinare, capace di "mettere al centro" punti interstiziali, dimenticati e resi invisibili. Ha anche creato le condizioni per consolidare uno strumento di analisi da adoperare nelle ricerche, nelle lotte per l'uguaglianza condotte da vari attori sociali, nella formulazione di leggi e politiche, nonché nella loro implementazione e interpretazione. La studiosa nordamericana, ha "demarcato una maggiore accettazione nell'accademia e, inoltre, influito sul modo in cui tale accettazione ha successivamente riconfigurato l'intersezionalità come una forma di indagine e pratica critiche". Collins e Bilge si soermano, sul contributo di Crenshaw del 1991, evidenziando come da esso emergano tre aspetti principali dell'intersezionalità quale indagine critica: l'importanza "della relazionalità, delle relazioni di potere e della giustizia sociale". In una prospettiva giusfilosofica, sociologico-giuridica e giuridica, il tentativo di integrare questo termine nel diritto e nella sua applicazione presso i tribunali e le corti può contribuire a conferire un significato ancora più pregnante ai principi di non discriminazione e di uguaglianza. Il tentativo compiuto da Crenshaw nominando l'intersezionalità è di rendere "interno" al diritto questo punto di vista situato, a lungo rimasto "esterno". "Come mai una teoria così vaga è arrivata a essere considerata da tante persone come l'innovazione della teoria femminista contemporanea?". 17 La risposta ai primi due interrogativi è rintracciabile già nell'articolo di Crenshaw del 1991. In questo scritto l'intersezionalità viene presentata come "un concetto provvisorio che collega la politica contemporanea con le teorie postmoderne" e come "un metodo che arresti definitivamente la tendenza di considerare razza e genere come esclusive o separabili", proponendo di focalizzarsi, invece, sulla loro intersezione. Dalla "provvisorietà" iniziale della proposta deriva la concezione dell'intersezionalità come "work in progress", da espandere oltre il contesto in cui è nata. Fin dal 1991 la studiosa ha precisato che non intende l'intersezionalità come "una nuova, totalizzante teoria dell'identità". L'urgenza era di rispondere a domande di giustizia sociale, che hanno trovato risposte e luoghi di resistenza e coalizione nella categoria intersezionale "donne nere" e nell'epistemologia del Black Feminism, da cui molte di queste donne partivano per far sentire la propria "voce". L'intento di questa studiosa nell'usare l'intersezionalità è quello di "avanzare delle argomentazioni nel diritto, interrogando al contempo determinate dinamiche sul diritto e sulle sue relazioni con il potere". La sua finalità è quella di muovere più ampia critica all'approccio monocategoriale e della "somiglianza/dierenza" prevalente nelle corti nordamericane. Intende l'intersezionalità come un "dispositivo ermeneutico, euristico e analitico, ideato per sviluppare ed evidenziare specifici problemi". Lo scopo è di "individuare dinamiche di potere contestuali". Le teorie sono importanti per la studiosa, anche se il suo interesse non è tanto rivolto a "produrre teorie per sé, ma a stabilire se esse siano utili per svelare specifici problemi che restano oscurati dagli strumenti normalmente impiegati nel lavoro accademico e politico". L'ultima domanda posta nel 2011 racchiude tre questioni: quali sono i confini geografici, i limiti degli argomenti da trattare e delle metodologie da impiegare in relazione all'intersezionalità. Per quanto riguarda le restrizioni geografiche e di contenuto di questo dispositivo euristico, esso richiede, la contestualizzazione delle analisi, quindi gli argomenti da poter trattare sono virtualmente infiniti: ogni fenomeno sociale può essere esplorato attraverso questa lente. Il fatto che, all'origine, l'intersezionalità sia stata adoperata per esaminare l'invisibilità dei diritti delle donne nere e le interazioni tra strutture nel contesto statunitense di quegli anni non significa che essa non possa essere applicata altrove e per altri temi”. Essendo un "work in progress","potenzialmente emergono sempre nuovi interessi a cui la teoria può rivolgersi, altri luoghi in cui può essere spostata e altre strutture di potere da esaminare". 20 Blige riconfigura, quindi, l'intersezionalità come "un intervento contro-egemonico e trasformativo a livello epistemologico, di attivismo e pedagogico". La caratteristica che, però, rende un'analisi autenticamente intersezionale è: l'adozione di un pensiero intersezionale in merito al problema della somiglianza e della dierenza e alla sua relazione con il potere. Questo inquadramento mette in luce ciò che l'intersezionalità fa più ancora che ciò che essa è. Crenshaw aerma che le indagini intersezionali "possano e debbano attingere da una vasta gamma di ricerche empiriche che non sono necessariamente definite come intersezionali, ma che consentono un'analisi intersezionale". Sono individuabili due processi negli studi che, nel corso del tempo, hanno preso "sul serio" l'intersezionalità: uno "centrifugo" e uno "centripeto". All'interno del primo sono riconducibili le analisi basate sulla metodologia propria dei singoli ambiti disciplinari e che tentano di "formalizzare i fondamenti teorici e metodologici dell'intersezionalità all'interno di essi". Nel secondo rientrano gli studi meno legati alla metodologia della propria disciplina e che, spesso, integrano vari metodi. La possibilità è che questi due processi convergano in un "campo di studi sull'intersezionalità". Crenshaw non reputa produttivo fare previsioni precise sul futuro dell'intersezionalità: per lei la domanda importante a cui rispondere è se essa "possa essere utile". In merito alle domande se l'intersezionalità debba focalizzarsi solo sull'identità o sulle strutture sociali o anche sulle relazioni intercorrenti tra loro e se sia da intendere in modo statico o dinamico. Sia le categorie sia le strutture, quindi, rientrano negli studi intersezionali e sono da concepire in relazione tra loro, in un processo di continua co-costruzione. Le relazioni strutturali, sono "costituite dinamicamente proprio dalle stesse forze che vengono interrogate". L'intersezionalità, per sua essenza, è contestualizzata nei processi storici e nei luoghi in cui i fenomeni sociali avvengono e, fin dalle sue origini, ha avuto l'obiettivo di "rendere visibili le dinamiche in gioco” a livello sociale e istituzionale. La questione relativa alla staticità o alla dinamicità dell'intersezionalità riguarda soprattutto se essa debba occuparsi più di "categorie dell'identità statiche" o se debba esplorare le dinamiche che costruiscono e definiscono la posizione sociale di soggetti collocati a una determinata intersezione". Crenshaw specifica che considera l'intersezionalità come "un'integrazione tra ciò che è strutturato e i modi in cui il potere è continuamente riprodotto e contestato nella realtà". 21 Questi aspetti si possono, forse, meglio cogliere in una prospettiva sociologico-giuridica. La subordinazione è, quindi, una relazione dinamica, non statica, in cui i soggetti possono esercitare la propria agency. L'oppressione è interattiva. Si può quindi concludere che, benché nulla vieti che gli studi condotti applicando l'intersezionalità possano concentrarsi solo su "situazioni specifiche" di soggetti marginalizzati o sull'interazione tra strutture di potere, questi due aspetti vanno dicilmente disgiunti, al fine di comprendere appieno le dinamiche di riproduzione della disuguaglianza, delle discriminazioni e del privilegio. 1.3.2 CATEGORIE SOCIALI: PERCHE’, COME, QUANTE E QUALI Un concetto centrale per l'intersezionalità, fin dalle sue origini, è quello di "categoria sociale”. La curiosità di comprendere perché, si parli più di “categorie” che di “variabili”. Le risposte sono due principali. La prima deriva dall'ambito disciplinare all'interno del quale è nata l'intersezionalità. Crenshaw era interessata, prima di tutto, a far sì che il diritto, che opera attraverso le categorie, potesse rispondere alle esigenze derivanti dalla complessità dell'identità e dalla diversa esperienza di discriminazione vissuta dalle donne nere. La seconda spiegazione è dovuta alla circostanza che le ricerche condotte attraverso questo strumento di analisi non intendono arrestarsi al semplice incrocio di variabili, ma si prefiggono di osservare e di spiegare come le diverse categorie si co-costruiscano nella realtà situata delle singole persone o dei gruppi e le conseguenze che ne derivano. Il genere è razzializzato, la razza è plasmata dal genere. L'espressione "categoria sociale” non è usata come un contenitore vuoto e il concetto sotteso è centrale per l'intersezionalità. Il punto di partenza è che le categorie sociali siano costruzioni sociali che, però, esercitano "degli eetti materiali" e simbolici sulla vita dei soggetti, i quali "condizionano potentemente il proprio senso di sé". L'intersezionalità descrive la collocazione sociale di una persona all'incrocio tra più categorie, caratterizzando la sua esperienza soggettiva e quotidiana in modi qualitativamente diversi rispetto a coloro che si identificano o vengono definiti da una singola categoria. "L'importanza dell'intersezionalità sta nel tentativo di spiegare il modo in cui dierenti categorie sociali entrano nei processi di soggettivazione e di relazione intrasoggettiva". L'intersezionalità si distingue per il modo in cui lo fa, discostandosi sia dalle concezioni monocategoriali sia da quelle basate sulle aliazioni multiple di un soggetto, intese come una mera somma o moltiplicazione di categorie. 22 La centralità della razza è tra gli snodi critici del dibattito "transatlantico" sull'intersezionalità. Per quanto riguarda la quantità delle categorie, Crenshaw, ha aermato che non è produttivo "contare fino a che numero" esse debbano essere selezionate. Per anni questa è rimasta una questione aperta ed è stata oggetto di grande dibattito scientifico. Molti studi si sono soermati sulle cosiddette "Grandi Tre” genere, razza e classe, anche denominate i "tre grandi ismi". Questa triade di fattori è stata anche denominata “trilogia”, e addirittura, "Santa Trinità contemporanea”. È però interessante descrivere il tentativo compiuto dalla già ricordata Lutz e Norbert Wenning di individuare una lista di categorie da cui attingere per compiere analisi intersezionali. L'elenco non tassativo da loro stilato contiene tredici "linee della dierenza" (Dierenzlinien) situate tra due poli: - Genere (maschile - femminile). - Sessualità (etero - omosessuale). - Razza/colore della pelle (bianco - nero). - Etnia (gruppo dominante - minoranza etnica; non etnico - etnico). - Appartenenza nazionale (appartenente allo Stato - non appartenente). - Classe (classe superiore - inferiore; [posizione] consolidata - non consolidata). - Cultura ("civilizzato" - "non civilizzato"). - Salute (non disabile - disabile). - Età (adulto-bambino; anziano - giovane). - Sedentarietà/origine (stanziale - nomade; autoctono immigrato). - Proprietà (ricco/abbiente- povero). - Collocazione (Nord - Sud/Est - Ovest/l'Occidente - il resto del mondo). - Status rispetto al grado di evoluzione della propria tradizione sociale (moderna - tradizionale; progressista - retrograda; sviluppata - non sviluppata). Nel 2006 Rudolf Leiprecht e Lutz aggiungono altre due linee della dierenza: la religione (laico religioso) e la lingua (superiore inferiore). La possibilità di prevedere liste di categorie sociali molto lunghe o aperte non è sempre vista di buon grado. Uno dei punti deboli dell'intersezionalità si svela proprio nelle ricerche empiriche perché: le sue implicazioni per l'analisi empirica costituiscono, da un lato, una complessità apparentemente insormontabile e, dall'altro, una nozione fissa delle dierenze. Ciò accade perché la lista di dierenze è infinita o addirittura apparentemente indefinita. E impossibile prendere in considerazione tutte le dierenze significative in ogni determinato momento. 25 La previsione di liste di categorie non tassative diventa, "il tallone d'Achille dell'intersezionalità" e rischia di depoliticizzare l'azione dei soggetti situati. Pur nella consapevolezza di tali dicoltà a livello empirico, a me pare che optare per una lista non tassativa di categorie abbia due vantaggi: nella ricerca empirica possono emergere caratteristiche dell'identità non determinate aprioristicamente che si rivelano rilevanti; nel diritto quell"ecc." è la fessura attraverso cui passa una tutela intersezionale dei diritti che può concorrere alla realizzazione di una maggiore uguaglianza, intesa soprattutto in senso sostanziale. I soggetti che intendono agire a tutela dei propri diritti, peraltro, non sono obbligati a mobilitare l'intersezionalità se non lo ritengono utile nel caso specifico, o perché il caso in oggetto non è caratterizzato dall'intersezione tra più fattori o per una precisa strategia processuale. 1.3.2.1 IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO POSTCATEGORIALE L'uso delle categorie sociali nel diritto è problematico e può creare eetti paradossali. Il rischio è che da fattori descrittivi le categorie diventino fattori prescrittivi: in tal modo, il diritto tende a raorzare la convinzione che gli appartenenti a determinati gruppi abbiano caratteristiche omogenee e immutabili, nonché a perpetuare gli stereotipi associati alle varie categorie e, quindi, ai soggetti e ai gruppi. Il diritto concorre a costruire il genere, la razza e le altre categorie e lo fa da una posizione di privilegio, dominante. Intorno al 2010, Susanne Baer ha iniziato a pensare a un diritto antidiscriminatorio sganciato dalle categorie dell'identità, che definisce "diritto antidiscriminatorio postcategoriale”. La sua riflessione riguardava specificamente la formulazione delle azioni positive, ossia quelle misure dirette a prevenire o compensare svantaggi sociali connessi con una determinata categoria dell'identità, ma si è poi estesa al diritto antidiscriminatorio in generale. Questo approccio riguarda particolarmente la riflessione sociologico-giuridica e giusfilosofica, perché tenta di costruire un diritto che prescinda dalle caratteristiche dell'identità e, di ripensarlo e di riscriverlo, tenendo a mente il possibile impatto che leggi fondate sulle categorie hanno sulla vita dei soggetti. La proposta è di traslare il riferimento contenuto nel divieto di discriminare dalle categorie dell'identità ai fenomeni sociali che il diritto antidiscriminatorio intende contrastare. Al posto delle categorie vengono nominati" i fenomeni sociali derivanti da precise ideologie che implicano la superiorità di un soggetto rispetto a un altro, in base a una caratteristica dell'identità. Non sono più i soggetti o i gruppi discriminati a venire "categorizzati". Ne deriva che la discriminazione viene definita come "un processo di 26 classificazione, stigmatizzazione e subordinazione". Il linguaggio giuridico adoperato deve esprimere questo spostamento dai soggetti e dai gruppi ai fenomeni sociali e alle strutture che creano gerarchie sociali. A livello applicativo e interpretativo, questo cambio di prospettiva si traduce nella considerazione per le disuguaglianze strutturali in un determinato contesto e per l'azione di chi discrimina. L'impostazione postcategoriale è certamente suggestiva per il tentativo che compie di spostare il baricentro dal piano dei soggetti e dei gruppi vulnerabili e discriminati ai fenomeni sociali e alle strutture che determinano le discriminazioni. Essa costituisce un'interessante proposta per cambiare il modo di pensare alle discriminazioni. 1.4 IMMAGINARE L’INTERSEZIONALITA’’ (CAPITOLO DELLE METAFORE) Crenshaw immagina che le donne nere si trovino al centro di un incrocio stradale in cui ciascuna strada, proveniente dalle varie direzioni, rappresenta una diversa categoria dell'identità. In caso di incidente, chi si trova al centro dell'incrocio può subire degli urti provenienti dalle autovetture che circolano lungo alcune di quelle strade o, simultaneamente, da tutte. È dicile ricostruire il nesso eziologico e stabilire l'apporto dei singoli veicoli al danno subito dalla persona ferita, perché in molti casi non è possibile scinderli: infatti più autovetture sono responsabili dell'accaduto e l'indagine è più complessa perché la responsabilità non può essere ricondotta solo a una di esse. Si potrebbe constatare, che i danni cagionati sono più gravi e di tipo diverso rispetto a chi subisce un solo urto. Crenshaw immagina che se si dovesse chiamare un'ambulanza solo nel caso in cui si riesca a risalire al veicolo responsabile, la persona resterebbe priva di cure. In situazioni così complesse, in cui è evidente che l'incidente è avvenuto a causa di più autovetture provenienti da varie direzioni, cercare di individuare chi sia l'unico responsabile potrebbe portare a concludere che nessuno lo sia e non sarebbe prestato alcun soccorso. La metafora serve alla studiosa per spiegare le dinamiche dei procedimenti dinnanzi alle corti nordamericane in materia di discriminazioni verso le donne nere. Visto che esse potevano fondare i propri ricorsi solo sul sesso o sulla razza, ma non sull'intersezione tra i due fattori, i loro diritti restavano privi di tutela. Questa metafora è stata spesso criticata da studiose contrarie alla separazione tra assi o strade prima e dopo il punto di intersezione. Walgenbach spiega che "prima (e anche dopo) l'incontro all'incrocio, le categorie esistono separatamente l'una dall'altra. Gender e Race, ad eccezione dello specifico punto dell'incrocio stradale, vengono intese come categorie isolate". L'incrocio stradale non è l'unica rappresentazione proposta da Crenshaw. 27 Nei vari ambiti della vita sociale e nei testi uciali, il linguaggio intersezionale potrebbe portare a degli ulteriori sviluppi che esprimano, da un lato, la complessità dell'identità e il superamento della tassatività delle categorie, lasciando spazio anche a fattori non nominati, ma che potrebbero emergere come significativi empiricamente; dall'altro, la realizzazione della co-costruzione e trasformazione reciproca tra categorie. Se il genere è razzializzato e la razza è forgiata dal genere, questo dovrebbe trasparire anche nel linguaggio. Solanke sostiene che l'intersezionalità crei "un nuovo soggetto composito". Il termine risultante dalla fusione di vari elementi costituisce già un'entità nuova e diversa rispetto alle precedenti parole, non più scindibile. Essendo l'interazione tra categorie una delle caratteristiche principali dell'intersezionalità, gli elementi che compongono la nuova parola sono anch'essi da intendere in termini dinamici e relazionali. 1.5.1 DIRE E FARE L’INTERSEZIOANLITA’ NEL DIRITTO Anche se il termine "intersezionalità” ha avuto la propria origine in ambito giuridico, questo sembra essere il settore in cui significante e significato hanno ancora dicoltà a essere recepiti pienamente. Sembra, cioè, dicile rendere il diritto intersezionale. Non sempre quando i testi normativi recano l'espressione "discriminazione intersezionale” chi li redige intende riferirsi alla co-costruzione tra categorie o alla situazione specifica e qualitativamente diversa del soggetto discriminato. Allo stesso tempo, si può assistere anche al fenomeno opposto, ossia che le discriminazioni intersezionali vengano denominate attraverso altre accezioni. Il problema, però, è che i vari termini usati raramente sono accompagnati da una definizione e, quindi, non è semplice stabilire se espressioni come “discriminazioni multiple” siano usate come sinonimi di “discriminazioni intersezionali” o le ricomprendano oppure no. In questo senso, l'interpretazione dei testi da parte dei tribunali e delle corti o di altri organi preposti alla trattazione di casi assume un ruolo fondamentale. Tra i tentativi di diondere il concetto di discriminazione intersezionale nella cultura giuridica interna vanno menzionati i corsi di formazione sul diritto antidiscriminatorio organizzati dall'Academy of European Law (ERA)”. Essi includono spesso un modulo dedicato alle "discriminazioni multiple" o alle "discriminazioni intersezionali". In questo caso, le espressioni sono usate in modo interscambiabile. Makkonen spiega che l'interazione tra più forme di discriminazione è stata denominata in vari modi e ciò ha comportato una "considerevole ambiguità terminologica". Egli spiega, inoltre, che in ambito accademico l'accezione "discriminazione intersezionale” è più ricorrente. È utile riportare la nota 30 tripartizione elaborata da Makkonen in cui egli distingue tra discriminazione multipla, discriminazione composita o additiva e discriminazione intersezionale. Nell'espressione generale "discriminazioni multiple' (multiple discrimination) rientrano: La discriminazione multipla in senso stretto (multiple discrimination), che si verifica quando una persona è discriminata sulla base di più fattori e queste discriminazioni avvengono una alla volta, in situazioni diverse. La discriminazione composita (compound), che si verifica quando due o più fattori di discriminazione si aggiungono l'uno all'altro nella stessa situazione ma possono essere distinti, appesantendo il fardello che la singola persona deve portare. Fredman denomina questa fattispecie discriminazione multipla additiva. La discriminazione intersezionale, che consiste nell'interazione tra discriminazioni basate su più fattori in modo sinergico e tale che esse non siano più scindibili. Ne risulta una specifica forma di discriminazione, qualitativamente diversa. In questo caso l'eetto cumulativo è dato dalla specificità della situazione che ne risulta, la quale è diversa da coloro che sono discriminati su un solo fattore. Le discriminazioni intersezionali si colgono, nella loro essenza, nelle situazioni in cui non vi sarebbe alcuna discriminazione se i fattori fossero presi in considerazione separatamente, lasciando quindi privi di tutela i soggetti la cui situazione discriminatoria è causata dall'intersezione tra tali caratteristiche. Concepire le discriminazioni in termini intersezionali non implica una negazione del nesso eziologico che collega un atto o un fatto discriminatorio all'evento che ne discende. Semplicemente, l'indagine deve essere svolta non già rispetto a un singolo fattore alla volta, bensì all'intersezione tra più fattori. In tal modo, a me pare, "il valore diagnostico" dei divieti discriminatori non è minato. La tutela dalle discriminazioni intersezionali può servire ad anare lo sguardo sulla complessità e sulla diversità delle esperienze discriminatorie, scrutando interstizi inesplorati che resterebbero, altrimenti, invisibili. Infine, è utile un cenno alla “multidimensionalità” della norma antidiscriminatoria, per indicare "sia le interrelazioni tra diversi modi di concepire la legge sull'uguaglianza sia le intersezioni tra fattori discriminatori". Da questa impostazione Victoria Chege deriva l'espressione "discriminazione multi-dimensionale”, con cui indica sia le discriminazioni “composite” o"additive” sia le “discriminazioni intersezionali”. 31
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