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Introduzione al diritto dell'unione europea Gaja-Adinolfi, Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

Riassunto del libro per sostenere l'esame di diritto dell'unione europea

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Introduzione al diritto dell'unione europea Gaja-Adinolfi e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! Introduzion al Diritto dell'Unione europea GAJA-ADINOLFI lOMoARcPSD|1195861 Cap I - L’Unione europea: origini ed evoluzione della UE 1 - Dalla concezione dell’Europa funzionale all’Unione europea Il primo passo verso la costruzione dell’attuale edificio europeo, fu l’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), istituita con il Trattato di Parigi del 1 aprile 1951, che si proponeva di mettere in comune, tra i Paesi aderenti, la produzione del carbone e acciaio al fine di determinare una fusione di interessi indispensabile, per cosi proseguire, la cooperazione in altri campi, costruendo così una comunità economica. Dopo la Ceca, la tappa più significativa dell'itinerario per la progressiva costruzione dell'edificio europeo è stata l'istituzione, con i Trattati di Roma (TCE e Trattato CEEA) del 25 marzo 1957, di altre 2 comunità: la Comunità economica europea (CEE, denominata dal 1° nov 1993 Comunità europea, CE) e la Comunità europea per l’energia atomica (o nucleare) ad uso pacifico (CEEA o EURATOM). Delle 3, la Ceca è stata estinta il 23 luglio 2002, poiché non è stato prorogato il termine di scadenza previsto nel trattato istitutivo del 1951 → Il Trattato CE mirava a realizzare un mercato comune, cioè un area all’interno della quale fossero assicurate le cosiddette quattro libertà: 1) libera di circolazione delle merci, eliminando i dazi doganali tra Stati membri e le altre restrizioni al commercio tra gli stati membri 2) libera circolazione dei servizi, cioè libertà per le persone fisiche e giuridiche degli Stati membri di prestare servizi in altro Stato membro 3) libera circolazione dei lavoratori, ossia libertà per le persone fisiche e giuridiche degli Stati membri di esercitare attività lavorativa in altro stato membro 4) libera circolazione dei capitali, vale a dire libertà di trasferimento di capitali da uno Stato membro all’altro, per svolgere attività economiche Alle quattro libertà si accompagnavano alcune politiche comuni, come quella agricola, commerciale, della concorrenza. I 3 Trattati istitutivi delle Comunità europee hanno subito nel tempo varie modifiche, grazie ai vari trattati per l'adesione di nuovi stati e ad altri, ulteriori, trattati. Tali modifiche hanno portato all’accrescersi delle competenze della comunità, in particolare per effetto: - dell'atto unico europeo del 1986, - del TUE (trattato di Mastricht del 1992 ed entrato in vigore il 1 novembre del 1993) - del Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore nel 1999 - del Trattato di Nizza del 2001 ed entrato in vigore nel 2003 Il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 ( TUE) ha disciplinato esso stesso la cooperazione tra gli stati membri in alcune materie, ed inoltre istituito una nuova struttura cioè l'Unione Europea, destinata a ricomprendere in unico quadro generale le varie forme di cooperazione poste in essere dagli Stati membri. All’interno dell’Unione si distinguevano diversi settori (pilastri), ai quali si applicavano (oltre ad alcune norme del TUE relative all'Unione nel suo complesso) delle regole e procedure specifiche per ciascuno di essi : 1° pilastro, costituito dalle Comunità europee (CECA; CE; CEEA), perciò regolato dal Trattato CECA (fino alla sua estinzione nel 2002 ), dal Trattato CE e dal Trattato EURATOM e avente ad oggetto le numerose materie di competenza comunitaria (circolazione delle merci e delle persone, politica agricola, della concorrenza ecc.); 2° pilastro, regolato dal TUE, riguardava la politica estera e di sicurezza comune (c.d. PESC) 3° pilastro, anch’esso regolato dal TUE, riguardava la cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria (in materia penale). → La ragione di una struttura complessa risiedeva nel fatto che: nelle materie oggetto del 2°e 3° pilastro gli Stati membri non avevano voluto attribuire competenze alla Comunità, ma preferivano cooperare in base a regole che consentivano loro di mantenere un ruolo decisionale più importante (ad esempio privilegiando l'adozione delle delibere all'unanimità invece che a maggioranza qualficata). La volontà di semplificare tale sistema e di adattarlo al più elevato numero di Stati che si aggiungevano all’Unione ha portato ad elaborare un progetto secondo il quale tutte le regole sarebbero state dettate da un nuovo ed unico trattato, cioè la Costituzione europea (2004). Il progetto (con valore anche simbolico, Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| - gli Stati membri sono ancora padroni dei trattati in quanto possono, anche in modo unilaterale, esprimendo una volontà contraria all’atto di ratifica o di adesione ai trattati istitutivi, far venir meno la loro partecipazione all’Unione. Tale possibilità trova ora riscontro nel TUE , ove, a seguito delle modifiche apportato con il trattato di Lisbona , si prevede che: ogni Stato membro «può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione». 3 - La cittadinanza dell’Unione L’Unione prevede, come simbolo dell'intensità dei vincoli tra gli stati membri, l’istituto della «cittadinanza dell’Unione» il cui presupposto è la «cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce». L'istituzione della cittadinanza dell'Unione, non incide sulla competenza di ciascuno Stato membro a stabilire propri criteri per l’attribuzione della nazionalità; la Corte di giustizia ha infatti affermato, con riferimento al diritto di circolazione di una persona munita di doppia cittadinanza, che «la determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza rientra (in conformità al diritto internazionale) nella competenza di ciascuno Stato membro», nonostante tale competenza debba «essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario» → Lo status di cittadino dell’Unione comporta un insieme di situazioni soggettive che sorgono in base ai Trattati istitutivi e in base alle relative norme di attuazione adottate dalle isituzioni. Tra queste situazioni soggettive vi è: • il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri fatte salve le limitazioni e le condizioni, previste dai Trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi. Al cittadino dell'Unione sono attribuiti anche diritti politici esercitabili sul territorio degli stati membri diversi da quello di nazionalità: • il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali nello Stato membro in cui il soggetto risiede e alle elezioni del parlamento europeo nello stato membro il cui il soggetto risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tuttavia vi è la possibilità del Consiglio di adottare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno stato membro lo giustifichino Con il T. Lisbona si è valorizzato il diritto dei cittadini di partecipare alla vita democratica dell’Unione, prevedendo: • che un numero di almeno 1 milione di cittadini dell’Unione possa invitare la Commissione a presentare proposte di atti normativi; tale potere però non è molto incisivo, perché la presentazione della proposta spetta comunque alla Commissione, ma può costituire uno strumento di pressione politica nei confronti di essa • la formazione di partiti politici a livello europeo, che hanno la funzione di contribuire a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell'Ue • diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo in merito a qualsiasi questione «che rientra nel campo di attività dell’Unione e che lo/la [il cittadino] concerne direttamente» • diritto di ricorrere al mediatore europeo per lamentare casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni o degli organi dell’Unione. • diritto di godere della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato membro, qualora nello Stato terzo il suo Stato (cioè lo stato membro di nazionalità) non sia rappresentato ; questa possibilità presuppone il consenso dello stato terzo Merita sottolineare che l'art. 25 TFUE, prevede una “particolare procedura per l'adozione di disposizioni intese a completare i diritti conferiti dallo stesso trattato (TFUE) ai cittadini dell'Unione”. Infatti affinchè tali dispozioni possano entrare in vigore è necessaria la previa approvazione degli stati membri conformente alla rispettive norme costituzionali. Si tende cosi ad agevolare l'attribuzione di ulteriori diritti, consentendo di arricchire lo status di cittadino dell'unione senza dover ricorrere ai procedimenti di modifica dei trattati istitutivi, previsti dall'art. 48 TUE. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Cap. II - Le istituzioni politiche 1 - Il quadro istituzionale dell’Unione europea La struttura dell'Ue si compone di vari organi, che, attraverso l'esercizio dei poteri loro conferiti, hanno il compito di realizzare i fini dell'organizzazione, enunciati dal TUE. L’art. 13 TUE prescrive che l’Unione dispone di un quadro istituzionale che mira a promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri. Ai principali organi dell’Unione è attribuita nel Trattato la qualifica di istituzione”. Si è soliti distinguere tra istituzioni politiche (Consiglio Europeo, Consiglio, Parlamento Europeo, Commissione, BCE, Corte dei conti )ed istituzioni giudiziarie (Corte di giustizia, Tribunali e Tribunali specializzati). Diversamente da quanto avviene negli ordinamenti interni, la ripartizione dei poteri tra le istituzioni politiche non segue le linee della classica distinzione tra potere legislativo ed esecutivo: • Consiglio europeo → FUNZIONI DI INDIRIZZO dell'attività delle altre istituzioni politiche e funzioni di PROGRAMMAZIONE • Consiglio e Parlamento Europeo → FUNZIONE LEGISLATIVA ripartita tra di essi • Commissione → FUNZIONI NORMATIVE ED ESECUTIVE I vari trattati, che hanno modificato il TCE, hanno innovato in modo significativo il sistema istituzionale dell'Ue, In particolare: estendendo i poteri del Parlamento europeo (attraverso la previsione di nuove procedure per l'adozione di atti normativi) e prevedendo la maggioranza qualificata (invece che l'unanimità) per l'adozione delle maggior parte delle delibere del Consiglio. Per effetto di tali modifiche, il sistema istituzionale dell'Ue, si avvicina sempre più al modello delle democrazie rappresentative. Il TUE afferma infatti il principio secondo cui «il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» • i cittadini sono direttamente rappresentati nel Parlamento europeo • gli Stati membri sono rappresentati sia nel Consiglio europeo dai rispettivi capi di Stato o di governo, sia nel Consiglio dai rispettivi rappresentanti a livello ministeriale, a loro volta chiamati a rispondere dinanzi ai loro parlamenti nazionali o ai loro cittadini . 2 - Il Consiglio europeo → art. 235-6 TFUE E' composto dai Capi di Stato e di governo dei paesi membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione ed esprime la volontà dei governi degli Stati membri. Sin da quando i capi di stato o di governo hanno avviato la prassi di riunirsi regolarmente, inizialmente con la denominazione di “vertice” (oggi con quella di Consiglio Europeo) tale organo si è configurato come la sede in cui gli Stati provvedono a un esame periodico delle questioni pendenti di maggiore rilevanza per lo sviluppo dell’Unione con la finalità di delineare soluzioni complessive. Esso ha costituito la sede nell'ambito della quale individuare Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| compromessi politici che non era stato possibile raggiungere altrimenti, (ad esempio nell'ambito del Consiglio). Queste funzioni sono delineate nel TUE, dove si indica che “il Consiglio europeo da all'Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti generali e le priorità politiche generali”. Infatti il Consiglio Europeo ha funzioni di indirizzo e programmazione (e non ha funzione legislativa). Esso esercita una notevole influenza sull'azione normativa dell'Ue infatti la circostanza che i capi di stato e di governo abbiano accettato una certa soluzione determina un comportamento corrispondente delle altre istituzioni politiche, e in particolare di quella che ha il ruolo più importante in materia legislativa cioè il Consiglio, anche esso di espressione governativa. La scelta se partecipare al Consiglio europeo per mezzo del capo di Stato oppure del capo di governo spetta a ciascuno Stato membro. La partecipazione del presidente della commissione ha la funzione di raccordo tra le due istituzioni. Se le questioni dell'ordine del giorno lo richiedono il presidente della commissione può farsi assistere da un membro della Commissione, mentre i capi di stato/governo da un ministro. Va precisato che ai lavori del CE, partecipa anche l'Alto Rappresentante dell'UE per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, al fine di assicurare il coordinamento della sua attività con quella condotta dal CE in materia di politica estera e sicurezza comune. Si riunisce di regola due volte al semestre su convocazione del presidente, il quale può anche convocare una riunione straordinaria. Il presidente del CE viene eletto dai componenti del Consiglio europeo a maggioranza qualificata, per un mandato di 2 anni e mezzo, rinnovabile una sola volta ed è incompatibile con un mandato nazionale. Il presidente del CE ha il compito di assicurare la preparazione e la continutià dei lavori e facilitare la coesione e il consenso verso il CE. I trattati isitutivi prevedono in certi casi, l'adozione da parte del Consiglio Europeo di particolari delibere, stabilendo le relative modalità di voto. Spetta al Consiglio Europeo: 1. adottare l'elenco delle formazioni del Consiglio e i turni di presidenza (deliberando a magg. qualificata) 2. stabilire la composizione del PE nel rispetto dei criteri stabiliti dal TUE (non può superare i 750 membri e ad ogni stato non possono essere dati + di 96 seggi e – di 6) 3. definire il sistema di rotazione tra i cittadini degli stati membri, ai fini della nomina della Commissione. Riguardo l’adozione delle delibere: 1. se i Trattati non dispongono diversamente, il CE si pronuncia per consenso: cioè le delibere sono prese senza voto, allorché non ci sia un’opposizione ad adottare un testo concordato informalmente 2. Se invece sia prevista dai trattati l’adozione di delibere mediante votazione, si applicano in via di principio le stesse regole, ai fini del raggiungimento dell’unanimità o della maggioranza qualificata, previste per le delibere del Consiglio. Il presidente del CE e il presidente della Commissione non partecipano al voto, per cui la delibera è adottata solo dai governi degli Stati membri. Quanto deliberato dal consiglio europeo, risulta dal comunicato finale di ciascuna riunione (cd. Conclusioni della Presidenza) e da eventuali risoluzioni o dichiarazioni. L'attività del CE non coinvolge il parlamento europeo, se non per il fatto che: le risultanze di ciascuna riunione debbono essere relazionate al Parlamento europeo dal presidente del Consiglio europeo e inoltre il presidente del Parlamento europeo può essere invitato, nella riunione del Consiglio europeo, per essere ascoltato. 3 - Il Consiglio o Consiglio dell’Unione europea Il C è una replica minore del CE, poiché anch’esso esprime la volontà dei governi degli Stati membri, ma da questo si differenzia in ragione delle funzioni attribuite. La principale funzione attribuita al C è quella normativa, che esercita congiuntamente al Parlamento europeo secondo varie procedure, ciascuna delle quali prevede una diversa ripartizione dei poteri fra le due istituzioni. Ulteriori funzioni del C sono: - approvazione del bilancio dell'UE, insieme al Parlamento Europeo - definzione delle politiche e coordinamento alle condizioni stabilite dai trattati Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| sede di Consiglio. A riguardo, è stabilito, che, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza: 1. partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari (art. 117 comma 5 Cost.) 2. concorrono direttamente alla formazione degli atti comunitari; partecipando, nell’ambito delle delegazioni del Governo, alle attività del Consiglio, dei gruppi di lavoro, dei comitati del Consiglio e della Commissione europea, e garantendo l’unitarietà della rappresentazione della posizione italiana da parte del Capo delegazione designato dal Governo (art. 5 della legge 131 / 2003,) 3. possono trasmettere osservazioni al governo, “ai fini della formazione della posizione italiana” e possono richiedere inoltre la convocazione della conferenza stato regioni per cercare di raggiungere un'intesa in proposito. (art. 5 della legge 11 del 2005). 5 - Il Parlamento europeo • «esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio» svolge un ruolo di controllo politico sulle altre istituzioni • emette pareri consultivi • elegge il Presidente della Commissione • È' composto da «rappresentanti dei cittadini dell’Unione» che sono eletti «a suffragio universale diretto, libero e segreto, per un mandato di 5 anni (come per la Commissione)» La ripartizione dei seggi tiene conto in qualche misura dell’entità della popolazione degli Stati. Tuttavia è stabilito che il Parlamento non può avere più di 750 membri (compreso il presidente) e a ciascuno Stato membro non possono essere assegnati più di 96 seggi e meno di 6. Questi criteri tendono a evitare che l'entità della popolazione incida oltre un certo limite sul numero di rappresentanti eletti in ciascuno stato mebro. La composizione del Parlamento è stabilita, nell’ambito di tali criteri, con una decisione adottata dall’unanimità da Consiglio europeo, e con l’approvazione dello stesso Parlamento. Mentre i Trattati istitutivi stabilivano originariamente che l’elezione del PE , a suffraggio universale diretto, si svolgesse secondo una procedura uniforme, le prime elezioni (1979) si sono tenute in base a procedure diversa da Stato a Stato. L’art. 223 TFUE prevede che il PE elabori un progetto volto a consentire l’elezione dei suoi membri, secondo una procedura uniforme in tutti gli SM oppure secondo principi comuni a tutti gli Stati membri. Ebbene, sin'ora non si è giunti ad adottare una procedura elettorale uniforme, in particolare per le diverse modalità con le quali nei vari stati membri avvengono le elezioni nazionali, regionali e locali. Tuttavia, sono stati stabiliti, alcuni principi comuni: - quello secondo cui la data dell'elezione per il PE, deve cadere entro uno stesso lasso di tempo compreso tra la mattina di giovedi e la domenica immediatamente successiva - quello secondo cui : le operazioni di spoglio delle schede possono iniziare solo dopo la chiusura dei seggi nello Stato membro in cui gli elettori votano per ultimi - il divieto di doppio mandato, tra la carica di parlamentare europeo e quello nazionale - quello secondo cui: l'elezione deve avvenire a scrutinio di lista oppure uninominale preferenziale, con riporto di voti di tipo proporzionale, mantendo complessivamente il carattere proporzionale del voto Secondo l'art. 231 TFUE, il Parlamento «delibera a maggioranza dei suffragi espressi», salvo che non sia stabilito diversamente nei Trattati . Es. l'adozione del regolamento interno del PE , avviene a maggioranza semplice, cioè a maggioranza dei membri che lo compongono. Nel regolamento interno adottato dal PE, è stabilita: sia la procedura di nomina del presidente e di 14 vicepresidenti; sia la costituzione di gruppi parlamentari, secondo le affinità politiche, e con un minimo di 19 deputati eletti in almeno 1/5 degli stati membri. Non si può individuare con chiarezza nel PE una maggioranza e una minoranza, anche perché i due gruppi politici più numerosi (il Partito popolare europeo, democristiano, e l’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici), che detengono il 36% e il 25% dei seggi nella legislatura 2009-14, spesso, possono determinare l’adozione di delibere solo operando congiuntamente. Anche il PE ha un Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| proprio segretariato generale , con circa 5000 dipendenti, che operano soprattutto in Lussemburgo e a Bruxelles. 6 - Le relazioni fra le istituzioni politiche Fra le istituzioni politiche intercorrono numerose relazioni, collegate all'espletamento dei procedimenti normativi o di altro genere. I trattati istitutivi della Comunità hanno posto in essere un sistema di ripartizione delle competenze tra le varie istituzioni della Comunità, in base al quale: ciascuna istituzione svolge una propria specifica funzione, nella struttura istituzionale della Comunità e nella realizzazione dei compiti affidatile. Il “rispetto dell'equilibrio istituzionale” comporta che “ogni istituzione eserciti le proprie competenze, nel rispetto delle competenze delle altre istituzioni”. Esso impone inoltre che possa essere sanzionata qualsiasi eventuale violazione di detta regola. In varie occasioni, la Corte di Giustizia ha affermato che le istituzioni, nell’esercizio delle competenze attribuite dai Trattati, devono comportarsi nei loro rapporti reciproci secondo un principio di leale cooperazione. Facendo seguito a tale giurisprudenza, il Trattato di Lisbona ha inserito nel TUE una disposizione (art.13 par. 2), dove si afferma che «ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai Trattati» e «le istituzioni attuano tra loro una leale cooperazione». Secondo l'art. 295 TFUE , le modalità di tale cooperazione sono definite da “reciproche consultazioni” tra Parlamento, Consiglio e Commissione (art. 295 TFUE) da cui hanno origine «accordi interistituzionali», per integrare la disciplina dei Trattati e che «possono assumere carattere vincolante». Mentre fra Consiglio e Commissione vi è una certa omogeneità politica, assicurata soprattutto dalla procedura di nomina della commissione , che riserva un ruolo rilevante ai governi; la composizione assai variegata del PE e la sua organizzazione essenzialmente secondo gruppi politici , rendono questa istituzione assai diversa dal C e dalla Commissione. Come abbiamo detto fra le funzioni del PE rientra quella del controllo politico sulle istituzioni UE. In particolare i Trattati attribuiscono al PE un potere di controllo sulla Commissione, attraverso l’approvazione di una mozione di censura sull’operato della Commissione; occorre a tal fine la maggioranza di due terzi dei voti espressi e la maggioranza dei membri che compongono il PE. Se la mozione di censura viene approvata, i membri della Commissione si dimettono collettivamente dalle loro funzioni (nessuna mozione è stata sinora approvata). Tuttavia, il PE, anche se la mozione viene approvata, non può influire sulla nuova composizione della Commissione, quindi questo strumento non è molto efficace. Il PE non ha il potere di censurare l’operato di singoli commissari; del resto l’attività della Commissione è essenzialmente collegiale e quindi essa è resposabile collettivamente innanzi al PE. La funzione di controllo del parlamento sulle altre isituzioni, si può esplicare anche in relazione alle: 1. petizioni o denunce, presentate dalle persone fisiche o giuridiche, cittadini o residenti dell’Unione (art. 227 TFUE) su una questione che li concerne direttamente e che attenga a una materia che rientra nel campo di attività dell’Unione 2. denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione, presentate al PE, da parte degli stessi soggetti. Ai fini dell'esame di queste denucnce, il Parlamento, su richiesta di ¼ dei suoi membri, può decidere di avviare un’inchiesta attraverso una commissione istituita ad hoc, purché la questione non sia oggetto di un ricorso giurisdizionale pendente, il quale deve essere prima espletato, affinché il Parlamento possa procedere (art. 226 TFUE). Va inoltre detto che la Commissione deve sottoporre al PE una relazione generale annuale sull’attività dell’Unione (non è un atto politicamente rilevante). Il Parlamento esercita il potere di controllo politico anche attraverso interrogazioni rivolte sia alla Commissione che al Consiglio: la Commissione è tenuta a rispondergli, oralmente o per iscritto, mentre il Consiglio non ha obbligo di risposta (ma in genere lo fa ugualmente) salvo che per le questioni riguardanti la PESC. Le interrogazioni scritte e le relative risposte sono pubblicate nella gazzetta ufficiale dell'UE, ove è pubblicato anche il verbale delle sedute del PE. Da quanto detto fin qui, ne deriva che il PE, in base ai trattati istitutivi, non possiede alcuno strumento significativo di controllo nei confronti delle altre istituzioni politiche, e in particolare di quella cui sono conferiti i maggiori poteri, cioè il Consiglio; né il PE è riuscito a dotarsi di fatto di strumenti di rilievo. Questo fatto e l'estensione, un tempo assai ridotta, dei poteri conferiti al PE, avevano determinato l'opinione, tuttora diffusa, che nel sistema dell’Unione ci sia un difetto di democrazia. In effetti, in questo sistema, l’organo eletto a suffragio universale diretto ha ancora poteri meno ampi di quelli che generalmente appartengono ai Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| parlamenti nazionali negli Stati con forme di democrazia rappresentativa. Ciò trova origine nel fatto che, la Comunità, ora Ue, è stata istituita come organizzazione internazionale e che in essa gli stati membri esercitano tutt'ora un ruolo determinate. 7 - Le procedure per l’adozione degli atti normativi dell’Unione I trattati istitutivi prevedono varie procedure per l'adozione degli atti normativi, sulla base delle quali, il ruolo delle istituzioni politiche (Consiglio e Parlamento) si articola diversamente, riservando ad esse (specie al parlamento ) poteri più o meno significativi. Ogni disposizione dei Trattati che attribuisce poteri normativi ad una certa istituzione indica anche quale procedura deve essere seguita, cioè anche le modalità di esercizio di tale potere normativo. Ciò consente di stabilire nei trattati, in relazione a ciascuna materia di competenza dell’Unione, se riservare un potere più forte al Parlamento o al Consiglio (cioè ai governi). Per l’adozione degli atti normativi sono previste, nel TFUE (art.289) due tipologie di procedure: → a) Procedura ordinaria → applicabile nella grande maggioranza dei casi, e consistente nell'adozione congiunta di un atto da parte del Parlamento e del Consiglio su proposta della Commissione. Tale procedura prende avvio con la presentazione al PE e al Consiglio da parte della Commissione di una proposta di atto normativo; in alcuni casi previsti dallo stesso TFUE la proposta può essere presentata da un gruppo di stati membri, o su raccomndazione della BCE, oppure, su richiesta della Corte di Giustizia. Questa procedura può prevedere un massimo di tre diverse fasi, o meglio 3 diverse letture da parte del Consiglio e del Parlamento. 1. Nel corso della prima lettura il PE adotta una posizione (esprime il suo orientamento rispetto alla proposta della Commissione) e la trasmette al Consiglio; se quest’ultimo approva tale posizione, l’atto viene adottato nei termini risultanti dalla posizione stessa del PE. Se invece, come più di frequente avviene, il Consiglio non approva la posizione del PE, esso adotta una sua posizione e la trasmette al PE 2. Si apre cosi la seconda lettura, nel corso della quale: - se il PE approvi la posizione del Consiglio oppure quando esso non si pronunci nel termine di tre mesi dalla comunicazione della stessa posizione, allora la posizione del consiglio si trasforma in atto nel senso che l'atto viene adottato - se invece il PE respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, tale posizione del Consiglio, l’atto proposto si considera non adottato - se, infine, sempre alla stessa maggioranza, il PE abbia formulato emendamenti rispetto alla posizione del Consiglio, si potrà adottare l’atto solo in un’ipotesi che si verificherà difficilmente: quella in cui il Consiglio a maggioranza qualificata approvi tutti gli emendamenti del PE; occorre tuttavia l’unanimità per gli emendamenti rispetto ai quali la Commissione ha dato parere negativo - Se il Consiglio non accetti gli emendamenti, è convocato un comitato di conciliazione, che riunisce i membri del Consiglio o i loro rappresentanti ed altrettanti rappresentanti del PE, con la finalità di giungere ad un accordo su un progetto comune (di atto normativo) a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a maggioranza dei rappresentanti del PE. Il comitato, ai cui lavori partecipa anche la Commissione (col compito di prendere ogni iniziativa, necessaria per favorire il ravvicinamento fra la posizione del PE e quella del Consiglio) ha 6 settimane per approvare un progetto comune. Se non si riesce ad approvare entro tale termine il progetto, l’atto si considera non adottato. Se invece il comitato approva un progetto comune, è avviata la terza lettura 3. Nella terza lettura, il PE e il Consiglio dispongono di un termine (di 6 settimane) per adottare (il PE a maggioranza dei voti espressi e il Consiglio a maggioranza qualificata) l’atto in questione “in base al progetto comune”, se l'atto non è così approvato, l’atto in questione si considera non adottato. Come ben si nota nella procedura legislativa ordinaria il PE ha un ruolo assai determinante, che rischia però di precludere o rendere ardua l'adozione di atti normativi. Ai fini dell'adozione dell'atto occore, comunque, una delibera favorevole del Consiglio; qualora infatti non giunga ad un testo accettato da entrambe le istituzioni , l'atto non potrà essere adottato. Il ruolo della commissione appare significativo soprattutto in ragione del suo potere di elaborare la proposta dell'atto. A riguardo bisogna dire che , rispetto al negoziato che si svolge nel Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| della Commissione) entro il termine di 21 giorni dalla convocazione, a un accordo su un progetto comune, a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro rappresentanti e a maggioranza dei rappresentanti del PE 9. Se entro il termine di 21 giorni, il comitato di conciliazione non pervenga a un accordo su un progetto comune, la Commissione sottopone un nuovo progetto di bilancio 10.Se invece entro il termine di 21 giorni, il comitato di conciliazione pervenga a un accordo su un progetto comune, il Consiglio e il PE dispongono ciascuno di un termine di 14 giorni a decorrere dalla data di tale accordo, per approvare il progetto comune 11.Se entro il termine di 14 giorni: • il Consiglio e il PE approvano il progetto; oppure non riescono a deliberare; o se una delle due istituzioni approva il progetto mentre l’altra non delibera; il bilancio si considera definitivamente adottato, in conformità del progetto comune • il Consiglio e il PE respingono il progetto, oppure se una delle due istituzioni respinge il progetto mentre l’altra non delibera, oppure ancora se il progetto è respinto dal PE ma è approvato dal Consiglio; la Commissione deve presentare un nuovo progetto, riavviando così la procedura di adozione del bilancio • il PE approva il progetto mentre il Consiglio lo respinge; il bilancio sarà definitivamente adottato se il PE, entro 14 giorni dalla data in cui il consiglio l'ha respinto, decide di confermare tutti gli emendamenti da esso stesso adottati, deliberando su ciascun emendamento, a maggioranza dei membri che lo compongono e con 3/5 dei voti espressi. Qualora certi emendamenti non siano confermati, il bilancio sarà cmq adottato ma si manterrà, sulla linea di bilancio oggetto di tali emendamenti, il testo concordato nel comitato di conciliazione. Spetta al presidente del PE dichiarare che il bilancio è definitivamente adottato. La Corte di giustizia ha il potere di vigilare affinchè le istituzioni costituenti l'autorità di bilancio (C e PE) rispettino i limiti della loro competenza e qualora si verifichino dei vizi delle aprocedura, le due isituzioni devono riprendere il procedimento di bilancio dal punto preciso in cui si è verificata l'irregolarità. Tale complessa procedura conferisce un potere rilevante al PE, perché ad esso spetta l’ultima parola nella definizione delle spese dell’Unione; il PE può, anche se con una maggioranza che è difficile raggiungere (cioè deliberando a maggioranza dei membri che lo compongono e con 3/5 dei voti espressi) confermare la propria posizione, determinando così l’adozione del bilancio nonostante non sia stato raggiunto un accordo con il Consiglio. Qualora il procedimento di approvazione del bilancio si protragga, l’approvazione potrà avvenire dopo il 1° gennaio dell’anno al quale il bilancio si riferisce; in tal caso l’UE, fino all’approvazione del bilancio, provvede alle spese mensilmente nell’ambito del 12° delle somme stanziate dal precedente bilancio, salvo che il Consiglio autorizzi spese superiori. Spetta alla Commissione provvedere, in cooperazione con gli Stati membri, all'esecuzione al bilancio (cioè alla riscossione delle entrate e all'effettuazione delle spese) sotto la propria responsabilità e nei limiti dei crediti stanziati, in conformità del principio della buona gestione finanziaria. Ogni anno la Commissione sottopone al Parlamento europeo e al Consiglio, i conti dell'esercizio trascorso ed una relazione di valutazione delle finanze dell'Unione basata sui risultati conseguiti. Su questa base il Parlamento europeo, su raccomandazione del Consiglio ed esaminata la relazione della Corte dei conti, dà atto alla Commissione dell'esecuzione del bilancio. Tale delibera, detta ATTO DI DISCARICO, se rinviato o rifiutato dal PE, esprime un importante censura nei confronti dell'operato della commissione. 9 - Il controllo sull’amministrazione: la Corte dei conti e il mediatore Il Trattato di Maastricht ha inserito la Corte dei conti tra le istituzioni europee, che ha la funzione di assicurare «il controllo dei conti dell’Unione». Si compone di un numero di membri pari a quello degli stati membri (cioè 28 membri), nominati per 6 anni. Il Consiglio, previa consultazione del PE, adotta a maggioranza qualificata l’elenco dei membri, scelti tra personalità che abbiano una qualifica o esperienza specifica per tale funzione, conformemente alle proposte presentate da ciascuno Stato membro. Di fatto, tali membri, Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| sono nominati uno per ciascuno Stato ma tuttavia «esercitano le loro funzioni in piena indipendenza e nell'interesse generale dell'Unione» e a garanzia di ciò essi non «sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo né da alcun organismo». La corte è coaudiuvata da circ 400 dipendenti. La Corte ha il compito di esaminare «i conti di tutte le entrate e le spese dell’Unione» e dei suoi organismi. Sulla base di tale esame, la CC presenta al Consiglio e al Parlamento «una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti e la legittimità e la regolarità delle relative operazioni». Deliberando a maggioranza, la Corte redige annualmente una relazione dopo la chiusura di ciascun esercizio finanziario e adotta , ogni anno e sempre deliberando a maggioranza, alcune relazioni speciali e pareri. Il controllo che essa svolge non è soltanto tecnico , ma, attraverso l’accertamento della «sana gestione finanziaria», essa svolge un controllo che attiene anche alle scelte politiche dell’Unione che hanno riflessi sulla gestione delle risorse dell’Unione. Le relazioni annuali sono pubblicate sulla gazzetta ufficiale L’art. 228 TFUE prevede che il PE elegga un mediatore che dura in carica per l’intera legislatura e il suo mandato è rinnovabile. Esso è abilitato a ricevere le denunce, di qualsiasi cittadino dell'Ue o di qualsiasi persona fisica o giuridica che abbia residenza o sede in uno Stato membro, e riguardanti casi di cattiva amministrazione nell'azione delle istituzioni , degli organi o organismi dell’Unione stessa, esclusa la Corte di giustizia nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. Se il mediatore riscontra un caso di cattiva amministrazione, ne investe l’istituzione, organo o organismo interessata/o , la/il quale ha 3 mesi di tempo per sottoporgli il suo parere; dopodiché il mediatore trasmette la sua relazione al Parlamento e all’istituzione, organo o organismo interessati. In ogni caso, il mediatore presenta una relazione annuale al Parlamento sui risultati delle sue indagini. 10 - Il Sistema europeo delle banche centrali e la BCE Al fine dell’attuazione dell’unione economica e monetaria, stabilita con il Trattato di Maastricht, sono stati creati vari organi le cui caratteristiche e funzioni risultano non solo dal TFUE ma anche dallo STATUTO DEL SISTEMA EUROPEO DELLE BANCHE CENTRALI, allegato ai trattati. Il principale di tali organi è la BCE – Banca Centrale Europea (art. 13 TUE), la quale insieme a tutte le banche centrali di tutti gli Stati membri costituisce il Sistema Europeo delle Banche Centrali cd. SEBC; tale sistema ha il compito di « sostenere le politiche economiche generali dell’Unione, al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi di quest’ultima ». Al SEBC si affianca il cosiddetto EUROSISTEMA, che comprende la BCE e le banche centrali dei soli paesi membri (attualmente 17) la cui moneta è l'euro, le quali «conducono la politica monetaria dell’Unione» . La BCE opera attraverso un Consiglio direttivo che comprende: - «i membri del Comitato esecutivo della stessa BCE (6 membri) -e i governatori delle Banche centrali nazionali degli stati membri la cui moneta è l'euro». Il Comitato esecutivo è composto dal presidente, dal vicepresidente e da quattro altri membri, tutti nominati dal CE, a maggioranza qualificata, su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del PE e del Consiglio direttivo della BCE. Il mandato dei membri del Comitato esecutivo dura 8 anni e i membri non sono rieleggibili. La BCE «ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro», e al SEBC spetta «definire e attuare la politica monetaria dell’Unione» e svolgere le operazioni relative ai cambi, ovviamente per i paesi euro . Inoltre la BCE esercita nel settore di sua competenza, una funzione normativa: infatti essa può adottare regolamenti e decisioni, e formulare raccomandazioni e pareri. Varie disposizioni del TFUE prevedono che essa debba essere consultata in merito a determinati progetti di atti normativi e che, in certi casi, abbia il potere di raccomandare l’adozione di atti. La BCE non è soggetta a controllo da parte delle istituzioni politiche dell’Unione. L'art.284 del TFUE si limita a prevedere che: - la BCE trasmetta annualmente al Parlamento, al Consiglio, alla Commissione ed al Consiglio europeo una relazione sull’attività del SEBC e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso e che si tenga eventualmente su questa base un dibattito generale nel PE. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| - il presidente della Banca centrale europea e gli altri membri del comitato esecutivo possono, a richiesta del Parlamento europeo o di propria iniziativa, essere ascoltati dalle commissioni competenti del Parlamento europeo. Nessuno di questi strumenti consente evidentemente al PE di esercitare un potere di indirizzo. D’altra parte, gli stessi stati membri hanno una limitata possibilità di incidere sull'attività del SEBC, anche perchè l'art.282 TFUE dicendoche la Banca centrale europea è indipendente nell'esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze, impone alle istituzioni, organi e organismi dell'Unione e i governi degli Stati membri di rispettare tale indipendenza. A garanzia di tale indipendenza l'art. 130 TFUE dice che: nell'esercizio dei poteri e nell'assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea, né una banca centrale nazionale, né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Un contrappeso politico alla BCE può essere ravvisato nel c.d. Eurogruppo, istituito dal CE nel 1997 e composto dai ministri delle finanze degli S.m. che adottano l'euro. 11 - Il ruolo delle istituzioni politiche per la politica estera e sicurezza comune (PESC) Si è gia rilevato come la cooperazione tra gli stati membri in materia di PESC avesse essenzialmente carattere intergovernativo, pur realizzadosi attraverso l'attività delle istituzioni politiche dell'UE. Nonostante con il nuovo trattato (Lisbona 2007) si sia superata la divisione in pilastri, riguardo alla politica estera e di sicurezza comune, continuano ad operare regole particola ri (Titolo V del TUE) che sostanzialmente riservano ai governi degli Stati membri un ruolo decisionale preponderante. I compiti più significativi sono attribuiti al Consiglio e al Consiglio Europeo, che del resto, riflettono immediatamente l'atteggiamento degli SM, vista la loro composizione. Il ruolo del PE è invece più limitato. L’art. 31 TUE prevede come regola generale l’unanimità per tutte le delibere fondate sul titolo V, salvo diversamente stabilito dal TUE, ed esclude l’adozione di atti legislativi. Nonostante vige la regola per cui le astensioni non impediscono l’adozione all’unanimità delle delibere, è inoltre previsto un particolare istituto, detto dell’astensione costruttiva: uno SM può motivare la propria astensione, rispetto a una decisione, con una dichiarazione formale, con la conseguenza che esso non è obbligato ad applicare quella decisione, ma accetta che essa impegni l’Unione. → Nei pochi casi in cui è previsto che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata, è stabilito che se uno SM dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi all’adozione di una decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione e della questione può essere eventualmente investito il Consiglio europeo. Con il Trattato di Lisbona, alcune competenze specifiche in materia di politica estera e sicurezza comune sono state attribuite all’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, al quale è affidato il compito di guidare la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione. Nell'esercizione delle sue funzioni esso si avvale del SERVIZIO EUROPEO per L'AZIONE ESTERNA. Si è voluto cosi accentrare in un unico organo il compito di guidare tali settori, con l’intento di favorire un orientamento uniforme e coerente da parte dell’Unione, nei rapporti con gli Stati terzi. Egli è nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del presidente della Commissione, senza che sia stabilita la durata del suo mandato; tuttavia lo stesso Consiglio europeo può revocarlo in ogni momento mediante la medesima procedura, come pure può stabilire una scadenza del suo mandato. L’alto rappresentante presiede il Consiglio nella formazione «Affari esteri», contribuisce «con le sue proposte all’elaborazione» della politica estera e di sicurezza e «la attua in qualità di mandatario del Consiglio». Al fine di garantire un raccordo con la Commissione, l’alto rappresentante è anche uno dei vicepresidenti della Commissione stessa. L’alto rappresentante deve regolarmente consultare il PE sui principali aspetti e scelte della politica estera e di sicurezza comune e lo informa dell’evoluzione di tali politiche. Egli provvede affinchè le opinioni del PE siano debitamente prese in considerazione. Il PE, può infine rivolgere al Consiglio interrogazioni e raccomandazioni e tenere due volte l'anno un dibattito sui progressi ottenuti nell'attuazione della PESC e della politica di sicurezza e difesa comune. Nonostante il coinvolgimento del Consiglio, e in misura assai minore della Commissione e del Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| decisione e le relative implicazioni, indicando quale sia a suo avviso la soluzione preferibile. Gli avvocati generali sono attualmente 8, ma il Consiglio, su richiesta della Corte, può all’unanimità aumentarne il numero. Presso il T non ci sono avvocati generali, ma un giudice di tale organo può essere chiamato, nei casi previsti dal regolamento di procedura del Tribunale, a svolgere tale funzione. I giudici della CG designano nel loro ambito il presidente della CG, cosi come i giudici del T designano nel loro ambito il presidente dello stesso. Il mandato di entrambe i presidenti, è triennale e rinnovabile. La CG di norma opera in sezioni composte di 3 o 5 giudici. Attualmente le sezioni sono 8, più una “grande sezione” composta da 13 giudici, alla quale sono deferite le cause, quando lo richieda uno SM o un’istituzione dell’UE che è parte in causa. In casi particolari la CG si riunisce in seduta plenaria (es. quando la CG deve pronunciare le dimissioni di componenti della Commissione oppure quando lo decida la stessa CG, a motivo dell'eccezionale importanza del giudizio pendente innanzi ad essa). L’attività della CG, oltre che dai trattati e dallo statuto della stessa, è disciplinata dal regolamento di procedura, che è adottato dalla stessa Corte, ma è sottoposto all’approvazione del Consiglio che delibera a maggioranza qualificata. Anche il T si riunisce in sezioni e ha un proprio regolamento di procedura, adottato dal Tribunale stesso, di concerto con la CG, e poi sottoposto all’approvazione del Consiglio. Il regolamento di procedura del T, indica fra le altre cose, in quali casi il Tribunale procede in seduta plenaria anziché in una sezione e in quali casi dev'essere designato un giudice con funzione di avvocato generale. Il T non era previsto in origine dal TCE; è stato istituito nel 1989, con una decisione del Consiglio, (adottata sulla base di una disposizione introdotta dall'atto unico europeo) al fine di alleviare il carico giudiziario della CG, che nel tempo si era fatto assai gravoso. Al Tribunale (che prima del trattato di lisbona, era detto tribunale di 1° grado) sono state gradualmente attribuite competenze sempre più ampie. In linea generale, sono di competenza del Tribunale i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche mentre spettano alla Corte quelli presentati dalle istituzioni dell’UE e dagli SM. Piu in particolare, sono di competenza del T: A) tutti i ricorsi di annullamento, per carenza e per risarcimento del danno, eccetto che nei casi in cui tali ricorsi siano riservati alla CG o ai Tribunali specializzati. Sono di competenza della CG: B) i ricorsi per infrazione, cioè proposti dalla Commissione o da altro stato membro, nei confronti di uno stato membro per violazione di obblighi posti da norme Ue C) i ricorsi proposti da uno stato membro: • contro un atto o un astensione dal pronunciarsi del PE , del Consiglio, e di queste 2 istituzioni quando operano congiuntamente • oppure contro un atto o un astensione della commissione, relativi alla partecipazione di uno stato membro a una cooperazione rafforzata D) i ricorsi di legittimità e in carenza, proposti da un istituzione dell'Ue: • contro un atto o un astensione dal pronunciarsi del PE , del Consiglio, e di queste 2 istituzioni quando operano congiuntamente oppure contro un atto o un astensione della commissione • ontro un atto o un astensione dal pronunciarsi della BCE L'art 256 par. 3 del TFUE, prevede che: al T può essere affidata la competenza a esaminare questioni pregiudiziali sollevate da giudici nazionali, ma solo in materie specifiche determinate dallo statuto. Lo statuto non ha ancora provveduto in tal senso, sicuramente anche per gli inconvenienti che questa soluzione comporterebbe. Nel sistema giudiziario dell’Unione la possibilità di impugnare, innanzi alla CG , le sentenze del Tribunale è riconosciuta oltre che alle istituzioni dell’UE e agli Stati membri, anche alle parti in giudizio (persone fisiche e giuridiche). Sì è voluto cosi garantire una maggiore tutela delle persone attraverso il doppio grado di giurisdizione. “Le decisioni del T sono impugnabili dinanzi alla Corte solo per i motivi di diritto e alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo statuto”. Lo statuto consente l'impugnazione, entro due mesi dalla notifica della decisione del T, “a qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente nelle sue conclusioni”, “agli SM e alle istituzioni della Comunità, anche se non erano intervenuti nel procedimento dinanzi al T”, e infine a “coloro che sono intervenuti nel giudizio, per la parte Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| della decisione che li concerna direttamente”. L’impugnazione è ammessa se è fondata su motivi relativi: all’incompetenza del T, a vizi della procedura dinanzi al T recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente, nonché alla violazione del diritto dell’UE da parte del T. L’alleggerimento del carico di lavoro della CG, che deriva dall’istituzione del T, dipende in gran parte dal modo in cui la stessa CG procede all’esame delle impugnazioni; in particolare dal concetto di questione di diritto che utilizza e dal controllo che intende esercitare circa l’adeguatezza della motivazione. L’uso di criteri ampi in proposito potrebbe aprire la via a una moltitudine di ricorsi e prospettare spesso l’esigenza di un riesame approfondito delle decisioni del T. • In origine, la giurisprudenza della CG ha rivelato un uso dei poteri di controllo tendenzialmente estensivo. Ad esempio, nonostante l’insufficienza della motivazione non costituisca di per sé un motivo di impugnazione, essa può assumere rilevanza in quanto violazione di un principio generale. In effetti la CG si è nel tempo indirizzata nel senso di annullare decisioni del T di primo grado la cui motivazione le è apparsa carente • Più recentemente la CG ha manifestato per certi versi un orientamento più restrittivo; essa ha affermato che, in via di principio, la valutazione dei fatti non costituisce una questione di diritto; tale valutazione può essere riveduta in sede di impugnazione soltanto qualora l’inesattezza materiale degli accertamenti del T risulti dai documenti acquisiti in atti e qualora sussista uno snaturamento degli elementi di prova • Inoltre il ricorso non si può limitare a ripetere i motivi e gli argomenti già presentati al tribunale (perchè un impugnazione di questo genere costituirebbe una domanda diretta ad un semplice riesame del ricorso presentato innanzi al T) e non può essere sollevato innanzi alla corte, da una parte del giudizio di appello, un motivo che non era stato dedotto innanzi al Tribunale (in quanto ciò equvarrebbe a sottoporre alla Corte una controversia più ampia di quella di cui era stato investito il T). Quando l’impugnazione è accolta, la CG annulla la decisione del T. La Corte può in tal caso: - statuire definitivamente nel merito “qualora lo stato degli atti lo consenta” - oppure rinviare la causa al T affinché sia decisa da quest’ultimo “in conformità con la decisione emessa dalla Corte sui punti di diritto”. Il rinvio al Tribunale si impone quando risulti necessario procedere a nuovi accertamenti di fatto, ad esempio perché secondo la Corte debba essere applicata una norma diversa da quella applicata dal Tribunale e alcuni fatti non siano stati accertati da quest’ultimo in quanto rilevanti “soltanto” secondo la diversa norma successivamente indicata dalla Corte. L’art. 257 TFUE prevede che il Parlamento e il Consiglio, su proposta della Commissione o della Corte di giustizia, possano istituire, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, dei tribunali specializzati «incaricati di conoscere in primo grado di alcune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche». I membri dei TS, sono scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza e che possiedano “la capacità per l’esercizio di alte funzioni giurisdizionali ” (come avviene per i giudici del T). Al momento è stato istituito il solo Tribunale della funzione pubblica dell’Unione europea, composto da 7 giudici, competente a pronunciarsi sulle controversie tra l’Unione e i suoi dipendenti. Le decisioni dei tribunali specializzati possono essere oggetto di impugnazione dinanzi al Tribunale: - per motivi di diritto - per motivi di fatto, qualora il regolamento sull’istituzione del tribunale specializzato, lo preveda». 3 - I ricorsi per infrazione (art 258 e 259 tfue) Una fra le competenze principali della CG concerne i ricorsi per infrazione, cioè proposti nei confronti di uno SM per violazione di obblighi posti da norme dell’UE es. l’inadempimento dell’obbligo di attuare direttive. La violazione può dipendere dal comportamento degli organi centrali dello Stato come da quello di qualsiasi altro organo o anche di un ente pubblico territoriale. I ricorsi possono essere proposti dalla Commissione (art.258 tfue) oppure da un Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| altro SM (art. 259TFUE). Quest'ultima seconda ipotesi però si verifica raramente, in quanto gli stati, anziché procedere direttamente, preferiscono indurre la Commissione a proporre il ricorso. Per la Commissione, come evidentemente per gli SM, proporre il ricorso per infrazione è cmq oggetto di una facoltà, non di un obbligo. Per quanto riguarda l'ipotesi prevista dall'art. 258 TFUE, cioè quando sia la commissione a proporre il ricorso, va detto che la presenza di una violazione di obblighi è spesso segnalata alla Commissione da persone fisiche o giuridiche, interessate al rispetto dell’obbligo. L’attenzione della Commissione è rivolta soprattutto alla tempestiva attuazione delle direttive (atti che pongono agli stati membri obblighi di adottare provvedimenti normativi entro un certo termine). La commissione avvia un procedimento solo in presenza di violazioni che essa considera sostanziali. Ciò significa che lievi ritardi nell’adempimento di obblighi oppure divergenze di contenuto di scarso rilievo, vengono di fatto tollerati. Il procedimento previsto dall'art. 258 TFUE prende avvio con: • la contestazione dell’infrazione da parte della Commissione, la quale invia allo Stato membro ritenuto inadempiente, una lettera, detta di intimazione o di addebito, dando il via alla c.d. fase precontenziosa • A tale contestazione lo Stato può replicare con proprie osservazioni • Una volta esaminate queste osservazioni, oppure superato il termine assegnato allo Stato per formularle, la Commissione, se intende proseguire, procede ad emanare un parere motivato indicandovi, ciò che lo Stato, a suo avviso, dovrebbe fare per porre fine alla violazione e fissando un termine per l’adempimento • Qualora lo stato non si conformi a tale parere motivato entro il termine fissato per l'adempimento, la Commissione può adire (dare inizio ad un’azione giudiziaria; è una facoltà, non un obbligo) la Corte di Giustizia dell’Unione europea • Se la Commissione intende avvalersi di tale facoltà, essa propone un ricorso, dando così avvio alla fase contenziosa del procedimento • La competenza a conoscere dei ricorsi per infrazione spetta esclusivamente alla Corte di giustizia (non anche al tribunale). In una senteza del 1984, la CG ha rilevato che: la lettera di intimazione ha lo scopo di circoscrivere la materia del contendere e di fornire allo SM, invitato a presentare le sue osservazioni, i dati che gli occorrono per predisporre la propria difesa. Ne discende che la Commissione non può far valere nuovi rilievi, al momento del parere motivato che essa emana e, ancor meno in quello del ricorso dinanzi alla Corte, in quanto, secondo la corte l’oggetto di un ricorso proposto ai sensi dell’art. 258 TFUE, è circoscritto dalla fase pre- contenziosa della procedura di infrazione. Di conseguenza il ricorso della commissione deve fondarsi su censure identiche a quelle di cui al parere motivato. La Commissione può tuttavia tenere conto nel ricorso, dei fatti successivi al parere, quando essi sono della medesima natura di quelli considerati nel parere motivato e costituiscono uno stesso comportamento. Inotre la commissione può procedere ad un ulteriore contestazione, avviando un nuovo procedimento. La CG ha rilevato che, l’azione per l’accertamento dell’inadempimento di uno Stato, non va esperita (mettere in atto) entro un termine predeterminato, giacché implica, in considerazione della sua natura e del suo scopo, la facoltà della Commissione di valutare quale siano i mezzi ed il termine più appropriati per porre fine ad eventuali inadempimenti. Infatti, la commissione dispone del potere di decidere quando si debba eventualmente proporre un ricorso, e non spetta alla CG sindacare tale decisione. D’altro canto, lo svolgersi del giudizio non è precluso dallo stesso adempimento di un obbligo, effettuato da parte dello SM dopo la scadenza del termine stabilito nel parere motivato; questo perchè, di fronte al ritardo nell'adempiere un obbligo o di fronte al rifiuto defintivo di adempierlo, la sentenza pronunciata dalla CG in forza dell'art. 258 e 260 TFUE, può avere pratica rilevanza come fondamento della responsabilità eventualemente incombente allo stato membro (a causa dell'inadempimento) nei confronti di altri stati membri, della comunità o dei singoli. La Commissione è pero libera di rinunciare al ricorso e lo fa spesso. Per quanto invece riguarda il ricorso per infrazione proposto da uno stato membro ai sensi dell'art.259 Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| 4 - L’impugnazione degli atti dell’Unione: Il ricorso per annullamento Il TFUE prevede un sistema unitario per l’impugnazione degli atti delle istituzioni dell’UE, siano essi, legislativi, esecutivi o delegati. Secondo l' art. 263 TFUE, “sono impugnabili: gli atti legislativi, gli atti adottati dal Consiglio, dalla commissione, e dalla BCE purché non siano raccomandazioni o pareri, e gli atti del Parlamento e del Consiglio europeo, destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi; è inoltre esercitato un controllo di legittimità sugli atti degli organi o organismi dell’Unione destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi”. La formula relativa agli effetti giuridici degli atti, sintetizza il criterio generale, seguito nell’ordinamento dell’Unione per determinare se l’atto di un’istituzione, organo o organismo sia impugnabile. Tale criterio, era stato in orgine affermato nella giurisprudenza della CG, la quale, relativamente alla conclusione dell'Accordo europeo sul trasporto stradale, aveva dichiarato che l'azione di annullamento deve potersi esperire nei confronti di qualsiasi provvedimento adottato dalle istituzioni, che miri a produrre effetti giuridici (indipendentemente dalla sua natura e dalla sua forma ). Applicando questo stesso criterio, la CG , in una sentenza del 1986, aveva quindi ammesso che, nonostante il silenzio del testo allora vigente circa l'impugnabilità degli atti del parlamento , un ricorso fosse proponibile anche nei confronti di atti del Parlamento europeo, destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. La stessa formula è cosi stata introdotta nel TCE dal Trattato di Maastricht, poi è stata estesa agli atti della BCE e infine, con il trattato di Lisbona del 2007, anche agli atti del Consiglio europeo e degli organi o organismi dell'Ue. Tale criterio, quindi, porta anzitutto a ritenere impugnabili atti adottati da qualsiasi istituzione, organo o organismo, qualora siano produttivi di effetti giuridici. Il riferimento generico agli organi e organismi (aggiunto dal Trattato di Lisbona) consente di estendere la possibilità di impugnazione, in conformità al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva, anche agli atti adottati dalle agenzie europee alle quali è talora conferita, sulla base dei rispettivi statuti, una limitata funzione amministrativa. Il criterio collegato alla circostanza che l’atto produca effetti giuridici comporta che la Corte, ai fini di decidere circa l’impugnabilità di un atto, valuta gli effetti che esso produce indipendentemente dalla sua denominazione formale. La corte ha perciò ritenuto, ad esempio, che, anche un atto che di per se sarebbe privo di forza vincolante (es. una semplice comunicazione della Commissione agli stati membri) deve invece essere impugnabile, qualora produca un effetto giuridico (es. aggiunga nuovi obblighi a quelli che risultano da una direttiva). Da tutto questo, ne discende che, restano esclusi dalla impugnazione: - gli atti preparatori( i cui vizi si possono far valere impugnando l’atto definitivo) - e gli atti che non producono, di per sé, effetti giuridici vincolanti, idonei ad incidere sugli interessi del singolo: esempio gli atti confermativi, gli atti di mera esecuzione, le semplici raccomandazioni e pareri, le istruzioni di servizio. Gli Stati membri ed alcune istituzioni (cioè, il Consiglio, la Commissione e il Parlamento europeo) sono legittimati ad impugnare qualsiasi atto, perciò sono detti «ricorrenti privilegiati». Ciò deve intendersi anche nel senso che non occorre per essi dimostrare un proprio interesse all’impugnazione. Ovviamente un istituzione non può impugnare un atto da essa adottato. Al contrario uno Stato membro può impugnare un atto adottato dal Consiglio (o da Consiglio e Parlamento) con il concorso del proprio voto. La Corte dei conti, la BCE e il Comitato delle regioni possono proporre ricorsi soltanto per «salvaguardare le proprie prerogative». Questa regola trae origine dal fatto che nel testo originario della disposizione non era previsto che il PE fosse legittimato a impugnare atti, ma la Corte aveva finito con l’ammettere la proponibilità di ricorsi da parte del PE solo per la tutela delle sue prerogative. Con il trattato di nizza del 2001 , il PE è stato inserito nei ricorrenti privilegiati e tale formula delle prerogative è stata cosi utilizzata in relazione alla BCE, corte dei conti e comitato delle regioni. Per tutela delle proprie prerogative deve intendersi una situazione nella quale l'istuzione o l'organo ha visto leso il ruolo che gli spetta nel procedimento normativo. es. quando sia stato adottato un atto senza provvedere alla sua consultazione prevista come obbligatoria dai Trattati, oppure quando sia stata ingiustificatamente scelta come fondamento giuridico di un atto una disposizione che non preveda un ruolo dell’istituzione o dell’organo o che riservi ad essi un potere meno incisivo. Il difetto di motivazione di un atto , non può Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| invece comportare una violazione delle prerogative. Mentre gli atti del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi sono impugnabili, esso non può invece impugnare gli atti delle altre istituzioni, ma data la simmetria tra il Consiglio europeo ed il Consiglio, l’impugnazione può essere garantita e proposta da quest’ultimo. Il Trattato non prevede nulla riguardo alla legittimazione delle articolazioni interne degli S.m., in particolare delle Regioni, a proporre il ricorso di annullamento. La Corte ha negato che le Regioni possano essere equiparate agli Stati membri ai fini dell’impugnazione e, dunque, queste dovranno agire necessariamente dinanzi alla Corte in veste di persone giuridiche, dimostrando di possedere i presupporti di cui all’art. 263, co. 4 (cioè che l’atto le riguardi direttamente e individualmente). Ciò rende assai difficoltosa la tutela diretta delle Regioni, nei confronti di atti dell’Unione che potrebbero limitare in modo significativo i loro poteri normativi (es. quando atti dell'UE vietino ad una regione di corrispondere un aiuto a imprese o le impongano la ripetizione dell'aiuto gia fornito). Quindi le Regioni potranno, piuttosto che intraprendere l’incerta via dell’impugnazione dell’atto dinanzi al Tribunale, sollecitare il governo dello S.m. a proporre alla CG un ricorso di annullamento (infatti in Italia la L. n. 131/2003 prevede che: nelle materie di competenza regionale il governo può impugnare atti dell’Unione «anche su richiesta di una delle Regioni o delle Province autonome», oppure il governo è tenuto a proporre il ricorso «qualora esso sia richiesto dalla Conferenza Stato‐Regioni a maggioranza assoluta delle Regioni e delle Province autonome»). Anche le persone fisiche o giuridiche possono impugnare atti dell'Ue , ma sulla base di requisiti molto ristrettivi. Infatti, una persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse condizioni previste in via generale dall’art. 263 TFUE, «un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente ed individualmente». Il primo criterio (atti adottati nei suoi confronti) è di agevole determinazione in quanto si riferisce ai soli atti (le decisioni) che possono avere come destinataria una persona fisica o giuridica. Più complesso è accertare quando un atto riguardi una persona direttamente e individualmente. Nella sentenza Plaumann la Corte ha ammesso che tali presupposti sussistono qualora l’atto del quale il soggetto non è destinatario, lo tocchi a causa di determinate qualità personali, oppure lo tocchi a causa di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stessa stregua dei destinatari. Non basta perciò a questo fine, nota la corte nella sentenza citata,“la qualità di importatrice di clementine” propria della ricorrente, per poter impungnare una decisione che riguardava la circolazione di clementine, visto che tale attività commerciale può essere sempre esercitata da chiunque e non è quindi atta ad identificare la ricorrente , nello stesso modo dei destinatari. Al contrario, in applicazione di tale criterio, la CG, ha ritenuto ammissibile un ricorso quando una decisione rivolta agli stati membri , incideva su licenze di importazione già richieste da operatori commerciali , poiché la commissione poteva sapere che la sua decisione incideva solo sugli interessi e sulla posizione di detti importatori. In tali circostanze, tali importatori, fra cui i ricorrenti, erano distinti da qualsiasi altra persona, in modo analogo al destinatario della decisione. In base ad un analoga argomentazione, la CG ha inoltre ritenuto ricevibile un ricorso presentato da una ditta che aveva da lungo tempo registrato un marchio e che si vedeva preclusa la possibilità di continuare a utilizzarlo a causa di un regolamento comunitario che aveva proibito certe diciture sulle etichette dei vini; in questo caso la ditta ricorrente aveva dimostrato l'esistenza di “particolari circostanze”. Vi sono casi in cui è ancora più evidente la circostanza che una decisione adottata nei confronti di uno stato membro colpisca direttamente ed individualmente una persona fisica o giuridica: esempio una decisione della commissione che dichiari illeggittimo l'aiuto dato da uno stato a un impresa e che gli imponga allo stato di ripetere la somma versata: in tal caso è chiaro che l'impresa che ha benificiato dell'aiuto e che si vede tenuta a restituitlo sarà direttamente ed indivudualmente interessata. L'applicazione rigorosa dei presupposti di ricevibilità dei ricorsi proposti dalla persone nei confronti di atti dei quali non sono destinatarie ha reso molto ardua la tutela rispetto ad atti dell'UE, facendo anche dubitare della conformità di tale sistema al diritto fondamentale ad ottenere una tutela giurisdiionale effettivs . Riguardo all’impugnazione di atti regolamentari da parte di una persona fisica o giuridica, la Corte ha riconosciuto che: “nonostante l’impugnazione sia ammessa solo qualora la persona sia interessata non solo direttamente, ma anche individualmente da tale atto, tuttavia Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| quest’ultimo requisito deve essere interpretato alla luce del principio di un tutela giurisdizionale effettiva tenendo conto delle diverse circostanze atte ad individuare un ricorrente”; d’altra parte, tale interpretazione non può condurre ad escludere il requisito di cui trattasi, espressamente previsto dal Trattato, senza eccedere le competenze attribuite dal Trattato ai giudici comunitari. Ciò significa che la Corte, pur cercando di intendere tale requisito in modo conforme al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale, non può sovvertire in via interpretativa il sistema stabilito dai Trattati, prescindendo dai presupposti di ricevibilità da questo enunciati. La CG ha tuttavia affermato che, il carattere effettivo della tutela giurisdizionale deve essere valutato nel suo complesso, considerando sia i mezzi di ricorso offerti dal diritto dell’UE sia quelli presenti negli ordinamenti nazionali: infatti, qualora non sia esperibile il ricorso di annullamento per difetto dei presupposti richiesti dall’art. 263.4 TFUE, le persone hanno la possibilità di far valere l’invalidità degli atti dell’Unione dinanzi ai giudici nazionali e di indurre questi ultimi ( che non sono competenti ad accertare direttamente l'invalidità di tali atti) a rivolgersi al riguardo alla Corte in via pregiudiziale. A garanzia di tale meccanismo, la Corte ha aggiunto che spetta agli S.m. prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso a garantire il rispetto del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, sopperendo così a livello interno alle lacune di tutela del sistema giurisdizionale dell’Unione. Quindi , una persona fisia o giuridica potrà, ad esempio, impugnare il provvedimento nazionale di esecuzione di un regolamento Ue, e far valere l'illegittimità di quest'ultimo (regolamento) nel giudizio nazionale sollevando a tal fine una questione di validità; il giudice nazionale potrà cosi , sottoporre la questione alla corte con rinvio pregiudiziale. Questo meccanismo consente quindi, di ottenere “indirettamente” un esame della validità dell'atto da parte della CG. La Corte ha tuttavia limitato la possibilità di ricorrere a tale meccanismo di tutela giurisdizionale (nazionale) precisando che: quando una persona sia legittimata a proporre il ricorso dinanzi al Tribunale (dell'Unione), una volta trascorso il termine per impugnare l’atto, essa non può più farne valere l’illegittimità nell’ambito di un procedimento dinanzi a un giudice nazionale. In sostanza, chi può impugnare direttamente l’atto ma non agisce entro il termine stabilito si vedrà poi preclusa la possibilità di contestare la legittimità dell’atto in un giudizio nazionale. E' evidente come l'applicazione del criterio enunciato dalla corte susciti incertezze qualora la persona non sia destinataria dell'atto: questa potrebbe, a motivo del carattere non ben definito dei presupposti d'impugnazione (di cui all'art.263.4 TFUE), ritenere erroneamente di non essere legittimata a proporre il ricorso , trovandosi poi nella situazione di non poter più contestare la legittimità dell'atto che non abbia tempestivamente impugnato. Proprio per questo la Corte, ha chiarito la portata del principio da essa enunciato, prospettandone una formulazione meno rigorosa: - in primo luogo , la corte, ha affermato che, nonostante una persona che avrebbe potuto impugnare direttamente l'atto , non può, decorso il termine per l'impugnazione , invocarne l'invalidità nel giudizio nazionale ,ciò non esclude che, in quel giudizio, il giudice decida d'ufficio di porre la domanda di validità in via pregiudiziale. - in secondo luogo, un ulteriore attenuazione del principio enunciato dalla Corte , risulta dalle recenti sentenze nelle quali , al fine di valutare se una persona potesse invocare l'invalidità di un atto in un giudizio nazionale, la corte ha considerato se tale persona fosse “incontestabilmente” legittimata ad impugnare l'atto. Tale orientamento , nonostante non arrivi ad affermare che la preclusione opera solo quando la persona sia destinataria dell'atto, sembra voler tendere a ridurre il grado di incertezza che comporta l'applicazione del principio. La preclusione a contestare la validità di un atto UE in un giudizio nazionale è infatti limitata, alle sole ipotesi nelle quali non potevano sussistere dubbi circa la legittimazione della persona ad impugnarlo. Il concreto coordinamento tra le varie forme di tutela giurisdizionale, non è sempre agevole, anche per altre ragioni. Si consideri infatti che, in mancanza di un mezzo esperibile a livello dell'Unione, l'esigenza di ottenere tutela giurisdizionale sul piano nazionale, comporta per gli stati membri l'obbligo di ritenere un ricorso ricevibile, anche se non lo sarebbe in applicazione delle norme processuali nazionali. Occorre inoltre considerare che la possibilità per le persone di agire direttamente innanzi al Tribunale e quella di ottenere tutela dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali, non si possono ritenere equivalenti, riguardo al grado di protezione offerto. Qualora la persona sia legittimata ad agire innanzi al Tribunale essa potrà ottenere una pronuncia da parte di questo , ed eventualmente impugnare tale pronuncia innanzi alla CG; se invece la persona sia Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| • violazione dei Trattati o violazione di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione: visto che un atto che sia viziato da incompetenza o che non abbia rispettato le forme sostanziali, sarà di regola anche un atto compiuto in violazione dei trattati (ad. esempio , un atto adottato al di fuori delle competenze dell’Unione sarà viziato per incompetenza ,ma anche per violazione dell'art. 2 TFUE) alla “violazione dei trattati”si attribuisce generalmente un significato residuale ; si fa cioè riferimento all'ipotesi di contrasto dell'atto con i Trattati, per ragioni di contenuto. Per quanto invece riguarda il contrasto con “qualsiasi altra regola di diritto relativa all'applicazione dei trattati” , è da dire che , fra tali regoli la CG ha incluso i principi generali che essa stessa ricostruisce in via interpretativa nella propria giurisprudenza. Quindi, un atto UE è illegittimo non solo quando contrasti con le disposizioni dei Trattati ma anche quando contrasti con principi generali (es. quello del legittimo affidamento) o con accordi conclusi dall'Ue con stati terzi/organizzazioni internazionali; oppure contrasti con regole di diritto internazionale generale. • sviamento di potere, intendendosi per tale l’adozione di un atto che persegua un fine non consentito, talché «risulta adottato allo scopo esclusivo, o quanto meno determinante, di raggiungere fini diversi da quelli dichiarati o di eludere una procedura appositamente prevista dal Trattato per far fronte alle circostanze del caso di specie». Esempio quando un concorso interno viene bandito dalla Commissione al solo scopo di ovviare alle anomalie di una situazione amministrativa, relative ad un determinato dipendente, e nell'aspettativa di nominare lo stesso dipendente al posto dichiarato vacante. Se il ricorso è fondato, la pronuncia che accoglie l’impugnazione «dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato» (art. 264 TFUE) e l’istituzione, l’organo o l’organismo che ha emanato l’atto annullato, «sono tenuti a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta» (ciò può implicare ad esempio la revoca o la modifica di atti di esecuzione fondati sull'atto annullato). L’annullamento dell’atto può essere totale o parziale a seconda dell’incidenza del vizio; lo stesso art.264, al par.2 , tuttavia dice che : la Corte, ove lo reputi necessario, “precisa gli effetti dell’atto annullato, che devono essere considerati definitivi ”. Con il trattato di Lisbona il potere di precisare tali effetti da considerare definitivi, riguarda quansiasi atto dell'UE, e non solo i regolamenti, come invece avveniva in precedenza (quindi anche direttive e decisioni). L’art. 264 TFUE implica che l’annullamento può non avere effetto retroattivo completo: la Corte può • stabilire, che l’illegittimità dell’atto opera solo dalla data della sua sentenza; • oppure può indicare, un diverso momento, precedente la sua pronuncia, dal quale gli effetti dell'annullamento cominciano a prodursi . La conseguenza pratica della limitazione degli effetti retroattivi, è che le persone non potranno ottenere tutela (ad esempio mediante la restituzione di somme versate in base all'atto illegittimo) in relazione a situazioni precedenti la data fissata dalla Corte. La CG ha ritenuto che l'art. 264 TFUE implichi, oltre al potere di limitare gli effetti retroattivi dell'annullamento, anche il potere di statuire che le disposizioni di un atto annullato «continueranno ad avere effetto fino a che non sarà adottato» un ulteriore atto. 5 - Il ricorso in carenza (speculare al ricorso per annullamento) In relazione all’ipotesi della mancata attuazione da parte di una istituzione dell’Unione di un obbligo positivo ad essa posto, l'art. 265 TFUE prevede un mezzo di ricorso che è tuttavia solo parzialmente adeguato. Questo art. 265, si riferisce all'ipotesi in cui avvenga un astensione , «in violazione dei Trattati »; è quindi esclusa l'utilizzabilità del procedimento quando un istituzione non abbia fatto uso di un proprio potere discrezionale (come ad esempio in relazione al potere della Commissione di proporre un ricorso per infrazione). Si tratta di un mezzo che è stato esperito solo raramento con successo: il caso di maggior rilievo in cui ciò è avvenuto , è stato quello dell'omissione da parte del Consiglio, accertata dalla CG su ricorso del PE , dell'adozione di alcuni provvedimenti in materia di politica Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| comune dei trasporti. Il ricorso è proponibile anche in presenza di un espresso rifiuto ad agire da parte di un istituzione. Infatti, secondo la CG, un rifiuto ad agire, pur essendo esplicito , può essere deferito alla corte a norma dell'art. 265 TFUE , in quanto non fa venire meno la carenza. In base all’art. 265 TFUE,. il ricorso può essere proposto nei confronti del PE, del Consiglio, del CE, della Commissione, della BCE, nonché di qualsiasi organo e organismo dell’UE. Legittimati a proporre ricorso sono le istituzioni dell’Unione (ma non la Corte), gli S.m. e qualsiasi persona fisica o giuridica, per contestare ad un’istituzione, organo o organismo dell’UE di aver omesso di emanare “nei suoi confronti” un atto che non sia una raccomandazione o un parere. Inizialmente la CG aveva dato un interpretazione molto restrittiva dell'espressione “nei suoi confronti”, ritenendo che questa dovesse riferirsi solo ad ipotesi in cui il ricorrente fosse il destinatario potenziale dell'atto che l'istituzione aveva omesso di adottare. Più recentemente, la Corte, accentuando le analogie tra il ricorso in annullamento e quello per carenza, ha ritenuto che, per determinare la legittimazione delle persone fisiche o giuridiche a proporre un ricorso in carenza, si dovrebbe applicare un criterio analogo a quello stabilito per l’impugnazione degli atti. Occorre perciò accertare che l’atto che l’istituzione “avrebbe dovuto adottare” riguardi direttamente e individualmente il ricorrente. Il tribunale, al quale spetta conoscere dei ricorsi proposti dalle persone , ha ben presto recepito tale orientamento , ad esempio ritenendo ricevibile un ricorso in carenza proposto da una persona giuridica contro la Commissione, per il fatto che quest'ultima non aveva adottato una decisione che, pur dovendo avere come destinatario uno stato membro, interessava direttamente ed individualmente la persona giuridica ricorrente. Tale orientamento, tuttavia, nonostante consolidato, ancora non è stato codificato nel TFUE. Un’ulteriore analogia tra il ricorso in carenza e quello di legittimità attiene al requisito per il quale la carenza deve riguardare l’omissione di atti che non siano pareri né raccomandazioni. Tuttavia, per il ricorso in carenza , a differenza che nel ricorso per annullamento, tale requisito concerne solo i ricorsi proposti dalle persone fisiche e giuridiche; quindi uno Stato membro o un’altra istituzione potranno agire anche per far dichiarare la violazione da parte di un’istituzione dell’obbligo di emettere un parere previsto dal Trattato. Sempre in base all’art. 265 TFUE perché il ricorso sia ricevibile occorre che «l’istituzione, l’organo o l’organismo in causa siano stati preventivamente richiesti di agire. Se, allo scadere di un termine di due mesi da tale richiesta, l’istituzione, l’organo o l’organismo non hanno preso posizione, il ricorso può essere proposto entro un termine di ulteriori due mesi». Il procedimento tende a far accertare, da parte degli organi giudiziari, la violazione dell’obbligo di pronunciarsi, con la conseguenza che «l’istituzione, l’organo o organismo la cui astensione sia stata dichiarata contraria ai Trattati, sono tenuti a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta» (art. 266 TFUE). L'attuazione da parte di un istituzione di un obbligo di fare non è in pratica sempre esigibile. In particoalre quando vi sia un omissione del Consiglio dovuta alla difficolt di raggiungere la maggioranza richiesta per una delibera , la sentenza della Corte non conduce necessariamente al risultato perseguito. 6 - La competenza in via pregiudiziale (art. 267 TFUE) Alla Corte è riservata (art.267TFUE) la competenza di decidere sulle questioni deferitele da giudici nazionali affinché essa: - interpreti norme dell’Unione - oppure accerti la legittimità (validità) di atti dell’Unione. L'importanza di questo procedimento è dovuta alla circostanza che questioni d'interpretazione o di legittimità si presentano generalmente dinanzi ai giudizi nazionali , i quali sono competenti a decidere le cause tra persone fisiche e giuridiche, quelle tra queste persone e gli stati membri , e le cause di naura contrattuale (eccetto quelle di lavoro, che competono al Tribunale specializzato per la funzione Pubblica) tra persone giuridiche e Unione. L’obiettivo che l’art. 267 TFUE persegue è manifestamente quello di far sì che, almeno in via di principio, i giudici nazionali interpretatino le norme dell’UE e ne accertino la legittimità in modo corretto . Ciò risponde all’esigenza che le disposizioni dei Trattati e quelle degli atti da questi previsti, siano applicati in modo uniforme negli S.m., anche al fine di Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| evitare che delle divergenze comportino, in sostanza, una riduzione della portata degli obblighi imposti a ciascuno SM. Secondo l’art. 267 TFUE, le questioni relative all’interpretazione di norme dell’UE o all’accertamento della legittimità di atti delle istituzioni, che occorre risolvere in un giudizio, possono essere sottoposte alla CG da un “qualsiasi” giudice nazionale. Quando si tratti di un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno (quindi un giudice nazionale di ultima istanza come la Cassazione) tale organo giurisdizionale è tenuto, cioè obbligato, a rivolgersi alla CG, mentre quando si tratti di altri giudici (non di ultima istanza) questi hanno la facoltà di rivolgersi alla Corte ma non sono tenuti a farlo. La ragione per la quale è stato posto un obbligo per i giudici di ultima istanza, dipende anzitutto dal fatto che: quando il procedimento conduce a una sentenza impugnabile, la causa potrebbe eventualmente essere decisa dal giudice dell’impugnazione senza che la questione (esempio, dell’interpretazione di una norma dell’UE) assuma rilevanza; quando invece sia il giudice di ultima istanza ad affrontare la questione ed egli la consideri rilevante, l’uniformità dell’interpretazione della norma (ai fini della decisione della causa) può essere assicurata soltanto attribuendo la competenza alla Corte. Inoltre, come la CG ha affermato, l’obbligo di rinvio mira, più in particolare, ad evitare che in uno S.m. si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme UE. La violazione dell’obbligo di rinvio da parte del giudice di ultima istanza (es. Cassazione), può dare origine a una responsabilità dello Stato membro (in questo caso l'Italia) per i danni causati alla parte del giudizio (es. giornalista); la CG ha infatti ritenuto che: l’obbligo di risarcire i danni causati dall’inadempimento di obblighi comunitari possa sorgere, in presenza delle condizioni a tal fine previste in via generale, “anche” per la mancata osservanza da parte dell’organo giurisdizionale del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE. Secondo la CG, nel concetto di “organo giurisdizionale nazionale” , non sono compresi: i tribunali arbitrali (nazionali), la cui competenza sia stata accettata dalla parti in luogo di quella dei giudici (nazionali). Questo, limita in modo significativo l'attuazione del principio “dell'uniformità di interpretazione di norme dell'UE” , visto che, gran parte delle controversie relative a contratti in materia commerciale, è deferita a colleggi arbitrali . Anche se la domanda in via pregiudiziale può essere presentata dal giudice chiamato a controllare la decisione arbitrale (lodo) , questa circostanza non costituisce una soluzione adeguata, sia per il carattere solo “eventuale” di tale controllo, e sia a motivo della varietà dei sistemi di impugnazione dei lodi ,previsti negli ordinamenti interni. Ai fini della nozione di organo giurisdizionale nazionale, non sono solo fondamentali le caratteristiche strutturali dell'organo che propone la questione in via pregiudiziale (cioè il suo carattere permanente e indipendente e la circostanza che esso applichi norme giuridiche) ma bisogna considerare anche il “tipo di attività”, che l'organo svolge nel procedimento nell'ambito del quale è posta la domanda. Infatti, i giudici nazionali possono adire la CG solo se: - dinanzi ad essi sia pendente una lite (quindi se si tratti di un procedimento di natura contenziosa) - e se essi siano stati chiamati a statuire nell'ambito di un procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale. La CG dell'UE, ha ritenuto ammissibili domande a titolo pregiudiziale postele dalle Corti costituzionali nazionali. A tale proposito, la Corte cost. italiana ha in un primo tempo affermato di non essere legittimata a rivolgersi alla CG in considerazione delle profonde differenze tra il suo ruolo e quello degli altri organi giurisdizionali nazionali. Recentemente ha invece, per la primavolta , nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale, proposto un rinvio pregiudiziale richiamandosi alla circostanza che essa, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento interno, costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 267 TFUE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza. La Corte cost. ha altresì considerato che nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale (diretta) , a differenza di quelli promossi in via incidentale (cioè indiretta, tramite Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| “motivi” per cui ritiene che la CG sarà indotta a constatare l'invalidità dell'atto dell'Ue. In base all'art.267 TFUE, il giudice nazionale deve valutare la rilevanza della questione di interpretazione o di legittimità, dato che egli può (o deve , nel caso di giudice di ultima istanza) sollevarla “soltanto” qualora reputi necessaria, per emanare la sua sentenza, una decisione della CG su questo punto. Una questione può assumere rilevanza anche quando il giudice debba applicare una norma nazionale, sulla cui interpretazione, l'interpretazione della norma dell'UE abbia una qualche influenza. Per lungo tempo la CG si era astenuta dal “riesaminare” la rilevanza nel giudizio nazionale della questione sottopostale, indicando, nella sentenza Mazzalai, che non spetta alla corte valutare la pertinenza delle questioni sottopostele in forza dell'art. 234 del TCE, ora art. 267 TFUE; giungendo , nella sentenza Rewe , sino a rispondere ad una questione che lo stesso giudice nazionale aveva, nel sollevarla, dichiarato non rilevante ai fini del giudizio. Nel procedere in questo modo la CG perseguiva manifestamente lo scopo di incoraggiare i giudici nazionali a proporle questioni. L'accresciersi del numero dei rinvii, ha contribuito a determinare un mutamento di giurisprudenza. Infatti: • nella sentanza Dias , la CG ha dichiarato che intende “verificare” se la richiesta d'interpretazione del diritto comunitario presenti una relzione con l'effettività e l'oggetto della causa principale . Qualora risulti che la questione posta non è manifestamente pertinente per la soluzione della causa principale, la CG deve dichiarare il “non luogo a provvedere” • nella sentenza Novello , la CG ha rifiutato di rispondere, “considerando il processo nazionale artefatto”, ad alcune questioni relative all'imposizione fiscale sui vini all'atto dell'importazione in Francia , che le erano state sottoposte da un giudice italiano al fine di valutare la conformità alle norme comunitarie del comportamento delle autorità francesi. In taòe sentenza la CG ha affermato che il procedimeto di cui all'art. 234 TCE ora 267 TFUE , non venga utilizzato per scopi non voluti dal trattato. Sulla base della pronunce richiamate pocanzi, e di numerose altre deicisioni, la CG è arrivata ad enunciare alcuni criteri di ricevibilità . La Corte muove da una presunzione di rilevanza della questione, affermando che il diniego di pronuncia su un rinvio pregiudiziale proposto da un giudice nazionale, è possibile soltanto quando: - o appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto comunitario richiesta dal giudice nazionale non ha alcun rapporto con la realtà o con l’oggetto della causa principale, - oppure qualora la questione sia di tipo ipotetico - oppure qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte. E' chiara l'esigenza della CG , di cogliere in che modo la questione relativa all'interpretazione del diritto dell'Ue si pone nell'ambito del giudizio nazionale e per quali effetti essa si pone nel giudizio nazionale, cosi da poter fornire una risposta utile ai fini della decisione che il giudice deve emettere. Da ciò consegue l'esigenza che i giudici nazionali forniscano alla CG gli elementi necessari. In particolare, per poter giungere ad un’interpretazione del diritto comunitario che sia utile al giudice nazionale, occorre che quest’ultimo: - definisca il contesto in fatto e in diritto in cui si inseriscono le questioni da esso proposte o che, quanto meno, spieghi le ipotesi in fatto su cui si basano dette questioni; - e indichi le ragioni precise che l’hanno indotto a interrogarsi sull’interpretazione e sulla validità di determinate disposizioni del diritto comunitario e che l'hanno indotto a giudicare necessario rivolgere talune questioni pregiudiziali alla Corte. Al fine di facilitare una corretta formulazione delle questioni , la CG ha adottato una “Nota Informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale”, priva di valore vincolante, ma diretta ad orientare i giudici nazionali , attraverso una sintesi dei criteri enunciati dalla giurisprudenza. Con riferimento all'ordinamento italiano, rileva, riguardo alla formulazione ed alla proposizione delle questioni pregiudiziali , l'art. 3 della legge 204/1958 in base al quale gli organi della giurisdizione ordinaria e speciale emettono ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza, con cui fu sollevata la questione, dispongono l'immediata trasmissione degli atti alla Corte di giustizia e sospendono il giudizio in corso. A cura della Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Cancelleria, l'ordinanza suddetta e' inviata, insieme agli atti di causa, a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, alla Cancelleria della Corte di giustizia. A volte la CG piuttosto che prinuciarsi sull'irricevibilità ha riformulato le questioni sottopostele dai giudici nazionali; ha inoltre ritenuto di poter ricavare una questione di legittimità da un rinvio che poneva solo una questione di interpretazione ed ha inoltre risposto a domande sulla legittimità enunciando un interpretazione dell'atto tale da escludere la presenza di vizi. Secondo l'art. 23 dello statuto della CG: La decisione del giudice nazionale, che sospende la procedura e si rivolge alla Corte di giustizia (cd. Ordinanza) è notificata a quest’ultima a cura di tale giudice nazionale. Tale decisione è poi notificata a cura del cancelliere della Corte alle parti in causa, agli Stati membri e alla Commissione, nonché all’istituzione, all’organo o all’organismo dell’Unione che ha adottato l’atto di cui si contesta la validità o l’interpretazione. Nel termine di due mesi da tale ultima notificazione, le parti, gli Stati membri, la Commissione e, quando ne sia il caso, l’istituzione, l’organo o l’organismo dell’Unione che ha adottato l’atto di cui si contesta la validità oppurel’interpretazione ha il diritto di presentare alla Corte memorie ovvero osservazioni scritte. Questa facoltà è spesso utilizzat da alcuni stati membri e dalla Commissione visto che la pronuncia della CG ha conseguenze giuridiche che vanno ben oltre gli effetti che essa pronuce nel giudizio pendente innanzi al giudice nazionale. E' implicito nell’art. 267 TFUE che il giudice nazionale che abbia sollevato una questione di interpretazione o di legittimità sia vincolato dalla pronuncia della CG. Ma il significato della pronuncia è più vasto: la sentenza indica infatti l’orientamento della CG rispetto alle questioni sollevate dal giudice nazionale e tale orientamento può ben avere rilievo in ulteriori giudizi. Si è talora parlato di effetto erga omnes delle pronunce della CG rese a titolo pregiudiziale, quasi che esse risolvessero una volta per tutte le questioni decise. Non esiste tuttavia ,nei giudizi nazionali diversi da quello in cui sono state sollevate le questioni, un vincolo del giudice ad attenersi alla soluzione data dalla CG. Il giudice di ultima istanza, come si è visto è liberato dall’obbligo di deferire una questione alla Corte qualora intenda conformarsi a quanto già deciso dalla stessa Corte; egli può tuttavia sollevare nuovamente la questione, e così possono fare gli altri giudici. D’altra parte, la Corte non si considera formalmente vincolata dai propri precedenti.Resta tuttavia la considerazione che nella quasi totalità dei casi la CG si attiene a quanto già stabilito, quindi si rivela inutile riproporle una questione gia risolta. Riguardo agli effetti nel tempo delle pronunce rese a titolo pregiudiziale, va detto che rispetto alle pronunce rese in tema d'interpretazione, la sentenza Salumi ha dichiarato che : l'interpretazione di una norma UE data dalla CG nell'esercizio della competenza ad essa attribuita dall'art.267 TFUE , chiarisce e precisa , quando ve ne sia bisogno, il significato e la portata della norma , come deve, o avrebbe dovuto, essere intesa ad applicata dal momento della sua entrata in vigore. Ciò dovrebbe trovare un limite quando la CG interpreti una norma tenendo conto, dello “stadio di evoluzione del diritto dell'UE al momento in cui va data applicazione alla norma di cui si tratta”: l'interpretazione della CG darebbe alla norma un significato diverso da quello originario, e non potrebbe quindi valere retroattivamente sino al momento in cui la stessa norma era stata adottata. In alcune sentenze la CG ha invece limitato la portata nel tempo di una propria pronuncia sull'interpretazione, in ragione delle conseguenze alle quali essa avrebbe condotto. La sentenza Defrenne II ha escluso che il principio dell'uguaglianza di retribuzione fra uomo e donna, stabilito dall'art. 141 TCE ora 157 TFUE , potesse valere a sostegno di rivendicazioni relative a periodi di retribuzione anteriori alla data della sentenza , eccezion fatta per i lavoratori che avessero già promosso un'azione giudiziaria o un reclamo equipollente. Rispetto invece agli effetti nel tempo delle pronunce rese a titolo pregiudiziale in tema di illegittimità, la CG ha talora limitato gli effetti della pronuncia nel tempo, richiamando per analogia l'art.264 TFUE, il quale consente alla CG di considerare definitivi alcuni effetti di un atto annullato. La CG ha talora persino escluso che la dichiarazione di illegittimità di un atto potesse valere nel giudizio nazionale nel quale era stata sollevata la questione; tale tecnica però non ha trovato applicazione nella giurisprudenza piu recente , anche a motivo delle reazioni critiche che aveva suscitato. Nella sentenza Freres II , la CG ha affermato che intende valutare nelle circostanze concrete se , nel limitare gli effetti nel tempo di una pronuncia resa a titolo pregiudiziale nel senso dell'illegittimità di un regolamento, la declaratoria di invalidità del regolamento con effetti Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| unicamente ex nunc, costituisca un rimedio adeguato oppure se un eccezione possa essere prevista a favore della parte della causa principale che abbia impugnato dinnanzi al giudice nazionale l'atto interno di esecuzione del regolamento. Se la CG si riserva cosi una valutazione delle varie circostanze di ciascun caso concreto,normalmente essa, nel limitare gli effetti retroattivi, fa salva la situazione di coloro che al momento dell'adozione della sentenza della Corte avevano gia proposto un ricorso di natura interna. 7 - Le altre competenze – La responsabilità extracontrattuale dell’Unione Fra le altre competenze delle istituzioni giudiziarie, assume rilievo quella concernente i ricorsi proposti per far valere la responsabilità extracontrattuale dell’Unione, e più precisamente le pretese al «risarcimento dei danni» (art. 268 TFUE). I ricorsi di persone fisiche e giuridiche, come di norma avviene, sono dirette al Tribunale. La responsabilità per danni cagionati dalle istituzioni comunitarie o dalla BCE o dai rispettivi «agenti» nell’esercizio delle loro funzioni sussiste in base «ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri», i quali regolano in modo rigoroso la responsabilità per danni degli stati. Secondo la Corte, la responsabilità può essere causata da un qualsiasi atto compiuto dall’UE, anche da un atto normativo, purché naturalmente si tratti di un atto illegittimo. Perché l’UE sia responsabile, la CG ha tuttavia indicato ulteriori condizioni, quali la gravità dell’illecito quando si tratti di un atto normativo che implica delle scelte di politica economica e la circostanza che sia stata violata una norma superiore posta a tutela dei singoli; ha anche considerato che l’azione di responsabilità non sia proponibile nei confronti dell’UE se il danno deriva dall’atto di uno S.m., anche se compiuto in esecuzione di una norma dell’UE. I criteri enunciati dalla CG sono stati applicati in modo rigoroso, cosi che solo in pochissimi casi il ricorso è stato esperito con esito favorevole. Si potrebbe pensare ad una forte connessione tra l’azione di responsabilità e l’impugnazione degli atti per annullamento o il ricorso in carenza, ma la Corte ha enunciato che «l’azione di danni di cui agli artt. 268 e 340 TFUE è concepita dal Trattato come rimedio autonomo, dotato di una propria funzione che lo distingue dalle altre azioni esperibili e sottoposto a condizioni di esercizio che tengono conto del suo oggetto specifico». Per quanto riguarda il rapporto con l'impugnazioone degli atti , il fatto che l’azione di danni di cui agli artt. 268 e 340 TFUE è concepita dal Trattato come rimedio autonomo, comporta per una persona , il vantaggio di poter agire ai fini del risarcimento del danno anche quando non era legittimato ai sensi dell'art. 263.4 TFUE, ad impugnare l’atto che ha causato tale danno . La Corte ha del resto sottolineato che l'azione di responsabilità differisce dall'azione di annullamento in quanto tende, non già ad ottenere l'eliminazione di un determinato atto , ma il risarcimento del danno causato da un istituzione nell'esercizio dei suoi compiti. Per quanto invece riguarda il rapporto con il ricorso in carenza, la CG ha escluso che costituisca causa di irricevibilità il fatto che, in determinate circostanze, l'esercizio dell'azione di danni, può avere conseguenze analoghe a quelle dall'azione per carenza. Spetta ai giudici nazionali decidere le controversie relative a contratti conclusi da persone (pubbliche o private) con l'Ue, a meno che la Corte di giustizia dell'Unione europea non risulti competente a giudicare, in virtù di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dall'Unione o per conto di questa. E' invece di competenza del Tribunale specializzato per la funzione pubblica, il contenzioso tra l'Ue e i propri dipendenti. Secondo l'art. 261 TFUE i regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio e dal Consiglio in virtù delle disposizioni dei trattati, possono attribuire alla Corte di giustizia dell'Unione europea (in particolare la competenza è attribuita al Tribunale) una competenza giurisdizionale, anche di merito, per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi. Fra questi regolamenti è fondamentale il regolamento 1 del 2003 in materia di concorrenza, il cui art. 31, che riguarda i ricorsi avverso le decisioni con le quali la Commissione irroga un ammenda o una penalità di mora, dice che : la CG (in particolare il Tribunale) può estinguere, ridurre, o aumentare l'ammenda o la penalità di mora irrogata. Le sentenze della CG che impongono obblighi pecuniari a carico di persone che non siano gli stati membri hanno forza esecutiva negli ordinamenti degli stati membri, con la semplice apposizione della formula “esecutiva” e con la sola verifica dell'autenticità del titolo. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| progressivamente, nel corso di un periodo transitorio, l’adeguamento alle esigenze del mercato comune e alle altre derivanti dai Trattati. 2) l'art. 355 TFUE pone limiti all'applicazione della normativa dell'UE in relazione a parti del territorio di alcuni stati membri: es. le isole normanne , l'isola di man, le isole Aland ; mentre i trattati non si applicano alle isole Faeroer e alle zone di sovranità del regno unito a Cipro. 3) Inoltre, un insieme di norme dell’Unione si applica soltanto agli «Stati membri la cui moneta è l’Euro» (art. 5, par. 1, TFUE). L’art. 139 TFUE elenca una serie di disposizioni del Trattato che non operano rispetto agli «Stati membri con deroga», cioè Stati membri riguardo ai quali il Consiglio non ha deciso che soddisfano alle condizioni (site nell'art. 140 TFUE) necessarie per l’adozione dell’Euro; cioè: • tasso d’inflazione prossimo a «quello dei tre Stati membri, al massimo, che hanno conseguito i migliori risultati in tema di stabilità dei prezzi»; • l’assenza di un «disavanzo eccessivo» nel bilancio pubblico; • il rispetto dei «margini normali di fluttuazione, previsti dal meccanismo di cambio dello SME, per almeno due anni, senza svalutazioni nei confronti dell’euro»; • «livelli dei tassi di interesse a lungo termine, che riflettano la stabilità della convergenza raggiunta dallo Stato membro con deroga» Il Consiglio accerta, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento, il rispetto di tali criteri da parte di ciascun Stato membro, e delibera «sulla base di una raccomandazione presentata dalla maggioranza qualificata dei membri, che in seno al Consiglio rappresentano gli Stati membri la cui moneta è l’Euro». 3)Altro importante esempio di applicazione differenziata di norme dell’Unione riguarda la Carta dei diritti fondamentali che ha forza normativa pari ai Trattati (art. 6, par. 1, TUE).La Carta è applicabile a tutti gli Stati membri, tuttavia, in base al Protocollo n. 30, non produce alcune effetti rispetto alla Polonia e al Regno Unito. 4)Costituisce altra forma di applicazione differenziata della normativa dell’Unione, anche la «cooperazione strutturata permanente» relativa alla difesa comune. Essa coinvolge soltanto gli «Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia, ai fini delle missioni più impegnative» (art. 42, par. 6, TUE e Protocollo n. 10). Le modalità di individuazione degli stati partecipanti alla cooperazione strutturata permanente, che devono rispondere a questi requisiti e desiderano essere coinvolti , sono disciplinate nell'art. 46 Tue, che prevede una decisione del Consiglio a maggioranza qualificata, previa consultazione dell'alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. L’applicazione differenziata non si verifica solo quando è disposta dai Trattati; spesso atti adottati dalle istituzioni, pongono regole che, o operano solo per uno o più Stati membri, oppure che li esentano, in tutto o in parte,dal rispetto di regole generali. Tale differenziazione trova giustificazione nella diversità delle situazioni di fatto che esiste fra gli stati membri. L'applicazione di un atto normativa a un solo stato, oppure una deroga per quello stato, possono costituire tecniche per disciplinare situazioni diverse in modo equivalente. Un risultato analogo è ottenuto, mediante una normativa formalmente applicabile in tutta l’Unione, ma i cui presupposti di applicazione, o si realizzino solo per un certo Stato (es. perchè riguarda una produzione agricola che si realizza solo in quello stato) oppure, al contrario, non si realizzino per esso (es., perché concerne una produzione agricola che non vi si realizza affatto in quello stato). 3 - L’impatto del diritto dell’Unione oltre i propri confini Una forma particolare di impatto delle norme dell’UE si verifica quando si produce, per effetto di esse, una discriminazione a rovescio. È' il caso in cui i cittadini italiani godano, in base a una normativa nazionale, di un trattamento meno favorevole di quello che è dovuto in Italia ai cittadini degli altri Stati membri secondo la normativa dell’UE. Per rimediare a questo tipo di discriminazioni è stata ripetutamente adita la Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale (nella sentenza Steen II del 1994), ha dichiarato che spetta al giudice nazionale, quando sia chiamato a conoscere di una questione di diritto interno, stabilire se, alla luce di quest’ultimo, Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| vi sia una discriminazione e se come tale debba essere eliminata. La corte ha precisato quindi che: il diritto comunitario non osta a che il giudice nazionale controlli la compatibilità con la propria Costituzione di una norma interna che sfavorisca i lavoratori nazionali rispetto ai cittadini di altri S.m., qualora i detti lavoratori nazionali si trovino in una situazione priva di qualsiasi connessione con quelle contemplate dal diritto comunitario. Sarebbe tale il caso di lavoratori nazionali che non abbiano esercitato la libertà di circolazione. Il problema delle discriminazioni a rovescio, si è presentato poco tempo dopo alla Corte Costituzionale, a seguito del trattamento meno vantaggioso di cui godevano i cittadini italiani , rispetto ai cittadini di altri stati membri, in caso di impiego come lettori di lingue straniere nelle università. La corte costituzionale ha posto fine alla discriminazione , considerando che: la connessione della situazione interna con una situazione contemplata dal diritto comunitario, sussisteva anche nell'ipotesi di identità, per contenuto e funzione, della situazione interna a una situazione rilevante per il diritto comunitario, in quanto determinata , nel territorio dello stato italinao, dall'esercizio del diritto di libera circolazione dei lavoratori all'interno della comunità. Se il ragionamento della Corte Cost. fosse esatto, non ci sarebbero mai discriminazioni a rovescio, per effetto della normativa dell'Ue. Tuttavia, secondo la CG , il diritto dell'UE , in realtà, non pone obblighi rispetto al trattamento dei lettori, se non per quel che riguarda i cittadini di altri stati membri o anche i cittadini italiani che abbiano già esercitato la libertà di circolazione. Secondo la CG, è solo eventualmente per effetto del principio di eguaglianza (che opera nei vari ordinamenti interni) che il trattamento stabilito dalla normativa dell'Unione, finisce per essere applicato ad una categoria assai piu ampia di persone. In quest'ultimo senso sembra essersi successivamente orientata la Corte Costituzionale, nonostante solo in tema di circolazione delle merci. Era in questione la legittimità di una legge relativa alla produzione di paste alimentari , che poneva requisiti di qualità per i produttori nazionali, penalizzandoli rispetto a quelli di altri stati membri , i quali potevano , in base alla normativa comunitaria, mettere cmq in commercio in italia i propri prodotti. La corte costituzionale ha affermato l'illegittimità di tale legge per contrasto , non con norme comunitarie, ma piuttosto con i principi di eguaglianza e di libertà di iniziativa economica privata. E' poi da segnalare che, ai fini dell'attuazione in italia di atti normativi dell'Ue, la legge 88/2009 ha affermato l'esigenza di assicurare, un’effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri residenti o stabiliti nel territorio nazionale. E' da chiedersi però se, in ragione del principio di “non discriminazione in base alla nazionalità” , le norme dell'Ue piu favorevoli , non dovrebbero essere applicate a tutti i cittadini degli stati membri, anche a coloro che non hanno ancora usufruito della libertà di circolazione. Cap. V - Le competenze normative dell’Unione europea 1 - Il fondamento delle competenze normative dell’unione europea: il principio di attribuzione L’UE dispone delle competenze normative che le sono conferite dal TUE e dal TFUE; essa, in virtù del principio di attribuzione, può agire esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli S.m. nei Trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Tale principio è completato dalla precisazione che qualsiasi competenza non attribuita all’UE nei Trattati appartiene agli SM. Un’indicazione generale delle competenze dell’UE figura negli artt. 3, 4 e 6 TFUE che elencano i settori nei quali l’Unione può agire. Inoltre, numerose disposizioni del TFUE: - specificano i compiti propri dell'UE nei diversi settori in cui può agire (es art. 38 TFUE dice che “l'UE definisce e attua una politica comune dell'agricoltura) - oppure pongono obblighi agli Stati membri in modo che ne risulta indirettamente il ruolo dell'Unione (es. art.110 TFUE in base al quale “nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri Stati membri, imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate ai prodotti nazionali similari). Il settore o la materia sono a volte delineati in modo generale (es. la politica dell'UE in “materia ambientale” o di agricoltura) a volte invece , in modo molto specifico (es. la competenza ad adottare misure per il “rimpatrio degli stranieri, in situazione irregolare”). Generalmente la disposizione che attribuisce (all'UE) la competenza (in un determinato Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| settore/materia) indica anche la procedura che deve essere seguita, per adottare atti che attengono a quel particolare settore o materia, ed a volte, precisa anche quale atto normativo le istituzioni possono adottare (es. l'art. 46 TFUE prevede che per la realizzazione della “libertà di circolazione” siano emanati regolamenti o direttive , deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria). Altre volte invece è conferito, il potere generale di adottare “misure”, lasciando così alle istituzioni la scelta dell’atto normativo più adeguato. La discrezionalità delle istituzioni nella scelta dell'atto normativo piu adeguato, non è però illimitata, in quanto, secondo l'art. 296 TFUE, qualora i trattati non prevedano il tipo di atto da adottare, le istituzioni lo decidono di volta in volta, nel rispetto: delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità. La scelta (o meglio l'individuazione) del fondamento giuridico di un atto (cioè l'individuazione, della disposizione del trattato che conferisce il potere di adottarlo), spetta alle istituzioni politiche dell’Unione. Tuttavia la Corte ha affermato che tale scelta deve basarsi su elementi oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale, tra i quali figurano, in particolare, lo scopo e il contenuto dell’atto. Tale esigenza è dovuta alla circostanza che, la scelta del fondamento giuridico implica conseguenze importanti sul piano istituzionale, poiché da essa dipende la procedura normativa e quindi il ruolo più o meno ampio che il Parlamento avrà per l’adozione dell'atto. Inolte la scelta del fondamento giuridico, può condizionare il contenuto dell’atto, a motivo della possibilità che sia prevista, per la sua adozione, la maggioranza qualificata oppure l’unanimità ai fini della delibera del Consiglio. Nell’individuazione del fondamento giuridico si possono presentare delle situazioni problematiche quando un atto concerna più materie. In tali ipotesi secondo la CG occorre che venga accertato quale sia “ l’obiettivo prevalente dell’atto”; infatti, esaminando la legittimità di un regolamento che concerneva sia il commercio sia la tutela dell’ambiente, la Corte ha affermato che: “ se l’esame di un atto comunitario dimostra che esso persegue una duplice finalità o che ha un doppia componente, e se una di queste finalità o componenti è identificabile come principale o preponderante, mentre l’altra è solo accessoria, l’atto deve fondarsi su un solo fondamento normativo, ossia quello richiesto dalla finalità o componente principale o preponderante “. Qualora non sia possibile individuare una finalità o componente, principale o preponderante, e sia accertato che l’atto persegue contemporaneamente più finalità o che ha più componenti, tra loro inscindibili senza che uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all’altro, tale atto dovrà basarsi sui diversi fondamenti normativi corrispondenti. Tuttavia l'ipotesi che un atto abbia due o più fondamenti normativi , suscita difficoltà quando le rispettive disposizioni che forniscono il fondamento giuridico prevedano procedure normative diverse. A riguardo la CG, ha affermato che “ il ricorso ad un duplice fondamento giuridico è escluso nel caso in cui, le relative procedure normative previste dalle disposizioni che forniscono il fondamento giuridico, siano “incompatibili”. Al fine di accertare la compatibilità delle relative procedure normative la CG da particolare rilievo all'esigenza che non siano pregiudicati i poteri del PE, escludendo la possibilità del doppio fondamento normativo quando il cumulo dei fondamenti sia tale da pregiudicare i diritti del PE. 2 - Competenze esclusive, competenze concorrenti e competenze parallele Le competenze che l’Unione può esercitare non hanno tutte le stesse caratteristiche in rapporto alle competenze nazionali, in quanto possono comportare una “maggiore o minore” limitazione dei poteri degli SM. → Prima del Trattato di Lisbona: l'articolazione tra competenze statali e comunitarie aveva un origine esclusivamente giurisprudenziale . La CG aveva elaborato infatti, il concetto di “competenza esclusiva” che aveva ritenuto di poter riscontrare solo in relazione a due materie: la politica commerciale comune e la politica della pesca (in merito alla conservazione delle risorse biologiche del mare) . In tali materie gli stati membri potevano solo: A) adottare norme di esecuzione B) adottare norme che le istituzioni della comunità, li autorizzavano ad adottare. Tutte le altre materie di competenza della comunità , avevano invece un carattere concorrente con quelle degli stati membri, nel senso che gli stati membri potevano adottare Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| più favorevoli ad una categoria di persone o beni, gli S.m. saranno tenuti a rispettare i requisiti minimi fissati dalla direttiva (es. dovranno assicurare un certo livello di tutela dell'ambiente o dei lavoratori) ma potranno anche stabilire sulla base di norme interne limiti più rigorosi (es. prescivendo un livello maggiormente elevato di tutela dell'ambiente o dei lavoratori). E' vero tuttavia che, in relazione al loro contenuto, gli atti normativi dell'Ue, che rientrano in materie di competenza concorrente, possono a volte effettivamente precludere l'esercizio del potere normativo da parte degli stati membri. Tale preclusione deriva dagli obiettivi che con l'atto sono perseguiti. Il TFUE elenca all'articolo 4 par. 2, le materie di competenza concorrente, che sono : a) mercato interno b) politica sociale c) coesione economica, sociale e territoriale, d) agricoltura e pesca e) ambiente, f) protezione dei consumatori g) trasporti h) reti transeuropee i) energia, j) spazio di, libertà, sicurezza e giustizia k) problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, Tuttavia, il TFUE non elenca in in toto le competenze di natura concorrente, ma si limita solo a indicare le principali in via meramente esemplificativa. In effetti, le competenze concorrenti si individuano in via residuale: cioè, sono tutte quelle che non sono , né esclusive e né parallele . Infatti l'art. 4 par. 1 TFUE: dice che l'Unione ha competenza concorrente con quella degli SM quando i trattati le attribuiscono una competenza che non rientra nei settori di cui agli articoli 3 e 6). C) Competenza Parallela (art. 2 par. 5 TFUE Nozione ; art. 6 TFUE materie parallele) Il TFUE delinea poi (all'art.2 par. 5) una nuova tipologia di competenze, dette parallele, dicendo che : in alcuni settori, l’UE può svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli SM, senza tuttavia sostituirsi alle loro competenze in tali settori. Le materie oggetto di competenza parallela sono elencate all’art. 6 TFUE, e sono: a) tutela e miglioramento, della salute umana b) industria, c) cultura, d) turismo, e) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport La differenza sostanziale rispetto alle materie di competenza concorrente consiste nella, preclusione per l’Unione a provvedere, nelle materie di competenza parallela, all’armonizzazione delle disposizioni degli SM. Tale differenza è però in concreto, alquanto tenue, dato che anche nelle materie di competenza concorrente talora, si delineano poteri delle istituzioni diretti essenzialmente a sostenere le politiche degli S.m. (es. le azioni degli stati membri nella lotta alla criminalità previste dall'art.84 TFUE ) o si esclude la possibilità di normative dell’UE che comportino l’armonizzazione delle disposizioni nazionali (es. riguardo alle misure volte a favorire l'integrazione dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornati, di cui all'art. 79.4 TFUE). Quindi, l’individuazione della nuova categoria delle competenze parallele non contribuisce a chiarire in modo adeguato la ripartizione tra queste ultime e le competenze concorrenti, anche perché, ai fini di determinare l’effettivo contenuto che l’azione normativa può assumere in una certa materia, occorre comunque riferirsi alla disposizione del TFUE che attribuisce il relativo potere normativo. Ciò è confermato dalla precisazione che risulta dall’art. 2 par. 6 TFUE, in base al quale: la portata e le modalità d’esercizio delle competenze dell’UE, sono determinate dalle “disposizioni” dei Trattati, relative a ciascun settore. Infine, alcune materie sfuggono, per il particolare regime che le caratterizza, all'assetto della ripartizione delle competenze stabilito dall'art. 2 TFUE. • l'art. 2 par. 3 dice che: << “gli Stati membri” coordinano le loro politiche economiche e occupazionali secondo le modalità previste >> dal TFUE ; • art. 2 par. 4 diche che: l'Unione ha competenza, << conformemente alle disposizioni del “TUE”>>, per definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Questo risponde all'orientamento dei governi , diretto a riservarsi poteri più significativi in tali materie, modulando la relativa disciplina sulla base di regole particolari. L'art. 40 TUE cmq dice che : l'attuazione della politica estera e di sicurezza comune, lascia impregiudicata l'applicazione delle procedure, e la rispettiva portata delle attribuzioni delle istituzioni, previste dai Trattati per l'esercizio di tutte le altre competenze, cioè lascia impregiudicata l'applicazione delle procedure e la portata delle attribuzioni delle istituzioni, previste dai trattati per l'esercizio delle competenze dell'Unione di cui agli articoli da 3 -4- 5- 6 del TFUE 3 - L’art. 352 TFUE e l’interpretazione delle disposizioni che conferiscono poteri normativi L’art. 352 TFUE dice: “se un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai Trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai Trattati , senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità , su proposta della Commissione e previa approvazione del PE, adotta le disposizioni appropriate. Le misure adottate sulla base di tale articolo, tuttavia, non possono: 1) né riguardare la politica estera e di sicurezza comune 2) né comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri , nei casi in cui i Trattati la escludono Tale articolo consente alle istituzioni, “qualora ricorrano certe condizioni”, di adottare atti, anche quando il rispettivo potere normativo non è conferito specificamente dai Trattati, cioè, anche quando esiste una competenza, ma non sono indicati i poteri per esercitarla. Tale disposizione, quindi, non conferisce, ulteriori competenze, dovendo infatti le istituzioni, operare nel quadro delle politiche definite dai Trattati. La CG, in relazione all'analoga disposizione del TCE (ART.358), ha infatti affermato che “tale disposizione, costituendo parte integrante di un ordinamento istituzionale basato sul principio dei poteri attribuiti (principio di attribuzione) , non può costituire il fondamento (normativo) per ampliare, la sfera dei poteri della Comunità, al di là dell’ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del Trattato, in particolare di quelle che definiscono i compiti e le azioni della Comunità”. Dall’interpretazione accolta dalla Corte discendono due ulteriori principi. • In primo luogo, l' articolo 352 TFUE, non può offrire una base giuridica alternativa a quella eventualmente risultante da altre disposizioni del Trattato. Si può fondare un atto sull’art. 352 , soltanto quando il potere di adottarlo , non sia conferito da una diversa disposizione del Trattato. Secondo la CG infatti, l’inesistenza di un potere normativo attribuito a un’istituzione da altre disposizioni del Trattato, costituisce un presupposto perché un atto possa legittimamente essere fondato sull'art.352 tfue. Tale atteggiamento della CG tende essenzialmente a evitare che attraverso il ricorso all’art. 352 TFUE , sia riservato al PE un ruolo meno rilevante di quello che gli spetterebbe sulla base di una diversa disposizione del Trattato. Inoltre il ricorso all'art. 352 Tfue richiede l'adozione dell'atto all'unanimità da parte del Consiglio, mentre una diversa disposizione potrenne • In secondo luogo, l’art. 352 TFUE, non può essere utilizzato come base giuridica per l’adozione di disposizioni che condurrebbero sostanzialmente, con riguardo alle loro conseguenze, a una modifica del Trattato che sfugga alla procedura prevista nel Trattato medesimo. L’orientamento della CG tende, a tal riguardo, a evitare che possa essere aggirata, ricorrendo all’art. 352, la procedura ordinaria di modifica dei Trattati (art. 48 TUE); tale procedura prevede infatti la ratifica di un nuovo trattato (un nuovo accordo internazionale) da parte degli S.m. , secondo le rispettive norme costituzionali, norme che possono richiedere un coinvolgimento dei parlamenti nazionali o talora lo svolgimento di un referendum popolare. Dall'orientamento accolto dalla CG in merito al carattere “residuale” dell'art. 352 TFUE, consegue che,: la possibilità di fondare un atto su tale disposizione, dipenderà innanzitutto “dall'estensione delle competenze , specificamente attribuite all'Unione dal Trattato” . Infatti, la graduale attribuzione (prima alla Comunità e poi all'Unione) di ulteriori poteri normativi , attraverso i vari trattati modificativi, ha via via ridotto l'opportunità di ricorrere all'art. 352 TFUE. Inoltre, un atteggiamento di cautela da parte degli S.m. nei confronti di una disposizione Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| come l'art. 358 TCE, che è a contenuto aperto, poiché consente l’esercizio del potere normativo in ipotesi, che non risultano precostituite da specifiche disposizioni del Trattato, si riflette ancora oggi nell’art. 352 TFUE, ; ciò spiega in particolare le ragioni del requisito dell’unanimità tuttora previsto ai fini dell’adozione degli atti fondati su tale articolo. Riguardo alla procedura normativa la seconda frase del par. 1 dell'art. 352 TFUE, indica che, qualora il Consiglio adotti le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, esso delibera ,anche in tal caso, all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del PE; tale clausola tende a escludere che l’adozione di atti fondati sull’art. 352, prescinde dai requisiti ivi stabiliti in via generale. Un ruolo di controllo sul rispetto delle condizioni stabilite per il ricorso all'art.352 TFUE (cioè che l'art. 352 non sia utilizzato come, base giuridica alternativa a quella eventualmente risultante da altre disposizioni del trattato, e che non sia utilizzato per adottare disposizioni che condurrebbero ad una modifica del Trattato che sfugga alla procedura prevista dall'art. 48 TUE), è affidato ai parlamenti nazionali , sulla base del meccanismo, stabilito dal Protocollo n. 2 relativo al controllo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. Al fine di sollecitare tale ruolo, il par. 2 dell'art. 352 TFUE, dice che, la Commissione, “richiama l'attenzione dei parlamenti nazionali, sulle proposte fondate su detto articolo”. Il coinvolgimento dei parlamenti nazionali è dovuto al fatto che, qualora si prospetti un ricorso troppo ampio o ingiustificato a tale art.352 , ne deriverebbe in definitiva una compressione delle loro funzioni. Pur in presenza di tali limiti e controlli rispetto al ricorso all'art. 352 TFUE, si può tuttavia ritenere che gli stati membri che rifiutassero “in modo sistematico” l'uso di tale disposizione rispetto a materie di competenza dell'Unione , al fine di realizzare i loro obiettivi , potrebbero violare l'obbligo di cooperazione imposto agli stati membri dall'art. 4 del TUE, il quale comprende l'obbligo, che gli Stati membri facilitino all'Unione l'adempimento dei suoi compiti, e si astengano da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione. Nonostante la normativa dell’UE abbia ormai raggiunto un’ampio sviluppo, restano tuttora spazi, per trarre dall’art. 352 TFUE dei poteri d’azione in settori non ancora disciplinati. Ciò perché : • le condizioni di applicazione di tale disposizione sono ora più estese. Infatti, il ricorso ad essa è oggi possibile “nel quadro delle politiche definite dai Trattati” e non più, come invece indicava l'art.358 TCE, solo “nel funzionamento del mercato comune”; si apre così la possibilità di utilizzare l’art. 352 come fondamento giuridico di atti normativi che concernano qualsiasi materia rientrante nell’ambito di applicazione dei Trattati. • gli obiettivi dell’UE sono ora indicati dall’art. 3 TUE in modo ancora più ampio, e ciò porta correlativamente anche a un’estensione della possibilità di utilizzare, secondo la tecnica sopra descritta, l’art. 352 TFUE. Un limite è prospettato, tuttavia, da una dichiarazione adottata a Lisbona (n. 41) in cui gli S.m. hanno escluso che un’azione basata sull’art. 352 persegua “soltanto” gli obiettivi di cui all’art. 3 par. 1 del TUE, vale a dire il fine di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli; si vuole così evitare che da tale obiettivo si ricavino poteri impliciti che potrebbero dare fondamento ad azioni in materia di politica estera e di difesa. Infatti l'art. 352, come sopra detto, non può servire come base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune. Inoltre bisogna dire che, la possibilità di fondare un atto sull’art. 352 TFUE dipende ( oltre che dall'estensione delle competenze specificamente attribuite all'Unione dal Trattato) anche dall’interpretazione più o meno estensiva data alle disposizioni del Trattato che attribuiscono poteri normativi; infatti, quanto più è ampia l’interpretazione di tali disposizioni, tanto più ridotta sarà la possibilità di utilizzare il fondamento giuridico residuale fornito dall’art. 352. La Corte ha generalmente fornito un interpretazione estensiva delle disposizioni che attribuiscono poteri (normativi o non normativi), in particolare ricavando dalle disposizioni del TCE dei “poteri impliciti” aventi carattere strumentale rispetto all'esercizio dei poteri espressi. Infatti , nel parere 2/94 sull'adesione della Comunità alla Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, la CG ha affermato che: la Comunità agisce normalmente sulla base di “poteri specifici”, che non devono necessariamente risultare in termini espressi da puntuali disposizioni del Trattato, potendo anche essere dedotti, in modo implicito, dalle disposizioni medesime. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| • e accompagnati da una scheda che consenta di valutare il rispetto di tali principi. Non è tuttavia necessario che tale motivazione risulti “espressamente” nel testo dell'atto adottato . Il protocollo n. 2 stabilisce le forme di controllo indicate, ma non dà un contributo significativo per superare eventuali divergenze fra le istituzioni in tema di applicazione del principio di sussidiarietà. Esso, inoltre, non riguarda affatto l'ipotesi in cui le divergenze si manifestino all'interno di un istituzione , in particolare quando una minoranza invochi il principio in questione, per opporsi all'adozione di un atto nell'ambito del Consiglio. Ne si riscontrano precisazioni utili ad individuare le concrete modalità di valutazione delle condizioni del principio. Il carattere eminentemente politico della valutazione relativa alla sussidiarietà, ha suscitato dubbi in merito all'idoneità della CG ad effettuare un adeguato controllo sulla conformità degli atti a tale principio . Invero, però, il Protocollo n. 2 , prevede un particolare ricorso di annullamento nei confronti degli atti che si ritenga violino il principio di sussidiarietà. La corte , senza scendere nei dettagli di ordine tecnico relativi alle scelte del legislatore, ha effettuato un controllo di massima sulla conformità di atti normativi a tale principio muovendo dagli obiettivi da essi perseguiti. Cosi nella prima pronuncia nella quale ha effettuato tale controllo, essa ha affermato che l'obiettivo perseguito da una direttiva , (che tendeva ad eliminare le divergenze tra le normative nazionali riguardo alla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche), “ non sarebbe stato raggiungibile con un azione avviata livello dei soli stati membri” ed era peraltro lampante che “l'obiettivo, visto la dimensione e gli effetti dell'azione progettata , poteva essere realizzato meglio a livello comunitario” Un metodo analogo è stato seguito nella giurisprudenza successiva; infatti in una sua pronuncia , la CG ha affermato che una direttiva sul commercio degli integratori alimentari ,fosse conforme al principio della sussidiarietà in quanto, la presenza di normative nazionali divergenti comportava “degli ostacoli agli scambi tra stati membri e comportava delle distorsioni della concorrenza relative a questi prodotti”. Quindi un atto potrebbe risultare illegittimo , quando l'istituzione che lo ha adottato: - abbia omesso di valutare il rispetto del principio della sussidiarietà - abbia operato in modo irragionevole , eccedendo cioè , un suo margine di apprezzamento per gli elementi più propriamente politici In relazione all'orientamento della CG (cioè quello di favorire l'integrazione europea) appare cmq difficile che essa giunga alla conclusione che un atto sia stato adottato in violazione del principio di sussidiarietà ; per le stesse ragioni, sembra inoltre improbabile che la CG possa ritenere che un atto , in origine conforme al principio di sussidiarietà , sia diventato con esso incompatibile a motivo di circostanze sopravvenute dopo la sua adozione. Il principio della sussidiarietà è stato più volte invocato dalla Commissione nel proporre al Consiglio l'abrogazione di atti precedentemente adottati . L'inziativa della Commissione ha avuto anche lo scopo di prevenire che certi stati membri esercitassero forti pressioni per rinazionalizzare alcune materie. La dichiarazione n. 18 ora prospetta tale eventualità, riferendosi al caso in cui le istituzioni dell'Ue decidano di abrogare un atto , in particolare, “per assicurare meglio il rispetto costante dei principi di sussidiarietà e proporzionalità; tale dichiarazione precisa infatti che il Consiglio può chiedere alla Commissione , su iniziativa di uno o più rappresentanti degli stati membri , di presentare proposte per abrogare un atto legislativo. L'eventualità prospettata da tale dichiarazione potrebbe manifestarsi in due casi: -o quando un atto conforme al principio di sussidiarietà al momento della sua adozione, non soddisfi più questo requisito a seguito del mutamento delle circostanze - o se risulti, che determinati atti emanati prima dell'introduzione del principio di sussidiarietà nel TCE, siano contrari al principio in questione Inoltre come si è visto, il TUE ed il TFUE potrebbero essere modificati, in base alla procedura di revisione di cui all'art. 48 TUE , per ridurre le competenze attribuite all'Unione. Ebbene, anche in tal caso si potrebbe porre l'esigenza di abrogare atti che rientravano nell'ambito di materie “rinazionalizzate”, a motivo di una sorta di incompetenza sopravvenuta dell'unione. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Cap. VI – Il Sistema delle fonti 1 - Introduzione Le fonti del diritto dell’UE comprendono: • i due Trattati istitutivi (TUE e TFUE) • i principi generali • gli accordi che l’Unione conclude con Stati terzi o altre organizzazioni internazionali • le norme di diritto internazionale generale vincolanti l’UE • gli atti normativi che le istituzioni adottano in base ai Trattati (regolamenti direttive e decisioni) Gli atti normativi dell'Unione (regolamenti direttive e decisioni), sono delineati nell'art. 288 TFUE nello stesso modo in cui erano descritti nell'art. 249 TCE, eccetto che per una lieve differenza relativamente alle decisioni . Il TFUE definisce quali sono gli atti normativi che le istituzioni dell’UE possono adottare, senza però enunciare alcuna gerarchia tra essi. Ciò non significa che tutti gli atti normativi abbiano necessariamente lo stesso valore: essi lo hanno” solo in via di principio”. In particolare la CG, nella sentenza Tradax , ha rilevato che : un atto si dovrà considerare superiore ad un altro atto, quando quest'ultimo atto è emanato al fine di dare esecuzione al primo. Un’analoga soluzione vale a maggior ragione quando un atto sia emanato dalla Commissione su delega del Consiglio , perché in questi casi il rispetto dell’atto delegante (cioè dell' atto legislativo di delega, del Consiglio) costituisce, almeno implicitamente, un limite che l’istituzione delegata è tenuta a rispettare, nell'emanazione dell'atto delegato. L’esistenza di una gerarchia fra atti normativi si potrebbe in teoria prospettare anche quando, fra due atti adottati nella stessa materia (es. 2 regolamenti in materia agricola) uno sia stato emanato con un “procedimento meno gravoso”. Questa ipotesi non è prevista nel diritto Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| dell’UE poiché i Trattati non stabiliscono che si possano seguire procedure diverse a seconda dell’importanza dell’atto da emanare. Era stato però proposto, di introdurre una gerarchia fra gli atti normativi, al fine di semplicare l'adozione di atti di minore rilievo , evitando cosi , di dover ricorrere anche per essi a procedure complesse. Tuttavia il tema è stato poi accantonato. Con il Trattato di Lisbona, è stato stabilito (art. 290 TFUE) che: “gli elementi essenziali” della disciplina di un settore, debbono essere adottati con un atto legislativo e non possono pertanto essere oggetto di delega di potere. Ma da ciò deriva solo la conseguenza che per modificare (o disciplinare) gli aspetti considerati “non essenziali”, vi è la possibilità che un atto legislativo utilizzi lo strumento della delega. Gli artt. 289 e 290 TFUE pongono infatti una distinzione fra: • gli atti legislativi, adottati mediante procedura legislativa, • e gli atti non legislativi di portata generale , che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo. L’art. 290 prospetta che gli atti non legislativi, siano adottati dalla Commissione su delega contenuta nell’atto legislativo; nel loro titolo verrebbero allora indicati come “atti delegati” ed essi sarebbero, ovviamente, subordinati all’atto legislativo che contiene la delega. L'atto legislativo deve infatti “delimitare esplicitamente gli obiettivi , il contenuto , la portata, e la durata, della delega”; inoltre l'atto legislativo può stabilire alcune condizioni, tra le quali anche il potere del PE o del Consiglio di revocare la delega. L’art. 291 TFUE concerne invece l’eventuale emanazione di atti normativi di esecuzione. Tale disposizione muove dalla considerazione che siano gli Stati membri ad adottare tutte le misure di diritto interno , necessarie per l'attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione; ma allo stesso tempo stabilisce che tali atti giuridicamente vincolanti dell'Unione, possano, “allorché siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione di tali atti ” conferire alla Commissione competenze di esecuzione, oppure, in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze previste agli articoli 24 e 26 del TUE , al Consiglio . La circostanza che si tratti di atti di esecuzione deve essere indicata nel titolo dell’atto. È chiaro che questi atti sono subordinati agli atti della cui esecuzione rispettivamente si tratta. In defintiva va detto che, se in linea generale gli atti dell’Unione, si situano tutti allo stesso livello , o meglio hanno ,in via di principio, tutti lo stesso valore (visto che il TFUE non delinea una gerarchia tra gli atti normativi) ciò non significa che non esista nell’ordinamento dell’UE una gerarchia tra le fonti. Infatti il potere delle istituzioni di emanare atti normativi si fonda sui Trattati; il TFUE, nel descrivere gli atti normativi, non menziona le disposizioni dei Trattati, ma è implicito che le norme dei Trattati siano poste a un livello superiore rispetto a quelle prodotte dagli atti adottati dalle istituzioni. Infatti in base all'art. 263.par. 2 TFUE, la violazione dei trattati (e la violazione di “qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione) costituisce un motivo di impugnazione degli atti adottati dalle istituzioni dell'Unione. Lo stesso art. 263.2 TFUE fa inoltre riferimento, oltre che alla violazione dei trattati, anche alla violazione di “qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione”. Tale formula ha consentito alla CG di individuare alcune fonti che si pongono ad un “livello intermedio” fra i Trattati e gli atti adottati dalle istituzioni. Tali fonti intermedie sono: i principi generali, gli accordi internazionali conclusi dall'Ue , e le norme di diritto internazionale generale vincolanti l'UE. Si tratta di fonti quindi , che sono: - “subordinate ai trattati ”, in quanto attengono alla loro applicazione - “sovraordinate agli atti delle istituzioni ”, in quanto incidono sulla legittimità di tali atti: infatti gli atti delle istituzioni, sono impugnabili qualora non rispettino le regole relative all'applicazione dei Trattati. 2 - I Trattati Il TUE e TFUE hanno la natura giuridica di accordi internazionali, ma operano all’interno dell’Unione come norme di rango più elevato. In sostanza questi trattati, pur essendo accordi internazionali, avrebbero una natura giuridica diversa da quella propria degli accordi internazionali in ragione del fatto che costituirebbero in realtà una “carta costituzionale”(dell'ordinamento comunitario) Più precisamente, i Trattati sono si accordi Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| modificare”. Il fatto che da una disposizione derivi un effetto diretto, implica di regola, la possibilità per uno stato membro di collegare conseguenze negative all'inattività della persona fisica o giuridica che avrebbe potuto far valere l'effetto diretto. Nella sentenza fantask la CG ha rilevato che l'inadempimento, da parte di uno stato membro, di un obbligo derivante da una direttiva avente effetti diretti, non osta alla previsione, da parte dello stesso stato, di un termine di prescrizione, che decorra dal momento in cui è stato arrecato un pregiudizio a una situazione giuridica attiva derivante dalla direttiva. E' quindi consentito allo Stato membro di prevedere una termine di prescrizione nazionale che decorra dalla data di esigibilità dei tributi di cui trattasi, a patto che tale termine di prescrizione nazionale (per i ricorsi basati sul diritto comunitario): - non sia meno favorevole ,dei termini di prescrizione per i ricorsi basati sul diritto interno - e non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario E' da ritenere che quanto affermato dalla CG in questa sentenza , rispetto al caso dell'inadempimento di un obbligo posto da una direttiva avente effetti diretti, valga, più in generale , per tutti i casi in cui una norma dell'Unione, produce tali effetti. 3 - La Carta dei dirittì fondamentali dell'Unione Europea ( Carta d Nizza) L'art. 6 par. 1 del TUE, al 1 comma attribuisce lo stesso valore giuridico dei Trattati, alla Carta dei diritti fondamentali dell'Ue del 7 dicembre del 2000 , adottata nel 2007 a Strasburgo (cd. Carta di Nizza). Secondo il Trattato del 2004, mai entrato in vigore, che si proponeva di dar vita ad una Costituzione europea, la Carta di Nizza , avrebbe dovuto costituire la seconda parte della Costituzione . Il Trattato di Lisbona ha invece scelto la tecnica del rinvio alla Carta , che resta quindi uno strumento distinto dal TUE , ma che, in base all'art. 6 par. 1 dello stesso TUE, assume lo stesso valore che avrebbe se fosse parte integrante dei Trattati. L'interpretazione della Carta di Nizza è soggetta a criteri , o meglio a regole, particolari . Infatti ex art. 6 par. 1 , 3 comma: i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta, sono interpretati: - in conformità delle disposizioni generali del titolo 7 della Carta stessa ,che disciplinano , appunto, la sua interpretazione e applicazione - e tenendo in debito conto le spiegazioni, cui si fa riferimento nella Carta , che indicano le fonti di tali disposizioni. Tali criteri (disposizioni del titolo 7 della Carta) prevedono , tra l'altro, che : • il significato e la portata delle disposizioni della Carta che enunciano diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea sui diritti dell'Uomo e le libertà fondamentali, sono uguali a quelli conferiti da quest’ultima convenzione. Non è tuttavia escluso che la Carta di Nizza conceda un livello più elevato di protezione. • i diritti riconosciuti dalla Carta , che traggono origine dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, devono essere interpretati in armonia con tali tradizioni costituzionali. Tali criteri tendono a realizzare una certa coerenza, riguardo alla tutela dei diritti umani, in ambito europeo. L'art. 6 par. 1 , al 2 comma dice che : le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati. Questa disposizione vuole dire che la Carta di Nizza conferisce diritti , solo nell'ambito delle materie di competenza dell'Unione. Le disposizioni della Carta si applicano: -sia alle istituzioni e agli organi dell'Unione , sempre nel rispetto del principio di sussidiarietà - e sia agli Stati membri esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. Pertanto, i suddetti soggetti: rispettano i diritti , osservano i principi e ne promuovono l'applicazione, secondo le rispettive competenze. Va precisato ,in ogni caso, che gli effetti dela Carta trovano dei limiti in relazione alcuni stati, come Regno Unito e Polonia. 4 - I principi generali Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Un’altra fonte del diritto dell’UE è costituita dai principi generali che trovano enunciazione soprattutto nella giurisprudenza della CG. Il ricorso a principi generali si è imposto nella giurisprudenza in ragione dell’esigenza di integrare una disciplina essenzialmente settoriale come quella contenuta nei Trattati. Una base testuale si è potuta rinvenire nell'art. 230 TCE , ed è ora presente nell'art. 263 TFUE, che considera impugnabile un atto per violazione , oltre che degli stessi trattati, anche di “qualsiasi altra regola di diritto, relativa allo loro applicazione (come appunto i principi generali)”. I principi generali: • costituiscono parametri per il giudizio di legittimità degli atti delle istituzioni, • contribuiscono a dare elementi, per interpretare le norme dell’UE e per integrarne il contenuto. Come esempio dell’applicazione di un principio generale in funzione integrativa, si può citare la sentenza Krucken, nella quale la CG ha affermato che: il principio della tutela del legittimo affidamento fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario e che il rispetto dei principi generali del diritto comunitario si impone ad ogni autorità nazionale che debba applicare il diritto comunitario. Nella sentenza Mangold la CG ha considerato che il principio di non discriminazione in ragione dell'età , è un principio generale del diritto comunitario , che il giudice nazionale deve applicare garantendone la piena efficacia ai singoli. Rispetto alla rilevanza dei principi generali sul piano dell'interpretazione, conviene citare la sentenza AM del 1982, nella quale la CG, ha riscontrato negli ordinamenti interni “criteri (cioè principi) comuni”; nel senso che vi sarebbe “tutelata la riservatezza della corrispondenza tra avvocato e cliente , purchè, da un lato si tratti di “corrispondenza scambiata al fine e nell'interesse della difesa del cliente”, e dall'altro lato, si tratti di “avvocati indipendenti , cioè non legati al cliente da un rapporto d'impiego ”. La CG ha cosi affermato in tale sentenza, che: considerato tale contesto , il regolamento 17/62 dev'essere interpretato nel senso che anche esso tutela la riservatezza della corrispondenza fra avvocato e cliente alle suddette condizioni (corrispondenza scambiata al fine e nell'interesse della difesa del cliente”, e “avvocati indipendenti ) recependo in tal modo gli elementi costitutivi di detta tutela, che sono comuni ai diritti degli stati membri. Nel ricostruire i principi generali tratti dagli ordinamenti degli stati membri , la CG non ha generalmente cercato di individuare un nucleo comune a tutti gli ordinamenti, anche perchè le sarebbe stato difficile estrarne un contenuto normativo di una qualche qualità. Del resto, manca nella giurisprudenza un analisi adeguata delle normative degli stati membri , e questo è avvenuto anche nelle poche sentenze che si sono proposte di effettuare tale analisi, come la sentenza Hauer a proposito alle limitazione consentite al diritto di proprietà. La CG appare piuttosto indirizzata a prendere ispirazione da “alcuni ordinamenti interni” , in particolare da quello tedesco. La CG , si è avvalsa dei principi generali anche per apprestare la tutela dei diritti fondamentali , nei confronti di atti delle istituzioni. Secondo quanto enunciato dalla CG nella sentenza Hauer << i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto di cui essa garantisce l’osservanza>> e << nel garantire la tutela di tali diritti fondamentali, essa è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, perciò non potrebbe ammettere , provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle costituzioni di tali Stati >>. I trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito (es. la Convenione Europea dei diritti dell'uomo, di cui sono parte tutti gli stati membri dell'Ue), possono “del pari” fornire elementi di cui occorre tenere conto nell’ambito del diritto comunitario >>. Come si è visto, a seguito del Trattato di Lisbona il contenuto della tutela dei diritti fondamentali è tratto innanzitutto dalla Carta di Nizza del 2007 ; resta tuttavia, in base al par. 3 dell'art. 6 TUE , il rilievo della Convenzione europea e delle tradizioni costituzionali comuni . E' stabilito infatti che: i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali. La tutela dei diritti fondamentali non è posta , come per gli altri principi generali, ad un livello intermedio fra i trattati e gli atti delle istituzioni, ma , in quanto stabilita da una disposizione del TUE, è posta allo stesso livello dei trattati. Può quindi diventare rilevante , accertate se un certo principio generale abbia ad oggetto un diritto fondamentale garantito dalla Convenzione europea o risultante dalle tradizioni costituzionali comuni , in quanto in tal caso, nell'interpretare in modo coordinato norme poste al medesimo livello, si può giungere ad affermare l'incidenza del principio generale sul contenuto, eventualmente divergente, di Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| una disposizione del trattato. 5 - La motivazione L'art. 288 TFUE, dice che : per esercitare le competenze dell'Unione, le istituzioni adottano: - regolamenti, direttive, decisioni (atti vincolanti) , - raccomandazioni e pareri (atti non vincolanti) Riguardo agli atti delle istituzioni dell'Ue , conviene menzionare innanzitutto una regola che si applica a tutti gli atti, cioè la regola della motivazione che è imposta dall' art. 296 TFUE, in base al quale gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai trattati. La motivazione è generalmente formulata nel preambolo dell’atto, che costituisce pertanto un elemento rilevante per l’interpretazione delle norme prodotte dallo stesso atto. Anche se l'art. 296 TFUE non lo richiede espressamente, nella motivazione degli atti è normalmente indicata la rispettiva base normativa , o meglio il fondamento giuridico dell'atto, il quale incide sul contenuto e sulla procedura di adozione del possibile atto. 6 - I regolamenti I regolamenti, che l’art. 288 TFUE descrive per primi, sono la forma più completa di normativa dell’UE. Secondo l'art. 288 TFUE , il regolamento: • ha portata generale (si tratta di un atto giuridico vincolante, diretto non solo agli stati membri, ma anche ai singoli). . • è obbligatorio in tutti i suoi elementi (obbligatorietà integrale, nel senso che gli Stati membri hanno l’obbligo di applicarli integralmente, senza deroghe o modifiche di sorta) • é direttamente applicabile in ciascuno degli S.m. (in linea generale le disposizioni del regolamento operano senza che occorra alcun atto di attuazione , dell’Unione o di uno Stato membro). I regolamenti sono pubblicati nella GU dell’UE. Essi entrano in vigore alla data da essi stabilita oppure, in mancanza di data, nel ventesimo giorno successivo alla loro pubblicazione. L'entrata in vigore immediata, non può essere disposta senza motivo (sentenza Neumann). Il regolamento è di per sé idoneo a far sorgere, per le persone fisiche e giuridiche, diritti e obblighi nei loro rapporti con gli Stati membri , con le istituzioni dell’UE oppure con altre persone fisiche o giuridiche (efficacia diretta ,sia verticale che orizzontale). Nonostante direttamente applicabili, rispettto ad alcuni regolamenti vi può essere l’esigenza di una normativa integrativa (o di esecuzione) che spetta in via generale agli Stati membri emanare, a meno che non siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione; si provvederà in quest’ultimo caso a mezzo di un regolamento di esecuzione. Alcune disposizioni di regolamenti possono richiedere, quindi, per la loro applicazione, l’adozione di misure di esecuzione da parte degli S.m. Tale esigenza potrebbe manifestarsi anche soltanto rispetto a certi S.m. in relazione al modo d’essere del rispettivo ordinamento. Occorre allora, in tali casi, che il legislatore statale, provveda in attuazione dell’obbligo degli S.m. (sancito nell’art. 4 par. 3 comma 2 del TUE) di adottare ogni misura di carattere generale o particolare atta “ad assicurare l’esecuzione“ degli obblighi derivanti dai Trattati o degli obblighi conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. La normativa statale che sia necessaria per attuare un regolamento, cmq, non deve tendere a sostituirsi ad esso, anche perché così facendo rischierebbe di mettere in pericolo l’applicazione del regolamento, con i tempi e le modalità, che sono propri degli atti normativi dell’Unione. Nella sentenza Commissione c. Italia, del 1973 , causa 39/72, la CG ha considerato che: contrastano col trattato, le modalità di attuazione che possano avere la conseguenza di ostacolare l’efficacia diretta dei regolamenti comunitari, e di comprometterne quindi la simultanea ed uniforme applicazione nell’intera Comunità. Si manifesta così una netta differenza fra: - gli atti normativi direttamente applicabili (regolamenti) - e quelli che producono effetti diretti. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| tutte le misure necessarie per attuare gli obblighi posti dalla direttiva “entro il termine stabilito dalla stessa”. Il termine, fissato da una direttiva, entro il quale lo Stato membro cui è rivolta deve trasporre la stessa è imperativo. Come la CG ha affermato: durante il termine fissato per la “trasposizione” , gli stati membri devono adottare i provvedimenti necessari ad assicurare che il risultato prescritto dalla direttiva, sarà realizzato alla scadenza del termine stesso. Allo stato membro che beneficia eccezionalmente di un termine di trasposizione più lungo, non è consentito adottare , durante il termine di attuazione della direttiva (termine di trasposizione), misure incompatibili con gli obiettivi di quest'ultima. Inoltre, sempre secondo la CG : dalla data in cui una direttiva entra in vigore i giudici degli stati membri devono astenersi dall'interpretare il diritto interno , in un modo che rischierebbe di compromettere gravemente, dopo la scadenza del termine di attuazione, la realizzazione del risultato perseguito dalla direttiva. Come detto, generalmente occorre che lo S.m. emani norme di attuazione, ma ciò non è necessario quando la normativa interna sia già conforme a quanto prescritto: ad esempio quando una direttiva per il ravvicinamento delle legislazioni, abbia adottato come modello, proprio la legislazione di quello Stato. Riguardo alle modalità di attuazione, la CG ha rilevato come, ciascuno S.m. è libero, sia di ripartire le competenze sul piano interno, nel modo che ritiene opportuno e sia libero di dare attuazione ad una direttiva mediante provvedimenti adottati dalle autorità regionali o locali; ma che, “semplici prassi amministrative, per loro natura variabili ad arbitrio dell’amministrazione (cioè modificabili a piacimento dall'amministrazione) non possono essere considerate come un valido adempimento dell’obbligo derivante da una direttiva”. Rispetto alle direttive in materia di politca sociale , tuttavia, il risultato da raggiungere potrebbe essere ottenuto in modo efficace anche attraverso “accordi” conclusi dalle parti sociali, qualora essi abbiano la portata generale richiesta dalla direttiva oppure siano integrati da una normativa interna .Infatti l'art. 153 par. 3 TFUE dice che : uno Stato membro può affidare alle parti sociali, a loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto, le direttive prese a norma del paragrafo 2 dello stesso art. 153 o, se del caso, una decisione del Consiglio adottata conformemente all'art. 155 TFUE . In tal caso lo stato mebro è tenuto ad assicurarsi che, le parti sociali abbiano stabilito mediante accordo le necessarie disposizioni, fermo restando che lo Stato membro interessato deve adottare le misure necessarie che gli permettano di garantire in qualsiasi momento i risultati imposti da detta direttiva o detta decisione. L'obbligo di dare attuazione alla direttiva con provvedimenti normativi , non viene meno per il fatto che ad alcune disposizioni di essa sia riconosciuto un effetto diretto. Tale effetto costituisce infatto un elemento a favore di chi invoca la disposizione di una direttiva, a proprio vantaggio ; non può invece costituire una giustificazione per lo stato membro che non abbia adempiuto agli obblighi posti dalla direttiva. Anche rispetto alle direttive i requisiti, enunciati dalla CG, perché si produca un effetto diretto si ricollegano ai caratteri della chiarezza e della precisione, nonché all’assenza di condizioni; generalmente quest’ultimo carattere (cioè il carattere incondizionato) è impresso alle disposizioni della direttiva, dalla scadenza del termine in essa stabilito per l’attuazione da parte degli Stati destinatari. In pratica per poter produrre effetti diretti, una direttiva dev'essere chiara, precisa e incondizionata e occorre attendere la scadenza del termine di attuazione . La possibilità di ricavare effetti diretti dalle disposizioni di una direttiva è stata enunciata dalla CG per la prima volta nella sentenza van Duyn. In tale sentenza si dice che: se è vero che i regolamenti in forza dell’art. 288 TFUE sono direttamente applicabili e quindi atti, per natura, a produrre effetti diretti, da ciò non si può inferire che le altre categorie di atti contemplate dal suddetto articolo non possano mai produrre effetti analoghi. Sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall’art. 288 TFUE alla direttiva, l’escludere, in generale, la possibilità che l’obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati. In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, obbligato gli S.m. ad adottare un determinato comportamento, la portata della direttiva sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| diritto comunitario. Mentre in questa sentenza l’esistenza di effetti diretti è fatta dipendere da caratteri oggettivi propri della disposizione della direttiva, a partire dalla sentenza Ratti l’effetto diretto è configurato, rispetto alle direttive, come una forma di sanzione dell’inadempimento dello S.m.: “lo S.m. che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti d’attuazione imposti dalla direttiva, non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa”. Ciò ha innanzitutto la conseguenza che una direttiva produce effetti diretti soltanto in relazione agli S.m. inadempienti. Ma vi è una conseguenza di maggior rilievo: se è vero che l’effetto diretto è la sanzione dell’inadempimento di un obbligo da parte di uno S.m., non si possono ricavare effetti diretti orizzontali, cioè effetti diretti che comportino situazioni soggettive passive per persone fisiche o giuridiche, anche perchè esse non sono mai destinatarie dell’obbligo. In altre parole, deve essere data una soluzione negativa alla questione degli effetti diretti orizzontali delle direttive (come anche delle decisioni rivolte agli stati membri). Ciò è quanto la CG ha affermato nella sentenza Marshall, in cui è stato precisato che la direttiva non può di per se creare obblighi a carico di un singolo, quindi una disposizione di una direttiva non può essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso. Un argomento che si potrebbe addurre per giustificare la distinzione fra direttive e trattati a proposito degli effetti diretti “orizzontali”, è data dalla circostanza che i trattati costituiscono l'insieme delle norme fondamentali dell'ordinamento dell'unione e appaiono quindi maggiormente idonei , rispetto ad un atto che è adottato da un'istituzione e che ha come destinatari formali gli stati membri (come appunto la direttiva) a porre obblighi (cioè situazioni giuridiche passive) per persone fisiche o giuridiche. La soluzione negativa della questione degli effetti diretti orizzontali, trova però origine soprattutto in ragioni di politca giudiziaria . E' molto probabile infatti che la CG abbia voluto limitare la portata degli effetti diretti delle direttive in presenza di forti critiche sull'attivismo della stessa CG e in presenza del rifiuto, espresso da taluni organi giudiziari nazionali, di ammettere qualsiasi effetto diretto alle direttive . Queste posizioni critiche sono state successivamente superate ma la CG ha piu volte ribadito il suo orientamento , nel senso di eslcudere la produzione , da parte delle direttive, di effetti diretti orizzontali. Un apertura, assai limitata , ad ammettere che una direttiva produca effetti diretti orizzontali si può riscontrare solo nelle sentenze Cia Security ed Unilever , ove la CG ha escluso , anche rispetto ai rapporti tra persone fisiche o giuridiche , l'efficacia di una normativa statale emanata in violazione dell'obbligo, posto agli Stati membri da una direttiva , di notificare previamente alla Commissione i progetti di nuove regole tecniche. Nella giurisprudenza più recente la CG ha ricollegato , a disposizioni di “direttive che non hanno effetti diretti” , alcune conseguenze giuridiche che ampliano in modo significativo la rilevanza giuridica delle stesse disposizioni per le persone fisiche e giuridiche. Innanzitutto, nella sentenza Marleasing la CG ha affermato che: nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale “alla luce della lettera e dello scopo della direttiva”, per conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288 TFUE. Ebbene, a riguardo, è opportuno rilevare, che l'esigenza di interpretare la normativa nazionale, conformente alla direttiva , può benissimo riguardare ( come appunto esaminato nel caso Marsealing) una normativa nazionali destinata ad essere applicata nei rapporti fra persone fisiche o giuridiche. La CG ha tuttavia precisato che non si possa per questa via giungere ad affermare l’esistenza di obblighi per persone fisiche e giuridiche (e quindi l'esistenza di effetti diretti orizzontali). Nella sentenza Arcaro la CG ha osservato che: l’esigenza di interpretare una norma nazionale in conformità con quanto stabilisce una direttiva non attuata, incontra un “limite “qualora tale interpretazione, comporti che ad un singolo venga opposto un obbligo previsto da una direttiva non trasposta oppure abbia l’effetto di determinare o aggravare, (in forza della direttiva e in mancanza di una legge emanata per la sua attuazione,) la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni. Appare tuttavia alquanto sottile la distinzione fra: - gli obblighi, che non dovrebbero sorgere, per le persone fisiche o giuridiche in base a una Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| direttiva - e le altre conseguenze negative che le persone fisiche o giuridiche potrebbero invece subire in ragione dell’interpretazione di una legge nazionale in conformità con la direttiva. Le disposizioni di una direttiva che non hanno effetti diretti, possono produrre un secondo tipo di conseguenze giuridiche (risarcitorie???), queste però soltanto nei rapporti fra una persona fisica o giuridica e uno Stato membro. Tali conseguenze sono state delineate nella sentenza Francovich. Dopo aver escluso che la direttiva 80/987/CE relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza dei datori di lavoro, produca effetti diretti, la CG ha affermato, una responsabilità dello Stato che non abbia attuato la direttiva , per i danni subiti dai lavoratori a causa della mancata attuazione. Secondo la Corte, il diritto al risarcimento è sottoposto a tre condizioni: 1. che il risultato prescritto dalla direttiva, implichi l’attribuzione di diritti a favore dei singoli 2. che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. 3. l’esistenza di un nesso di causalità tra, la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. È bene precisare che l’ipotesi presa in considerazione dalla CG in questa sentenza è che la disposizione della direttiva non abbia effetti diretti: essa non attribuisce infatti ai singoli un diritto, ma soltanto un’aspettativa, in quanto impone agli S.m. di conferire diritti ai singoli (attraverso norme adottate) in attuazione della stessa direttiva. Nel caso della direttiva concernente l’insolvenza dei datori di lavoro (sentenza Francovic), i lavoratori hanno un diritto al risarcimento che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario, ma che deve essere fatto valere dinanzi al giudice nazionale nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità”. Alcuni aspetti della responsabilità sono regolati dal diritto comunitario (es. l'elemento soggettivo) altri dal diritto nazionale, ma la CG soggiunge che: le condizioni formali e sostanziali , stabilite dalla diverse legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni , non possono: - ne essere meno favorevoli , delle condizioni che riguardano reclami analoghi di natura interna - ne essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento. La CG ha successivamente affermato che l'esistenza di una responsabilità degli stati membri, (oltre che per il caso di danni derivanti dalla mancata attuazione di direttive non aventi effetti diretti) pure per il caso in cui l'inadempimento riguardi obblighi stabiliti da norme del TCE o da qualsiasi altra norma comunitaria, (e questo anche se si tratta di norme produttive di effetti diretti. Secondo una sentenza della CG , riguardante la violazione di obblighi posti da due disposizioni del TCE aventi effetti diretti : la responsabilità dello stato membro , alle 3 condizioni a cui è sottoposto il diritto al risarcimento, è collegata a “qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario” commessa da uno stato membro, qualunque sia l'organo di quest'ultimo la cui azione/omissione ha dato luogo alla trasgressione; purchè la violazione sia grave e manifesta oppure sufficientemente qualificata. Ebbene , è da ritenere che quanto affermato dalla CG in relazione alle norme “comunitarie” (del TCE) valga ora per le norme dell'Ue. 9 - Gli atti non vincolanti L’art. 288 TFUE indica che le raccomandazioni e i pareri non sono vincolanti. • RACCOMANDAZIONI possono essere rivolte da un’istituzione: ad altre istituzioni, o agli S.m. o anche ad altri soggetti. Anche se esse non hanno carattere vincolante, non sono perciò sempre giuridicamente irrilevanti. Una raccomandazione può ad esempio risultare significativa per interpretare, un altro atto normativo oppure interpretare la legge di uno S.m. che abbia inteso conformarsi alla raccomandazione stessa. Secondo quanto la CG ha espresso nella sentenza Grimaldi, “i giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini della soluzione delle controversie Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Nella sentenza Simmenthal, la CG ha considerato specificamente l’ipotesi in cui la prevalenza fosse assicurata nello Stato membro, ma solo, come avveniva allora in Italia, “a seguito” di un procedimento per annullare la norma interna, per mezzo di un giudizio (in via diretta/incidentale) sulla legittimità costituzionale della legge. Secondo la CG un sistema di questo genere , che implica una pronuncia di illegittimità della norma interna, da parte della Corte Cost., prima che il giudice nazionale possa applicare la norma comunitaria anziché una legge che sia contrastante con la stessa , non è conforme al principio della preminenza delle norme comunitarie, dal quale risulta che “qualsiasi giudice nazionale”, adito nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria. Mentre è chiaro, in questa sentenza, che il regolamento dev'essere cmq applicato , non sono precisate le vicende della norma interna di cui è predicata l'invalidità e quindi l'esigenza di disapplicazione: del resto , questa non è una questione che spetti alla CG definire. Nella sentenza INCOGE , la corte si è limitata ad aggiungere che : dalla sentenza Simmenthal non si può dedurre che l'incompatibilità con il diritto comunitario di una norma interna successiva , abbia l'effetto di rendere inesistente quest'ultima. La giurisprudenza successiva della CG, ha avuto modo di precisare alcuni “ulteriori aspetti “ della preminenza delle norme comunitarie, con considerazioni anche esse applicabili alle norme del diritto dell'UE come configurato a seguito dal Trattato di Lisbona. Esempio: • Nella sentenza Factortame la CG ha enunciato che, deve essere superato il principio di common law secondo il quale nessun provvedimento cautelare potrebbe essere emanato nei confronti della Corona. A tal fine la Corte ha aggiunto che “la piena efficacia del diritto comunitario , sarebbe del pari ridotta, se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice, chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario , di concedere provvedimenti provvisori (cautelari) allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario “. Ne consegue che in una situazione del genere il giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale , che sola osti alla concessione di provvedimenti provvisori”. • Nella sentenza Peterbroek, la CG ha dichiarato che : il dirtto comunitario osta all'applicazione di una norma processuale nazionale, che , in condizioni analoghe a quelle del procedimento di cui trattasi nella causa davanti al giudice a quo , vieta al giudice nazionale , adito nell'ambito della sua competenza , di “valutare d'ufficio”, la compatibilità di un provvedimento di diritto nazionale con una disposizione comunitaria, quando la disposizione comuniaria non sia stata invocata dal singolo entro un determinato termine. Quindi il giudice nazionale deve poter valutare , indipendentemente dal comportamento delle parti nel processo , se una norma nazionale è compatibile con il diritto dell'unione. L’obbligo di applicare una norma dell’UE “a preferenza” della norma interna con essa contrastante, opera in presenza , non soltanto di regolamenti (quindi di atti direttamente applicabili), ma anche in presenza di norme aventi effetti diretti, perché pure rispetto ad esse vale l’esigenza che la norma dell’UE possa essere fatta valere nonostante qualunque regola interna contrastante. Anzi, l’affermazione degli effetti diretti di una norma, ha avuto in molti casi, proprio la funzione di superare il contenuto di una disciplina interna altrimenti applicabile. Ciò appare evidente sopratutto nella sentenza fratelli Costanzo, nella quale la CG ha affermato la rilevanza, “anche per le autorità amministrative” , degli effetti diretti della norma di una direttiva. In tale sentenza la CG ha infatti notato che : sarebbe contraddittorio statuire che i singoli possano invocare innanzi ai giudici nazionali le disposizioni di una direttiva , e allo stesso tempo ritenere che l'amministrazione non sia tenuta, ad applicare le disposizioni di detta direttiva disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi”. • Nella sentenza CIOLA , la CG ha soggiunto che: in presenza di norme di diritto aventi efficacia diretta , anche un divieto “posto attraverso un provvedimento, individuale e concreto, divenuto definitivo” (es. posto da una sentenza nazionale defintiva) , e risultante contrastante con tali norme di diritto aventi efficacia diretta, va disapplicato Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| “nella valutazione della legittimità di un ammenda irrogata per l'inosservanza del divieto”. • Invece come è precisato dalla sentenza Kapferer , il diritto comunitatio “non impone” di disapplicare le norme processuali interne, che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione , anche quando ciò permetterebbe di accertare una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione. Tale affermazione che vale anche rispetto al diritto dell'unione, è stata recentemente ribadita nella sentenza Olimpiclub. Se quindi il giudice nazionale è tenuto a non applicare norme interne o provvedimenti amministrativi, che siano contrastanti con norme dell'UE direttamente applicabili o aventi effetti diretti, soltanto in casi ecccezionali egli deve superare quello che è stabilito da una sentenza nazionale definitiva (provvedimento individuale e concreto, divenuto definitivo) . In una sentenza recente (Winner 2010) la CG ha affermato che : una norma interna contrastante con una disposizione del Trattato idonea a produrre effetti diretti , non può essere applicata dal giudice di uno stato membro, “anche quando la Corte costituzionale di quello stato membro, considerando tale norma non conforme alla Costituzione Nazionale, abbia ritenuto di mantenerla temporaneamente in vigore per evitare una lacuna normativa “. Quando la norma dell’UE non sia, né direttamente applicabile e né produca effetti diretti, l’organo dello Stato membro, non si trova in presenza, di una norma dell’UE suscettibile di essere applicata a preferenza di una norma interna eventualmente contrastante. In tal caso, il contrasto può risultare soltanto apparente , allorché la norma interna (non direttamente applicabile o non avente effetti diretti) sia suscettibile di essere interpretata in modo conforme alla norma dell’UE. Un’interpretazione della norma nazionale in questo senso (cioè conforme alla norma dell'UE) può essere imposta dallo stesso ordinamento dello S.m. (come avviene ad esempio nel Regno Unito), ma secondo la CG, l’esigenza di un’interpretazione della norma interna che tenda ad adeguarla agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE , è stabilita anche da quest’ultimo, cioè dal diritto dell'unione. • Nella sentenza Marleasing la CG ha affermato che : l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato da questa previsto, così come il loro dovere di adottare tutte le misure (generali o particolari) idonee a garantire l’adempimento di questo obbligo, si impongono a tutte le autorità degli S.m. comprese, nel quadro delle loro competenze, le autorità giurisdizionali. Ne consegue che, applicando il diritto nazionale, che si tratti di disposizioni anteriori o posteriori alla direttiva, il giudice nazionale chiamato ad interpretarlo, è tenuto a farlo, per quanto più possibile, “alla luce della lettera e degli scopi della direttiva” stessa , al fine di raggiungere il risultato da questa previsto, e conformarsi cosi all’art. 288 TFUE. • Nella sentenza Hermes la CG ha enuncianto l'esigenza di interpretare una normativa nazionale, anche in conformità con la disposizione di un “accordo concluso dalla Comunità”. • Nella sentenza Grimaldi, la CG ha affermato a proposito di un “atto non vincolante “, che: “i giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio ; in particolare:quando esse sono di aiuto nell’interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di garantire la loro attuazione; o quando mirano a completare norme comunitarie aventi natura vincolante. Quando il contrasto tra una norma UE non direttamente applicabile o non avente effetti diretti, e norma interna, non sia superabile in via interpretativa , mancano nell'ordinamento dell'unione strumenti utili, ad assicurare l'adempimento degli obblighi posti dalla norme UE (che non sia direttamente applicabile o che non produca effetti diretti e utili, di conseguenza, ad escludere l'applicabilità delle norme interne con essa contrastanti. Spetterà quindi a ciascun stato membro provvedere ,secondo le rispettive regole, - a rimuovere le norme interne contrastanti - e a porre in essere una normativa conforme agli obblighi posti dal diritto dell'unione, in quanto un eventuale dichiarazione di illegittimità delle norme interne, con conseguente Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| abrogazione dei loro effetti, soddisferebbe solo in parte l'esigenza del rispetto delle norme dell'unione, visto che fino a quando non siano emanati provvedimenti normativi di attuazione , gli obblighi derivanti da norme UE resterebbero di regola inadempiuti (e in tal caso sarebbero cosi esperibili, anche se non sono sempre efficaci, un procedimento di infrazione e ,nei casi in cui sia ammessa, un' azione per far valere la responsabilità dello stato membro). 2 - I rapporti fra norme dell’Unione e norme degli Stati membri , nella prospettiva della Corte costituzionale La Corte cost. ha più volte affrontato in passato, il problema dei rapporti fra norme italiane e norme “comunitarie”, e le conclusioni a cui è pervenuta sono da ritenere applicabili (come le conclusioni della CG) anche rispetto alle norme dell’UE. Il modello , costruito dalla CG, della Comunità come ente superiore le cui norme sono preminenti “per effetto dell’ordinamento comunitario” non è stato accolto dalla Corte cost. Italiana , che ha cercato le ragioni e le modalità della preminenza, nella Costituzione italiana. Infatti , • dopo una prima fase, nella quale la Corte Cost, aveva (sent. 1964) negato la prevalenza delle norme comunitarie sulle leggi , sostenendo che “la violazione del Trattato, anche se importa responsabilità dello Stato sul piano internazionale, non toglie alla legge con esso in contrasto, la sua piena efficacia; • la Corte cost. ha rinvenuto una ragione della prevalenza nell’art. 11 Cost. (che è stata inserita nella Cost. essenzialmente in vista della partecipazione all’ONU) in base al quale, “ l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità, necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e promuove e favorisce le organizzazioni internazionali(come appunto l'ONU o l'UE) rivolte a tale scopo. La Corte cost. aveva già nella sentenza del 1964, implicitamente considerato che l’art. 11 concerne anche le comunità europee; ma tuttavia aveva , sia attribuito alla stessa norma soltanto una funzione “permissiva” (osservando che “la norma significa che, quando ricorrano certi presupposti, è possibile stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità, ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria”) e sia come si è gia detto, aveva escluso una prevalenza delle norme comunitarie rispetto alle leggi ordinarie. Ad una conclusione opposta, la Corte costituzionale, è invece giunta in una sentenza del 1975 : dopo aver escluso che il trasferimento agli organi delle Comunità del potere di emanare norme giuridiche, comporti come conseguenza una radicale privazione di efficacia della volontà sovrana degli organi legislativi degli S.m., la Corte ha infatti affermato che, il trasferimento agli organi delle Comunità del potere di emanare norme giuridiche, fa sorgere, invece, il diverso problema della “legittimità costituzionale” dei singoli atti legislativi; con la conseguenza, che le disposizioni di una legge che violano obblighi comunitari sono costituzionalmente illegittime , per il contrasto con i principi enunciati dagli artt. 267 tfue (ex art. 234 del TCE) e 288 tfue (ex art. 249 TCE) e sia per la conseguente violazione dell’art. 11 Cost. Si è gia ricordato come nella sentenza Simmenthal, la CG abbia dichiarato che, non è compatibile con il diritto comunitario un sistema come questo appena descritto , il quale implica una pronuncia di illegittimità da parte della Corte Cost., prima che il giudice nazionale possa applicare il regolamento comunitario anziché una legge che sia contrastante con lo stesso regolamento. Ebbene, proprio la sentenza simmenthal ha indotto la Corte Costituzionale, a cercare una nuova via per assicurare in italia la preminenza della normativa comunitaria. Con la sentenza n. 170 del 1984, la Corte Cost. ha infatti, di nuovo mutato indirizzo, continuando tuttavia , a individuare nell’art. 11 Cost. la ragione della preminenza della normativa comunitaria. La Corte, dopo aver rilevato come “nel territorio nazionale, il regolamento comunitario spieghi effetto in quanto tale e perchè tale” ha osservato che “ le confliggenti statuizioni della legge interna, non possono costituire ostacolo al riconoscimento della “forza e del valore”, che il Trattato conferisce al regolamento comunitario, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti , pur sempre collocata in un ordinamento che non vuole interferire nella produzione normativa del Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Mentre secondo la CG, il diritto dell’UE si applica per forza propria, la Corte cost. ravvisa il fondamento della sua applicabilità in Italia, nell'art. 11 Cost. e nelle leggi di esecuzione del TCE e dei successivi Trattati (per il trattato di Lisbona legge n. 130 del 2008). Sotto questo aspetto, la recente modifica dell’art. 117 Cost. non produce conseguenze, perché la disposizione, mentre richiede il rispetto della normativa dell’UE da parte delle leggi ordinarie, non provvede all’attuazione di questa normativa, né esclude che tale attuazione incontri un limite nell’esigenza di salvaguardare i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Si è gia detto come la sentenza del 1964 abbia prospettato una “funzione permissiva” dell'art. 11 Cost. , nel senso che esso consente di “stipulare trattati con cui si assumano limitazioni della sovranità” e “ di darvi esecuzione con legge ordinaria” con ciò indicando che , per mezzo di una legge ordinaria che attui l'art. 11 Cost., si possa derogare , a norme costituzionali che esprimono o tutelano la sovranità (es. l' art. 1 cost.). Nella sentenza n. 98 del 1965, la Corte cost. ha: • escluso che alcune disposizioni della Costituzione, possano essere applicate in relazione ai diritti e agli interessi, che derivano ad un soggetto dalla sua posizione in un ordinamento estraneo , com’è quello della CECA • ha poi sindacato la legge di esecuzione del Trattato CECA, in quanto “ gli effetti interni dell’attività comunitaria , vanno determinati senza pregiudizio del diritto del singolo alla tutela giurisdizionale”, considerando tale diritto tra quelli inviolabili dell’uomo. Queste affermazioni sono state sviluppate nella sentenza n. 183 del 1973 che ha: • considerato inapplicabili, nei confronti della normativa comunitaria, le “disposizioni costituzionali che disciplinano l’attività normativa degli organi dello Stato”, soggiungendo tuttavia che, • in base all’art. 11 Cost., sono state consentite limitazioni di sovranità “unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate” e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni possano comportare per gli organi della CEE, un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana. Si profila pertanto un limite all’applicabilità della normativa dell’Unione: limite che è analogo a quello che la Corte cost. ha prospettato per le leggi di revisione costituzionale. L’unico aspetto che la Corte ha sinora considerato attiene alla tutela dei diritti fondamentali; si pone quindi il problema di accertare se e in quale misura, quando si tratti di applicare una norma dell’Unione in Italia, alla tutela dei diritti fondamentali accordata nell’ordinamento dell’UE, si aggiunga quella apprestata dalla Costituzione. In altre parole, si pone il problema di accertare in quali casi non deve essere applicata la norma dell’UE che non sia rispettosa del contenuto della tutela dei diritti fondamentali stabilita dalle norme costituzionali. Il limite posto all’applicazione delle norme dell’Unione, così come configurato nella sentenza del 1973, assume scarso rilievo. Questo .non tanto perché è vero quel che sostiene questa sentenza , quando afferma che: è “difficile configurare, anche in astratto, l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la costtituzione italiana. Si tratterebbe cioè di un’ipotesi improbabile, Tuttavia, come la stessa Corte cost. ha rilevato più tardi (sent. 232/1989), quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile. Inoltre va tenuto conto che almeno in linea teorica generale non potrebbe affermarsi con certezza che tutti i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale si ritrovino fra i principi comuni agli ordinamenti degli Stati membri e quindi siano compresi nell’ordinamento comunitario. La ragione dello scarso rilievo del limite delineato nella sentenza del 1973, risiede piuttosto nel congegno processuale che la Corte cost. aveva allora ritenuto applicabile per far valere l’eventuale non conformità della norma ai principi costituzionali. La sentenza del 1973 ha infatti affermato che: << sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte Cost., sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali >>, verosimilmente attraverso un controllo della legittimità Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| costituzionale della legge di esecuzione del TCE. Ma la stessa sentenza ha soggiunto che deve invece escludersi che questa Corte possa sindacare singoli regolamenti: ciò perché l’art. 134 Cost. riguarda soltanto il controllo di costituzionalità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, e tali, non sono i regolamenti comunitari. In questo modo il controllo del rispetto dei principi fondamentali diverrebbe impossibile in relazione agli atti normativi dell’Unione, a meno di non sostenere che esso debba essere effettuato in modo diffuso da qualsiasi altro giudice: una soluzione a cui la Corte Cost. non allude e che essa ben difficilmente avrebbe considerato accettabile. L’argomento formale , enunciato nella sentenza del 1973, per escludere un controllo di costituzionalità da parte della Corte non è insuperabile. Infatti, se si ritiene che il regolamento dell’UE operi in Italia per forza propria, lo stesso dovrebbe valere per tutte le altre norme dell’UE, comprese quelle che sono enunciate nei Trattati; se invece l’efficacia in Italia di queste ultime (norme enunciate nei trattati), come sembra considerare la Corte cost., deriva dalle leggi di esecuzione dei Trattati, allora dovrebbe risultare dalle stesse leggi di esecuzione, sia pure indirettamente, anche l’efficacia delle altre norme dell’UE. In tal modo, la Corte cost., dovrebbe poter esaminare una questione di legittimità costituzionale della legge di esecuzione di un Trattato, in quanto su di essa si fondi l’efficacia in Italia di un atto normativo dell’UE, e affrontare quindi, la questione della compatibilità del medesimo atto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Se la Corte cost. accertasse che l’atto dell’Unione è incompatibile, dovrebbe dichiarare illegittima la legge di esecuzione nella parte in cui dà efficacia in Italia. a tale atto. Riferendosi alla “ perdurante compatibilità del Trattato, con i predetti principi fondamentali”, la sentenza del 1973 sembrava considerare l’ipotesi in cui il contrasto concernesse l’insieme del sistema comunitario più che singole norme del Trattato. La citata sentenza 232/1989 della Corte cost., ha invece esplicitamente ammesso la sua competenza a verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una “qualsiasi norma del Trattato”, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana. Resta da considerare che, se si deve ritenere aperta da un punto di vista tecnico la via per un controllo del rispetto, da parte degli atti normativi dell’UE , dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, l’esito negativo del controllo determinerebbe in Italia l’inefficacia almeno parziale della norma dell’UE. Ciò pregiudicherebbe evidentemente “l’applicazione uniforme della normativa dell’UE” là dove essa dovrebbe essere realizzata in base al diritto dell’Unione stessa. Si verrebbe così a determinare una situazione difficilmente compatibile con una partecipazione corretta dell’Italia all’Unione. Qualora tale situazione assumesse una certa rilevanza pratica, occorrerebbe ricercare un rimedio di ordine costituzionale. I principi fondamentali non sarebbero soggetti in via generale a revisione costituzionale, ma dovrebbero flettere di fronte all’esigenza della partecipazione all’UE, a meno che non si versi nell’ipotesi, certamente remota, in cui questa stessa partecipazione dovesse essere rimessa in causa. 4 - L’attuazione della normativa dell’Unione Quando per attuare norme dell'unione , occorra emanare una normativa statale , l'Ue rimette agli stati membri la determinazione degli atti normativi necessari. In Italia, le “leggi di esecuzione dei Trattati” hanno dato attuazione ad alcuni obblighi posti negli stessi trattati; esse inoltre possono essere anche considerate idonee a giustificare l'applicabilità in italia dei regolamenti. , in quanto si ritenga indispensabile a tal fine la posizione di una norma interna. Lo stesso (cioè giustificare l'applicabilità della norma Ue, sulla base della legge di esecuzione dei trattati) potrebbe valere per le norme dell'unione aventi effetti diretti , ma per quest'ultime, quando l'ordinamento contenga norme ad esse non conformi, una legge di rinvio come quella contente l'ordine di esecuzione di un trattato, anche se determinasse le necessarie modifiche dell'ordinamento interno, difficilmente potrebbe contribuire a realizzare una situazione di certezza, come dovrebbe esistere secondo la giurisprudenza della CG. Cosi si prospetta cmq l'esigenza di un atto normativo di adattamento ordinario, anche se a rigore esso si limiti, a esplicitare , o meglio a ribadire, quanto già potrebbe essere ricavato dalla legge di esecuzione. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Quando invece una norma dell'unione non abbia effetti diretti e l'ordinamento interno contenga norme non conformi agli obblighi posti dalla stessa norme UE, occorre “indubbiamente” una normativa interna di attuazione Un’esigenza di provvedere con specifici atti normativi nazionali di attuazione, si pone generalmente a proposito delle direttive, che lasciano salva la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi per l’attuazione dei rispettivi obblighi. Ed è proprio in relazione alle direttive che in Italia, come in altri S.m., l’attuazione è stata non di rado, tardiva e carente. I ritardi traevano tradizionalmente origine: dalla lentezza con cui erano approntati i disegni di legge governativi e quindi, in caso di leggi di delega, i provvedimenti delegati; e dalla lentezza dei procedimenti parlamentari. Una procedura per rendere più sollecita e completa l’attuazione degli obblighi comunitari è stata delineata dalla legge, n. 86 del 1989 (legge La Pergola), che ha previsto, sulla falsariga della legge finanziaria (legge di stabilità/o di bilancio) , un provvedimento, detto legge comunitaria, che il Parlamento dovrebbe approvare ogni anno. A riguardo di tale procedura , va detto che sono indicati dei tempi per la presentazione del disegno di legge (comunitaria) che nella prassi non sono stati sempre rispettati. In ogni caso, la legge comunitaria costituisce dal 1990 lo strumento principale per conformare l’ordinamento italiano alle norme dell’UE e il ricorso ad essa è stato ribadito dalla legge 11 del 2005 che ha sostituito la legge del 1989. La legge comunitaria può scegliere fra “diversi modi di attuare gli obblighi comunitari”, in particolare quelli posti da direttive. Essa può: 1. contenere direttamente norme di adattamento agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE: si tratta però, di un’ipotesi che ha assunto in pratica scarsa rilevanza. 2. disporre la delegificazione: si tratta di prevedere con legge, che un “atto normativo subordinato alla legge”, provveda alla disciplina , eventualmente anche derogando a norme di legge preesistenti. Tale meccanismo può essere adottato nelle materie già disciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge. 3. disporre l’attuazione di una direttiva in via amministrativa. Ciò è evidentemente possibile solo allorché non esista riserva di legge né occorra modificare una legge. 4. conferire al governo una delega legislativa: soluzione seguita più frequentemente. Nella prassi dell’emanazione della legge comunitaria, sono indicati, (ai sensi dell’art. 76 Cost.), anche se talora in modo generico, principi e criteri direttivi ai quali il legislatore delegato (nell'esercizio del potere normativo delegatogli ) si deve conformare. Sostanzialmente tali criteri sono formulati dallo stesso governo nel predisporre il disegno di legge (comunitaria), poiché il Parlamento difficilmente riesce a svolgere un ruolo significativo in presenza di un provvedimento così complesso come la legge comunitaria, la cui approvazione sollecita è d’altra parte richiesta dall’esigenza di evitare che si formino oppure continuino inadempimenti di obblighi derivati dal diritto dell’UE. L'art. 10 della legge 11 del 2005 , prevede che il governo eserciti un potere normativo, che dovrebbe concretarsi , a seconda delle circostanze , in decreti legge o in atti amministrativi. Tale art. 10 prospetta che il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per le politiche comunitarie può proporre al Consiglio dei ministri: “l’adozione di provvedimenti (anche urgenti) necessari , a fronte di atti normativi e di sentenze degli organi giurisdizionali della Comunità europea e dell’Unione europea che comportano obblighi statali di adeguamento”, solo qualora la scadenza, risulti anteriore alla data di presunta entrata in vigore della legge comunitaria relativa all’anno in corso”. La legge n. 11 del 2005 (come anche la precedente elgge la pergola del 1989) è una legge ordinaria , che non è assistita da alcuna garanzia costituzionale; infatti alcune sue indicazioni sono state modificate dalle varie leggi comunitarie. Resta cmq la possibilità per il legislatore di provvedere, all'attuazione di obblighi derivanti dal diritti dell'Ue , al di fuori della legge comunitaria, adottando leggi distinte per stabilire norme particolari o per delegare l'attuazione di certe direttive. Questa soluzione consente al Parlamento un esame più attento dei provvedimenti che presentano maggiore interesse. Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| Cap. VIII - Le relazioni esterne dell’Unione 1 - Introduzione Gli Stati membri , nelle loro relazioni con stati terzi (non membri), hanno realizzato forme di collaborazione che coinvolgono le istituzioni dell’Unione, comportando per quest’ultima il sorgere diritti ed obblighi sul piano internazionale. Tali relazioni sono disciplinate dal diritto internazionale, ma norme dell’Unione, regolano: • la definizione delle rispettive competenze dell’Unione e degli Stati membri, • le procedure di formazione degli accordi dell’Unione e i loro effetti nell'ordinamento dell'Ue, • le modalità per istituire rappresentanze di Stati terzi presso l’Unione e rappresentanze dell'Unione presso Stati terzi, per svolgere rapporti assimilabili a quelli diplomatici. Bisogna premettere che, come è dichiarato dall'art. 1 TUE, “l'UE sostituisce e succede alla Comunità europea” , anche se forse sarebbe più corretto dire che l'Unione continua nell'ordinamento internazionale la personalità giuridica della Comunità. Di conseguenza, gli accordi internazionali conclusi dalla Comunità europea operano ora nei confronti dell'Unione;quindi si deve fare riferimento ad accordi dell'unione, anche a proposito di accordi formalmente conclusi dalla Comunità. Rispetto alle norme dell’Unione che riguardano la stipulazione di accordi internazionali, l’individuazione della natura giuridica di un atto come accordo internazionale, dev'essere fatta in base al diritto internazionale. In alcuni casi, l’esistenza di un accordo internazionale può far sorgere dubbi. In particolare, in relazione a decisioni vincolanti adottate nell’ambito di un’organizzazione internazionale, può essere controvertibile se • il vincolo derivi dall’attribuzione di un potere normativo all’organizzazione ( in tal caso si potrebbe parlare della decisione, come una fonte normativa prevista nell'accordo istitutivo dell'organizzazione e quindi subordinata a tale accordo) • oppure se il vincolo derivi da un’accettazione che lo Stato membro dell'organizzazione o l'Unione, manifesti rispetto a ciascuna decisione (in tal caso il vincolo posto dalla decisione, derivando da singole accettazioni, assumerebbe carattere pattizio). Questo problema si è posto nella giurisprudenza della Corte di giustizia, a proposito delle decisioni adottate dal Consiglio, dell’Organizzazione europea per la cooperazione e lo sviluppo (OCSE). La Corte ha incluso tali decisioni nell’ambito degli accordi internazionali, con la conseguenza di estendere ad esse l’applicazione delle regole relative alla stipulazione degli accordi , stabilite dai Trattati, muovendo cosi in una direzione diversa da quella generalmente seguita dagli Stati membri dell’OCSE nell’applicazione delle rispettive regole concernenti la formazione degli accordi. • Con il parere 1/75, relativamente ad una risoluzione del Consiglio dell’OCSE, la CG ha affermato che il termine accordo , va inteso in senso generale, designa cioè ogni impegno a carattere vincolante assunto da soggetti di diritto internazionale, « indipendentemente dalla sua forma»; tale doveva quindi considerarsi la risoluzione del Consiglio dell’OCSE. • Con il più recente parere 2/92, la CG ha rilevato che una decisione del Consiglio dell’OCSE ha «natura vincolante per i paesi membri dell’OCSE e, dopo la sua adesione, per la Comunità» e perciò tale decisione, dev’essere assimilata ad un accordo internazionale previsto fra la Comunità e paesi terzi». 2 - Il quadro, delle competenze dell’Unione relative alla conclusione di accordi internazionali Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| I Trattati contengono, varie disposizioni, che riguardano la competenza dell’Unione a concludere accordi internazionali con stati terzi o con organizzazioni internazionali. In particolare, nel definire le materie di competenza esclusiva dell’Unione, l’art. 3 par. 1 TFUE, considera implicitamente (come risulta tra l'altro dall'uso del termine “inoltre” nel par. 2) che tale competenza implichi una competenza, anch’essa esclusiva, a concludere accordi internazionali. L'attribuzione all'Unione di una competenza esclusiva nelle relazioni con stati terzi o organizzazioni internazionali, comporta che, gli Stati membri dell'UE possono concludere accordi internazionali nelle stesse materie , solo previa autorizzazione da parte dell’Unione. La competenza esclusiva dell’Unione a concludere accordi internazionali, è più ampia della competenza esclusiva per l’adozione di atti normativi, e ciò si evince dal dettato del successivo par. 2 dell’art. 3 TFUE , il quale dice: l' Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali, allorché tale conclusione: • è prevista in un atto legislativo dell'Unione • oppure è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno • può incidere su norme comuni o modificarne la portata. Questa regola è ribadita dall’art. 216 par. 1 TFUE, il quale tuttavia usa una formulazione più ampia, e non indica se le competenze in esso indicate abbiano o meno carattere esclusivo. Tale art. 216 par. 1 TFUE, enuncia che: l’Unione può concludere un accordo con paesi terzi o organizzazioni internazionali se ciò sia previsto dai Trattati o se sia funzionale al raggiungimento degli obiettivi previsti daiTrattati stessi, oppure sia previsto da un atto giuridico vincolante dell’Unione, o ancora, se possa incidere su norme comuni o alterarne la portata. L’art. 37 TUE conferisce all’Unione una competenza “generale”a «concludere accordi con uno o più Stati o organizzazioni internazionali, nei settori di pertinenza del capo 2 del titolo V del TUE, relativo alla PESC ». E' questa una competenza generale, quindi concorrente e non eslcusiva, perciò in tali casi, non è esclusa la possibilità degli Stati membri , di concludere accordi con stati terzi o organizzazioni internazionali nelle stesse materie, tuttavia, nell'esercitare tale facoltà, gli stati membri, sono tenuti a rispettare gli obblighi derivanti dalla normativa dell’Unione. Alcune disposizioni del TFUE, riguardano la competenza dell’unione a concludere accordi internazionli in materie specifiche: 1. l'art. 79, per la riammissione nei paesi di origine, di cittadini di Stati terzi, 2. l'art. 219 per gli accordi in materia monetaria; 3. l'art. 217 per gli accordi di associazione , 4. l'art. 207 in materia di politica commerciale comune 5. ecc. La competenza dell'Ue a concludere accordi in materia di politica commerciale comue, ha carattere esclusivo, come anche per gli accordi di associazione la competenza è esclusiva, tuttavia, in quest'ultimo caso, il carattere esclusivo della competenza a concludere gli accordi, non impedisce che gli Stati membri possano intervenire nella conclusione di tali accordi. 3 - Gli accordi relativi alla politica commerciale Nell'ambito dell'Ue, tale categoria di accordi assume rilievo preminente. Ariguardo l'Ue ha competenza esclusiva. L'estensione della competenza , appare collegata alla nozione di politica commerciale comune data dall’art. 207, par. 1, TFUE, secondo il quale , “la politica commerciale “comune” è fondata su principi uniformi, in particolare per quanto concerne: 1. le modificazioni tariffarie, 2. la conclusione di accordi tariffari e commerciali, relativi agli scambi di merci e servizi, 3. gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, 4. gli investimenti esteri diretti, 5. l'uniformazione delle misure di liberalizzazione, Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| 6. la politica di esportazione 7. e le misure di protezione commerciale, tra cui quelle da adottarsi nei casi di dumping e di sovvenzioni. La Corte ha dato una interpretazione estensiva della nozione di «politica commerciale». • Nel parere 1/75 del 1975 , la CG ha rilevato che: il settore della politca commerciale , pù specialmente il settore della politca di esportazione, comprende necessariamente i regimi d’aiuti all'esportazione, e più particolarmente, i provvedimenti in materia di crediti destinati al finanziamento delle spese locali connesse ad operazioni di esportazione . • Nel successivo parere 1/78 del 1979, la Corte ha affermato che «l’enumerazione nell’art. 133 del TCE , e ora nell' art. 207 del TFUE, degli scopi della politica commerciale, è concepita come un’enumerazione “non limitativa” ». Secondo tale parere , anche un accordo relativo ad un “prodotto di base” (come la gomma naturale) comprendente l’istituzione di un fondo per la stabilizzazione dei prezzi, rientra nell'ambito della politca commerciale, pur non incidendo soltanto “sugli aspetti tradizionali del commercio estero”: «il Trattato CE non osta alla possibilità che la Comunità sviluppi una politica commerciale diretta, per determinati prodotti, “alla disciplina del mercato mondiale”, piuttosto che “alla semplice liberalizzazione degli scambi “ ». Nello stesso parere la Corte si è spinta ad affermare che la competenza della Comunità e quindi dell’Unione, si estende anche ad aspetti definbili come «accessori o ausiliari»: ciò in quanto , l'eventuale presenza nell'accordo , di clausole riguardanti oggetti come , l’assistenza tecnica, i programmi di ricerca, le condizioni di lavoro nell’industria di cui trattasi o le consultazioni relative alle politiche fiscali nazionali, che possono incidere sul prezzo della gomma, non può modificare la qualificazione dell'accordo , la quale va fatta in considerazione dello scopo essenziale dell'accordo stesso, non già in funzione di clausole particolari , di carattere accessorio o ausiliario. La facoltà per la Comunità, di inserire, negli accordi relativi alla politica commerciale comune, senza eccedere la propria competenza, disposizioni accessorie che istituiscono procedimenti di mera consultazione o che invitano la controparte ad aumentare il livello di tutela della proprietà intellettuale, è stata ribadita nel parere 1/94 del nov 1994. Tale estensione ,della competenza della comunità e quindi dell’Unione, alle materie considerate accessorie, risponde all’esigenza di consentire una ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri più razionale di quella che risulterebbe da una distinzione rigorosa per materie, dato che quest’ultima richiederebbe, in assenza di una competenza dell’Unione, la partecipazione diretta degli Stati membri nella conclusione e nell’esecuzione degli accordi in relazione a materie che sono di secondaria importanza nell’economia generale dell’accordo stesso. L’ultimo parere citato (1/94), concernente la conclusione dell’accordo istitutivo dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), si colloca, sotto certi aspetti, in una linea interpretativa divergente rispetto a quella precedentemente seguita dalla CG. La CG ha però dichiarato che «solo la Comunità è competente, in forza dell’art. 133 tce (ora 207 TFUE), a stipulare gli accordi multilaterali relativi al commercio dei prodotti» e quindi gli accordi, allegati all’accordo istitutivo dell’OMC, sull’agricoltura, sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie e sulle barriere tecniche al commercio. La Corte ha altresì affermato che «la natura aperta della politica commerciale comune ai sensi del TCE, impedisce di “escludere a priori”, il commercio dei servizi, dalla sfera di applicazione dell'art. 133 TCE ora art. 207 TFUE». Tuttavia la disposizione (art.207 TFUE) comprenderebbe «solo le forniture transfrontaliere» di servizi e non invece «il consumo all’estero, la presenza commerciale e la presenza di persone fisiche» e neppure gli «accordi internazionali in materia di trasporti». Per quanto riguarda la proprietà intellettuale, sempre secondo lo stesso parere, rientrano nella politica commerciale soltanto le disposizioni concernenti «il divieto dell’immissione in libera pratica ,di merci contraffatte» . La Corte rileva che la nozione di «politica commerciale comune» incontra limiti in altre nozioni proprie del Trattato CE; infatti: • l ’esistenza nel Trattato , di capi specifici dedicati alla “libera circolazione delle Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| affermando una competenza esclusiva dell'Unione ,per la conclusione di accordi internazionali, “quando tale conclusione può incidere su norme comuni o modificarne la portata”. Su questo punto, si esprime in modo del tutto analogo anche l’art. 216 par. 1 TFUE. Nel citato parere 2/ 91, la Corte ha affermato che: 1. non può sussistere una competenza esclusiva dell’Unione “qualora la normativa comunitaria contenga solo prescrizioni minime”, le quali non ostano all’adozione di norme nazionali maggiormente protettive dei lavoratori; 2. Invece sussiste la competenza esclusiva dell’Unione, in relazione alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura delle sostanze pericolose, trattandosi di «un settoregià in gran parte disciplinato da norme comunitarie, gradualmente emanate dal 1967 nella prospettiva di un’armonizzazione sempre più completa e volta tanto ad eliminare gli ostacoli agli scambi derivanti dalle disparità tra le normative tra gli Stati membri quanto a garantire la tutela della popolazione e dell’ambiente.» Nel parere 1/03 del 2006, la Corte ha affermato che «non è necessario che sussista una concordanza completa, tra il settore disciplinato dall’accordo internazionale e quello della normativa comunitaria» e che occorre «prendere in considerazione non soltanto lo stato attuale del diritto comunitario nel settore interessato, ma anche le sue prospettive di evoluzione, qualora esse siano prevedibili al momento di tale analisi». Cosi, la Corte, ne ha tratto la conseguenza dell’esistenza di una competenza “esclusiva” della Comunità, a concludere accordi sulla giurisdizione e sul riconoscimento di sentenze straniere in materia civile , anche in relazione ad aspetti non ancora regolati da norme comuni. Il carattere esclusivo di tale competenza e il suo fondamento nell’art. 3, par. 1 TFUE, appare tuttavia, contestato in una dichiarazione degli Stati membri allegata all’atto finale della Conferenza di Lisbona, secondo la quale «gli Stati membri possono negoziare e concludere accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali, nei settori contemplati dalla parte terza del titolo V, capi 3 ,4 e 5 (cioè in tema di cooperazione giudiziaria in materia civile e penale e di cooperazione di polizia) purché tali accordi siano conformi al diritto dell’Unione». La Corte ha inoltre delineato l’esistenza, a certe condizioni, di una competenza “generale”della Comunità, a concludere accordi in tutti i settori nei quali ha una competenza concorrente ad adottare atti normativi. Nel parere 1/76 del 1977, la CG ha dichiarato che : qualora i provvedimenti comunitari di carattere interno , vengano adottati solo in occasione della stipulazione e dell'attuazione dell'accordo internazionale , la competenza ad impegnare la Comunità nei confronti degli stati terzi , deriva implicitamente dalle disposizioni del Trattato relative alla competenza interna , “ nel caso in cui la partecipazione della comunità all'accordo internazionale, sia necessaria per la realizzazione di uno degli obiettivi della comunità” Il presupposto per l’esistenza , in via generale, di una competenza della Comunità, sarebbe quindi dato,: -dall’esistenza della competenza normativa, -dal carattere necessario, che la conclusione dell’accordo da parte della Comunità, avrebbe per realizzare un obiettivo della Comunità stessa. Quest'ultimo requisito (cd. della “necessità”) non è chiaro, poiché sembra far dipendere l’esistenza della competenza : -da una valutazione del contenuto dell’accordo - e ,da una comparazione tra gli effetti che deriverebbero dalla conclusione dell’accordo da parte della Comunità e gli effetti che risulterebbero invece da una mancanza di accordo oppure da un’eventuale conclusione dello stesso da parte degli Stati membri. Nella giurisprudenza successiva (al parere del 1977) , la Corte ha inteso il requisito della “necessità“ nel senso che esso si riferisca, «all’ipotesi in cui la stipulazione di un accordo internazionale, sia necessaria, per conseguire obiettivi del Trattato che non possono essere raggiunti con l’adozione di norme autonome»; in tal caso la competenza (della Comunità) diverrebbe allora esclusiva. Gli artt. 3, par. 2 e 216, par. 1 TFUE codificano anche questo principio giurisprudenziale. • Art. 3 par. 2 indica che: l’Unione ha la competenza esclusiva a concludere accordi internazionali, quando la conclusione sia «necessaria, per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno»; Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| • Art. 216 afferma che: l’Unione è competente (a concludere un accordo) qualora la conclusione di un accordo «sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche dell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai Trattati». Essendo l'art. 216 una precisazione restrittiva dell'art. 3 Par.2, la competenza che ne viene così delineata, anche se non è precisato nello stesso art. 216, deve essere comunque considerata esclusiva. Queste due disposizioni aggiungono un’ulteriore ipotesi di competenza esclusiva dell’Unione a concludere accordi internazionali: cioè «allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione» , e quindi quando l'Unione, nei suoi atti legislativi interni ,ha conferito alle sue istituzioni una competenza a negoziare con paesi terzi. Poichè l’Unione, talora non riesce ad esercitare la competenza a concludere accordi nelle materie soggette alla propria competenza normativa, fin quando questa non si sia tradotta nell’adozione di «norme comuni», si profila il rischio che gli Stati membri concludano nelle stesse materie accordi che rendano più difficile per il Consiglio adottare in avvenire una disciplina divergente. A rigurado è da dire che, dall’art. 4, par. 3, TUE, il quale prevede l’obbligo generale posto agli Stati membri di facilitare l’Unione nell’«adempimento dei suo compiti» e di astenersi «da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli obiettivi dell’Unione», si può ricavare un obbligo di non ostacolare lo sviluppo della normativa del’Unione “anche attraverso la conclusione di accordi con stati terzi”. Tuttavia al mancato rispetto dell’obbligo non corrisponde alcun mezzo di rimozione dell’ostacolo che un accordo con stati terzi può costituire. Una soluzione potrebbe essere quella di predisporre un sistema per informare l’Unione circa i negoziati relativi ad accordi fra Stati membri e stati terzi nelle materie di competenza normativa concorrente, per consentire alle istituzioni dell’Unione, un esame preventivo circa il contenuto dell’accordo proposto. 6 - La procedura per concludere gli accordi dell’Unione La procedura per la conclusione degli accordi internazionali da parte dell’Unione, è regolata in via generale dall’art. 218 TFUE. • L’atto iniziale è costituito dalla raccomandazione della Commissione al Consiglio in vista della negozziazione di un accordo, e quindi relativa all’accordo che si andrà a negoziare; tale atto, anziché alla Commissione, spetta all’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, quando l'accordo previsto riguarda esclusivamente o prevalentemente la PESC. • Il Consiglio autorizza con una decisione l’avvio dei negoziati, definendone le direttive (cd. Direttive di ngoziato) e designando il negoziatore «in funzione della materia dell’accordo previsto»; solo se la materia dell’accordo attiene alla politica commerciale comune, interviene direttamente la Commissione a condurre il negoziato, così come stabilito dall’art. 207, par. 3, TFUE. Il Consiglio può «designare un comitato speciale che deve essere consultato nella conduzione dei negoziati»; l’istituzione di tale comitato speciale , per gli accordi relativi alla politica commerciale comune, è specificamente prevista dall'art. 207 par. 3 TFUE. Particolari regole, che comportano il coinvolgimento della BCE, sono fissate dall’art. 219 TFUE, per la negoziazione e la conclusione da parte del Consiglio di accordi concernenti la materia valutaria e monetaria. Le rilevanti funzioni attribuite al Consiglio nella fase dei negoziati, si spiegano con il ruolo decisivo che tale istituzione ha nella fase di conclusione degli accordi. Infatti, spetta al Consiglio concludere l’accordo, mediante una decisione (art. 218, par. 6, TFUE). Nel corso della procedura il Consiglio delibera DI REGOLA a maggioranza qualificata; provvede invece «all’unanimità quando l’accordo riguarda un settore per il quale è richiesta l’unanimità per l’adozione di un atto dell’Unione»,cioè 1. per gli accordi di associazione, 2. per gli accordi di cooperazione con gli Stati candidati ad aderire all’Unione, 3. per l’accordo di adesione dell’Unione alla CEDU (previa, in questo caso, l'«approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali» ‐ art. 218, par. 8, TFUE) 4. e, a certe condizioni, per gli accordi nel settore degli scambi di servizi culturali e Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| audiovisivi e di servizi nell’ambito sociale,dell’istruzione e della sanità (art. 207, par. 4, TFUE). Con esclusione degli accordi che riguardo esclusivamente la PESC e la politica commerciale comune, anche al Parlamento è attribuito un certo ruolo rispetto alla conclusione degli accordi, il quale esprime di regola un parere non vincolante, che deve essere dato «nel termine che il Consiglio può fissare in funzione dell’urgenza. In mancanza di parere entro detto termine il Consiglio può deliberare» (art.218, par. 6, TFUE). Tuttavia, per alcune categorie di accordi, il ruolo del parlamento è più significativo,dato che, il Consiglio può deliberarne la conclusione solo con la previa approvazione del Parlamento: ciò avviene 1. per gli accordi di associazione, 2. l’accordo per l’adesione dell’Unione alla CEDU, 3. gli «accordi che creano un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione», 4. gli «accordi che hanno ripercussioni finanziarie considerevoli per l’Unione» 5. e gli «accordi che riguardano settori ai quali si applica una procedura legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa speciale qualora sia necessaria l’approvazione del Parlamento europeo» (art. 218, par. 6, TFUE). E’ da notare che con l’art. 218 è stato realizzato un raccordo fra: - le regole sulla ripartizione dei poteri al fine di adottare atti normativi - e le regole concernenti i poteri per concludere accordi internazionali, in modo che tendenzialmente il Consiglio non possa ricorrere a un accordo con uno Stato membro per vanificare quanto è stabilito nei trattati rispetto all’esercizio dei poteri normativi. Secondo l’art. 218, par. 11, TFUE, il Parlamento, il Consiglio, la Commissione o ciascuno Stato membro può istituire, preliminarmente alla conclusione di un accordo, un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia, con il quale richiedere un parere in merito alla compatibilità dell’accordo stesso con i Trattati. In caso di parere negativo, l’accordo non pu essere concluso, salvo modifica dell’accordo o dei Trattati. S'intende che, nel caso in cui la CG esprima un parere negativo la via più semplice per concludere un accordo non sia il procedimento di modifica dei Trattati , ma quello di modifica del contenuto dello stesso accordo, rimuovendo le disposiizoni che la CG considera incompatibili con i Trattati. Bisogna dire che è nella logica di tale procedura, che l'accordo possa essere concluso solo una volta che sia intervenuto il parere richiesto. Di conseguenza, l’eventuale decisione del Consiglio di concludere l’accordo prima che sia pervenuto il parere della Corte è illegittima e, dunque, impugnabile. Qualora il Parlamento, il Consiglio, la Commissione o ciascuno Stato membro, non si siano avvalsi della facoltà di chiedere una pronuncia preventiva alla CG, implica che tali soggetti non possano far valere ulteriormente l’illegittimità della conclusione dell’accordo, anche perchè una volta concluso l’accordo una pronuncia nel senso dell’illegittimità determinerebbe probabilmente la violazione di obblighi internazionali da parte dell’Unione. Tale procedimento dinnanzi alla CG è stato più volte utilizzato per definire le rispettive competenze della Comunità e degli stati membri , in ordine alla conclusione di accordi. Come la CG ha rilevato già nel parere 1/75 del 1975, “la procedura prevista dev'essere applicata a tutti i problemi che possono venire sottoposti, sia al giudice nazionale che al giudice comunitario, purchè detti problemi diano adito ad incertezze sulla validità formale o sostanziale dell'accordo , o incertezze sulla compatibilità dell'accordo con i Trattati “. Potendosi interpellare la CG, sia in forza degli articoli 226 e 230 258 TCE (ora 258 e 263 del TFUE) , sia in via pregiudiziale, sulla questione se la stipulazione di un accordo rientra nella competenza della Comunità e se, eventualmente, tale competenza sia stata esercitata conformente alle disposizioni del Trattato, sia direttamente, si deve ammettere che la CG può essere interpellata su questi punti a titolo preventivo come contemplato dall'art. 300 TCE (ora 218 TFUE). L'esigenza di determinare a chi spetti la competenza per concludere un accordo, si pone in relazione alle varie fasi della sua formazione: innanzitutto rispetto alla fase della negoziazione. La negoziazione è normalmente avviata con un oggetto almeno in parte definito . E' in rapporto alla determinazione dell'oggetto di un eventuale accordo, che la CG dovrebbe valutare se essa è in grado di pronunciarsi secondo la procedura in esame: Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| dell’oggetto dell’accordo in questione rientra nella competenza propria degli stati membri; pare difficile poter configurare in proposito qualsiasi vincolo a concludere l’accordo, che derivi per gli Stati membri dal diritto dell’Unione . Se gli stati membri non possono ratificare l'accordo escludendo, con riserva, di assumere obblighi per la parte dell'oggetto che rientra nella comeptenza che è soltanto propria, dovrebbero restare liberi di non ratificarlo. Diverso discorso potrebbe a volte valere per le materia appartenenti alla competenza concorrente: allorché l’Unione non è posta in condizioni di concludere l’accordo per queste materie, opera comunque per gli Stati membri l’obbligo generale di collaborazione stabilito dall’art. 4, par. 3, TUE, e ciò protrebbe comportare l'esigenza di una ratifica. Quando è concluso un accordo misto gli obblighi e i diritti che spettano rispettivamente all’Unione e agli Stati membri non sono sempre distinti sul piano internazionale. L'accordo può provvedere in tal senso , come ha fatto l'allegato IX alla Convenzione di Montego Bay del 10 dic 1992 sul diritto del mare, che impone all’Unione e agli Stati membri di specificare, al momento dell’accettazione della Convenzione, quali siano i soggetti obbligati e i titolari dei diritti per ciascuna materia. Vi è cmq di regola sul piano internazionale, un collegamento fra la posizione degli stati membri e quella dell'Unione in base all'accordo;nel senso che, ad es., l’inadempimento di un obbligo da parte di uno Stato membro potrebbe giustificare l’adozione di contromisure nei confronti dell’Unione e pregiudicare il godimento da parte di questa dei propri diritti. Quando vi sia questo collegamento, si può certamente configurare un obbligo degli Stati membri, derivante dal diritto dell’Unione, di rispettare quanto stabilito dall’accordo. Riguardo all'esecuzione di un accordo misto, può non essere agevole individuare quale parte dell’accordo rientri nella competenza esclusiva dell’Unione e quale invece nella competenza propria solo degli Stati membri. La linea di demarcazione, deve essere tracciata esclusivamente sulla base dei Trattati e non dipende da una scelta effettuata dall'unione o dagli stati membri rispetto al singolo accordo. Non è decisivo in proposito nemmeno ciò che eventualmente risulti da una distinzione fra obblighi posta sul piano internazionale. Per le materie che rientrano nell’ambito della competenza concorrente, l’esecuzione potrebbe essere a rigore compiuta, sia dall’Unione che dagli Stati membri. La ripartizione può risultare da un accordo «interno» concluso tra Unione e Stati membri (irrilevante nei confronti di stati terzi) parallelamente all’accordo misto. In mancanza di tale accordo o di indicazioni derivanti da una distinzione fra obblighi posta sul piano internazionale, l’esecuzione dell’accordo misto, al riguardo della parte di competenza concorrente, può essere effettuata sia dall’Unione che dagli Stati membri. Tuttavia, in genere accade che questi ultimi tendano a fare in modo che l’Unione provveda all’esecuzione dell’accordo misto soltanto nell’ambito della sua competenza esclusiva. Gli effetti che gi accordi conclusi dall’Unione producono nell’ordinamento dell’Unione L’art. 216, par. 2, TFUE stabilisce che «Gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri». In relazione agli accordi misti, tale disposizione vale, in quanto spetti all’Unione provvedere all’esecuzione dell’accordo. L'art. 300 par. 7 del TCE , sostanzialmente corrispondente all'art.216 par. 2TFUE, è stato a volte inteso come un indice del fatto che gli accordi conclusi dalla Comunità vincolerebbero sul piano internazionale anche gli stati membri. La stessa CG ha prospettato nella sentenza Kupferberg che “nel garantire il rispetto degli impegni derivanti da un accordo concluso dalle isituzioni comunitarie, gli stati membri adempiono un obbligo nei confronti del paese terzo interessato. Vi sono tuttavia ragionevoli motivi per escludere, che sorga per gli Stati membri un vincolo sul piano internazionale in relazione allo stato terzo coinvolto nell’accordo. 1. In primo luogo, dall'opinione in esame (gli accordi conclusi dalla Comunità vincolerebbero sul piano internazionale anche gli stati membri) deriverebbe che gli Stati membri diverrebbero parte di tutti gli accordi conclusi dall’Unione, e ciò limiterebbe l’azione dell’Unione rispetto agli accordi stessi. 2. Inoltre, il sorgere di un vincolo per gli Stati membri sul piano internazionale presupporrebbe un’accettazione degli stati terzi che sono parti dell’accordo, la quale appare tutt'altro che sicura. Pertanto la conclusione della questione (relativa alla funzione da attribuire alla disposizione) è posta nei termini per cui: l’accordo, una volta concluso dall’Unione, produce effetti nell’ordinamento dell’Unione, obbligando gli Stati membri e le istituzioni dell’Unione ad Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| attuarne le disposizioni. Piu sintenticamente si può dire che la disposizione in esame ha la funzione di “aprire l'ordinamento dell’unione, verso gli accordi stipulati dall'unione stessa” . La Corte è allora giunta (sent. 30 apr 1974, Haegeman)alla conclusione che: le disposizioni di un accordo stipulato in base agli artt. 300 e 310 del TCE (ora 216 e 217 TFUE) «formano, dal momento dell'entrata in vigore dell'accordo, parte integrante dell’ordinamento» dell’Unione . Secondo la CG questo non si verifica perchè l'atto con il quale il Consiglio delibera l'accettazione dell'accordo, svolgerebbe la funzione di adattare l'ordinamento dell'Unione all'accordo stesso; piuttosto si tratta di effetti che si producono in modo automatico a seguito della conclusione dell'accordo . Analoghi effetti, derivano da quegli accordi che vincolano l'Ue senza essere stati conclusi (formalmente) da essa. L'esigenza di una normativa specifica di esecuzione , cmq ,si pone soltanto per quelle disposizioni degli accordi il cui contenuto necessita di integrazione al fine della loro applicazione. Tale normativa dovrebbe di regola esse adottata con atti dell'Ue. Anche a proposito degli accordi dell’Unione si pone la questione dell’idoneità dell’accordo a produrre effetti diretti, cioè dell’invocabilità delle sue disposizioni da parte dei singoli. La CG questa questione l'ha affrontata più volte; anzi in alcune sentenze ha avuto modo di precisare che dall'accordo internazionale possono derivate anche obblighi per persone fisiche e giuridiche. La giurisprudenza della Corte per determinare l’esistenza di effetti diretti, si è ispirata a quegli stessi elementi di chiarezza , precisione e carattere incondizionato delle disposizioni, occorrenti per gli effetti diretti del Trattato, delle decisioni e delle direttive. La prima pronuncia nel senso dell'esistenza di effetti diretti di un accordo internazionale, è la sentenza Bresciani , nella quale la Corte ha ritenuto che: “una disposizione concernente le tasse di effetto equivalente ai dazi doganali , contenuta nella Convenzione di YOUNDE' del 1963 (stipulata dalla Comunità e gli stati membri da un lato e gli Stati africani e malgascio dall'altro) conferiva ai singoli cittadini degli stati membri della Comunità , a decorrere dal 1 gennaio del 1970 , il diritto a non corrispondere allo stato le tasse d'effetto equivalente a dazi doganali , diritto chE i giudici nazionali devono tutelare”. Quindi l'imprenditore aveva diritto a ripetere le somme indebitamente percepite (dallo stato) per la visita sanitaria di pelle importate in Italia dal Senegal. La CG ha prospettato che la disposizione di un accordo sia invocabile dai singoli anche se non lo sia nell’ordinamento dello stato terzo parte dell'accordo. Infatti nella sent. Kupferberg la CG ha affermato che: il fatto che i giudici di una delle parti dell’accordo, ammettano efficacia diretta alle disposizioni dell’accordo, mentre i giudici dell’altra parte non lo ammettono, non è ,di per sé solo, tale da costituire una mancanza di reciprocità nell’attuazione dell’accordo. Secondo la Corte, l’assenza di reciprocità deriverebbe solo da una mancanza di rispetto degli obblighi posti dall’accordo. E’ però dubbio che spetti direttamente alla Corte, e non alle istituzioni politiche, trarre conseguenze dall’assenza di reciprocità , quando manchi una norma che lo preveda esplicitamente. L’accordo sulla cui invocabilità ,da parte di persone fisiche e giuridiche, la Corte si è soffermata particolarmente è stato il GATT. La Corte ha sempre escluso che le disposizioni del GATT producano effetti diretti, per motivi di ordine generale, come la grande flessibilità delle sue disposizioni , in specide di quelle relative :alla possibilità di deroghe, ai provvedimenti ammessi in caso di difficoltà eccezionali, e di quelle relative alla composizione delle controversie fra i contraenti. Nellsa sentenza Germania vs Consiglio , del 1994, la Corte ha fatto un enunciazione più ampia, dichiarato che: le norme dell’Accordo generale sono sprovviste di carattere incondizionato, e che l'obbligo di riconoscere loro il valore di norme di diritto internazionale direttamente applicabili non può essere fondato sullo spirito, sula struttura e sulla lettera dell'Accordo. Il problema dell'esistenza di effetti diretti si è poi ripercosso sul nuovo GATT cioè sull’accordo istitutivo dell’OMC (Organizzazione mondiale del Commercio), erede del GATT, il quale è di gran lunga meno flessibile del GATT, soprattutto in seguito della nuova disciplina della procedura per la risoluzione delle controversie. Di conseguenza, per evitare che la Corte affermi che il nuovo accordo produca effetti diretti e dunque possa assumere un ruolo importante per la sua interpretazione, il Consiglio, su parere conforme del Parlamento ha adottato la seguente formula contenuta nel preambolo dell’accordo: «Considerando che l’accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio, compresi gli allegati, non è di natura tale da essere invocato direttamente dinanzi alle autorità giudiziarie della Comunità e degli Stati membri». La Corte, ricordando questa parte del preambolo ma senza attribuirvi valore decisivo, ha cosi affermato che «gli accordi OMC non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 |||||||||||||||||||||||||||| comunitarie» ; l’assenza di effetti diretti che motiva tale soluzione, è desunta: • dal ruolo importante che nel sistema dell’OMC per la risoluzione delle controversie resta riservata ai negoziati fra le parti • Nonché dal rischio di uno «squilibrio nell’applicazione delle norme dell’OMC» nei rapporti fra l’Unione e gli Stati terzi nei cui ordinamenti tali norme non sono comunque invocabili (sent. 23 nov 1999, Portogallo vs. Consiglio). Alcuni accordi conclusi dall’Unione prevedono procedure per la produzione di norme giuridiche : sono infatti attribuiti a consigli di associazione, comitati misti, o altri organismi, poteri normativi in relazione alla c.d. “gestione dell’accordo”. Anche gli atti cosi prodotti, i cui effetti sul piano internazionale derivano dall’accordo, sono efficaci nell’ordinamento dell’Unione; e lo sono anche con la possibilità di riconoscimento di effetti diretti. Ad esempio quando la CG ha riconosicuto effetti diretti a decisioni del consiglio di associazione , istituito nell'accordo di associazione tra la Comunità e la Turchia, dichiarando inoltre che, per essere considerate direttamente efficaci , le disposizioni di una decisione del consiglio di associaizone debbono soddisfare le stesse condizioni che valgono per le disposizioni dell'Accordo. La circostanza che gli accordi vincolanti l’Unione producano effetti nell’ordinamento dell’Unione, in forza dell’art. 216, par. 2 TFUE, implica che gli atti normativi dell’Unione debbano conformarsi a tali accordi; un atto normativo che non rispetti gli obblighi posti da un accordo, deve essere dichiarato illegittimo. Nella sentenza International Fruit II , la Corte, peraltro, aveva enunciato il principio secondo cui: la validità degli atti emessi dalle istituzioni può essere influenzata da una norma di diritto internazionale qualora detta norma sia vincolante per la Comunità ed attribuisca ai singoli cittadini di questa il diritto di esigerne giudizialmente l’osservanza. Da questa sentenza si potrebbe dedurre che soltanto in presenza di effetti diretti dell’accordo, i singoli avrebbero titolo per far valere la violazione, da parte di un regolamento, di un obbligo posto da un accordo. Tuttavia si può osservare che questo requisito non trova riscontro nella giurisprudenza della Corte ed infatti appare poco comprensibile che si consideri necessario, che la norma che costituisce il parametro di legittimità dell’atto comunitario , produca effetti diretti. La giurisprudenza successiva sembrava aver implicitamente lasciato cadere il requisito in esame , ma nella citata sentenza Germania vs. Consiglio, la Corte, dopo avere dichiarato che il GATT non produce effetti diretti, ha stabilito che: “la Germania non poteva far valere le disposizioni del GATT per contestare la legittimità di talune disposizioni di un regolamento relativo al commercio delle banane, perché la Corte è tenuta a verificare la legittimità dell’atto comunitario alla luce delle norme del GATT, solo nel caso in cui la comunità abbia inteso dare esecuzione (appunto con un atto comunitario) ad un obbligo particolare assunto nell’ambito del GATT oppure nel caso in cui l’atto comunitario rinvii espressamente a precise disposizioni dell’Accordo generale”; lasciando così intendere che le istituzioni dell’Unione non sarebbero vincolate al rispetto di obblighi posti da accordi che non producono effetti diretti. Con una successiva pronuncia (sent. 9 ott 2001, Paesi Bassi vs. Parlamento,), la Corte ha ammesso che la legittimità di un atto comunitario possa essere valutata , in relazione alla Convenzione sulla diversità biologica, indipendentemente dalla circostanza che l’accordo (convenzione) produca effetti diretti. Questa soluzione dovrebbe valere in via generale in quanto la tesi che la norma‐parametro (accordo) sia rilevante solo se produce effetti diretti appare difficilmente conciliabile con il dettato dell’art. 216, par. 2 TFUE, il quale non fa distinzioni in proposito; del resto se cosi non fosse , verrebbe messa in pericolo la coerenza , che il Trattato intende assicurare, tra l’attività normativa dell’Unione e la conclusione di accordi da parte dell’Unione stessa. Tuttavia nella sentenza “intertanko” del 2008, la CG ha nuovamente sostenuto di poter valutare la validità di un atto in relazione ad un accordo “solo ove ciò non sia escluso ne dalla natura e ne dalla struttura di esso (accordo) e inoltre se le sue disposizioni appaiono , dal punto di vista del contenuto, incondizionate e sufficientemente precise. Gli accordi conclusi dall’Unione, se da una parte costituiscono un parametro di legittimità degli atti delle istituzioni ,che ne sono vincolate ai sensi dell’art. 216, par. 2, TFUE, dall'altra parte sono subordinati al Trattato per effetto dell’art. 218, par. 11, TFUE per cui un accordo non può entrare in vigore quando la Corte accerti che esso non è compatibile con i trattati. Nella sentenza Kadi, la Corte ha precisato che: la prevalenza di un accordo sulla Scaricato da mattia catalani (mattia.catalani@gmail.com) lOMoARcPSD|1195861 ||||||||||||||||||||||||||||
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