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Introduzione all’archeologia di Bandinelli, Dispense di Archeologia

Riassunto dettagliato del libro di Bandinelli

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 19/06/2020

biancaargento3
biancaargento3 🇮🇹

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Scarica Introduzione all’archeologia di Bandinelli e più Dispense in PDF di Archeologia solo su Docsity! 1 RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI INTRODUZIONE ALL'ARCHEOLOGIA CLASSICA COME STORIA DELL'ARTE ANTICA Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) un archeologo, storico dell'arte e politico. Dopo l'interruzione conseguente alle vicende belliche, riprese l'insegnamento all'Università di Firenze nel 1944, ma l'anno successivo si trasferì a Roma per assumere la carica di "direttore generale delle antichità e belle arti", che mantenne fino al 1947, occupandosi del restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra. Fu nominato socio nazionale della risorta Accademia dei Lincei. Avvertenza Secondo Bandinelli la storia dell'arte non interessava più agli studiosi delle nuove generazioni, che erano influenzati maggiormente dalla sociologia e da un tipo di ricerca rivolta solo alla tecnica e alla classificazione. Com'è nato questo libro? L'editore Laterza gli chiese di poter accogliere nella sua biblioteca Universale questa Introduzione che dal 1950 girava sotto forma di dispense universitarie. Essa non intende presentare l'archeologia nel senso più contemporaneo, con tutti i suoi metodi d'indagine e le sue tecniche di ricerca sul terreno, ma vuole dare qualche chiarimento in merito all'ARCHEOLOGIA “WINCKELMANNIANA”, cioè intesa come STORIA DELL'ARTE GRECA E ROMANA, incentrata sul problema quindi storico-artistico, ereditato dalla filologia e oggi diventato quasi un ramo collaterale della disciplina. L'Archeologia classica era un ramo della SCIENZA DELL'ANTICHITÀ, formatasi nel XIX sec. nelle università tedesche, e tendeva a formare una scienza unitaria, sintesi di tutto quanto riguardasse l'antichità classica. La specializzazione che si verifico sempre più nel XX sec. ha rotto quell'unità che era il suo maggiore valore culturale. La ricerca archeologica insieme a quella etnologica si è estesa ad ogni età e ad ogni luogo. L'antichità classica è solo uno dei suoi argomenti, spesso addirittura trascurato ma ciò non è ammissibile perché si tratta di una civiltà in cui il pensare storicamente era il criterio più alto del comportamento umano, mentre se la tecnica viene presa a modello, è in gioco la libertà razionale del pensare ed agire umano. Solo il pensiero storico può opporsi ad un tale dominio, che finisce spesso per diventare dominio delle forze politiche che controllano le tecniche. A maggior ragione è utile sottolineare che LA STORIA DELL'ARTE È UNA SCIENZA STORICA. Prefazione: L’archeologia come scienza storica La parola archeologia veniva usata dagli antichi col senso letterale di discorso, indagine, sulle cose del passato, antiche. Su tutti gli aspetti, dunque, delle età che ci hanno preceduto. Un esempio viene fornito da Tucidide, il quale, nell’introduzione della sua opera, detta appunto, Archeologia, fa un preciso esempio di deduzione storica da un dato archeologico. Egli sostiene che le isole del Mar Egeo fossero abitate, in età remota, dai Fenici e dai Cari e ne fornisce la prova nelle salme rinvenute in quei luoghi, riconducibili ai cari, riconoscibili dall’armatura sepolta con essi, metodo di sepoltura tuttora utilizzato da quel popolo. In questo caso suppellettili e rito funebre, chiari elementi archeologici, diventano supporto di una tesi storica. Questa unità della ricerca storica si frantumò quando il termine archeologia fu applicato allo studio delle antichità in sè e per se stesse, avulse dal contesto storico che le aveva prodotte, abbassandole a mero oggetto di curiosità e limitando il riferimento al mondo greco e romano, cioè a quella che diciamo "antichità classica". 2 Questa ricerca minuta e priva di metodo degenerò nell'archeologia antiquaria, nelle dispute individuali che riempirono le Accademie sorte nell'Europa della Riforma e dell'età barocca e specialmente in Italia. Questo modo di intendere l’archeologia, propria del ’700, fu smentita dal Winckelmann nell’opera "Storia delle arti del disegno presso gli Antichi" pubblicata nel 1764, doveva costituire l'atto di nascita dell'archeologia moderna. Da allora l'archeologia ebbe come tema precipuo lo studio dell'arte classica e compì un salto di qualità: da erudizione fine a se stessa, mera curiosità accademica e letteraria, divenne un prima ricerca e distinzione cronologica delle varie fasi dell'arte del mondo antico e ricerca delle supposte leggi che presiedessero al raggiungimento della Bellezza assoluta nell'Arte. Si cessò di disegnare l’antichità come un tutto omogeneo e indistintamente diverso dall’età moderna. Per questo si introduce in questi studi due esigenze di ricerca: storicistica l’una; di definizione artistica l’altra. Fu la seconda ricerca a prevalere per oltre un secolo ed infatti gli accademici, che studiavano la storia dell’arte antica, provavano un incomprensione verso tutto ciò che non corrispondeva ai canoni di quel classicismo che Winckelmann aveva scorto nelle sopravvivenze della scultura antica. Questi concetti permasero anche quando fu chiaro che la scultura antica non era vera scultura greca ma era costituita dalle copie più o meno infedeli di quelle opere che la tarda cultura ellenistica, rivolta nostalgicamente al passato, aveva ritenuto essere più nobili. Dunque si continuò a studia l’arte antica sulle copie e su questa via si continuò anche quando gli archeologi inglesi, tedeschi e francesi ebbero dato inizio alla scoperta degli antichi centri dell’Asia Minore e della Grecia ed ebbero portato alla luce le opere d’arte originali della scultura greca. Infatti l’archeologia venne intesa essenzialmente quale storia dell’arte greca basata sulle fonti letterarie, mentre lo scavo archeologico di derivazione winckelmaniana fu posta in crisi e superata da due fattori: Ø Storicismo: che era andato affermandosi negli ultimi due decenni dell'Ottocento. Fece una sua prima apparizione, negli scritti del massimo rappresentante della scuola viennese, Alois Riegl, il quale nel suo volume, "Industria artistica tardoromana", egli si oppose alla opinione comune degli altri studiosi che consideravano l’arte successiva all’età degli imperatori Antonini (cioè, posteriore agli anni 80 del II secolo d.C.) un fenomeno di decadenza, dimostrando invece che essa era espressione di un gusto diverso, che doveva essere valutato per sé e non, come si era fatto prima, in confronto con l’arte greca. Tuttavia il linguaggio critico di Riegl apparve così insolito agli archeologi winckelmanniani che ci vollero solo molti anni affinché l’impostazione della scuola viennese venisse accolta e fruttificasse. Intanto lo storicismo veniva invaso da nuovi correnti, tra questi quella di Max Weber che vide chiaramente che la storia è opera degli uomini e quindi si sforzò di ricondurre la ricerca storica dalle astrazioni dei principi universali a quello che poteva apparire concreto processo e concatenamento di fatti. Su questa via la ricerca storico- artistica del mondo antico si è enormemente allargata nell’ultimo quarto di secolo. Liberatosi dall’obbligo neoclassico, la stessa arte greca non è apparsa più un modello fisso e immutabile ma è stata storicizzata e vista in un quadro più ampio e se ne è avviata una più coerente e razionale comprensione. Al tempo stesso, la storicizzazione della ricerca artistica aveva aperto la via alla comprensione delle civiltà estranee al mondo classico: dall’arte mesopotamica, quella egizia, dell’arte iranica e dei popoli delle steppe, che si riconobbero non solo nei loro valori intrinseci ma anche negli elementi costitutivi della civiltà artistica europea. Questo ripensamento del periodo tardo-antico dimostra che la ricerca storico-artistica, se rettamente condotto quale interpretazione di un fatto sociale, può avere un alto significato di indagine storica. Noi vediamo, infatti, che l’arte figurativa, nonostante sia in continua mutuazione, non compie mai salti improvvisi, vi è sempre un tessuto connettivo che prepara ed unisce le varie esperienze. Perciò, se noi riusciamo a leggere ed interpretare un fenomeno artistico questo avrà un valore di documento sociale e storico. Dunque l’archeologia non è più, come lo era nella scia di Winckelmann, soltanto storia dell’arte ma piuttosto essa diviene un settore dell’archeologia. E qui si introduce il secondo punto: 5 un’Estetica assoluta. La ricostruzione della cronologia è uno dei problemi che, nel campo antico, offriva ed offre maggiori difficoltà data l’incertezza e la lacunosità della tradizione. Poiché l’archeologia è considerata uno degli strumenti fondamentali dell’indagine storica è evidente che il riconoscere, attraverso i dati esteriori, indizi cronologici diviene essenziale. Dall'altra parte essa è anche indispensabile per poter dare un giudizio riguardo un’opera d’arte che sia storico e non solo dettato dal gusto personale. Infatti occorre vedere se l’opera in questione apre una nuova strada oppure se sia opera di un artista che si inserisce passivamente in una corrente determinata. Dunque la comprensione dell’opera d’arte ha inizio con la fissazione della cronologia che diventa assai più difficile per quanto riguarda il campo antico (rispetto all’arte medievale e moderna) poiché la fissazione della cronologia può oscillare tra diversi secoli. Al tempo del Wickelmann l’arte antica di presentava come un ammasso di opere di scultura, di statue frammentarie, di sarcofagi ornati, trovati per caso soprattutto a Roma senza che ci fosse criterio di cronologia tranne che per alcune opere di età imperiale romana, rimaste in vita e databili per se stesse, come per esempio le colonne di Traiano e di Marco Aurelio, documentate dalle iscrizione dedicatorie. Si ricordi che la statua equestre di Marco Aurelio, oggi in Campidoglio, che era sempre rimasta in piedi attraverso tutte le vicende della Roma medievale, deve la sua preservazione al fatto che si riteneva raffigurasse Costantino (imperatore cristiano), o anche Teodorico. A riconoscervi Marco Aurelio furono gli umanisti per confronto con le monete. Il mondo dell’arte antica appariva come un blocco unico senza prospettiva storica (cioè senza distinzione fra i secoli della Grecia e quelli di Roma). Occorreva dunque trovare un criterio per stabilire una cronologia. Le fonti antiche riferivano la cronologia dei maggiori artisti ma occorreva trovare un criterio per identificare le opere di questi artisti con attribuzioni meno causali. Ma ancora più complicato era il problema delle statue trovate in Roma, le quali, per la maggior parte, erano copie di età romana da originali di greci perduti. In genere il copista di età romana è un copista di età commerciale: ad Atene e a Roma si era formata una specie di industria, un artigianato specializzato e spesso tecnicamente abilissimo. Ma in genere tali copie avevano funzione puramente decorativa; erano copie dozzinali che davano un riflesso di uniformità a tutte le opere. Il principio che si potesse usare il criterio dell’analisi stilistica per fondare una cronologia nacque solo con i criteri proposti dal Winckelmann. Ma occorse quasi un secolo perché venisse riconosciuto come il più sicuro ed infallibile. Fu proprio Winckelmann a introdurre il criterio stilistico e l'indagine formale dell'opera d'arte, distinguendo tra 4 grandi fasi: 1) stile antico (periodo arcaico 8 sec-5 sec) 2) stile sublime (periodo classico 5 sec. Morte di Alessandro Magno; Fidia + successori, cioè V + IV sec) 3) stile bello (periodo tardo-classico- inizio ellenismo; da Prassitele a Lisippo + alcune opere “ellenistiche”) 4) stile della decadenza (periodo tardo ellenistico fino all’età imperiale romana) Il Winckelmann non trascurò di ricercare e coordinare le notizie sulle opere d’arte tratte dalle fonti letterarie. L’elemento più innovativo per il criterio secondo il quale lo studioso deve capire l’intima essenza dell’opera d’arte e della sua bellezza. Il gusto neoclassico ha come punto di partenza l’opera dei Winckelmann, la quale univa teoria alla pratica, l’esposizione storica alla dimostrazione e sembrò risolvere il mistero della bellezza antica. Inoltre il suo stile era vibrante ed elegante. Questo criterio lo aiutò ad uscire dalla << antiquaria >> e a superarla, ma rappresenta anche un limite di essi perché, mutato il criterio estetico, muta tutta l’impostazione e la valutazione dell’opera d’arte e ci si accorge che ciò che su di esso si era costruito non era la storia ma un mito del proprio tempo. Tale mutamento è avvenuto con particolare lentezza nell’archeologia. Con l’inizio 6 dell’Ottocento si hanno le prime campagne di scavo; tale fase militante dell’archeologia culminerà nei decenni dopo il 1870 e porterà alla luce una larga messe di opere greche originali. Intanto si sviluppava, attraverso la critica delle copie di età romana, la fase << filologica >> dell’archeologia. Nè archeologi filologi e nè archeologi militanti si preoccuparono di rivedere il criterio estetico che il Winckelmann aveva posto. La parola d'ordine era di raccogliere materiale da costruzione per un futuro edificio storico; perciò lo spirito informatore della storia dell'arte greca e romana rimase immutato fino al nostro secolo. Questo avvenne anche perché il giudizio estetico del Wincklemann coincideva con i giudizi trasmessi della fonti letterarie antiche, ma le fonti classiche (Plinio e Pausania) sono tarde e si rifacevano ai numerosi testi del tardo-ellenismo, i quali possedevano una cultura conservatrice e rivolta al passato che vedeva proprio nell’arte passata i valori di libertà ed indipendenza distrutti una prima volta da Filippo di Macedonia e poi da Alessandro. Nasce così una cultura che possiamo definire neoclassica (neoattica), per la quale di tutta la scultura dell’ellenismo non si doveva tener conto, intendendo per ellenismo il periodo apertosi dopo la morte di Alessandro (323 a.C.). Questo ha contribuito al sorgere ed il perdurare del concetto stabilito da Winckelmann che la storia dell’arte antica avesse avuto uno svolgimento parabolico, che tocca il suo culmine nel periodo aureo con Fidia, per poi decadere. E di questo grandissimo Fidia in realtà non si conosceva nulla; esso era un’entità astratta magnificata dalle fonti letterarie. C’è voluto il lavoro critico dei primi decenni del nostro secolo per mettere in luce che tale giudizio non poteva avere alcun valore storico né assoluto, ma solo quello di un giudizio relativo all’età in cui venne a formarsi. Sono nati molti equivoci da questa convinzione: come l’idea che l’arte greca sia essenzialmente l’arte volta all’idealizzazione del vero, mentre oggi si può affermare che essa, più di ogni altra arte del mondo antico, era rivolta alla ricerca di un sostanziale realismo. Essa, infatti, è l’unica che abbandona la ripetizioni di schemi figurativi fissi e simbolici, l’unica che inventa lo scorcio, la prospettiva e il colore locale, per afferrare l'aspetto realistico delle cose. Essa si pone precocemente sulla via del naturalismo per realizzarlo, pienamente, nell’età ellenistica. Tuttavia naturalismo non è verismo e nelle opere, l’artista si proponeva sempre di esprimere un'interpretazione in parte culturale ed in parte soggettiva. Per lungo tempo, dunque, ha avuto valore la suddivisione wincklemanniana dell’arte antica in periodi collegati tra loro da una linea parabolica di svolgimento. Pur riconoscendo i grandi meriti di Winckelmann l’errore di quella costruzione parabolica fu avvertito molto presto. Il primo fu Federico Schlegel, uno degli iniziatori del movimento di idee che porterà allo storicismo. In un quaderno di note scrisse che << per misticismo estetico Winckelmann ha errato e solo in questo egli ha trovato seguito >>; con misticismo estetico egli intendeva sottolineare il fatto che Winckelmann ha veduto l’arte greca attraverso un processo di idealizzazione dell’arte stessa, quasi volta a creare dei modelli di astratta perfezione, basati sulla bellezza formale assoluta, l'assenza di pathos, il prevalere della forma scultorea su quella pittorica. Ci vorrà più di un secolo perché questa visione fosse accantonata. Da questa visione sono nati molti equivoci come quello che l'arte greca fosse rivolta essenzialmente all'idealizzazione del vero, mentre secondo Bandinelli essa fu rivolta più di ogni altra arte del mondo antico alla ricerca di un sostanziale realismo: fu l'unica ad abbandonare la ripetizione di schemi figurativi fissi e simbolici, ad inventare lo scorcio, la prospettiva e il colore locale per afferrare l'aspetto realistico delle cose. Essa si pone così precocemente sulla via del naturalismo (non nel senso di verismo cioè con fotografica imitazione della realtà) per realizzarlo pienamente nell'età ellenistica. Alla luce di quella concezione solo le opere artistiche che rispecchiano l'ideale della bellezza assoluta possono essere considerate vere opere d'arte greca, mentre tutte le altre che si differenziano da quel ideale sono considerate o preparatorie rispetto ad esso o manifestazioni di decadenza. Restava quindi preclusa una valutazione assoluta, di per se stessa, di ciascuna delle fasi artistiche che precedono e seguono l'età classica. 7 Ci furono anche delle concrete conseguenze culturali, tra cui due casi esemplari: Ø quando Lord Elgin staccò i marmi del Partenone di Atene (poi venduti nel 1819 al British Museum di Londra), la cui decorazione era attribuita dalle fonti letterarie alla direzione di Fidia, gli archeologi negarono che i marmi potessero avere una tale origine e addirittura che fossero opere greche, pensando fossero copie di età romana, il che significava attribuirli al periodo ritenuto dal Winckelmann di massima decadenza. Fu Canova che, nonostante fosse permeato di teorie neoclassiche, con la sua sensibilità per la qualità artistica capì ed affermò di trovarsi di fronte a dei capolavori degni del nome di Fidia. Ø Qualcosa di simile si ripeté anche in tempi più recenti quando nel 1877 il governo tedesco fece condurre i grandi scavi nel santuario di Olimpia. Quando questi marmi furono rinvenuti, delusero gli archeologici che li giudicarono opere d’arte provinciale, di una scuola secondaria. Si criticò, per esempio, il soggetto nella figura dello stalliere seduto che si tocca il piede con il mano, gesto che alla falsa visione che si aveva della sublima arte greca apparve troppo realistico e volgare; gesto invece di possente interpretazione poetica della realtà. Questi due episodi dimostrano che l’immagine che la critica archeologica si era fatta dell’arte greca non corrispondeva alla realtà e che quindi occorreva accostarsi alla comprensione di quest’arte con concetti diversi. Ciò nonostante restano innegabili i meriti del Winckelmann che può essere considerato il padre dell’archeologia intesa come storia dell’arte. Un uomo che ha sfidato gli antiquari romani sprezzanti di ogni ingegno e progresso, che ci mostra anche la sua personalità di intellettuale romantico che agisce soprattutto sotto la spinta di un desiderio di gloria personale. La prima edizione dell’opera fondamentale del Winckelmann fu pubblicata a Dresda nel 1764. Ebbe una seconda edizione, dopo la morte dell'autore, a Vienna a cura dell'Accademia di Bele Arti e col titolo "Storia del disegno presso gli antichi" ne fu pubblicata a Roma nel 1783 la traduzione italiana. Essa è fondamentale per comprendere il metodo tenuto dal Winckelmann: 1) Primo libro: origini delle arte e delle differenze presso le varie nazioni. Nel primo capitolo, dopo aver considerato l’idea generala delle arti del disegno, nota che simile ne è l’origine presso i diversi popoli, dunque lo stile arcaico ha punti di contatto presso le varie genti dell'antichità. Nel secondo capitolo tratta dell’influenza del clima sulla figura e sullo spirito umano per spiegare le eccezionali capacità artistiche dei greci 2) Secondo libro: dedicato alle arti del disegno presso Egizi, Fenici e Persiani 3) Terzo libro: studia le arti del disegno presso gli Etruschi ed i popoli confinanti, considerando più arcaica e primitiva l'arte etrusca di quella greca 4) Quarto libro: studia le arti del disegno presso i Greci e l’idea del bello da essi rappresentato 5) Quinto libro: il Bello considerato nelle varie figure dell'arte greca, cioè come e quanto questa idea sia stata realizzata nelle singole opere 6) Sesto libro: tratta del panneggio, con uno studio di carattere formale e antiquario al tempo stesso 7) Settimo libro: dedicato alla parte tecnica: meccanismo della scultura presso i greci e della loro pittura 8) Ottavo libro: offre una sintesi dei progressi e della decadenza dell’arte presso i Greci e i Romani, analizzando i tre momenti dello stile antico, dello stile sublime e della decadenza. Notiamo che si parla sempre e solo di arte greca e non romana. Sarà solo nel 1895, con Wickhoff, che si incomincia a parlare di arte romana come un’arte che presenta nuovi autonomi elementi di originalità. 10 Questa statua, corrispondente alla descrizioni delle fonti, fu di facile identificazione e molto utile per quelle successive di altre opere. L’identificazione dell’Apoxymenons insegnò che le statue in bronzo potevano essere copiate in marmo, ma che qualche traccia tuttavia rimaneva della tecnica diversa usata. Elemento assai evidente nella traduzione in marmo di un originale in bronzo è quello dei puntelli: la statua creata in bronzo si regge anche se è fuori del suo equilibro statico; il copista, invece, passando dal bronzo al marmo, deve aggiungere per la statica della statua dei punti di appoggio: un tronco d’albero, una colonnetta, o , per sorreggere parti completamente libere o eccessivamente traforate, deve ricorrere a vari puntelli di raccordi che uniscono, per esempio, il braccio proteso al fianco; ripieghi tecnici che disturbano la composizione originale, ma che si rendono necessari per la statica della figura. Perciò, dove ci sono puntelli, le statue non sono originali, ma copie: fu questo un primo esteriore criterio di classificazione. In seguito, l’identificazione più importante fu quella compiuta da Friederichs del Doriforo di Policleto, partendo da una replica del Museo di Napoli. Il Doriforo di Policleto era stata la creazione statuaria che risolse il problema centrale dell’arte greca, nel passaggio dall’età arcaica all’età classica; quello, cioè, di rappresentare la figura virile ignude e sante, ben proporzionata, ferma, non impegnata in una azione precisa, ma tale da avere la possibilità di movimento. Nel periodo arcaico il Kouros, cioè la statua virile ignuda, non rappresentava un determinato personaggio, né una divinità. Il kouros, =fanciullo e così la kore, suo omologo femminile, può essere dedicato in un santuario come offerta, essere eretto sopra una tomba come memoria senza alcun rapporto di né di contenuto, né, tanto meno, fisico con la persona dell’offerente o con la divinità cui è offerto. Lo stesso tipo, però, può essere usato anche per l’immagine di culto della divinità, e allora ciò che lo caratterizza sono gli attributi che gli vengono posti in mano. Altrimenti il kouros e la kore sono astratte immagini. Nel processo di secolarizzazione dell’arte, tra la fine del VI secolo e la metà del V secolo a.C., il problema fu di non uscire da questo tipo di figura, ma di darle la possibilità del movimento, arricchendola di plasticità e costruendola con un sistema equilibrato di proporzioni. Questa ricerca dura per tre generazioni e trova la sua soluzione con Policleto, soluzione che rimane, poi, fissa e canonica per tutto lo svolgimento dell’arte antica. Per tutto il IV secolo ed oltre si hanno variazioni della statua <<canonica>> di Policleto, del Doriforo, da lui stesso illustrato con uno scritto intitolato << canone >>, cioè regolo. 11 Ancora in età romana l’Augusto detto di Prima Porta non è altro che il Doriforo, vestito di corazza e con braccio sollevato, e le statue imperiali della tarda antichità ancora ripeteranno lo stesso schema compositivo. L’identificazione del Doriforo fu dunque molto importante per conoscere una norma fondamentale dell’arte greca. Essa fu dovuta a Friederichs, il quale identificò il Doriforo in una copia del Museo di Napoli. Come poté Friderichs giungere all’identificazione? Ø Egli notò anzitutto che di questo tipo di statua atletica ci sono numerosissime repliche; perciò doveva trattarsi di una statua famosa. Da ciò deriva anche la sicurezza che non si tratta di un originale, ma di una delle tante copie. Ø L’originale era in marmo o in bronzo? Attraverso lo studio accurato della capigliatura, Friderichs giunge al convincimento che doveva trattarsi di un bronzo. Quindi si dovevano togliere i puntelli, come aggiunte della copia. Ø Studia allora la composizione della figura, che è armoniosa e rivela che l’artista cercava l’equilibrio delle varie parti della figura: da una pare la gamba è tesa, l’altra è leggermente flessa e in corrispondenza all’impiantarsi della figura si ha lo spostarsi del busto e della testa per creare l’equilibrio della composizione; quindi analizza il chiasma, cioè le masse del corpo composto ad X che creano il senso di equilibrio ed al tempo stesso di possibilità di movimento nella statua non impegnata nell’azione. Analizzando tutti questi elementi, il Friederichs trova una rispondenza tra questo equilibrio e quello descritto dalle fonti rispetto a Lisippo che fu il perfezionatore di questo tema. Qui si nota, però, una forma più dura, in cui è presente qualche traccia di arcaismo. Perciò non può essere Lisippo, del quale era già stato identificato l’Apoxyomenos. Si risale quindi dal IV al V secolo, il che concorda con l’epoca in cui le fonti pongono Policleto che, in quel tempo, non osò andar oltre, nel movimento delle figure. 12 Tra tutte le statue raffiguranti il Doriforo, viene riconosciuta giusta la ricostruzione del copista di Napoli, che aveva messo in mano alla statua una lancia (Doriforo= portatore di lancia). Riassumendo tutti questi elementi di indagine stilistica e delle fonti, il Friderichs arrivò dunque all’identificazione del Doriforo. Procedendo con sistema analogo a quello del Friederichs, altri studiosi cercarono di identificare numerose copie con gli originali descritti dalle fonti. Una parte maggiore dell’archeologia dell’Ottocento è impegnata in questo lavoro con tanto zelo e con tale passione, che si finì per studiare più le copie di età romana che gli stessi originali che venivano messi in luce nello stesso tempo nelle varie campagne di scavo. La tendenza a costruire una storia dell’arte greca tutta sulle copie trovò la sua massima espressione nel Furtwaengler, dotato di una piena conoscenza diretta di tutti i musei del mondo e di una formidabile memoria visiva, ebbe mano particolarmente felice nelle identificazioni, anche se non tutte le sue ricostruzioni sono ancora oggi accettate dagli studiosi. (Tra le più discusse è quella della Athena Lemnia di Fidia, ricostruita congiungendo la testa Palagi del Museo di Bologna con un torso del museo di Dresda). 15 esse, ricostruite non tanto le singole pitture perdute, raramente copiate con fedeltà, quanto i problemi formali che erano stati affrontati dalla grande pittura greca, a patto di saper interpretare intelligentemente criticamente le fonti. Anche qui si tentò di ricostruire gli originali attraverso le varie interpolazioni. Ma se difficile è trovare un criterio per giudicare la veridicità del testo, ancor più difficile era tale operazione nel campo della pittura. Quando fu fatto questo lavoro di esegesi artistica per la pittura antica, ci si basò su alcuni criteri, che, poi, sono apparsi fallaci. Per esempio, si partì dal concetto che nella pittura greca non potessero esserci sfondi paesistici, perché si considerava che essa seguisse gli stessi criteri formali, accademici, di chiarezza lineare e di equilibrio plastico e compositivo, che l’estetica winckelmanniana aveva attribuito (erroneamente) alla scultura, considerata l’arte maggiore della civiltà greca. Seguendo questo concetto, là dove nelle pitture pompeiane si apriva uno sfondo, si affermava che si trattava di una interpolazione romana. In qualche caso, interpolazioni di questo genere sono accettabili, ma la pittura di paesaggio risulta ormai chiaramente essere una conquista ellenistica. Queste fonti, perciò, hanno trasmesso una immagine dell’arte greca fissata su canoni estetici che sono veri soltanto in parte, perché ci danno conoscenza di un periodo limitato e di un punto di vista determinato. Invece, la critica filologica accettò come elemento di giudizio quello che risultava dalle fonti antiche, come esso era già stato accettato da Winckelmann per la coincidenza tra il suo gusto neoclassico e quello delle fonti antiche che sono prevalentemente d’indirizzo classicista. Come reazione a questo errore di impostazione critica si manifestò, nel secondo quarto del secolo XX, la tendenza a trascurare la tradizione delle fonti antiche e a guardare alla pittura pompeiana direttamente, con lo stesso occhio con il quale si considererebbe una pittura a noi contemporanea, e a considerarla unicamente come <<pittura romana>>. Ma già il libro di Pirro Marconi, "La pittura dei Romani", del 1929, che era opera di un giovane archeologo di buona preparazione, conteneva, accanto a felici osservazioni, gravi incomprensioni ed errori. Del tutto inaccettabili, perché fondate sull' ignoranza della consistenza storica della pittura greca e dei suoi problemi. Tra i fondatori della scuola filologica dell’archeologia, va posto in particolare evidenza il Brunn che, pur basando le proprie indagini sulle fonti letterarie e la ricostruzione degli originali attraverso le copie, fu quello che dimostrò di possedere un fine intuito artistico. Egli perciò seppe formulare giudizi più adeguati dei contemporanei e anche di molti studiosi successivi. Oltre alle copie vere e proprie c’era da tenere conto di una varietà infinita di imitazioni con varianti. L’esempio citato della statua onoraria di Augusto trovata a Prima Porta che non è altro una variante travestita del Doriforo di Policleto, mostra come queste varianti venissero eseguite con estrema facilità e libertà. Diventa quindi una vera impresa il classificare tutte le varianti e le derivazioni per ricostruire gli originali dell’arte greca del V e del IV secolo. Non si curò, invece, di usare queste copie e varianti per studiare il gusto di età romana, dell’età cioè alla quale queste copie appartengono; ma tale problema non apparve interessante dato che si ebbe come unico scopo di ricostruire l’arte greca, la sola ce appariva culturalmente feconda ed <<educativa>>. Il Furtwaengler ha riunito le principali indagini e ricerche nella sua opera principale Capolavori della scultura greca, considerata a lungo l’ultima parola sull’arte greca. Ma è pur singolare che questa storia della scultura greca non tratti che di copie di età romana. Il Furtwaengler ha lasciato anche traccia durevole negli studi sulla ceramica greca: con un disegnatore assai abile egli pubblicò una raccolta di grandi tavole con il disegno dei vasi dipinti più belli, accompagnata da studi monografici vaso per vaso. Quest’opera sta a fondamento degli studi sulla ceramica greca, particolarmente di quella attica dei secoli VI e V, la quale, oltre al suo valore intrinseco, è documento basilare per ricostruire lo svolgimento stilistico dell’arte greca dello stesso tempo. Ma quest’opera ha prodotto anche un equivoco, in quanto il Reichhold, per quanto disegnatore abilissimo, rimase sempre inferiore all’originale e soprattutto i suo disegni hanno la freddezza delle copie. Data la maggior facilità di riprodurre un vaso da questi disegni sviluppati sul piano, piuttosto che affrontare le difficili riproduzioni fotografiche della superficie curva e lucida del vaso, si diffuse l’idea della ceramica greca come accademica, fredda, sostanzialmente lontana da quella degli originali. Gli studi 16 esclusivamente rivolti alle copie romane e le copie moderne della pittura vascolare, hanno contribuito a perpetuare troppo a lungo una visione falsata dell’arte greca. Il Winckelmann ed i suoi contemporanei avevano instaurato una relazione precisa e determinata con l’arte greca, che era per loro il culmine della perfezione; perciò avevano con quest’arte un rapporto vivo, anche se questo non può essere più il nostro, basato come era su criteri estetici molto diversi dai nostri. Noi, invece, non abbiamo più una relazione viva con l’arte greca: siamo disposti a riconoscere alcune sue opere come sommi capolavori ma per sentito dire, essa ci appare piuttosto misteriosa. Ma nessuna opera d’arte può sentirsi vicina e può comprendersi effettivamente, se la nostra sensibilità e la nostra cultura non ci pongono in grado di risentire come viva la problematica che accompagnò la creazione di essa. Attraverso la conoscenza delle posizioni critiche via via assunte dagli studiosi e la critica di esse, deve essere possibile creare tra noi e l’arte greca una relazione viva. Già la diffusione delle fotografie di sculture greche originali e il progressivo storicizzarsi degli studi archeologici hanno avviato un nuovo rapporto fra la cultura odierna e l’arte della Grecia Antica. Numerosi scritti di artisti e di critici moderni compresi nei movimenti della cosiddetta prima avanguardia nel primo trentennio di questo secolo hanno effettivamente negato e viturpato l’arte greca. Ma, esaminando questi scritti, vediamo che la polemica contro l’arte greca non fu in realtà contro questa, ma contro l’immagine che di essa avevano diffuso gli archeologici dell’Ottocento, immagine formatasi a contatto non degli originali, ma delle copie romane. Ci si oppone in realtà alla visione fredda, classicistica dell’arte greca. Una delle tenaci conseguenze dell’equivoco winckelmanniano fu quella di considerare l’arte greca come un’arte idealistica, che rifugge dalla realtà. Invece la caratteristica essenziale dell’arte greca è proprio quella di essersi messa sulla via della comprensione della realtà e dell’espressione dell’energia vitale concentrata nella forma della natura. Questa stessa tendenza alle forme essenziali, astratte, si trova nell’arte egiziana, nell’arte della Mesopotamia, nell’arte assira. Invece l’arte greca affronta la realtà e in conseguenza di questa sua posizione realistica, che è unica del mondo antico, scopre alcune norme che saranno poi fondamentali per l’arte europea: scorcio, prospettiva, color locale ed effetto luministico in pittura. Non dobbiamo infatti considerare l’arte greca fondamentale per la civiltà europea solo per l’architettura e la scultura. Anche la pittura greca pose i problemi di fondo della pittura europea. Noi leggiamo per esempio, che tra le varie immagini di Alessandro Magno, dipinte da Apelle unico pittore autorizzato a ritrarlo dal vero e noto per averne saputo mettere in evidenza il colorito roseo ed i capelli biondi, vi era un quadro, nel quale Alessandro appariva come Zeus, col fulmine in mano, e che questo dipinto appariva singolare, perché la mano che reggeva il fulmine <<sembrava uscir fuori dal quadro>> e l’eroe era rappresentato di colorito assai scruto, colo petto inondato di luce. Anche attraverso la grossolana descrizione di Plinio si capisce che in questo quadro l’artista aveva affronta il problema del chiaroscuro ed un problema luministico, per cui aveva dovuto rappresentare il corpo scuro per dar risalto con la luce al fulmine impugnato nella mano. Problema piuttosto molto complesso, che si può intuire attraverso le fonti, senza che tuttavia si possa giungere a giudicare dello stile del grande artista vissuto nella seconda metà del secolo IV. Le fonti letterarie La scuola filologica fece fare progressi decisi, nella parte documentaria, agli studi di archeologia intesa questa come storia dell’arte antica. Ma fece perdere alla nostra cultura il contatto col problema, così vivo per il Winckelmann e i suoi contemporanei, di intendere ciò che l’arte greca significa per noi. La scuola filologica prese come punto di partenza le fonti letterarie, ricercando nel patrimonio monumentale soprattutto la conferma alle notizie e alle valutazioni critiche date dalle fonti letterarie antiche. Anche le grandi campagne di scavo intraprese nell’Ottocento imponevano d’altra parte la necessità di una buona conoscenza e di un continuo controllo delle fonti letterarie. Dobbiamo pertanto rivolgerci a tali fonti ed averne una conoscenza più vicina e diretta, per sapere il valore che possiamo ad esse attribuire e l’uso che possiamo farne. Le fonti sono molteplici, dirette ed indirette. 17 Ø Le fonti dirette sono costituite dagli scrittori che ex-professo con cognizione di causa si nono occupati di cose d’arte; Ø Le fonti indirette, dalle opere letterarie nelle quali è contenuta la menzione di un’opera o le notizie su un artista, o sono espressi giudizi critici. Le fonti per noi più importati, perché le più ampie, sono la "Naturalis Historia" di Plinio e la "Periegesi della Grecia" di Pausania. Quanto alle altre fonti esse sono state raccolte dall’Overback e pubblicate in un volume intitolato "Le fonti letterarie antiche per la storia dell’arte greca e romana". Questa è una raccolta quasi completa dei passi tratti dalla letteratura greca e latina, nei quali si trova un accenno ad un’opera d’arte. Bisogna usarlo tuttavia con cautela, considerandolo piuttostocome indice che come un testo, perché le fonti citate dall’Overback si riducono a dei passi con la solo citazione dell’opera d’arte, mentre spesso nel contesto dell’opera il passo acquista un significato ben più preciso. Occorre quindi sempre risalire dall’Overback alla lettura del testo integrale. Plinio Plinio il Vecchio con la sua Naturalis Historia rimane la nostra fonte più completa e preziosa, nonostante tutti i suoi limiti. In una lettera di presentazione della sua opera all’imperatore Vespasiano, Plinio mette in risalto la novità della sua opera, che raccoglie 20.000 notizie e dati di fatto relativi a tutto il mondo della natura e degni di memoria, prese da una quantità immensa di volumi, alcuni anche poco noti. E’ una posizione che sta tra una mentalità scientifica, in quanto vuol rendere preciso conto delle sue letture, ed un impostazione dilettantistica, in quanto riconosce egli stesso di non essere uno studioso di professione e di raccogliere piuttosto la curiosità. Come procedesse nel suo lavoro ce lo dice suo nipote Plinio il Giovane, egli descrive lo zio come un uomo molto intelligente ed incredibilmente studioso, che leggeva continuamente e faceva notare al suo segretario tutto ciò che leggeva. Si vede così come è nata questa opera, attraverso la lettura di molte opere da cui via via egli prendeva quello che gli pareva interessante; è un’opera nata da un grande schedario di notizie, poi messe insieme. I libri della Naturalis Historia che ci interessano particolarmente sono XXXIV, XXXV, XXXVI, che affrontano questioni artistiche partendo da notizie relative a certi aspetti della natura: dopo aver parlato delle pietre, dei marmi e della loro natura, viene trattata la scultura; dopo i metalli, il bronzo e la metallurgica; dopo le terre colorate, la pittura. Plinio raccolse così ciò che si conosceva nella sua epoca delle arti figurative, ma senza rivederle e coordinarle, come risulta da alcune contraddizioni tra le notizie. Oltre al problema della traduzione in latino di espressioni retoriche del tardo ellenismo, le contraddizioni sono dovute al fatto che Plinio attinse a scritti del tardo ellenismo (seconda metà del II sec. a. C.) di carattere retorico, accomunati da una visione nostalgica e retrospettiva del passato e delle antiche glorie, a seguito della perdita di indipendenza e libertà prima sotto il dominio macedone e poi sotto quello romano. Tale è l’impostazione che Plinio trova nelle sue fonti, tra le quali la principale è Apollodoros ateniese, autore di una cronaca enciclopedica in versi che elencava avvenimenti e personaggi del tempo della guerra troiana e 1040 anni dopo di essa, cioè al 44 a.C. Per quanto riguarda l’arte, viene fatta allora l’esaltazione di Fidia e Prassitele e dopo Lisippo si vede iniziare la decadenza. Tra le altre fonti di Plinio c’è però anche Xenokrates ateniese, scultore egli stesso e, oltre che scrittore di cose d’arte, discepolo di Lisippo, vissuto alla metà del III secolo. Per lui, Lisippo, rappresenta il massimo punto d’arrivo dell’arte greca e dobbiamo tener presente che da Lisippo deriva la spinta iniziale verso lo stile che diciamo ellenistico. C’è quindi uno sfasamento tra le opinioni di Xenokrates e quelle di Apollodoros, ma Plinio le riferisce sullo stesso piano. Perciò bisogna rendersi conto, volta per volta, della fonte da lui usata, per comprendere il valore della notizia riferita. Pausania 20 propri: la pittura illusionistica di Pompei deve essere considerata la continuazione e lo svolgimento in età romana della pittura ellenistica. Nel 1809 furono eseguiti i primi scavi nel Foro Romano, detto fino allora Campo Vaccino perchè luogo di pascolo e campo di fiera. Sono stati rinvenuti elementi importanti per la storia di Roma più che monumenti artistici. Un ulteriore ampliamento dell’orizzonte storico relativo al bacino del Mediterraneo è stato compiuto dopo la seconda guerra mondiale. Nella seconda metà dell'Ottocento si organizzarono le grandi spedizioni di scavo da parte di Inglesi, Francesi e Tedeschi. I primi sono gli scavi di Samotracia, spedizioni a carattere internazionale, tanto che la famosa Nike andò al Louvre. Al tempo stesso furono iniziati gli scavi ad Atene, al Dipylon dove apparvero per la prima volta i vasi in stile geometrico, facendo luce sulle origini dell'arte greca, allora del tutto sconosciute. Ad essi seguirono gli scavi ad Olimpia iniziati da Curtius, tenendo conto dei riferimenti offerti da Pausania. Nello stesso tempo furono iniziati gli scavi ad Efeso da parte degli Inglesi, dopo aver identificato con grande fatica il sito dal famoso tempio di Artemide. Sempre negli anni Settanta fu iniziata anche l’esplorazione di Pergamo, già identificata da studiosi inglesi. L’esplorazione fu promossa, anche questa, dal Curtius. Abbiamo così tre grandi centri di carattere diversissimo: Ø ad Olimpia, dal periodo arcaico al periodo omano; Ø ad Efeso, dal VII secolo all’età tardo antica e bizantina; Ø a Pergamo, dal periodo post-alessandrino fino al periodo romano.Qui si scoprì la scultura ellenistica in una sua fase particolare, definita dal Wickhoff “barocco ellenistico”, e fu messa in luce tutta una città, con i problemi urbanistici dell'epoca. Le scoperte che ebbero maggiore successo, anche al di fuori del campo archeologico, furono senza dubbio quelle di Schliemann. Questi, che da modeste origini era divenuto un ricco trafficante, fin da ragazzo, quando era apprendista in un modestissimo negozio, si era innamorato di Omero, cui credeva ciecamente. Su questa cieca fiducia nel testo di Omero, lo Schliemann, fra lo scetticismo di tutto il mondo accademico, nel 1871 iniziò gli scavi nella Troade, dove non solo scoprì Troia, la cui ubicazione era discussa, ma anche confermò la realtà della distruzione per incendio per le tracce evidenti che di questo trovò nei resti di uno degli strati di insediamento posti in luce. Scavò allora anche a Micene, dove scoprì quello che egli chiamò il tesoro di Atreo e la tomba di Clitennestra, mettendo in luce, con uno splendore di oggetti d’oro di squisita fattura, la civiltà pre-ellenica di cui fino ad allora si era ignorata la presenza. Alle scoperte della civiltà pre-ellenica hanno contribuito anche studiosi italiani con la missione di scavi a Creta. L amissione inglese dell’Evans si concentrò sullo scavo e sul restauro del palazzo di Knossos. Palazzo grandiosissimo ed intricatissimo, che ci riprova come la leggenda del Labirinto, edificato per Minosse, mitico re di Creta, avesse un fondamento nella realtà storica e che fu conosciuto dai Greci già in rovina. Gli scavi italiani invece hanno messo in luce, nella località di Phaistos, nella parte meridionale dell’isola, un palazzo meno sontuoso, ma più chiaramente distinguibile nelle varie fasi di costruzione Un passo importantissimo fu compiuto nel 1953 con l’avvenuta decifrazione del più recente degli alfabeti cretesi, quello detto lineare B da parte dell’architetto inglese Ventris. Con la collaborazione del filologo Chadwick egli confermò che la lingua usata in numerose piccole tabelle di creta, coperte di segni di lineare B, era quella greca. Il che significava che l’ultima fase della civiltà cretese si era svolta, come quella micenea, dopo l’espansione della popolazioni di stirpe ellenica. Altre conferme sono venute da tabelle con disegni di cavalli e di asini e relative iscrizioni da Knossos. Verso la fine dell'Ottocento fu approfondita la conoscenza dell'Acropoli di Atene tornata a mostrare a poco a poco il suo aspetto originale con la demolizione delle costruzioni che l'avevano trasformata in fortezza sin dal Medioevo. Dalla demolizione di queste fortificazioni emerse così tanto materiale da poter ricostruire i 21 Propilei e il tempietto di Athena Nike che sorgeva sul bastione. Al tempo stesso venne posta in luce tutta la documentazione dell'Acropoli arcaica, grazie alla scoperta della cosiddetta “colmata persiana”. Di fronte a queste continue scoperte, la ricostruzione erudita delle grandi personalità artistiche tradizionali passò in secondo piano rispetto alla ricerca delle grandi linee di svolgimento dell'arte greca e l'individuazione delle singole “scuole”. Ricerche teoriche e storicismo agli albori del Novecento Fra l’ottocento ed il Novecento, si trova una figura di studioso che va posta in particolare evidenza: Emanuel Loewy, autriaco, fu il primo a coprire una cattedra di archeologia classica all'Università di Roma, e forse il primo archeologo che cerca di riprendere quello che era stato uno dei motivi della effettiva grandezza del Winckelmann, cioè la ricerca attorno all’essenza stessa dell’arte, cioè attorno alle questioni fondamentali che presiedono allo svolgimento dell’arte in genere e in particolare dell’arte greca. Egli cerca, cioè, di porre lo studio dell’arte antica sopra un fondamento teorico generale. Due sono i suoi studi fondamentali: Ø la persistenza iconografica: mentre l'accentuazione della personalità artistica, capace di produrre da sé un'opera d'arte distaccata dal contesto sociale di appartenenza è una cosa moderna, nell'arte antica l'artista è, ed è considerato dalle fonti, un artigiano, formatosi in un patrimonio di tradizioni tecniche e iconografiche, tipico di ogni bottega. Gli artigiani di talento vi aggiungeranno piccole varianti, espressioni della loro personale genialità, ma proprio per la presenza di una forte tradizione artigiana, la persistenza degli schemi iconografici nell'arte antica è fortissima. Loewy per primo mise in evidenza tale persistenza, mostrando anche le connessioni con l'arte del Medio Oriente: quando si studia una determinata rappresentazione bisogna esaminare da dove proviene lo schema iconografico e cercare i precedenti; solo successivamente si può stabilire la posizione storica dell'opera e valutare il contributo personale dell'artista. Tuttavia egli non tenne conto di un altro aspetto, cioè la distinzione tra schemi iconografici e forma-contenuto artistico (ad es. nell'arte etrusca si ha una permanente tradizione iconografica greca, rivestita da un'espressione formale del tutto differente). Ø il rapporto arte greca-natura: il problema della rappresentazione della realtà e del vero, cioè del modo in cui l'immagine naturale viene trasformata in immagine artistica. Winckelmann aveva formulato il concetto di idealizzazione delle forme reali, cioè della selezione del più bello, del migliore per costruire una forma ideale che stesse al di sopra del contingente della natura, come le idee platoniche alla realtà. Questa formulazione subì una prima revisione alla fine dell'Ottocento in base alle tendenze positivistiche che ebbero eco anche negli studi di archeologia. Anzitutto ci fu il danese Julius Lange, che definì alcune leggi della concezione artistica del periodo arcaico, tra cui fondamentale è quella della frontalità: qualsiasi immagine riprodotta dall'artista subisce una specie di schiacciamento, come un fiore messo a seccare, perde volume; la figura non ha profondità, si muove come tra due lastre di vetro ed è tagliata in due parti uguali e simmetriche da una linea verticale che passa attraverso il culmine della testa e l'ombelico; ad esempio in un viso di profilo, l'occhio non è visto di profilo ma di prospetto. Si tratta di convezioni che secondo Lange dominano qualsiasi arte primitiva e si ritrovano in qualunque civiltà antica (molto evidenti ad es. in arte egiziana). Egli, partecipe del comune equivoco che l'arte fosse la miglior riproduzione del vero di natura, ritenne quindi la frontalità una conseguenza dell'incapacità di avvicinarsi al vero, di qui la necessità di tipizzare la varietà del reale. Alla base vi era ancora il pregiudizio settecentesco di provvisorietà dell'arte arcaica rispetto a quella classica, con in più una connotazione evoluzionistica tipica dell'epoca. Verso un miglior modo di interpretazione fece un passo notevole Loewy; egli si sganciò dalla visione del Lange e comprese che la frontalità arcaica non era dovuta ad incapacità, ma ad un preciso processo di concezione dell'atto artistico: l'artista primitivo non opera affatto imitando un certo oggetto della natura, 22 ma crea seguendo un ricordo, un'immagine mentale, che gli presenta l'oggetto sotto l'aspetto più semplice, più chiaramente leggibile, e questo aspetto è quello per cui l'oggetto si presenta nella sua massima estensione e nella sua forma più caratteristica. Perciò l'artista primitivo non farà mai un piede che sia visto di punta e non di profilo, e l'occhio lo farà sempre come visto di faccia, con forma ellittica, una forma più chiara che quella della veduta di profilo, perchè di profilo se ne vede solo una parte. Lo scorcio sarà già il risultato di una riflessione e di una volontà razionale esercitata sull'immagine spontanea. Tale indagine psicologica del Loewy lo avviò a sganciarsi dalla concezione della incapacità dell'artista, e a capire che la concezione dell'arte arcaica era dovuta al particolare linguaggio dell'artista ed era legata ad un determinato mondo e tempo. Un suo scolaro, Alessandro Della Seta, si occupò del problema del superamento della legge della frontalità nell'arte greca, attribuendolo allo sviluppo della conoscenza anatomica e finendo per porre lo sviluppo generale dell'arte sotto l'etichetta della ricerca anatomica. Si ha, senza dubbio, un arricchimento di dettagli anatomici nel passaggio dall'arcaico al periodo classico, ma l'osservazione anatomica serviva a differenziare i piani nel chiaroscuro; ed è con l'inserire di elementi chiaroscurali, che si rompe la frontalità del mondo arcaico, e si cerca di raggiungere la piena corporeità di una figura che si muova nello spazio non delimitato. In ogni caso con questi tre studiosi, siamo in un ambiente che ha tuttavia superato in parte il più stretto filologismo tedesco, ma compare un orientamento dell'archeologia verso l'interpretazione del fatto artistico. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, inizia una nuova fase degli studi archeologici, il cui processo si accelera dopo la prima guerra mondiale, quando l'interruzione degli scavi e la chiusura dei musei indussero gli studiosi a riflettere sul materiale già esistente e raccolto. Diventano presupposti fondamentali di tutte le ricerche: Ø il prendere in considerazione solo gli originali piuttosto che le copie, per affrontare determinati problemi frontali, più che per compilare la storia di tutta l'arte greca. Ø La storicizzazione di tali materiali raccolti Un'influenza diretta sugli studi di archeologia ebbero in particolare le teorie formulate da quella che fu detta la “Scuola viennese”. Attorno al 1895 a Vienna furono particolarmente in evidenza due studiosi, Wickhoff e Riegl, entrambi storici dell'arte medievale e moderna, che si sono occupati di storia dell'arte antica per chiarire i rapporti con quella dei secoli successivi. Riegl nell'opera “Problemi di stile”, aveva cercato di chiarire le leggi generali che sembrano presiedere alla creazione dei motivi ornamentali, liberando la storia dell'arte dal concetto biologico di decadenza. Si accorse: § dell'insufficienza della concezione positivista che considerava i fatti artistici come dovuti ad un'evoluzione automatica, paragonabile a quella biologica (ad Semper, che fu anche creatore dello stile eclettico con cui furono costruiti la maggior parte dei parlamenti, musei, palazzi di giustizia e stazioni ferroviarie dal 1870 al 1914) § dell'impossibilità di comprendere tanti secoli di arte sotto la definizione di decadenza, in contrapposizione a cui introdusse il concetto di volontà d'arte o teoria del gusto: ogni epoca della storia determina un proprio gusto e lo esprime in determinate manifestazioni artistiche, per cui non è lecito confrontare il gusto di un epoca con quello di un'altra e giudicarlo alla luce di un presunto gusto classico o esemplare. Rifiutando poi anche il condizionamento dello stile al materiale, alla tecnica e alla funzione pratica dell'opera d'arte, aprì la strada all'idealismo estetico. Nonostante ciò, egli rimase legato ad una concezione antistorica che inquadrava la storia dell'arte in una linea evolutiva predeterminata e che gli derivò dalle scienze naturali. Così distinse tutta l'arte dell'antichità in tre periodi: tattile-ravvicinato o miope (arte egizia), tattile a vista normale che situa le forme in una ragionevole distanza ambientale (arte greca classica), e ottico-illusionistico (età romana del tardo impero). 25 dopo il sesto il ciclo rincomincia da c apo) e che riduceva la comprensione storica dell'opera d'arte ad incasellarla nel ciclo ad essa pertinente. Invece storia dell'arte = definire le singole opere nella loro storicità individuale e legarle alla storia della cultura definendo il rapporto di ognuna di esse con il loro determinato ambiente. Riconosciuto il forte legame delle tradizioni artigianali, per ogni opera d'arte antica bisogna cercare: 1) da quali schemi iconografici preesistenti discende e se ne introduce di innovativi; 2) da quali premesse ideologiche, in modo programmatico o meno, ne è determinato il contenuto – per rispondere a questo quesito è necessario allargare la conoscenza alle situazioni culturali in senso lato (pensiero filosofico e religioso, istituti giuridici, condizioni sociali ed economiche...) La definizione delle personalità artistiche dei “Maestri”, che è degenerata sempre più nel corso del secolo, ha ragione d'essere solo se l'opera è di eccezionale qualità e se da essa discendono altre opere, anche minori, oppure se è possibile costituire un gruppo di opere che abbiano caratteristiche sufficienti da essere assegnate alla stessa mano o almeno alla stessa officina. Una ricerca di storia dell'arte si deve articolare in questi gradi: Ø classificazione e inquadramento cronologico dell'opera d'arte, mediante una ricerca filologica, con l'ausilio di testi letterari ed epigrafici e del materiale archeologico di ogni specie, confermata da un riconoscimento delle qualità stilistiche esteriori dell'opera d'arte, degli “elementi morelliani” (Giovanni Morelli sottolineò che ogni artista ha una specie di cifrario, usa nelle sue opere dei particolari secondari sempre uguali che possono aiutare a determinarne la paternità) Ø l'indagine più storica, che sulla base del materiale classificato cerca di giungere alla ricostruzione dello svolgimento della produzione artistica e ad individuarne le forze motrici che determinano quello svolgimento, forze che hanno le loro radici nella società. Infatti secondo Bandinelli, l'arte è sempre espressione della libertà dei gruppi socialmente attivi in un determinato periodo storico. Non parla di gruppi dominanti perché ci sono stati periodi storici che videro la compresenza di più correnti artistiche, indirizzi e gusti diversi, ognuna delle quali non è casuale, ma fa capo ad un gruppo sociale, che agisce entro la compagine della società dell'epoca. Quando l'uno o l'altro di questi gruppi diventa politicamente egemone, vi è invece una ricostituità unita artistica (es. età di Augusto o quella di Costantino). L'importanza dei fattori sociali etc non deve però far dimenticare la distinzione tra storia sociologica dell'antichità e storia dell'arte antica: la prima usa le opere d'arte come documenti per la ricostruzione della storia sociale di un'epoca, la seconda invece è centrata sull'analisi formale dell'opera d'arte e tiene conto solo dei rapporti sociali alla base della nascita dell'opera. C'è ancora chi critica tale concezione della storia dell'arte per motivi differenti: Ø gli idealisti vi vedono lo spettro del marxismo, e in nome dell'autonomia e individualità della creazione artistica, rifiutano ogni contaminazione da parte della sfera economica e politica, ma non capiscono che considerare il condizionamento della produzione della vita materiale sul processo della vita sociale e spirituale non equivale per nulla a ridurre la storia e l'arte a meri fattori economici. Ø I marxisti invece accusano tale storia dell'arte di formalismo, senza vedere che essa tiene in considerazione anche lo svolgimento concreto della storia. Come afferma Argan, l'opera d'arte è stratificata: anzitutto vi è il sedimento di nozioni che l'artista ha in comune con la società di cui fa parte (è come il linguaggio storico e parlato di cui si serve il poeta); poi vi è lo strato “professionale”, legato al gusto, cioè le idee sull'arte e le preferenze artistiche, le conoscenze tecniche, le norme o tradizioni iconografiche etc, solitamente comuni alle artisti della medesima cerchia culturale; infine vi è il contributo personale e innovatore dell'artista, che rimane spesso imprevedibile e non analizzabile – la storia dell'arte si arresta concretamente a questo punto. Infatti l'evento artistico è sempre il prodotto storico di una civiltà, ma al contempo è sempre l'espressione di un bisogno indistinto e istintivo della natura umana. Infatti l'arte a differenza della tecnica e dell'organizzazione umana non conosce progresso ed in ciò risiede l'universalità del suo 26 linguaggio. Se l'archeologia pone l'indagine formale del prodotto artistico al servizio di un accertamento della cronologia e della ricostruzione delle sfere di contatti commerciali (da cui si possono dedurre anche conclusioni di storia economica e politica) perché il suo fine è la ricostruzione della storia attraverso i documenti materiali di una civiltà o di una cultura, il fine specifico della storia dell'arte è chiarire la formazione dell'opera d'arte nell'esperienza in atto e la sua sopravvivenza, cioè i suoi collegamenti con la cultura figurativa che la circonda.
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