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Introduzione all'archeologia (Bianchi Bandinelli), Sintesi del corso di Archeologia

Sintesi del libro introduzione all'archeologia (Bianchi Bandinelli)

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Scarica Introduzione all'archeologia (Bianchi Bandinelli) e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! Introduzione all’archeologia L’archeologia come scienza storica La parola archeologia veniva usata dagli antichi col senso letterale di discorso, indagine, sulle cose del passato, antiche. Un esempio viene fornito da Tucidide, il quale, nell’introduzione della sua opera, della appunto, Archeologia, fa un preciso esempio di deduzione storica da un dato archeologico. Egli sostiene che le isole del Mar Egeo fossero abitate, in età remota, dai fenici e dai cari e ne fornisce la prova nelle salme rinvenute in quei luoghi, riconducibili ai cari, riconoscibili dall’armatura sepolta con essi, metodo di sepoltura tuttora utilizzato da quel popolo. In questo caso suppellettili e rito funebre, chiari elementi archeologici, diventano supporto di una tesi storica. Successivamente il termine archeologia cambiò significato e venne applicato allo studio delle antichità, distaccato dal contesto storico che le aveva prodotte e limitando il riferimento al mondo greco e romano. Questo modo di intendere l’archeologia, propria dell’700, fu smentita dal Winckelmann il quale con l’opera Storia delle arti del disegno presso gli antichi cesso di disegnare l’antichità come un tutto omogeneo e indistintamente diverso dall’età moderna. Per questo si introduce in questi studi due esigenze di ricerca: storicistica l’una; di definizione artistica l’altra. Fu la seconda ricerca a prevalere per oltre un secolo ed infatti gli accademici, che studiavano la storia dell’arte antica, provavano un incomprensione verso tutto ciò che non corrispondeva ai canoni di quel classicismo che Winckelmann aveva scorto nelle sopravvivenze della scultura antica. Questi concetti permasero anche quando fu chiaro che la scultura antica, non era vera scultura antica ma era costituita dalle copie più o meno fedeli di quelle opere che la tarda cultura ellenistica, rivolta nostalgicamente al passato, aveva ritenuto essere più nobili. Dunque si continuò a studia l’arte antica sulle copie e su questa via si continuò anche quando gli archeologi inglesi, tedeschi e francesi ebbero dato inizio alla scoperta degli antichi centri dell’Asia Minore e della Grecia ed ebbero portato alla luce le opere d’arte originali della scultura greca. Infatti l’archeologia era intesa essenzialmente quale storia dell’arte greca basata sulle fonti letterarie, mentre lo scavo archeologico di derivazione winckelmanniana fu posta in crisi e superata da due fattori: -Storicismo: fece una sua prima apparizione negli scritti del massimo rappresentante della scuola viennese Alois Riegl, il quale nel suo volume, Industria artistica tardoromana egli si oppose alla opinione comune degli altri studiosi che consideravano l’arte successiva all’età degli imperatori Antonini (cioè, posteriore agli anni 80 del II secolo d.C.) un fenomeno di decadenza, dimostrando invece che essa era espressione di un gusto diverso, che doveva essere valutato per sé e non, come si era fatto prima, in confronto con l’arte greca. Tuttavia il linguaggio critico di Riegl apparve così insolito agli archeologi winckelmanniani che ci vollero solo molti anni affinché l’impostazione della scuola viennese venisse accolta e fruttificasse. Intanto lo storicismo veniva invaso da nuovi correnti, tra questi quella di Max Weber che vide chiaramente che la storia è opera degli uomini e quindi si sforzò di ricondurre la ricerca storica a quello che poteva apparire concreto processo e concatenamento di fatti. Su questa via la ricerca storico-artistica del mondo antico si è enormemente allargata nell’ultimo quarto di secolo. Liberatosi dall’obbligo neoclassico, l’arte greca non è più apparsa come un modello fisso e immutabile ma è stata storicizzata e vista in un quadro più ampio e se ne è avviata una più coerente e razionale comprensione. AL tempo stesso, la storicizzazione della ricerca artistica aveva aperto la via alla comprensione delle civiltà estranee al mondo classico: dall’arte mesopotamica, quella egizia, dell’arte iranica e dei popoli delle steppe. Questo ripensamento del periodo tardo-antico dimostra che la ricerca storico-artistica, se rettamente condotto quale interpretazione di un fatto sociale, può avere un alto significato di indagine storica. Noi vediamo, infatti, che l’arte figurativa, nonostante sia in continua mutuazione, non compie mai salti improvvisi, vi è sempre un tessuto connettivo che prepara ed unisce le varie esperienze. Perciò, se noi riusciamo a leggere ed interpretare un fenomeno artistico questo avrà un valore di documento sociale e storico. Dunque l’archeologia non è più, come lo era nella scia di Winckelmann, soltanto storia dell’arte ma piuttosto essa diviene un settore dell’archeologia. E qui si introduce il secondo punto: -archeologia come documentazione per mezzo della ricerca di scavo del terreno. Un tempo gli archeologi classici, fieri del loro legame con la filologia, ironizzavano sull’attività degli studiosi di preistoria, chiamandola “scienza degli analfabeti” perché priva di fonti scritte. Ora sono proprio questi analfabeti a rinnovare la ricerca archeologica. Costretti a ricostruire tutto sul dato oggettivo, gli studiosi di preistoria hanno sviluppato metodi di scavo di estrema oculatezza poiché consapevoli che ogni scavo non scientifico è deprecabile perché distrugge una documentazione accumulatasi nei millenni. L’archeologia ci ha insegnato che non si sono doppione superflui e neanche pezzi unici; infatti la produzione di manufatti da parte del uomo ha una continuità ed una variazione che si susseguono per secoli, che si interrompe solo per cause di estrema gravità. Così si è andato perfezionando lo scavo grafico con l’esatta osservazione delle varie successioni e lo studio dei reperti ceramici, anche privi di ornamento. Accanto a questa tecnica di scavo si sono associati tecniche scientifiche, quali le indicazioni cronologiche mediante il rilevamento di carbonio C/ 14 residuato nei materiali organici e l’esplorazione mediante la fotografia aerea. Fu proprio la combinazione di questi metodi ch si sono avuti risultati di enorme importanza stoica nell’esplorazione dell’Anatolia. La data stoica più remota, attingendo solo ai dati epigrafici ed astronomici, è quella della fondazione ella I dinastia dell’Egitto, attorno al 3100 a.C. Invece oggi possiamo risalire sino alle prime fasi dell’associazione umana in comunità stabili e datarle tra ‘8000 e ‘7000 a.C. Ma il luogo più importante è quello di Catal- Huyuk in Anatolia la cui vita si è potuta seguire attraverso 13 strati archeologici per un periodi di 3000 anni. Si è potuto constatare l’esistenza di una civiltà complessa e avanzata composta da vere e proprie città, sorprendenti pitture con scene ei combattimenti e caccia e nei livelli più recenti immagini i argilla di una dea madre antropomorfa. Si è potuto, quindi, constatare che è nata nel vicino oriente quella “rivoluzione neolitica” che ha portata un profondo mutamento nelle strutture della società primitiva: infatti l’uomo raccoglitore di cibo ne diviene produttore e ciò gli permise di costruire insediamenti stabili. Questa rivoluzione si compì tra l’altopiano anatolico e i deserti dell’Asia centrale, tra il Caucaso e le alte terre della Palestina, facendo naufragare le tesi secondo le quali la Mesopotamia e l’Egitto fossero le culle della nostra civiltà. Dunque l’archeologia si è maturata a vera e propria scienza storica, non più scienza ausiliaria della storia. Anziché sulle fonti scritte essa si basa sui dati materiali che una civiltà produce, accumula e lascia dietro di sé e ciò non vale solo per l’età preistorica ma anche per le età più vicine poiché le fonti letterarie sono sempre in doppio modo parziali: -si limitano a determinati periodi - rappresentano sempre una determinata interpretazione dei fatti (corrente di interessi) Il dato archeologico è imparziale ma bisogna saperlo interpretare. Inoltre è avvenuto che molti problemi storici siano emersi proprio solo attraverso ‘indagine archeologica, si pensi ai dintorni di Roma, a Livinio non si è avuta soltanto la conferma della antichità di una leggenda- quella della venuta di Enea-, ma la documentazione di contatti del Lazio (Roma)con il mondo greco in età molto arcaica. Infine possiamo affermare che tra storici dell’antichità e archeologia, gli uni non possono fare a meno egli alti: il dato archeologico va confrontati, ogni volta ciò è possibile con il fato storico e il dato storico, a sua volta, con quello archeologico, creando così una scienza storica. Winckelmann La nascita dell’archeologia che studia i monumenti come opere d’arte in se stesse e come documento di civiltà e cultura si deve all’opera del Winckemann, il quale venuto a Roma nel 1755 della nativa Sassonia prussiana con una conoscenza molto vasta della letteratura antica, cercò di costruire per la prima volta una vera storia dell’arte con l’opera “Storia delle arti del disegno presso gli antichi”. Il merito di Winckelmann è quello di aver trasportato lo studio dell’art antica dalla mera traduzione accademica fine a se stessa ad una prima ricerca e distinzione cronologica di varie fasi dell’arte del mondo antico, alla comprensione dell’opera d’arte in se stessa ed al ricavarne elementi di vitale interesse per il proprio tempo. Winckelmann scriveva di rintracciare l’essenza dell’arte cioè le supposte leggi che regolano la perfezione di un’opera d’arte e ne fanno un esempio di bellezza; era cioè alla ricerca di un’estetica. La ricostruzione della cronologia è uno dei problemi che, nel campo antico, offriva ed offre maggiori difficoltà data l’incertezza e la lacunosità della tradizione. Poiché l’archeologia è considerata uno degli strumenti fondamentali dell’indagine storica è evidente che il riconoscere attraverso i dati esteriori indizi cronologici diviene essenziale ma essa è anche indispensabile per poter dare un giudizio riguardo un’opera d’arte che sia storico e non solo dettato dal gusto personale. Infatti occorre vedere se l’opera in questione apre una nuova strada o se si inserisce passivamente in una corrente determinata. Dunque la comprensione dell’opera d’arte ha inizio con la fissazione della cronologa che diventa assai più difficile per quanto riguarda il campo antico (rispetto all’arte medievale e moderna) poiché a fissazione della cronologia può oscillare tra diversi secoli. Al tempo del Wickelmann l’arte antica di presentava come un ammasso di opere di scultura, di sarcofagi ornati trovati per caso a Roma di copie il Doriforo di Policleto, cioè la statua che era considerata il canone della formazione classica, il Brunn, basandosi sulle fonti letterarie, tracciò la prima vera storia dell’arte greca. In questo periodo, dunque, ci si svolge con metodo critico allo studio dei testi antichi e se ne traggono fuori tutte le notizie relative agli artisti, cercando mettere d’accordo le varie fonti e di correggere filologicamente i testi corrotti. Da questo doppio processo di indagine artistica e di esame filologico deriva l’ipotesi che forma il nucleo di tutte queste ricerche: da una parte abbiamo una serie di copie romane di originali greci, di sculture che dovevano essere le più famose ed apprezzata dall’antichità; dall’altra una serie di menzioni di opere di grani artisti greci, descritti dalle fonti antiche, E’ da supporsi che le due serie, quella delle sculture conservata e quelle delle opere menzionate dalle fonti, debbano coincidere. Il problema che si pone agli studiosi è pertanto di indentificare le une nelle altre, mettendo d’accordo monumenti e fonti e questo costituisce il tema fondamentale della scuola filologica. Partendo dal concetto di questo parallelismo tra copie conservateci e notizie delle fonti, la prima identificazione fu quella dell’Apoxymenons di Lisippo in una copia in marmo. Questa identificazione fu resa più facile per l’atto stesso compiuto dalla figura, che si pulisce con lo strigile (non essendo ancora entrato nell’uso il sapone, per lavarsi, si usava ungersi con olio e con una polvere finissima di pomice; per togliersi dalla pelle l’impasto untuoso si usava, appunto lo strigile cioè una specie di lungo e stretto raschiatoio). Questa statua corrispondente alla descrizioni delle fonti, fu di facile identificazione e molo utile per quelle successive di altre opere. L’identificazione dell’Apoxymenons insegò che le statue in bronzo potevano essere copiate in maro, ma che qualche traccia tuttavia rimaneva della tecnica diversa usata. Elemento assai evidente nella traduzione in marmo di un originale in bronzo è quello dei puntelli: la statua creata in bronzo si regge anche se è fuori del suo equilibro statico; il copista, invece, passando dal bronzo al marmo, deve aggiungere per la statica della statua dei punti di appoggio: un tronco d’albero, una colonnetta, o , per sorreggere parti completamente libere o eccessivamente traforate, deve ricorrere a vari puntelli di raccordi che uniscono, per esempio, il braccio proteso al fianco; ripieghi tecnici che disturbano la composizione originale, ma che si rendono necessari per la statica della figura. Perciò, dove ci sono puntelli, le statue non sono originali, ma copie: fu questo un primo esteriore criterio di classificazione. In seguito, l’identificazione più importante fu della del Doriforo di Policleto, partendo da una replica del Museo di Napoli. Il Doriforo di Policleto era stata la creazione statuaria che risolse il problema centrale dell’arte greca, nel passaggio dall’età arcaica all’età classica, quello, cioè, di rappresentare la figura virile ignude e sante, ben proporzionata, ferma, non impegnata in una azione precisa, ma tale da avere la possibilità di movimento. Nel periodo arcaico il Kouros non rappresentava un determinato personaggio, né una divinità. Il kouros e così la kore, suo omologo femminile, può essere dedicato in un santuario come offerta, essere eretto sopra una tomba come memoria senza alcun rapporto di né di contenuto, né, tanto meno, fisico con la persona dell’offerente o con la divinità cui è offerto. Lo stesso tipo, però, po’ essere usato anche per l’immagine di culto della divinità, allora ciò che lo caratterizza sono gli attributi che gli vengono posti in mano. Altrimenti il kouros e la kore sono astratte immagini. Nel processo di secolarizzazione dell’arte, tra la fine del VI secolo e la metà del V secolo a.C., il problema fu di non uscire da questo tipo di figura, ma di darle la possibilità del movimento, arricchendola di plasticità e costruendola con un sistema equilibrato di proporzioni. Questa ricerca dura per tre generazioni e trova la sua soluzione con Policleto, soluzione che rimane, poi, fissa e canonica per tutto lo svolgimento dell’arte antica. Per tutto il IV secolo ed oltre si hanno variazione della statua <<canonica>> di Policleto, del Doriforo, da lui stesso illustrato con n scritto intitolato canone. Ancora in età romana l’Augusto detto di Prima Porta non è altro che il Doriforo, vestito di corazza e con braccio sollevato, e statue imperiali della tarda antichità ancora ripeteranno lo stesso schema compositivo. L’identificazione del Doriforo fu dunque molto importante per conoscere una norma fondamentale dell’arte greca. Essa fu dovuta a Friederichs, il quale identificò il Doriforo in una copia del Museo di Napoli. Come poté Friderichs giungere all’identificazione? Egli notò innanzitutto che di questo tipo di statua atletica ci sono numerosissime repliche; perciò doveva trattarsi di una statua famosa. Da ciò deriva anche la sicurezza che non si tratta di un originale, ma di una delle tane copie. L’ originale era in marmo o in bronzo? Attraverso lo studio accurato della capigliatura, Friderichs giunge al convincimento che doveva trattarsi di u bronzo. Quindi si dovevano togliere i puntelli, come aggiunte della copia. Studia allora la composizione della figura, che è armoniosa e rivela che l’artista cercava l’equilibrio elle varie parti della figura: da una pare la gamba è tesa, l’altra è leggermente flessa e in corrispondenza all’impiantarsi della figura si ha lo spostarsi del busto della testa per creare l’equilibrio della composizione; quindi analizza il chiasma, cioè le masse del corpo composto ad X che creano il senso di equilibrio ed al tempo stesso di possibilità di movimento nella statua non impegnata nell’azione. Analizzando tutti questi elementi, il Friederichs trova una rispondenza tra questo equilibrio e quello descritto dalle fonti rispetto a Lisippo che fu il perfezionatore di questo tema. Qui si nota, però, una forma più dura, in cui è presente qualche traccia di arcaismo. Perciò non può essere Lisippo, del quale era già stato identificato l’Apoxyomenos. Si risale quindi dal IV al V secolo, il che concorda con l’epoca in cui le fonti pongono Policleto che, in quel tempo, non osò andar oltre, nel movimento delle figure. Tra tutte le statue raffiguranti il Doriforo, viene riconosciuta giusta la ricostruzione del copista di Napoli, che aveva messo in mano alla statua una lancia (Doriforo= portatore di lancia). Riassumendo tutti questi elementi di indagine stilistica e delle fonti, il Friderich arrivò dunque all’identificazione del Doriforo. Procedendo con sistema analogo a quello del Friederich altri studiosi cercarono di identificare numerose copie con gli originali descritti dalle fonti. Una parte maggiore dell’archeologia dell’Ottocento è impegnata in questo lavoro con tanto zelo e con tale passione, che si finì per studiare più le copie di età romana che gli stessi originali che venivano messi in luce nello stesso tempo nelle varie campagna di scavo. La tendenza a costruire una storia dell’arte greca tutta sulle copie trovò la sua massima espressione nel Furtwaengler, dotato di una piena conoscenza diretta di tutti i musei del mono di una formidabile memoria visiva, anche se non tutte le sue ricostruzioni sono ancora oggi accettate dagli studiosi. (Tra le più discusse è quella della Athena Lemnia di Fidia, ricostruita congiungendo la testa Palagi del Museo di Bologna con un torso del museo di Dresda). Il pericolo maggiore di tale impostazione di studi era dato dal fatto che si finiva per ricostruire l’arte greca attraverso le copie, trascurando gli originali anche là dove essi esistono e si perpetuava, attraverso le copie, una visione fredda e accademica: la visione neoclassica. Così si parla dell’Athena Lemnia ricostruita dal Furtwaengler per studiare la personalità di Fidia e si pongono in secondo piano i rilievi del Partenone. Questa impostazione del problema dell’arte greca, e il metodo in essa seguito, può dirsi prettamente filologica, non tanto perché parte, come dato essenziale, piuttosto dalle fonte letterarie antica che non dall’opera d’arte ma perché attraverso le varie copie di età romana si cercò di ricostruire il testo originale delle opere greche. Questo metodo è servito a porre le basi della ricostruzione di quanto era possibile ricavare, in fatto di documentazione, dalle tarde fonti letterarie. Ma esso ha avut due effetti: 1. Quello di concentrare la ricerca su questo problema a tal punto di trascurare gli originali dell’arte greca; e c’è voluto quasi mezzo secolo per uscire da questa posizione e capire che un originale, anche se mutilo e di qualità secondaria, e pur sempre più prezioso, per farci capire il linguaggio artistico del suo tempo, di una copia d’età romana. 2. Quello di perdere di vista lo studio della qualità artistica dell’opera d’arte a profitto della iconografia artistica, equivoco che ancor oggi riaffiora negli studio di archeologia. In alcuni casi le documentazioni sono rimaste definitive, come, per esempio, quelle delle identificazioni dei donari dei sovrani pergameni per le vittorie sui Galati, dovute a Brunn, che fu, tra gli studiosi di arte antica della seconda metà del secolo XIX, quello più dotato di intelligenza critica dell’opera d’erte. E, riconosciute le figure come immagini di barbari, il Brunn le collegò con la notizia di Plinio circa gli artisti che aveva celebrato le battaglie condotte contro i Galati vittoriosamente da Attalo I. Più tardi, a questo raggiunto punto fermo della storia dell’arte ellenistica, egli aggiunse il riconoscimento del cosiddetto <<piccolo donario di Attalo>> sulla cui datazione si discute ancora. Nel 1514 erano state scoperte a Roma figure di combattenti scolpite in grandezza ridotta, un po’ meno circa due terzi del vero, e si erano spiegate, secondo il solito, in senso romano: gli Orazi e i Curiazi. Tutto questo complesso fu ricollegato dal Brunn, che vi aveva riconosciuto una unità stilistica, con il passo di Pausania che descrive un dono el re Attalo dedicato all’acropoli di Atene, composto da quattro gruppi di figure alte circa 90 cm raffiguranti una Gigantomachia, la Amazzonomachia, la battaglia di Maratona e la vittoria di Attalo sui Galati. Ma poi occorre alla documentazione passare alla storia. In altri casi, invece, talune attribuzioni, che furono faticosamente raggiunte e poi apparvero per qualche tempo assicurate, contribuendo a far scadere la fiducia in quella ricerca combinata e attribuzionistica che aveva costituito, nell’ ambito dell’archeologia filologica, la principale o almeno la più ricerca attività degli studiosi. Uno di questi casi è diffusamente descritto da Andreas Rumpf ed è la vicenda della cosiddetta <<Eirene e Ploutos>> di Kephisodotos. Questa statua raffigurante una donna che tiene un bambino appoggiato al suo braccio sinistro, pervenuta a attorno al 1760 nella raccolta della Villa Albani a Roma, fu dal Winckelmann interpretata come Giunone Lucina, ma dallo stesso più tardi definita Ino-Leucotea con piccolo Bacco. Ennio Quirino Visconti respinse l’attribuzione del Winckelmann; la statua fu portata a Parigi da Napoleone e successivamente fu ritenuta un originale greco dell’età di Fidia, poi attribuita al IV e interpretata come Gea. Due altri studiosi ritennero di collegare sia la moneta che la statua a due passi di Pausania dove viene menzionata una statua esistente di Atene, raffigurante Eirene (la Pace) con il fanciullo Ploutos (la ricchezza) sul braccio, opera di Kephisodotos. Anche qui intervenne il Brunn dimostrando per prima cosa che si trattava di una copia di età romana e non di un originale e che il suo stile lo collocava nel trapasso fra V e IV secolo. Alla fine fu il Rumpf a proporre una interpretazione definitiva dell’opera, identificandola come <<Tyche> e di attribuire l’originale a Prassitele stesso. Vediamo così come una ricostruzione storico-artistica basata sull’analisi stilistica possa scuotere i ondamenti di attribuzioni puramente filologiche che sembravano costruire una certezza. Dunque l’archeologia filologica costituì una prima base di chiarimento e di ordinamento del materiale monumentale superstite; ma scadde quando divenne mero gioco attribuzionistico con fini più di carriera accademica che non di concreta ricerca storica. Per esempio, se prendiamo la ricostruzione del Doriforo di Policleto fatta da Friederichs, con essa egli ha stabilì senza dubbio una cosa importantissima, quando dimostrò che si trattava di una copia del <<canone>> di Policleto e ciò permise la classificazione di molte altre statue che a quel modulo si erano ispirate. Sorse così senz’altro la tendenza a prendere la copia o, piuttosto, la ricostruzione in gesso fatta combinando le varie copie, come misura dell’arte di Policleto. Anche per la pittura antica si cadde nello stesso equivoco, quando, ad un certo punto, si pretese di ricostruire la pittura classica andata perduta per mezzo della pittura di età romana solitamente detta <<pompeiana>>, perché, dato il carattere della distruzione subita da Pompei e da Ercolano, solo qui è possibile ritrovarla conservata. La scuola filologica, dunque, riconobbe giustamente in una serie di quadri, inseriti come pitture decorative, nelle pareti delle case di Pompei, delle riproduzioni, più o meno fedeli, delle pitture originali greche, che in parte corrispondevano a quelle descritte dalle fonti. Ma si trascurò il fatto che quelle pitture davano innanzitutto testimonianza dell’arte del tempo nel quale furono eseguite e che si potevano, risalendo da esse, ricostruite non tanto le singole pitture perdute, raramente copiate con fedeltà, quanto i problemi formai che erano stati affrontati dalla grande pittura greca, a patto di saper interpretare intelligentemente criticamente le fonti. Anche qui si tentò di ricostruire gli originali attraverso l varie interpolazioni. Ma se difficile è trovare un criterio per giudicare la veridicità del testo, ancor più difficile era tale operazione nel campo della pittura. Quando fu fatto questo lavoro di analisi artistica per la pittura antica, ci si basò su alcuni criteri, che, poi, sono apparsi fallaci. Per esempio, si partì dal concetto che nella pittura greca non potessero esserci sfondi paesistici, perché si considerava che essa seguisse gli stessi criteri formali, accademici, di chiarezza lineare e di equilibrio plastico e compositivo, che l’estetica winckelmanniana aveva attribuito (erroneamente) alla scultura, considerata l’arte maggiore della civiltà greca. Seguendo questo concetto, là dove nelle pitture pompeiane si apriva uno sfondo, si affermava che si trattava di una interpolazione romana. In qualche caso, interpolazioni di questo genere sono accettabili, ma la pittura di paesaggio risulta ormai chiaramente essere una conquista ellenistica. Queste fonti, perciò, hanno trasmesso una immagine dell’arte greca fissata su canoni estetici che sono veri soltanto in parte, perché ci danno conoscenza di un periodo limitato e di un punto di vista determinato. Invece, la critica filologica accettò come elemento di giudizio quello che risultava dalle fonti antiche, come esso era già stato accettato da Winckelmann per la coincidenza tra il suo gusto neoclassico e quello delle fonti antiche che sono prevalentemente d’indirizzo classicista. Come reazione a questo errore di impostazione critica si manifestò, nel secondo quarto del secolo XX, la tendenza a trascurare la tradizione delle fonti antiche e a guardare alla pittura pompeiana direttamente, con lo stesso occhio con il quale si considererebbe una pittura a noi contemporanea, e a considerarla unicamente come <<pittura romana>>. Ma già il libro di Pirro Marconi, La pittura dei Romani, del 1929, che era opera di un giovane archeologo di buona preparazione, conteneva, accanto a felici osservazioni, gravi incomprensioni ed errori. Del tutto inaccettabili, perché fondate sulla ignoranza della consistenza storica della pittura greca e dei suoi problemi. Tra i fondatori della scuola filologica dell’archeologia, va posto in particolare evidenza il Brunn che, pur basando le proprie indagini sulle fonti letterarie e la ricostruzione degli originali attraverso le copie, fu quello che dimostrò di possedere un fine intuito artistico. Egli perciò seppe formulare giudizi più adeguati dei contemporanei e anche di molti studiosi successivi. Oltre alle copie vere e proprie c’era da tenere conto di una varietà infinita di imitazioni con varianti. L’esempio citato della statua onoraria di Augusto trovata a Prima Porta che non è altro una variante travestita del Doriforo di Policleto, mostra come queste varianti venissero eseguite con estrema facilità e libertà. Diventa quindi una vera impresa il classificare tutte le varianti e le derivazioni per ricostruire gli originali dell’arte greca del V e del IV secolo. Non si curò, invece, di usare queste copie e varianti per studiare il gusto di età romana, dell’età cioè alla quale queste copie appartengono; ma tale problema non apparve interessante dato che si ebbe come unico scopo di ricostruire Apollodoros ateniese, autore di una cronaca enciclopedica in versi che elencava avvenimenti e personaggi del tempo della guerra troiana e 1040 anni dopo di essa, cioè al 44 a.C. Per quanto riguarda l’arte, viene fatta allora l’esaltazione di Fidia e Prassitele e dopo Lisippo si vede iniziare la decadenza. Tra le altre fonti di Plinio c’è però anche Xenokrates ateniese, scultore egli stesso e, oltre che scrittore di cose d’arte, discepolo di Lisippo, vissuto alla metà del III secolo. Per lui, Lisippo, rappresenta il massimo punto d’arrivo dell’arte greca e dobbiamo tener presente che da Lisippo deriva la spinta iniziale verso lo stile che diciamo ellenistico. C’è quindi uno sfasamento tra le opinioni di Xenokrates e quelle di Apollodoros, ma Plinio le riferisce sullo stesso piano. Perciò bisogna rendersi conto, volta per volta, della fonte da lui usata, per comprendere il valore della notizia riferita. Lo Schweitzer ha ricostruito i frammenti di Xenocrates inseriti nel testo di Plinio, lavoro molto utile se vogliamo giungere a una valutazione più precisa delle fonti, che ne renda migliore l’utilizzazione critica per la ricostruzione della storia dell’arte greca. Lisippo ci appare, attraverso Xenocrates, come il sommo artista, il perfezionatore di tutto lo svolgimento artistico fino al suo tempo e ci mostra una posizione che contrasta con i valori esaltati dalla critica neoclassica. C’è un detto di Lisippo:<<gli antichi maestri hanno fatto gli uomini come sono, io li faccio come sembrano essere>>. Ciò significa porre a base della creazione artistica la visione personale dell’artista e non più la tradizione della scuola; significa sostituire l’impressione ottica alla meditata e razionale composizione. Se consideriamo quale culmine dell’arte classica il Doriforo di Policleteo, accompagnato da uno scritto in cui viene teorizzata la concezione di quella statua, si può valutare meglio l’impostazione antiaccademica, rivoluzionaria di Lisippo. E’ opposta, dunque, l’impostazione di Lisippo e della sua scuola a quella di Apollodoros, la quale però è prevalente, anche con altri scrittori neoclassici, come fonti di Plinio. Sono particolarmente preziosi i tratti di Xenokrates in Plinio, perché ci testimoniano di un periodo assai più vivo artisticamente che non il periodo classicistico e neoattico, che ha dato solo opere scarsamente originali, varianti, per lo più, di temi già usati. Quando si trova affermato in Petronio, nel Satyricon, a proposito della decadenza della pittura che questa è dovuta alla <<audacia degli egiziani>>, cioè dei pittori di Alessandria, si può, confrontando con altri passi, arrivare a capire che cosa significhi questa espressione. Altri passi ci parlano infatti di pictura compendiaria, attribuendola appunto ad Alessandria. La questione sul valore da dare a questo termine è stata molte volte discussa. MA SEMBRA ORMAI accertato che come <<compendiaria>> si intendeva una tecnica quasi <<impressionistica>>, quale troviamo in forma molto sciolta nella pittura del periodo di Nerone (cioè di Petronio). Nelle case di Pompei restaurate dopo il terremoto dei 62 si riscontra la tendenza a risolvere l’organicità formale nella tecnica di una pittura a macchia; di tale tendenza, che distruggeva la fermezza delle linee di contorno e la tangibile compattezza dei volumi, si lamentano gli scrittori della corrente classicistica del tempo, come quelli moderni fecero nel 1874 a proposito della mostra degli <<impressionisti>> moderni. In un passo di Plinio si trova detto che dopo una determinata Olimpiade (CXXI) <<l’arte morì>> e poi <<rivisse>>. La morte dell’arte corrisponde alla fine del III secolo, cioè al pieno ellenismo e la sua <<rinascita>> all’inizio del movimento classicistico. Bisogna superare l’equivoco in cui si è caduti con tanta facilità per il passato, cioè quello di dare un valore assoluto a certi giudizi critici di Plinio, quasi che fossero giudizi contemporanei alle opere d’arte. Questo, innanzitutto, non è vero rispetto agli artisti del V e IV secolo, giacché non solo Plinio, ma anche le sue fonti ellenistiche sono lontane da essi quanto noi dal nostro Rinascimento, e quindi, se le notizie di fatto che essi conservano possono essere preziose, i giudizi critici sono da valutarsi solo come testimonianza del gusto del tempo nel quale essi stessi scrissero. E poi, anche se quel giudizio fosse contemporaneo alle opere, non è detto che sarebbe un giudizio criticamente esatto. Per le proporzioni più massicce delle figure di Policleto rispetto a quelle di Fidia e di Prassitele, gli studiosi interpretavano le parole <<quadrata>>, presenti nella Naturalis Historia, come tozzo, squadrato. Il Ferri per capire l’esatto valore di questo termine tecnico usato da Plinio, ha pensato di ritradurre in greco il testo pliniano e di cercare il significato esatto del corrispondente greco, di chi ha trovato il sinonimo di quattro membri che si corrispondo in equilibrio per formare un’architettura armonica della figura. Questo è ciò che si trova effettivamente nella composizione delle figure di Policleto. Quindi <<signa-quadrata>> significa statue composte in base a un ritmo chiastico. Ma bisogna guardarsi poi dal cadere dall’equivoco di tenere, con questa constatazione, di aver meglio penetrata, con tale precisione, l’arte di Policleto. Che le statue policletee fossero costruite secondo una norma di equilibrio e di rispondenza delle masse plastiche e dei loro movimenti era cosa ben nota. Dobbiamo tener presente che il giudizio critico deve essere nostro, raggiunto, cioè. Da noi attraverso l’analisi formale dell’opera d’arte. Questo giudizio critico deve poi farsi storico mediante la ricostruzione del processo di produzione di un’opera d’arte, nella quale assumono valore tutti gli elementi della realtà storica del tempo. Pausania L’altra fonte principale per la conoscenza dell’arte antica è Pausania, che visse nel II secolo dell’era volgare. La sua opera rientra in un genere di scritti del tardo ellenismo, i cui autori venivano detti <<periegeti>>, cioè descrittori di viaggi, autori di guide per il forestiero che visitava i grandi santuari, dove i secoli avevano accumulato edifici, opere d’arte e leggende. Nell’età del tardo ellenismo, la Periegetica diviene un <<genere>> coltivato volentieri. Fra i molti scritti periegetici quelli che ci sono conservati quasi al completo sono appunto quelli di Pausania. Della sua Periegesi della Grecia ci restano dieci libri, forse lasciati interrotti dall’autore. Quest’opera segue un ordine geografico molto chiaro: comincia, infatti, dall’Attica, dal promontorio del Laurion, passa nel Peloponneso, dall’Arcadia, quindi alla Beozia, alla Focide, alla Locride ed alla zone di Naupaktos. Pausania non considerava la Periegesi come una giuda per il turismo ma, piuttosto, voleva fare essenzialmente un libro di lettura, fornendo la conoscenza dei luoghi e dei monumenti, pretesto per ricapitolare in modo variato la storia della Grecia, intercalandovi narrazioni mitologiche. Quest’opera è certamente stata composta per la massima parte a tavolino, sfruttando opere di argomento localmente più ristretto, dei periegeti precedenti, e così le opere di storici, ma anche le opere dei poeti. Per alcune delle località descritte è sorta però la questione se Pausania abbia visitato le zone personalmente, oppure no. Non era di per sé necessaria la conoscenza diretta delle località, dato lo scopo prefissosi; ma è certo che alcuni luoghi di maggiore importanza Pausania li ha visitati come l’Acropoli di Atene e i santuari di Olimpia e di Delfi. Realmente in questi luoghi si è potuta riscontrare spesso una precisa rispondenza tra il testo di Pausania e quanto è stati messo in luce dagli scavi. Prendiamo, per un esempio, la descrizione del santuario di Olimpia. I primi nove capitoli contengono narrazioni sulla storia più antica dell’Elide e delle città in essa comprese e sull’origini dei giochi olimpici. Col capitolo X inizia la descrizione del santuario: si parte dal suo centro, il tempio di Zeus, al tumulo di Pelope, verso l’Heraion, l’antichissimo tempio di Hera, precedente nel tempo quello di Zeus, le cui colonne originarie in legno erano state via via sostituite da colonne in pietra e vi è la descrizione dell’Herion. In esso si conserva l’arca di Kypselos, una cassa di legno di cedro con pannelli d’avorio. L’arca viene descritta in tutti i particolari della decorazione, che ci fornisce un importante repertorio delle figurazioni di numerosi episodi mitologici, corrispondenti allo stile del secondo venticinquennio del Vi secolo. Anche in questo caso Pausania dovette valersi di una descrizione già redatta, forse riscontrata da lui stesso sul posto. Si descrivono poi i monumenti prossimi al tempio, come la serie delle statue di Zeus erette con i fondi delle ammende, nell’ordine stesso nel quale ne sono state ritrovate le basi. All’interno del tempio, Pausania parla di un Hermes di Prassitele, di cui non si ha notizia in alcun altro scrittore antico, tanto che si era dubitato dell’esattezza della notizia, trattandosi dell’opera di un artista di grande fama. Invece, facendo gli scavi dell’Heraion, proprio dove indicava Pausania, si è trovata la statua, caduta dal suo piedistallo. Era questa una bella conferma della attendibilità delle notizie di Pausania, che ha indotto a prestare fede al testo, in casi dubbi, più di quanto non si facesse prima. Ma ecco che subito sorgono nuove difficoltà. La statua, scoperta negli scavi tedeschi nel maggio 1877, è quella, divenuta famosa, dello <<Hermes con Dioniso infante>>, celebrata dai manuali di archeologia e dalla guide artistiche come l’unica statua originale di uno dei più grandi e celebri scultori dell’antichità che sia giunta sino a noi, quasi intatta. La datazione proposta era intorno al 340. Ma l’aspetto eccessivamente morbido, <<saponoso>>, dal modellato provocò che si aveva della scultura greca, sempre maggiore insoddisfazione. Sicché furono accolte, da molti, come una liberazione le osservazioni di un archeologo che era anche un valente scultore, Carl Brumel, direttore nei Musei di Berlino, che nel 1927, nel corso di un’indagine sulla tecnica della scultura antica, osservò che sul dorso dello Hermes, lasciato non finito si poteva riconoscere l’uso di ferri mai usati prima del tardo ellenismo e dell’età romana. Accertato che la base sulla quale era posta la statua era sicuramente di età romana, si concludeva per negare ce essa potesse essere un originale di Prassitele. Si ritenne allora da molti che, pur dovendo rinunciare alla fortuna di possedere un originale del grande sculture, si aveva almeno una copia di straordinaria finezza, che doveva aver sostituito del tempio l’originale asportato dai Romani. Ma anche questa soluzione non soddisfaceva chi dell’arte di Prassitele aveva una concezione diversa. Ancora una volta il Blumel, nel 1944, propose una soluzione: poiché le fonti conoscono be quattro artisti di nome Prassitele e poiché sono riscontrabili nella statua modi caratteristici per l’ellenismo, proponeva di attribuire lo Hermes a un Prassitele della fine del II secolo a.C. Questa soluzione parve soddisfare a molti anche se negli ultimi anni si è tornati a proporre l’Hermes come originale prassitelico, cioè del grande Prassitele del IV secolo e quindi si può dire che il problema rimane tuttora aperto. Tornando ora a Pausania, se la scoperta della statua di Hermes ci confermava la sua attendibilità topografica, altri casi ci offrono esempio della sua non sempre esatta informazione storico-artistica e della possibilità che noi abbiamo di correggere, talvolta, i suoi errori e comunque della prudenza con la quale le sue notizie vanno accolte. Ad Olimpia, Pausania descrive i due fronone del tempio di Zeus nelle singole figure, che, ritrovate negli scavi, sono state ricomposte seguendo le indicazioni e la descrizione di Pausania, ben più grave rimane la questione dell’attribuzione, poiché Pausania attribuisce un frontone a Paionios e l’altro ad Alkamenes, scolaro o collaboratore di Fidia. La critica moderna ha potuto appurare stilisticamente non solo che i due frontoni debbono essere del medesimo autore, il <<maestro di Olimpia>> ma anche che sono da escludere del tutto Paionios e sostanzialmente anche Alkamenes. Nel caso di Paionios si può documentare come sia nato l’errore di Pausania. Davanti al tempio, infatti, è stata trovata una Nike, opera di Paionios. Questa Nike come stile è lontanissima dall’arte dei frontoni. Le cui sculture sono da datarsi con certezza tra il 470 e il 460 a.C. Inoltre l’iscrizione contiene anche elementi per la datazione. Cioè: <<Paionios di Mende fece, il quale anche vinse facendo gli acroteri sul tempio>>. L’errore di Pausania e del suo informatore deve essere nato proprio dalla lettura stessa dell’iscrizione, poiché nell’ellenismo il termine <<acroterio>> che prima indicava solo le decorazioni che sormontano il frontone del tempio, al centro e agli angoli, si era esteso a tutto il frontoni. Effettivamente gli acroteri che si sono trovati si accordano perfettamente con lo stile di Paionios. Se noi abbiamo potuto scoprire la fonte dell’errore di Pausania nell’attribuzione del frontone est a Paionios, non abbiamo a disposizione se non ipotesi per spiegare l’attribuzione del frontone ovest ad Alkamenes. Pausania si affida spesso manifestamente a quello che dicevano i custodi dei santuari, ed egli stesso lo dice. Dal punto di vista critico Pausania non offre nessun elemento particolare né nulla di personale. Luciano Di tutt’altro carattere come fonte per la storia dell’arte sono gli scritti di Luciano di Samosata, vissuto al tempio degli Antonini, unico e ultimo fra i tardi scrittori del mondo greco che dimostra di avere gusto e sensibilità artistica. Luciano non è un compilatore, ma uno scrittore fornito di cultura e di un discernimento personale, che parla di opere d’arte che egli ha veduto e che egli descrive esprimendo le proprie sensazioni e il proprio giudizio. Così quando menziona il quadro dipinto da Aetion, Le nozze di Rossane e Alessandro, si fa premura di dire che <<il quadro si trova adesso in Italia, e io l’ho veduto>>; e così quando parla del quadro di Zeus, La famiglia di Centauro, ci dice che ritiene che il quadro, portato via da Silla, ai trovasse sopra una nave che affondò al Capo Melea, ma che egli ne ha veduto ad Atene una copia accuratamente fatta sull’originale. Queste precisazioni attestano che la sua documentazione è degna di fede. Ma per il resto, anche Luciano partecipa al culto per l’età lontana della grande civiltà artistica della Grecia e non menziona se non opere di artisti famosi dell’età classica. Ateneo Un’altra fonte va ancora menzionata in modo particolare ed è, per taluni passi, Ateneo. Nato in Egitto, a Naukratis, poi vissuto ad Alessandria e a Roma verso la metà del III secolo d.C. compose un’opera erudita intitolata <<I dotti a convito>>, dove i convitati intrecciano colloqui che danno modo all’autore di raccogliere un ampio ammasso di notizie, per noi spesso preziose, di carattere enciclopedico. Tra queste vi sono lunghe descrizioni, documenti di grande interesse per conoscere lo splendore delle corti ellenistiche e profusione di suppellettili in metalli preziosi lavorati. Numerose sono le fonti di età bizantina. Esse ci danno informazioni talora assai utili come dati di fatto; ma nulla che possa contribuire alla valutazione dell’arte greca. Dobbiamo ricordare anche le iscrizioni o i 66documenti. Le scoperte e le grandi imprese di scavo Lo studio dell’arte antica è un tessuto composto di tre fili diversi: -la conoscenza delle fonti -la conoscenza dei materiali reperiti nello scavo -il criterio metodologico per portare quelle nozioni a giuste conclusioni storiche compromesso con Roma. I sovrani di Pergamo favorivano la cultura, le biblioteche e le arti e furono collezionisti di opere d’arte delle scuole di età classica. Pergamo fu un vivo centro di cultura. Accanto a queste grandiose iniziative di scavo inglesi e tedeschi ci sono anche iniziative francesi: scavi di Delo a partire dal 1877 e di Delfi 1879. Delo era un’isola dedicata al culto di Apollo; per questo era proibito do abitarvi; non vi si poteva né nascere né morire. In età romana invece fu consentito abitarvi, e si formò un villaggio. Questa circostanza è importante per noi, perché questo dato serve per la ricostruzione della cronologia di taluni aspetti di questa tarda fase ellenistica, sia per quello che riguarda l’origine degli stili della decorazione parietale pompeiana. In Delo sono stati trovati i precedenti immediati della decorazione pompeiana del primo stile, che poi quella descritta da Vitruvio. Anche questo conferma che la pittura di Pompei appartiene allo svolgimento artistico del tardo ellenismo. A Delfi era il più grande santuario dopo quello di Olimpia. Ma, mentre Olimpia era stata abbandonata in un periodo medievale e non vi si era formato un paese moderno, a Delfi un piccolo paese si era insediato in mezzo alle rovine del santuario, distruggendole in parte per sfruttare materiale da costruzione. Questo rese meno fruttiferi gli scavi, si sono trovati elementi di fondazione degli edifici antichi, in base ai quali si è potuto ricostruire la pianta del santuario, ma anche ambienti di sculture, i kouroi arcaici rappresentanti Kleobis e Byton e tutte le opere che precisarono la conoscenza dell’arte greca dall’arcaismo allo stile severo. Fino al IV secolo, cioè fino ad Alessandro, si trova nei paesi asiatico- ellenistici la caratteristica di grandi sepolcri monumentali a forma di piccolo tempio. Così gli artisti greci si sono trovati di fronte a un tema nuovo, perché in Grecia non esistevano edifici simili. IL mausoleo di Alicarnasso è l’esempio più famoso. Lo scavo fu condotto dagli inglesi e il materiale scultoreo si trova tutto al British Museum. Le sculture del Mausoleo, oltre all’interesse per la celebrità del monumento, sono di grande importanza come sculture originali da attribuire agli scultori Skopas, Bryaxis, Timotheos, che secondo le fonti avevano decorato il monumento. Se si è raggiunto un certo accordo fra gli studiosi per quello che riguarda le attribuzioni a Skopas, per gli altri artisti, che pure sono tra i principali del tempo, si è tuttora in grande incertezza. Il che ci convince quanto poco, in realtà, si conosca ancora la scultura greca del IV secolo. Le scoperte che ebbero maggiore successo, anche al di fuori del campo archeologico, furono senza dubbio quelle di Schliemann. Questi, che da modeste origini era divenuto un ricco trafficante, fin da ragazzo, quando era apprendista in un modestissimo negozio, si era innamorato di Omero, cui credeva ciecamente. Su questa cieca fiducia nel testo di Omero, lo Schliemann, fra lo scetticismo di tutto il mondo accademico, nel 1871 iniziò gli scavi nella Troade, dove non solo scoprì Troia, la cui ubicazione era discussa, ma anche confermò la realtà della distruzione per incendio per le tracce evidenti che di questo trovò nei resti di uno degli strati di insediamento posti in luce. Scavò allora anche a Micene, dove scoprì quello che egli chiamò il tesoro di Atreo e la tomba di Clitennestra, mettendo in luce, con uno splendore di oggetti d’oro di squisita fattura, la civiltà pre-ellenica di cui fino ad allora si era ignorata la presenza. Innegabilmente lo Schliemann, con la sua irrazionale fede in Omero, mostrò una volta di più che soltanto le utopie fanno progredire il mondo. Ma come scavatore improvvisato ha mostrato una volta di più che ogni scavo distrugge testimonianze del passato e che questa distruzione è irrimediabile, se lo scavo non è eseguito obiettivamente. Lo schliemann ebbe come compagno nelle sedizioni l’architetto Dorpfeld. La cosa più curiosa è che lo Schliemann che non era un archeologo, vedendo realizzarsi il suo sogno divenne sempre più prudente nelle sue ricerche; il Dorpfelp no. Tuttavia le sue ricerche hanno servito a porre in luce la vita di età elladica e micenea nelle isole e nel continente greco e a dimostrare come essa corrisponda a quegli orizzonti di civiltà che si trovano descritti nell’Odissea. Alle scoperte della civiltà pre-ellenica hanno contribuito anche studiosi italiani con la missione di scavi a Creta. L amissione inglese dell’Evans si concentrò sullo scavo e sul restauro del palazzo di Knossos. Palazzo grandiosissimo ed intricatissimo, che ci riprova come la leggenda del Labirinto, edificato per Minosse, mitico re di Creta, avesse un fondamento nella realtà storica e che fu conosciuto dai Greci già in rovina. Gli scavi italiani invece hanno messo in luce, nella località di Phaistos, nella parte meridionale dell’isola, un palazzo meno sontuoso, ma più chiaramente distinguibile nelle varie fasi di costruzione. Tali scavi furono eseguiti dal Pernier. Un ulteriore passa innanzi, e di grande importanza, è stato poi compiuto sotto la direzione del Levi, nella continuazioni degli scavi di Phaistos dal 1950 al 1967. La sua accurata osservazione della sicura stratigrafia ha permesso di giungere a conclusioni cronologiche che appaiono del tutto inconfutabili e che spostano la prima fase della civiltà cretese di quasi mille anni, rispetto alla cronologia dello Evans, abbassandola del 2800-2000 al 2000-1850 e introducendo più lievi modifiche nella cronologia delle fasi successive. Un passo importantissimo fu compiuto nel 1953 con l’avvenuta decifrazione del più recente degli alfabeti cretesi, quello detto lineare B da parte dell’architetto inglese Ventris. Con la collaborazione del filologo Chadwick egli confermò che la lingua usata in numerose piccole tabelle di creta, coperte di segni di lineare B, era quella greca. Il che significava che l’ultima fase della civiltà cretese si era svolta, come quella micenea, dopo l’espansione della popolazioni di stirpe ellenica. Altre conferme sono venute da tabelle con disegni di cavalli e di asini e relative iscrizioni da Knossos. E’ apparso chiaramente che la lineare B è un adattamento della scrittura cretese lineare A alla lingua degli invasori Achei. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si aprì dunque un capitolo di storia della civiltà completamente ignorato fino ad allora, che ha facilitato la spiegazione di una quantità di fenomeni culturali ed artistici della Grecia storica e ha dimostrato come queste tribù doriche ed achee, che si fissarono nella Grecia intorno al 1200, si erano trovate di fronte ad una civiltà molto più ricca ed avanzata della loro, per quanto fosse una civiltà ancora limitata nella sfera culturale dell’età del bronzo. Era pertanto inevitabile che le nuove popolazioni assumessero elementi nuovi e motivi della civiltà minoica molto più avanzata, ma è interessante notare ce essi ne hanno ripresi molto meno di quello che si sarebbe pensato. Il tema è stato considerato da molti studiosi e, per quanto riguarda l’arte, si può concludere che ciò che si è desunto della civiltà precedente è stata la tecnica, più che lo stile artistico. La scoperta del mondo pre-ellenico va posta a fianco della scoperta del mondo mesopotamico: Ur, Uruk, Babilonia, Nippur, tutte dovute agli scavi soprattutto di questa prima metà del nostro secolo. Questi scavi del Vicino Oriente hanno esteso le nostre conoscenza della civiltà umana e dell’arte, sino a circa il 6000 a.C. cioè sino al primo sorgere della società umana divenuta stanziale e non più nomade, attraverso la possibilità di rinnovare la fertilità della terra con l’irrigazione. Dal punto di vista della storia dell’arte, ci hanno rivelato il crogiolo di motivi e di schemi iconografici che i Greci conobbero all’albore della propria civiltà. Accanto a questi capitoli nuovi, intorno alla fine dell’ottocento si andava approfondendo la conoscenza delle città greche, particolarmente dell’Acropoli di Atene, che dopo lo spoglio dei marmi fatto da Lorg Elgin, era a poco a poco tornata a mostrare il proprio aspetto con la demolizione delle costruzioni che l’avevano trasformata sin dal Medioevo in fortezza. I Propilei erano stati inclusi entro torri di fortificazione, nella cui demolizione subito intrapresa dopo la costruzione del nuovo regno di Grecia venne alla luce tanto materiale da poter ricostruire non solo i Propilei, ma anche il tempietto, quasi completo, di Athena Nike che sorgeva sul bastione. Si ripresero ancora gli scavi nel cimitero del Dipylon. Precedentemente, il cimitero del Dipylon aveva anche dato la serie bellissima delle stele funebri del V e IV secolo una delle manifestazioni più caratteristiche del gusto e la concezione etica dei Greci di età classica. Al tempo stesso, nella sistemazione dell’Acropoli venne posta in luce tutta la documentazione dell’Acropoli arcaica, Quando nel 480 a. C. i Persiani distrussero l’Acropoli, devastarono tutti i monumenti esistenti come il tempio che sorgeva al posto del Partenone. Dopo la vittoria sui Persiani, la nuova generazione si accinse alla ricostruzione dell’Acropoli che sarà poi quella di Pericle: il primo atto fu un allargamento dell’aria utilizzabile alla sommità dell’Acropoli mediante un muro; nello spazio intermedio tra il muro e la roccia furono deposti tutti i resti degli ex-voto danneggiati che, come cose consacrate, non potevano essere distrutti. Questo riempimento è noto col nome di <<colmata persiana>> e i pezzi in esso rivenuti sono di per se stessi datati al periodo precedente al 480 a.C. A una società aristocratica succede una società democratica, che crea un tipo di stato nuovo nel mondo, uno stato di diritto fondato su un concetto di giustizia e nel quale, per la prima volta, sorge il principio della uguaglianza dei diritti e delle libertà civili. E di tale società è diversa l’espressione artistica, tanto che questa data segna, per noi, il limite del periodo arcaico e l’inizio dello stile severo. Fu un trentennio, quello dal 480 al 450, paragonabile per intensità di trasformazione, pe ricchezza di problemi artistici solo al periodo del Rinascimento fiorentino In trent’anni, nel giro di una generazione, si passa dalla rigida statua arcaica, tutta dominata dalla linea di contorno, alla inaudita ricchezza plastica di Fidia. Prima un artigiano chiuso nelle sue norme era posto in grado di raffigurare i temi che esaltavano le gesta e la potenza della divinità e dei sovrani e di eseguire, con qualche maggiore libertà, gli oggetti preziosi destinati a una ristrettissima élite di persone nell’ambito delle corti. La nuova arte greca, invece, non conosce più limiti alla ricerca individuale dell’artista, che affronta tutta la realtà ponendosi sopra la difficile e pericolosa via del naturalismo. Gli scavi della fine dell’ottocento misero in luce tutti i frammenti dell’Acropoli, che in parecchi decenni furono catalogati e pubblicati; tale lavoro si può considerare terminato solo con la pubblicazione da parte di uno studioso della scuola inglese, il Payne, delle sculture arcaiche dell’Acropoli prima opera con buone fotografie che rendono leggibile la forma della scultura. Il Payne, uno dei pochi archeologici dotati di intelligenza dell’arte, fece alcune scoperte molto importanti: scoprì che il torso di kore proveniente dalla Francia meridionale e conservata a Lione combinava con la parte inferiore di una statua frammentaria trovata nella colmata persiana, quindi la kore di Lione o <<Afrodite di Marsiglia>>, si dimostrò proveniente dall’Acropoli. Oltre alla <<scoperta>> della cosiddetta Afrodite di Lione, vi contribuì anche l’altra relativa alla <<testa di Rampin>> sempre citata come esempio tipico di arte ionica, che egli invece poté combinare con un torso di cavaliere dell’Acropoli, restituendoci la più antica statua equestre della Grecia. La ricostruzione erudita delle grandi personalità artistiche tradizionali è passata in secondo piano rispetto alla ricerca delle grandi linee di svolgimento dell’arte greca e l’individuazione delle singole <<scuole>> formatesi nei vari centri dove la produzione artistica era più viva. Durante l’arcaismo la distinzione delle scuole avvenne soprattutto per particolarità tecniche: ma nel periodo classico e in quello ellenistico esse si distinguono per veri e propri diversi indirizzi stilistici. Anche per uno dei complessi di sculture più completi che abbiamo, quello di Olimpia, nel quale esistono i due frontoni del tempio e tutte le metope, si parla, come si è visto, di un Maestro di Olimpia, cui non sappiamo dare un nome, pur attribuendogli tutto il complesso delle sculture in base ad osservazioni stilistiche. Ma raggiunta questa attribuzione subito occorre spezzettarne la personalità per riconoscere cinque o sei mani diverse nell’esecuzione delle varie sculture, il cui progetto e la cui idea devono essere stati dati, tuttavia, da un’unica personalità. Qualcosa di analogo è stato fatto per il Partenone: un maestro unico ha ideato l’ordinamento e ha dato modelli e disposizione delle singole sculture, uscite da un’unica mente, mentre l’esecuzione rivela personalità diverse, alcune delle quali già giunte a maturità artistica, altre ancora in formazione. Ma, dalle metope più arcaiche alle più nuove creazioni delle statue frontonali, l’analisi formale rivela una omogenea tendenza, del tutto originale nel suo tempo, nella quale non possiamo cogliere la problematica artistica del più grade scultore di tutti i tempi, Fidia: il più grande, perché più universale la ricchezza del suo contenuto. Nei resti dell’officina di Fidia poi trasformata in chiesetta bizantina, i frammenti di lavorazione e i resti di ceramiche di uso comune hanno accertato che lo Zeus di Olimpia era stato eseguito da Fidia posteriormente alla Parthenos dell’Acropoli e alla sua fuga da Atene. Se l’ottocento è stato, nella storia dell’arte antica, il secolo della ricerca sistematica e dell’ordinamento, in certo modo, degli archivi del passato, la prima metà del Novecento ha visto iniziarsi un approfondimento di problemi, un continuo tentativo di intendere l’opera d’arte nei suoi valori intrinseci. Questo perché siamo ormai persuasi che l’attività artistica non può distaccarsi dal processo storico in atto in un tempo. Essa non segue, come volevano i puri formalisti, leggi proprie e sviluppo autonomo, anche se una coerenza interna lega un’opera all’altra, una personalità alle altre. Pertanto una migliore impostazione dei problemi storici non potrà non giovare anche a una nuova e migliore impostazione dei problemi storico- artistici. Ricerche teoriche e storicismo agli albori del Novecento Fra l’ottocento ed il Novecento, si trova una figura di studioso che va posta in particolare evidenza: Emanuel Loewy, forse il primo archeologo che cerca di riprendere quello che era stato uno dei motivi della effettiva grandezza del Winckelmann, cioè la ricerca attorno all’essenza stessa dell’arte, cioè attorno alle questioni fondamentali che presiedono allo svolgimento dell’arte in genere e in particolare dell’arte greca. Egli cerca, cioè, di porre lo studio dell’arte antica sopra un fondamento teorico generale. Due sono i suoi studi fondamentali: La natura nell’arte greca più antica e l’altro un articolo di carattere iconografico Migrazioni tipologiche. Questi due studi sono importanti, perché toccano i due punti essenziali della storia degli studi di arte dell’antichità greca: quello del rapporto tra l’arte greca e il vero di natura e quello della persistenza iconografica. Di questo elemento dell’iconografia assai spesso gli archeologici, quando divengono storici dell’arte, non tengono sufficientemente conto. Infatti si deve tener presente che il fondamento di quella produzione è prettamente artigiano. Non ci troviamo di fronte alla personalità dell’artista, isolata e capace di produrre da sé, <<estraendola soltanto dalla propria personalità>>, un’opera d’arte distaccata da qualsiasi legame con la società in cui vive. Come in tutti gli artigianati, si formò un patrimonio di tradizioni tecniche e iconografiche, che rendeva possibile all’artigiano di raggiungere una qualità elevata. Si lavora fondamentalmente come si è imparato nella bottega, ma ogni artigiano di talento aggiungerà piccole varianti, che sono espressione della sua personale genialità e che verranno riprese dai suoi successori. Con l’andare del tempo si giunge in tal modo a innovazioni anche profonde. Così. Nell’arte arcaica il tipo del kouros, il <<fanciullo>> continua dalla metà del VII secolo alla fine del Vi secolo, da un punto di vista iconografico, senza alcun mutamente; eppure nella sua uniformità tipologica non c’è un kouros uguale all’altro, e il problema statuario si matura nel corso di due secoli fino alla crisi che si rende manifesta nello scultore attico Kritios, col quale si apre la fase dello stile severo, tra il 480 e 460. Finché esiste nell’arte una forte tradizione artigiana, come è nell’arte antica, la persistenza degli schemi iconografici è fortissima. Al tempo stesso bisogna tener presente che altro è parlare di schemi iconografici, altro di forma, di contenuto artistico nuovo.
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