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Introduzione all'arte bizantina (IV-XV secolo), Dispense di Storia dell'arte medievale

Riassunto del libro Introduzione all'arte bizantina (IV-XV secolo), a cura di C. Barsanti, M. della Valle, R. Flaminio, A. Guiglia, A. Iacobini, A. Paribeni, S. Pasi, S. Pedone, A. Taddei

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 24/02/2023

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Scarica Introduzione all'arte bizantina (IV-XV secolo) e più Dispense in PDF di Storia dell'arte medievale solo su Docsity! Introduzione all’arte bizantina (IV-XV sec) 1.L'IMPERO BIZANTINO DAL IV AL XV SECOLO: PROFILO STORICO-ARTISTICO Chi non è esperto di arte bizantina quando sente parlare di questo argomento pensa sostanzialmente a tre cose: icone che pervadono il mercato antiquario, i mosaici medievali, e la maniera greca,. Tuttavia lo storico dell'arte bizantina confuta queste affermazioni, poiché nel primo caso fa notare che si tratta di una produzione tarda (XIX-XX sec.) di Stati influenzati dalla cultura bizantina (Russia e Ucraina). Il secondo caso invece è un po' più plausibile per il fatto che il mosaico fu la tecnica artistica favorita dai bizantini, e poi esportata a più riprese anche in Italia: celebri sono i casi della committenza dell'abate Desiderio di Montecassino nell'XI sec. e dei re Normanni in Sicilia nel secolo successivo. La maggior parte dei mosaici qui nel nostro paese appaiono come prodotti della cultura cristiano-cattolica e opera di maestranze occidentali. Ed infine vi è il terzo caso, quello più complesso essendo il frutto di un approccio critico iniziato nel Trecento; per noi le opere della maniera sono copiate/ispirate a modelli bizantini, ma con caratterische più pronunciate, sottolineandone così l'origine occidentale. Rientra nella definizione di arte bizantina tutta la produzione artistica, architettura, pittura, scultura, miniatura, arti suntuarie, dei territori direttamente soggetti politicamente all'imperatore bizantino (basileus); tuttavia in questa categoria rientra anche la produzione artistica di quei territori, anche se politicamente indipendenti, influenzati dalla cultura bizantina: di particolare importanza sono i regni dei Serbi e dei Bulgari, la Russia di Kiev, l'Armenia e la Georgia. Il centro di questa produzione artistica è ovviamente Costantinopoli, città ingrandita da monumenti e strutture architettoniche ideate in particolare dai sovrani del IV e VI sec.: in brevissimo tempo la città divenne centro di creazione e propulsione di ogni manifestazione artistica, e con fortissima capacità di espansione e di esportazione dei propri manufatti. Durante il VI sec, e soprattutto durante il regno di Giustiniano (527- 565) la produzione artistica bizantina, il suo gusto e le sue maestranze iniziano ad espandersi nel Mediterraneo, e l'Italia è forse l'esempio migliore di tale colonizzazione. L'arte bizantina è propagatrice di messaggi sacri, con una base spirituale cristiano- ortodossa che ha un forte peso sulla struttura politico-sociale. Si sono conservate fino ai giorni nostri fortunatamente un numero considerevole di chiese, con le loro decorazioni, i loro arredi liturgici, i vasi sacri, e i codici. Inoltre nei territori islamizzati sono state trasformate molte chiese in moschee. Dell'edilizia civile a noi due giunto poco e niente, solo frammenti di diffucile lettura o frutti della ricerca archeologica. La perdita più grande è stata quella che riguardava l'architettura della Capitale: conosciamo infatti ben poco dei due principali Palazzi Imperiali e dell'Ippodromo, nulla del complesso monumentale dei Santi Apostoli, e anche dei Fori, delle vie porticate, dei monumenti trionfali, dei porti, delle case dei ricchi e quelle dei poveri. Solo l'architettura militare si mantenne, a partire dalla cinta di mura terrestri della capitale. •Periodo Paleobizantino (324-726) Questo periodo inizia con l'età costantiniana [306-363], ossia con Costantino I (306- 336) che sceglie nel 324 di fissare la propria residenza nella cittadina greco-romana di Bisanzio, posizionata su di uno scosceso promontorio del Mar di Marmara all'estremo confine dell'Europa e tutto proteso vero l'Oriente e l'Asia. L'obiettivo era quindi quella di realizzare una città che potesse diventare una vera capitale, una Nuova Roma, scandita da sette colline e dalle relative valli, le cui pendici degradano rapidamente verso il Mar di Marmara a sud e a nord verso quella stretta lingua che si incunea verso l'interno del territorio, anche detta Corno d'Oro. Costantino inizia quindi a costruire la sua nuova città appena al di fuori del nucleo di quella antica e della sua Acropoli, sulla punta del promontorio, con i suoi templi pagani. Dei monumenti edificati dall'imperatore restano poche tracce archeologica, tuttavia ci rimangono fonti letterarie grazie allo scrittore e vescovo Eusebio di Caesarea, stretto collaboratore del sovrano, che scrisse "Vita Costantini". Un testo fondamentale è Notitia Urbis Costantinopolitane (425), l'unico che descrive la città seguendo quella suddivisione amministrativa in 14 regioni che era stata adottata sul modello di Roma. Costantino dunque intendeva realizzare una capitale imperiale, politica ed economica, non una capitale cristiana come si è ritenuto per molto tempo nel passato. In questo periodo fa parte anche l'età teodosiana [379-455], durante la quale Teodosio I (379-395) chiuse i templi pagani e facendo diventare ufficialmente il Cristianesimo la religione dello Stato con l'Editto di Tessalonica. Fondamentale è il Foro di Teodosio, fatto costruire sempre sul corso della Mese, poco distante da quello di Costantino, e anche questo fortemente legato alla tradizione roman. Il foro di forma più o meno quadrata era ispirata dal complesso di Traiano a Roma: dunque vi si accedeva tramite un arco trionfale (forse a tre fornici o forse tetrapilo), le cui grandi colonne rappresentavano tronchi d'albero dai rami segati; la presenza di una mano che stringe in alto il tronco fa intendere che quella è una clava di Ercole, divinità tradizionale protettrice dell'imperatore romano. Inoltre il Foro ospitava una grande colonna coclide, una delle due colonne celebrative delle vittoriose campagne militari dei sovrani, insieme a quella di Arcadio (395-408); quest'ultima era posizionata nel Foro di Arcadio appunto, e di essa ci rimane solo il basamento. Dato che la colonna di Arcadio è stata abbattuta nel 700 abbiamo una quantità maggiore di disegni ed è Con la morte della monaca Teodora, sorella dell'imperatrice Zoe, nel 1056 si chiude definitivamente la dinastia macedone. Ne seguì dunque un trentennio di instabilità politica e sociale, periodo in cui ci fu la presa di Bari (1071) da parte dei Normanni (i quali cacciarono in modo definitivo i Bizantini dall'Italia), e sempre nel 1071 i Turchi Selgiuchidi sconfissero i Bizantini nella battaglia di Manzikert. Dunque nel 1081 salì al trono Alessio I Comneno (1081-1118), personaggio fondamentale, colui che riunì sotto il suo nome le più importanti famiglie dell'aristocrazia dei proprietari terrieri, e che fondò la dinastia Comnena. Tra il 1130-80 diverse botteghe lasciarono Costantinopoli ed andarono a lavorare in Sicilia, e molti artisti si recarono a Venezia, i quali molto probabilmente misero mano nella decorazione musiva di San Marco. Quindi molte testimonianze della cultura artistica bizantina sul suolo italiano sono rimaste, però non si può dire la stessa cosa per le grandi decorazioni realizzate proprio nella capitale, le quali sono del tutto scomparse. Mosaici di età comnena restano però sia nella Santa Sofia sia a Dafnì (Agente). Quindi non ci resta molto, ma questo fu dovuto anche dal fatto che comincia ad essere preferito l'affresco al mosaico, nettamente più costoso: infatti cicli di affreschi di questo periodo sono in gran parte conservati, e testimoniano la forte evoluzione stilistica di questi decenni molto più movimentata (quasi baroccheggiante). Questa fase luminosa e felice purtroppo termina brutalmente con l'uccisione nell'Ippodromo di Andronico I Comneno, da parte della plebe inferocita, e il massacro dell'intera famiglia imperiale. Nel 1204 ci fu un'altra disgrazia per i Bizantini, i quali vennero attaccati dai Crociati: da quel momento a Costantinopoli venne messo un imperatore occidentale, vale a dire il conte Baldovino di Fiandra; pertanto i territori caduti in mano dei Latini vengono divisi tra i vari capi militari, secondo le leggi feudali in vigore in Europa. Si formano anche tre Stati greci: l'Impero di Trebisonda sul Mar Nero, il Despotato d'Epiro nella Grecia sud-occidentale, e l'Impero di Nicea sulla costa orientale del Mar di Marmara. Da questi Stati, e soprattutto da Nicea, partirà il contrattacco che culminerà nel 1261 con la riconquista di Costantinopoli. Un ruolo di massima importanza l'avranno le aree periferiche della capitale, ossia il Regno di Bulgaria e quello della Serbia: questi erano inoltre centri di produzione artistica, in cui l'arte bizantina (soprattutto in Serbia) raggiunge i suoi massimi livelli. •Periodo dell’impero latino (1204-1261) In una situazione storico-politica così tormentata non vi è ovviamente la produzione e lo sviluppo della creatività artistica, in assenza soprattutto di committenti dotati di sufficienti mezzi economici. L'unica testimonianza artistica che abbiamo di questo periodo è quella che tratta il ciclo di affreschi con scene della vita di San Francesco d'Assisi, ciclo monumentale rinvenuto in una cappellina ricavata nelle strutture di una delle più belle chiese bizantine di Costantinopoli, oggi denominata Kalenderhane Camii: probabilmente era dedicata alla Vergine Kyriotissa. •Periodo Tardo-bizantino (1261-1453) Fu Michele VIII Paleologo (1259-1282) a riprendere possesso della capitale, praticamente senza combattere, e ci riuscì poiché approfittò dell'assenza dei difensori latino della città. Quindi Michele entrò dalla Porta d'Oro delle mura teodosiane, come in antico trionfo, e con la moglie Teodora arrivò fino alla Santa Sofia dove vennero incoronati, inaugurando così l'ultima dinastia della storia bizantina e anche la più longeva. Michele VIII cercò di restaurare la città, e rivolse la sua attenzione, oltre che alle difese e alle dimore imperiali, alle chiese e ai complessi monastici (Santi Apostoli, Santa Sofia). Nella chiesa di Santa Sofia ci rimane un'opera di Michele, e si tratta della monumentale Deesis, realizzata a mosaico nella campata centrale della galleria sud, proprio davanti al luogo in cui si era fatto seppellire il Doge Dandolo, primo conquistatore di Costantinopoli. Per solennizzare le sue imprese l'imperatore fa innalzare, nei pressi dei mausolei di Costantino e di Giustiniano, una colonna onoraria, sulla quale mise un gruppo scultoreo raffigurante l'arcangelo Michele, ai cui piedi si prostra l'Imperatore con in mano il modellino della città (viene cosi offerto al celeste protettore). Cicli musivi più o meno parzialmente conservati si trovano nel parekklesion della ex- chiesa della Pammakaristos (odierna moschea Fethiye), nella chiesa della Chora (oggi Kariye Camii Müzesi), nel nartece della moschea Vefa Kilise (forse la chiesa dei Santi Teodori). Infine nella chiesa della Santa Sofia appare chiudersi l'ultima grande stagione del mosaico bizantino: la ridecorazione dell'arcone est purtroppo crollò nel 1346, insieme ad un quarto della cupola, a causa dei postumi di un terremoto. Alla ricostruzione sovraintesero Anna Paleologina, l'usurpatore Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354), e il restaurato Giovanni V. In quest'ultimo periodo non vengono costruiti ex-novo grandi monumenti, ma si preferisce aggiungere a quelli esistenti elementi di vario genere, funzione e dimensione. Iniziatrice di ciò fu l'imperatrice Teodora, moglie di Michele VIII Paleologo, la quale nel 1282 annette alla preesistente chiesa di Costantino Lips (oggi moschea Fenari Isa) un'altra chiesa, al fine di farne un pantheon dinastico. I committenti sono sempre meno gli imperatori, e sempre più i loro famigliari, o per meglio dire i più potenti e ricchi funzionari di Palazzo. Mentre Costantinopoli decade, altri centri dell'Impero si affermano per quantità e importanza di realizzazioni architettonici e decorative, come Tessalonica e Mistrà. Dunque questo periodo terminò con Costantino XI Paleologo, ultimo imperatore, che morì il 29/05/1453 per mano dei Turchi Ottomani. 2.IL FORO E LA COLONNA DI COSTANTINO Quando Costantino I arrivò a Bisanzio, città situata sulle rive del Bosforo, tra il Mar Nero e il Mar di Marmara, la nominò appunto Costantinopoli, città che rappresentò per secoli il ponte tra l’Europa e l’Asia. Dunque ingrandì la nuova capitale e fece costruire il grande il Forom Costantini: questo complesso nel corso degli anni fu devastato da incendi e terremoti, e l’unica cosa che rimase fu la monumentale colonna di porfido. Dalla descrizione delle fonti bizantine si capisce che la vasta platea del Foro, pavimentata da lastre di marmo, era delimitata da portici semicircolari colonnati a due piani, raccordati ad est e ad ovest da monumentali archi: quello orientale si ergeva di fronte all’antico porta di Tracia, mentre quello occidentale si apriva sulla Mese (la grande strada porticata che attraversava l’intera città). Per di più l’arredo statuario del Foro è andato completamente disperso; l’unica fonte di estrema importanza che ci è rimasta (a parte fonti scritte) è l’Album Freshfield, il più vasto documento grafico che abbiamo, in cui sono presenti disegni realizzati da Lambert de Vos, e il quale è conservato nella biblioteca del Trinity College di Cambridge. Dunque la colonna bruciata è l’unico elemento rimasto del Foro, sulla quale fu posta come effigie una colossale statua di Helios in bronzo dorato: questa Statuta rappresentava Costantino il quale aveva il capo conto da un diadema raggirati, e reggeva nella sinistra il globo mentre con la destra impugnava la lancia. Poiché fu danneggiata svariate volte la statua colossale di Costantino-Helios fu poi sostituita da Manuale I Comneno (1143-80) da una croce. Considerata il simbolo della fondazione dell’esistenza stessa di Constantinopoli, sotto il monumento erano state tra l’altro deposte venerate reliquie cristiane e pagane. L’eccezionalità della colonna porfiretica di Costantino risiede anche nella singolare decorazione del fusto, che è scandito orizzontalmente da serti d’alloro gemmati: questi oltre a mascherare funzionalmente la struttura composita, formata da 7 tamburi di porfido, ne sottolineano anche l’intrinseca semantica trionfale. L’imponente statua di bronzo di Costantino venne recuperata nelle acque del porto di Barletta nel 1308: in origine raggiungeva i 5 m di altezza. Il viso dell’imperatore reca i segni del tempo, ha tratti marcati e lo sguardo è intenso. Il modello costantiniano sarà poi replicato nella colonna di Giustiniano, presso la Santa Sofia, nell’ambito dell’Augustaion. 3.IL PORFIDO, MARMO DEGLI IMPERATORI In età imperiale l’uso del porfido, ossia il prezioso marmo di color rosso porpora, estratto dalle cave del Mons Igneus nel deserto orientale egiziano, era limitato alle divinità e all’imperatore, in particolare ai suoi ritratti, alle architetture e agli XVIII secolo; oggi resta solo la parte inferiore del supporto formato dalle spire attorte di tre serpenti, ed anche un frammento di mandibola di una delle teste dei serpenti. Già fatiscente nel XIII secolo, l’Ippodromo, dopo aver ancora ospitato i tornei cavallereschi dei Latini, cadde progressivamente in rovina, divenendo una vera e propria cava di materiali per la costruzione delle fondazioni ottomane. I pochi resti delle gradinate e dei sedili marmorei sono stati riportati alla luce durante lavori di ordinaria manutenzione urbana. 5.L’OBELISCO DI TEODOSIO I Nel 390 fu eretto l’obelisco di Teodosio I, sulla spina dell’Ippodromo. Ad oggi manca quasi un terzo dell’altezza originaria, che doveva raggiungere i 28 metri: molto probabilmente quando fu trasportato dall’Egitto una parte si fratturò, e infatti possiamo notare come i geroglifici siano stati troncati nella parte inferiore. Precisamente l’obelisco proviene da Assuan, realizzato all’epoca del Faraone Thutmosis III (1490-1436 a.C) Dunque l’obelisco si erge sopra un duplice basamento di marmo proconnesio, ma non poggia direttamente su di esso, poiché poggia su 4 cubi di bronzo messi sotto ogni angolo (così il peso è distribuito). Sul basamento inferiore ci sono due grandi tabulae ansatae, che contengono iscrizioni (latino sul lato sud-est, greco sul lato nord-ovest) le quali celebrano la vittoria di Teodosio I sugli usurpatori Massimo e Vittorio; celebra anche la sua discendenza, ossia Arcadio. Sulle epigrafi viene fatto anche il nome di Proclo: egli era prefetto di Costantinopoli dal 388, ma cadde in disgrazia dopo qualche anno, e nel 393 venne giustiziato; tuttavia nel 396 venne riabilitato dall’imperatore Arcadio. Quindi attraverso la damnazio memoriae il suo nome era stato cancellato, e lo si vede perché c’è una abrasione: questa è una traccia della vicenda, di quando era stato giustiziato. Comunque a nord-est del basamento inferiore è rappresentata la complicata erezione dell’obelisco, mentre a sud-ovest ci sono le corse dei carri nell’Ippodromo. Dunque la prima scena è divisa in due parti: -erezione dell’obelisco -messo al centro dell’Ippodromo, intorno al quale si sta svolgendo la corsa delle quadrighe Sul basamento superiore invece ci sono scene compositive che rappresentano Teodosio I, Valentiniano II, Arcadio e Onorio. Sul lato nord-ovest la scena mostra, all’interno di una loggia (khatisma) con due sottili colonne sormontate da un arco, un gruppo di quattro figure maschili assise, presentate di prospetto: indossano tutti la tunica mancata, e una leggera clamide fissata sulla spalla con una fibula; tutti loro hanno nella mano sinistra un rotolo. Però solo tre di loro hanno il capo caratterizzato dalla stessa acconciatura a caschetto, fasciato da un diadema, il che li qualifica come augusti; il 4º è invece un caesaer. Sempre qui ma nel registro inferiore sono rappresentati delle tribù barbariche occidentali (con vesti di pelli) e orientali (con berretto frigio e tuniche persiane), che recano omaggio agli imperatori. Quindi sul lato sud-ovest troviamo una composizione analoga, con la presentazione del gruppo imperiale all’interno della loggia, ai lati della quale si dispongono le guardie. Proprio sotto alla loggia vi sono due figure (una togata e una clamidata), messe ai lati di una gradinata sopra una sorta di volta. Poi abbiamo il lato sud-est, dove vi è la composizione più affollata, comprendente ben 82 figure: la scena dunque mostra una loggia architravata, la stama, leggermente spostata a sinistra, entro cui si staglia la figura di un imperatore clamidato che porge con la mano destra una corona. Affianco a lui ci sono due fanciulli (togato a destra e clamidato a sinistra); mentre in secondo piano vi sono tre guardie e un personaggio caratterizzato da una grande testa calva. Ai lati della loggia si dispongono tre figure togate per parte, e in secondo piano vi sono sei guardie per parte. Infine sul lato nord-est ritroviamo la loggia del khatisma, ma qui ospita un solo imperatore clamidato, fiancheggiato da due dignitari clamidati, da un togato e da una guardia. Inoltre ai lati della loggia si dispongono in prima fila tre dignitari togati per parte, mentre nel secondo piano vi sono quattro guardie. Accanto al capitello destro della loggia troviamo un piccolo labaro con il Chi Rho, ovvero l’unico simbolo cristiano presente sul monumento. Pertanto tutte queste composizioni sono rigorose, con figure distribuite secondo un’euritmica simmetria; qui l’alto e il basso non sono in funzione spaziale e prospettica, ma sono in rapporto ad un’ascendenza e ad una scala di valori che determinano una convergenza verso le figure imperiali, le quali sono presentate in posizione totalmente frontale. Comunque ancora oggi, nonostante la perdita dell’originale policromia e l’usura degli elementi che hanno corroso la superficie del marmo, questi rilievi comunicano una profonda emozione, poiché (come il Missorium di Madrid) esprimono una semantica profondamente sacra, e intimamente connessa al significato insito nell’icona imperiale. 6.IL MISSORIUM DI TEODOSIO I Il Missorium è praticamente un grande piatto d’argento (74 cm di diametro e pesa 15,35 kg), che ad oggi è conservato nella Real Academia de la Historia di Madrid. Il piatto era stato tagliato diagonalmente a metà con una lama oppure da chi l’aveva nascosto sotto terra. Quindi il piatto venne realizzato nel 388, in occasione della celebrazione a Tessalonica del 10º anni di regni dell’imperatore Teodosio I: lo sappiamo perché questa informazione la ricaviamo dall’iscrizione incisa lungo il bordo. Sul Missorium è rappresentata una suggestiva teofania imperiale, che da un punto di vista iconografico e stilistico presenta molti punti di contatto con i rilievi della base dell’obelisco. Teodosio è raffigurato al centro, seduto in trono davanti ad un elegante fastigio architettonico, scandito da 4 colonne corinzie, il cui timpano triangolare include un archivolto. Ai lati ci sono delle figure più piccole, ossia Valentiniano II a sx e Arcadio a dx; vicino a loro due guardie. Nel registro inferiore (esergo) vi è rappresentata la raffigurazione delle terra: sdraiata, con vicino degli amorini che hanno delle ceste di frutta in mano. La terra è messa giù per far capire l’importanza dell’imperatore Teodosio. Egli seduto in trono indossa vesti preziose: una tunica bordata di ricami e la clamide, che ricade modulata, fissata sulla spalla destra da una preziosa fibula con tre pendenti di perle. Il suo capo è cinto da un diadema con doppio giro di perle, il quale è interrotto sulla fronte da una gemma incorniciata di perle. Il suo volto è leggermente allungato, caratterizzato dai grandi occhi con gli angoli esterni rivolti verso il basso e dal naso lungo e sottile. Con la mano destra Teodosio consegna i codicilli ad un personaggio, il quale li riceve coprendo le mani con un lembo della propria clamide. I due co-imperatori, ugualmente nimbati, con diadema perlato e clamide ricamata, sorreggono entrambi con la mano sinistra il globo; con la destra invece uno stringe lo scettro e l’altro fa il gesto dell’adlocutio. Anche i loro troni mostrano raffinate ornamentazioni eseguite a cesello. Le giovani guardie imperiali sono caratterizzate da lunghe chiome acconciate a caschetto, hanno un grande scudo ovale e una lancia; loro indossano una corta tunica, brache e stivaletti morbidi, e intorno al collo hanno un pesante collare. La mitica figura della Tellus è invece rappresentata in una posa quasi teatrale sdraiata tra spighe di grano. -quella più sobria e stereometrica, con semplici croci, foglie di vite o monogrammi, come mostrano i capitelli dell’Ospizio di Samson, tra la Santa Irene e la Santa Sofia. L’eleganza e la raffinatezza tecnico-formale che caratterizzano la produzione scultorea di IV-VI secolo è considerevole pure nei sarcofagi e negli arredi liturgici: gli amboni, i plutei, le transenne e altri elementi delle recinzioni presbiteriali, i quali a volte venivano impreziositi da paste vitree o intarsi marmorei policromi. 9.IL PAVIMENTO DEL GRANDE PALAZZO IMPERIALE I grandi incendi che nel 1912-13 sconvolsero il quartiere di Sultanahmet ad Istanbul, garantivano l’occasione per effettuare dei saggi di scavo nell’area del Palazzo Imperiale. Il primo nucleo di questo vastissimo complesso occupava l’area ad est dell’Ippodromo, a sud-est della S. Sofia e della contigua piazza dell’Augustaion; successivamente si estese sugli ampi terrazzamenti naturali che digradavano a sud verso il porto del Boukoleon, affacciato sul Mar di Marmara, e a est verso la riva del Bosforo. Su questi terrazzamenti vi erano degli ambienti residenziali (appartamenti imperiali, per gli ospiti, per la corte, per la servitù), edifici di rappresentanza (sale del trono, sale di udienza, triclini, aule di consiglio, etc.), strutture di servizio (bagni, cucine, scuderie, posti di guardia, armerie, caserme, arsenali, magazzini, etc.), edifici di culto (chiese, cappelle, oratori, monasteri), biblioteche, ambienti per la musica, un piccolo ippodromo e uno stadio per il polo: tutti questi ambienti erano collegati tra loro da corridoi, cortili, terrazze, portici, camminamenti e rampe, oppure era disseminati nel verde di curatissimi giardini addobbati da fontane e padiglioni. Purtroppo quasi nulla resta oggi di questo grandioso e articolato complesso (noto soprattutto dalle fonti), i cui resti furono presto inglobati dalle costruzioni della Istanbul ottomana, e dopo gli incendi furono rapidamente obliterati dall’estensione della città moderna. Grande sorpresa e interesse suscitò quindi la scoperta alla fine degli anni ’30 del 900 di un magnifico mosaico pavimentale, appartenente a un peristilio, vale a dire un portico colonnato che cingeva su quattro lati un vasto cortile rettangolare (situato a sud-est della Moschea di Sultanahmet, cioè la Moschea Blu): il peristilio mosaicato faceva parte del Magno Palazzo degli imperatori bizantini. Poiché i risultati degli scavi non fornirono elementi certi per accertare la cronologia del pavimento, vi sono differenti ipotesi di datazione che vanno tra il IV e il IX secolo; però con un’analisi più stilistica la datazione più plausibile si pone intorno ai primi decenni del VI secolo. Dunque il mosaico costituisce un esemplare veramente unico, sia per la particolare struttura compositiva, sia per l’elevata qualità artistica e tecnica, sia per la vastissima estensione della superficie originariamente decorata (oltre 1872 m²), di cui purtroppo si conservano solo alcuni brani. Le scene rappresentate hanno le seguenti tematiche: la vita quotidiana (con particolare riferimento al mondo agricolo-pastorale), il gioco, la caccia e i combattimenti tra animali, gli agoni circensi, la mitologia. Per quanto riguarda la tematica mitologica vi è la presenza di creature fantastiche (come la Chimera), di satiri e di alcune scene riconducibili forse a un corteo bacchico, all’infanzia di Dioniso, o all’episodio di Sansone che strozza il leone. Mancano totalmente scene ambientate in un paesaggio urbano, mentre gli edifici o gli elementi architettonici intercalavano le scene o facevano da sfondo (funzione decorativa). Particolare è la struttura compositiva, secondo cui tali scene si dispongono sparse, come se galleggiassero sul fondo omogeneo di tessere bianche: hanno alcun apparente ordine tematico e sono prive di un’organizzazione in registri. Solo alcuni elementi naturalistici, soprattutto gli alberi, fungevano da raccordo tra le sequenze di episodi sovrapposti. Delicati passaggi di tono e sapienti modulazioni del colore conferiscono plasticità alle figure, le quali sono posizionate facilmente nello spazio. Le tessere di sfondo sono distribuite con un andamento a ventaglio, anche detto a pelte; inoltre a delimitare il contorno del soggetto rappresentato vi era sempre una doppia fila di tessere. Vastissima e molto ricca è dunque la gamma coloristica, grazie all’impiego di tessere vitree di differenti colori e sfumature accanto alle tessere lapidee. Di rara bellezza è il tralcio del bordo, dove lo sfondo è organizzato in filari di tessere rettilinei: qui tra i girali di acanto troviamo sia raffigurazioni di frutta e animali, sia volti barbati (raffigurazioni di ‘Oceano’ o ‘maschere foliate’), i cui baffi sono sempre degli elementi vegetali. Nonostante non sia mai stato individuato un confronto per il mosaico del Grande Palazzo, sono stati individuati dei parallelismi con alcuni mosaici di produzione siriaca, datati tra la seconda metà del V e l’inizio del VI secolo: sono simili per la struttura compositiva a scene disseminate su un fondo omogeneo, per l’affinità di alcuni temi trattati, e per la cura nella resa dei soggetti.Tra questi le maggiori affinità si notano con i mosaici del Triclinio della Grande Caccia di Apamea, della c.d. Worcester Hunt, e della Megalopsychia. Il pavimento del Grande Palazzo ripropone dunque in chiave decisamente originale elementi già presenti nella produzione musiva del Mediterraneo ellenistico e tardoantico, connotandosi però come un prodotto peculiare della capitale bizantina che non trova un diretto riscontro in nessuno dei modelli citati. Gli strati preparatori sottostanti il mosaico hanno rilevato la presenza di frammenti di anfore in terracotta al VI sec. Il mosaico è dunque per forza di poco posteriore {RIVEDI QUEST’ULTIMA FRASE, LEZ 11} 10.L’AVORIO IN ETÀ PROTOBIZANTINA •I dittici consolari e gli avori imperiali L’avorio, materiale organico, si ricavava dalla dentina delle zanne degli elefanti. Ad oggi è un materiale vietato, ma in età protobizantina era un materiale di lusso: con il suo colore bianchissimo, e la pasta raffinata e sottile divenne un oggetto raro, e soprattutto molto difficile da procurare. Dai bizantini venne utilizzato in particolare nella realizzazione dei dittici consolari, ossia una categoria di manufatti riservati solo a coloro che rivestivano la carica di console: opere celebrative fatte realizzare dal console neoeletto come dono per coloro che ne avevano sostenuto la candidatura. Dato che la carica era annuale, i dittici erano databili ad annum, e sulle valve esterne erano trascritti nome e titolatura del committente. Comunque questo tipo di dittici smettono di essere prodotti nel 541, quando la carica di console viene assorbita da quella imperiale. In questo periodo inoltre venivano eletti consoli sia a Roma che a Costantinopoli, e pertanto i dittici che ne celebrano la nomina sono prodotti da ateliers sia occidentali che orientali. Dunque ci è rimasto un discreto numero di dittici con raffigurazioni; uno dei più importanti è quello rappresentante Aerobindo (506), ovvero il marito di Anicia Giuliana. Qui il neoeletto console ovviamente non si sostuisce all’imperatore, tuttavia è raffigurato come se lo fosse, ed inoltre presenta attorno a sé elementi che rimandano alla figura dell’imperatore. Quindi nella mano destra ha una mappa, che lasciata cadere dava inizio ai giochi; mentre nella sinistra tiene uno scettro terminante con un’aquila e una statuetta dell’imperatore corrente (Anastasio, 491-518). Comunque gli avori a lui collegati vanno da esemplari figurativamente ricchi ed elaborati, destinati a senatori e uomini di alto rango, ad altri più essenziali e sobri nella decorazione (riservati a personalità di secondo piano). Ritornando al dittico citato precedentemente nella sua parte inferiore vi sono rappresentati dei giochi, consistenti in combattimenti tra gladiatori e animali feroci (leoni ed orsi), e sugli spalti del circo sono accalcati gli spettatori. L’avorio Barberini, ora al Louvre, e che si chiama così perché un tempo si trovava a palazzo Barberini, è anche detto “avorio dalle 5 parti”. Tali avori avevano una composizione articolata in cinque pannelli figurati, tutti di forma rettangolare ma distinti per dimensioni e per criteri di collocazione: alla base e alla sommità si trovano pannelli allungati e posti orizzontalmente, sui lati altrettanti pannelli sono posti però verticalmente; lo spazio centrale invece è riservato al pannello principale, dalle forme più ampie, che costituisce il fulcro dell’intera composizione. Dunque queste sono le placche: -sopra=Cristo Emmanuelle (giovane), dentro ad un clipeo liscio, su cui sono incisi i simboli del Sole e della Luna; il medaglione è quindi soretto da due angeli. alcuni miracoli, il cui ordine di lettura è quello bustrofedico, cioè a partire dall’alto verso destra: il Battesimo, l’Entrata in Gerusalemme, la Refezione delle turbe, la Moltiplicazione dei pani e dei pesci, il miracolo delle Nozze di Cana, la Guarigione del cieco nato, la Samaritana al pozzo. Relativamente alle differenze di stile riscontrabili nelle varie parti dell’opera, spesso attribuite a diversità di scuole, è possibile pensare invece a diversità di mani e ad un impiego di diversi modes, a seconda dei soggetti trattati; tuttavia l’unitarietà progettuale e delle caratteristiche complessive è innegabile. Di contro il Deichmann ritiene che alla cattedra abbiano lavorato artisti diversi, anche per livelli stilistici, ma attivi in un’unica bottega. 11.I TESORI DI ARGENTERIA DEL MEDITERRANEO ORIENTALE •La suppellettile ecclesiastica Nei luoghi sacri di Terrasanta e nelle principali città dell’impero il visitatore era colpito dalla ricchezza della suppellettile liturgica, realizzata in materiali preziosi da abili artigiani, e dovuta alla magnanimità o alla devozione dell’imperatore, oppure dei pontefici (nel caso delle chiese di Roma). I ricchi corredi di argenteria, quelli giunti fino a noi, furono probabilmente sepolti o occultati in occasione di guerre, invasioni o saccheggi, scampando cosi a distruzioni e fusioni. Questi preziosi manufatti spesso conservano: -iscrizioni con la denominazione -il sito dell’edificio destinatario -il nome del santo a cui era richiesto il voto -il nome dei donatori=appartenevano alle famiglie più benestanti del villaggio, dove si trovava la chiesa, oppure erano titolari di alte cariche dell’amministrazione laica e della gerarchia ecclesiastica. Grazie a tali informazioni è stato possibile individuare in alcuni casi il luogo di provenienza di questi tesori; ciò avvenne per uno dei più ricchi corredi ad oggi sopravvissuti, il quale con grande probabilità è stato trovato nel 1908 vicino a Stuma (un paesino della Siria del Nord): purtroppo l’oggetto venne subito smembrato, e poi giunse con differenti denominazioni nelle collezioni di quattro grandi musei: -tesoro di Hama=Walters Art Gallery di Baltimora; -tesoro di Stuma=Museo Archeologico di Istanbul; -tesoro di Riha=Dumbarton Oaks Collection di Washington; -tesoro di Antiochia=Metropolitan Museum of Art di New York. Consisteva di più di 55 pezzi, tutti prodotti tra la fine del V e la metà del VII secolo e appartenenti alla chiesa di San Sergio nel villaggio di Kaper Koraon, l’odierna Kurin nella Siria del Nord. Inoltre al corredo di questa chiesa appartenevano due flabelli (ventagli liturgici), ora custoditi a Istanbul e a Washington: sono dunque campiti da figure di tetramorfi (come creature apocalittiche con sei ali e volto di angelo, di leone, di aquila e di vitello) entro un bordo di piume di pavone. In origine questi particolari utensili svolgevano una specifica funzione, ossia tenere lontani gli insetti dalle specie consacrate, ma col passare del tempo assunsero un significato più simbolico: accentuavano così la solennità della celebrazione. Alcune delle suppellettili includono anche servizi di argenteria per uso domestico, come cucchiaini con iscrizioni bencauguranti o di carattere religioso, oppure piatti decorati da busti di santi o croci: qui possiamo citare il ‘primo tesoro di Lambousa’ (Cipro), oggi al British Muscum, con marchi dell’età dell’imperatore Costante II (641-651). L’ornamentazione di questi argenti è realizzata ad incisione, a stampo (come nei due flabelli) o a sbalzo; molti oggetti presentano tracce di doratura (nelle parti decorate), mentre le iscrizioni sono spesso incise e solo nei pezzi più raffinati sono eseguite a niello: è una tecnica che colma il solco inciso con un miscuglio a base di solfati di argento e di rame che generava un contrasto di colore col fondo. A volte però sono realizzate con la tecnica della puntinatura. Una complessa decorazione a sbalzo con la Comunione degli Apostoli contraddistingue le due patene ‘di Riha’ e ‘di Stuma’: tutte e due sono in Siria, e sono datate intorno al terzo quarto del VI secolo. Le due rappresentazioni, con Cristo duplicato ai lati dell’altare che dispensa le specie eucaristiche ai Dodici Apostoli divisi in due gruppi, presentano varianti nell’ambientazione e negli elementi decorativi non funzionali alla scena. Inoltre le scene raffigurate sui due manufatti costituiscono gli esempi più antichi di questa iconografia, la quale si riferisce al dogma del sacramento eucaristico: questa tematica conobbe una vasta diffusione nel mondo bizantino, soprattutto a partire dall’XI secolo, quando compare nella decorazione monumentale delle chiese in Grecia, in Russia e nei Balcani. La forte espressività che caratterizza i gesti e le espressioni dei personaggi, conferma l’attribuzione delle due patene all’ambito siriaco, in cui anche nelle più elevate manifestazioni dell’arte aulica emerge una vena espressionistica (o popolaresca), tipica del gusto artistico locale. Molto importante e raffinato è il calice di Antiochia: è un oggetto formato da due coppe, una inserita nell’altra. Tra il bordo superiore, formato da una successione di rosette, e la base, anch’essa decorata, si espande un tralcio di vite avviluppato in fitte volute: queste racchiudono un giovane Cristo in trono, e anche dieci figure sedute di tre quarti o di profilo (apostoli o filosofi). •Le argenterie profane In questo periodo vi è una grandissima attrazione verso il vasellame e la suppellettile in metallo prezioso che, affermatasi già nel mondo ellenistico, fu poi ripresa e sviluppata in età romana, e produsse ancora straordinari capolavori tra III e IV secolo. I numerosi esemplari di vasellame di lusso e utensili documentano per quel periodo (VI-VII sec.) una fiorente produzione, la quale doveva soddisfare le esigenze di una committenza molto agiata. Questi fastosi servizi erano per lo più lavorati a sbalzo, e i principali temi decorativi andavano dal repertorio mitologico a quello bucolico (ereditato dall’arte ellenistica). Il piatto con pastore del museo dell’Ermitage mostra forti affinità con il mosaico del Grande Palazzo Imperiale di Costantinopoli, sia per la tematica bucolica, sia per l’atmosfera di pacata compostezza che pervade la raffigurazione. Qui il personaggio rappresentato di profilo (seduto su una roccia), gli animali e gli elementi vegetali, sono dislocati secondo una visione prospettica per registri sovrapposti, dove tuttavia è evidente la mancanza di uno sfondo concreto. Ma nonostante questo effetto di sospensione irreale, la resa naturalistica e la solidità delle figure conferiscono credibilità alla composizione. Molto comune sulle suppellettili di lusso tardoantiche era la tematica marina, la quale venne ripresa dal mondo figurativo ellenistico-alessandrino; questa decora una raffinata troulla (patera con manico) in argento dorato trovata a Cap Chenoua in Algeria, e ora conservata al Louvre. Sul manico vi è l’immagine di Poseidone, è inoltre sotto c’è una valva di conchiglia tra due delfini; la scena che si svolge sulla vasca con tre i pescatori è molto movimentata, e lo sfondo è un paesaggio marino, un soggetto molto comune nei mosaici. Il genere iconografico maggiormente rappresentato sulle argenterie profane antiche e tardoantiche è però quello mitologico, soggetto che ritroviamo sul noto missorium con Ercole e il leone nemeo (oggi al Cabinet des Médailles di Parigi), simile nella decorazione del bordo al piatto con pastore: l’eroe stringe tra le braccia la testa del leone. Sul missorium le figure sono state delineate da un solco di contorno chiaroscurato; la criniera e il manto del leone, come la capigliatura del protagonista, sono realizzati con cura minuziosa del particolare. La clava, l’arco e la faretra danno concretezza al piano dove si svolge la lotta, mentre l’albero sullo sfondo segue, in modo piuttosto contorto, il contorno circolare del manufatto. Quest’ultimo particolare, la struttura innaturale del corpo di Ercole e le pose strane dei personaggi, fanno datare questo oggetto in epoca tardoantica, e precisamente al VI secolo. Un altro splendido piatto è quello con Menade e Sileno danzanti (San Pietroburgo, Ermitage), caratterizzato dall’estrema scioltezza dei movimenti delle figure; qui, i sei personaggi, affrontati a coppie (Ares e Afrodite, Apollo e Artemide, Eracle ed Atena), reimpiego, a indicare che si rispettava la tradizione del reimpiego statuario. Non hanno tolto il nome del precedente destinatario (Teodosio II): recupero intenzionale di un’autorità imperiale precedente a lui. Infine vi è Santa Sofia, la cattedrale di Costantinopoli e chiesa imperiale per eccellenza. L’impianto architettonico attualmente esistente è la terza versione, quella di età giustinianea appunto (532-537). È un edificio di importanza enorme, al quale dopo la conquista ottomana vennero aggiunti i minareti, tegole, terminazione della cupola, e contrafforti laterali. Il cantiere venne dunque inaugurato per ordine di Giustiniano nel 532, sotto la supervisione del prefetto Foca. I due architetti che si occuparono della struttura sono Antemio di Tralle e Isidoro da Mileto, nominati da Procopio. Precisamente erano due mechanikoi, ossia raffinati architetti progettisti, esperti di matematica. Entrambi provenivano dalla penisola anatolica. Comunque Santa Sofia venne inaugurata il 27/12/537, ed è stata quindi costruita in pochissimo tempo, in soli 5 anni. Riguardo la costruzione molti autori contemporanei hanno lasciato per nostra fortuna testimonianza diretta, come Procopio di Cesarea e Paolo Silenziario (poeta del VI sec). I laterizi impiegati recano un bollo speciale, con inciso “megales ekklesias”, che vuol dire ”per la grande chiesa”. La pianta conserva apparentemente l’impianto basilicale a tre navate, ma lo spazio centrale (naos) risulta enormemente dilatato rispetto agli spazi laterali. Dunque l’edificio si imposta attorno a un grande quadrilatero centrale costruito su quattro giganteschi pilastri doppi, i quali sostengono direttamente la cupola: quindi il sistema doppio viene nascosto dalle navate. I quattro pilastri sono collegati tra loro da 4 grandi arconi a tutto sesto; tra i pilastri corrono diaframmi di colonne che separano lo spazio centrale da quelli laterali. Questo organismo a doppio involucro è presente anche nella chiesa dei Santi Sergio e Bacco. La chiesa della Santa Sofia ha un andamento longitudinale, e questo vuol dire che non ha equilibrio tra asse est-ovest e nord-sud. Quindi la cupola, a base circolare, è impostata su una struttura a baldacchino su base quadrata. Il passaggio dalla base quadrangolare dell’impianto a quella circolare della cupola è consentito da 4 pennacchi triangolari. Il peso della cupola (totalmente in muratura) è riversato su tutti e 4 i lati grazie ad un duplice sistema di contrappesi: -nord e sud=pilastri doppi che restano entro il profilo del muro esterno -est e ovest=sistema digradante di semicupole che aiutano la cupola a sostenersi. Il progetto era basato principalmente su raffinati calcoli geometrici. Al momento della costruzione però ci furono dei problemi: progetto troppo ardito. L’impianto centrale si stava deformando verso l’esterno durante la costruzione: le correzioni avvennero in corso d’opera. Purtroppo il terremoto del 14/12/557 fece crollare la cupola: successivamente si fece una cupola leggermente ellittica invece che semicircolare. Paolo Silenziario ci racconta questo evento dagli occhi di chi c’era quando la chiesa venne costruita: poiché i Bizantini erano molto superstiziosi, la caduta della cupola poteva significare solo un brutto presagio. Comunque per ripararla venne chiamato Isidoro da Mileto il Giovane (nipote di Isidoro da Mileto), anche se il suo progetto fallì. Per far sì che la cupola non crei più problemi chiusero le finestre termali, dato che rendevano più fragile la struttura; in aggiunta, allo scopo di alleggerire la spinta laterale della cupola, il suo apice venne innalzato di circa 7 metri, e le pareti laterali vennero rinforzate. Dopo gli svariati crolli causati da frequenti terremoti, parziali ricostruzioni sono state condotte anche dall’architetto armeno Tiridate durante la fine del 900, e dall’italiano Giovanni Peralta nel 1346-54. La chiesa era piena di arti mobili/portatili: manoscritti, stoffe, argenteria, vasi, ceramiche, ecc; le arti che ad oggi definiamo “minori”, per il Medioevo erano arti nettamente “maggiori” alle altre. L’altare era ricoperto da una tovaglia con sopra ricamati i ritratti di Giustiniano e Teodora. Inoltre possiamo dire che il programma musivo della Santa Sofia giustinianea era aniconico. Le uniche immagini erano le croci, profilate e molto semplici, di varie tipologie: latina, greca, fiorita, gemmata, ecc; alle croci si aggiungeva un repertorio decorativo vegetale di derivazione classica (girali d’acanto e di vite), e una serie di simboli (corone, palmette, ali, pigne, ecc) che rimandano alla cultura persiana sasanide. Elemento molto importante era l’illuminazione, che era di duplice natura: naturale (dalle finestre) e artificiale (dai grandi policandela). Poiché la luce aveva un valore simbolico (lume=Sapienza=Sofia) Giustiniano e Teodora non volevano immagini, soprattutto perché in questo modo la luce poteva riflettersi ininterrottamente, grazie alla superficie liscia e dorata. Dunque l’interno è realizzato in gran parte da un mosaico d’oro ad ampia stesura, che sfrutta tessere di dimensioni davvero minuscole e posizionate in modo irregolare così da far riflettere al meglio la luce solare. Ad oggi il pianterreno è oscurato da contrafforti e superfetazioni varie, ma è invece particolarmente indicativa la sistemazione delle gallerie: qui, oltre alle finestre a doppio ordine, troviamo gli enormi finestroni tripartiti, schermati in basso da lastre e telai, e in alto da imponenti griglie marmoree. Questi attribuiscono alle pareti perimetrali uno straordinario effetto di limpidezza, che sfrutta al massimo i vuoti presenti nello scheletro portante della costruzione. Non sappiamo però com’era realizzato il riempimento per le griglie: molto probabilmente si trattava di lastre di vetro trasparente, piuttosto che di materiali opacizzanti. Infine nella versione della chiesa prima del terremoto del 558, l’effetto di apertura all’esterno e l’irrompere della luce erano sicuramente più forti, soprattutto in corrispondenza della sommità dei timpani nord e sud: qui si aprivano finestroni termali tripartiti, molto simili all’enorme lunettone che sovrana ancora il prospetto occidentale. Fondamentale per la illuminazione inoltre era la recinzione d’altare e l’ambone, rivestiti in lamina d’argento, così da riverberare con grandissima intensità la luce diurna e notturna. Inoltre la cupola centrale, le due semicupole e le cinque esedre minori, formano un concatenato dispositivo di superfici concave riflettenti, le quali, con angolazioni ed estensioni diverse, giocano con la luce proveniente dall’esterno. La struttura interna della chiesa, totalmente rivestita da distese aniconiche di mosaici d’oro, reagisce al variabile riflettersi di fasci luminosi come una gigantesca apparecchiatura formata da specchi. Concludendo possiamo sottolineare che la Santa Sofia è una chiesa molto complessa, ed è dunque concepita come un’opera d’arte totale, in cui tutto dipende da un progetto minuziosamente unitario. 13.I MOSAICI DELLE CHIESE DI TESSALONICA Tessalonica, ossia l’odierna Salonicco in Grecia, situata nell’innesto sulla penisola calcidica, nella regione storica della Macedonia (la quale non coincide con la Repubblica di oggi), era la seconda capitale dell’impero. La città venne fondata nel 316-15 a.C. dal sovrano Cassandro in onore della sorella, sposa di Alessandro Magno; dunque nel 146 a.C. venne conquistata dai Romani, diventando capitale della provincia di Macedonia. Inoltre era un importante centro di diffusione del cristianesimo, un centro strategico e militare; qui Teodosio emana il famoso Editto di Tessalonica (380). L’imperatore Galerio (293-311) risiede a in questa città nel 298-304 e nel 308-11. Dunque la città di Tessalonica fu importantissima per lo studio della cultura e dell’arte bizantina: conserva testimonianze architettoniche e decorative, grazie alle quali possiamo colmare le gravi perdite che la stessa capitale dell’impero non ha potuto evitare. Residenza imperiale in età tetrarchica, continuò anche dopo la fondazione di Costantinopoli ad essere una sede preferenziale per gli imperatori, come per Teodosio I. Momento chiave nello sviluppo urbanistico e monumentale della città fu quando Galerio, intorno al 300, fece edificare il complesso palaziale, l’ippodromo, il grande arco di trionfo (decorato dai rilievi che celebravano la vittoria sui Persiani del 297), ed infine la cosiddetta Rotonda: quest’ultima era una grandiosa costruzione di forma circolare, cupolata, la cui originaria destinazione è ancora oggi discussa. Il periodo critico iniziato con le scorrerie degli Avari nel 596, susseguito dai terremoti del 620-630 e terminato con le campagne contro gli Slavi e i Bulgari (658-688), che, insieme al corteggio degli angeli, partecipano alla Parusia (Seconda Venuta) del Cristo. Questa maestosa teofania è sottolineata dal fasto delle architetture, le quali proprio perché sono campite in oro su fondo d’oro, collocano la scena in una dimensione astratta e soprannaturale. Restano ancora non chiarite le motivazioni che hanno portato alla scelta proprio di quelli e non altri martiri: infatti alcuni pensano che non si tratta di santi, ma piuttosto dei donatori e quindi di personaggi laici, viventi, che avrebbero contribuito finanziariamente sia alla trasformazione in chiesa sia alla realizzazione della decorazione musiva; questa lettura lascia tuttavia aperti molti interrogativi anche a riguardo dell’interpretazione generale del contesto e per questo non ha avuto particolare seguito. Ad un programma iconografico cosi elaborato corrisponde una resa stilistica enigmatica, che lascia appunto ancora in dubbio la datazione dei mosaici, che vanno tra la fine del IV, il corso del V, e l’inizio del VI secolo. La maggior parte degli studiosi però si orientarono sul V sec., partendo dal confronto con la scultura, in particolare analizzando la testa di Eutropio proveniente da Efeso, e le due statue di magistrati: queste ultime mostrano una realizzazione del panneggio con pieghe larghe, ritmiche e quasi distaccate dal corpo, che sembrano trovare un parallelo appunto nella resa della clamide e del phelonion dei personaggi della Rotonda. Pertanto è meglio datare le decorazioni al V sec., quando erano ancor vive e sentite le istanze estetiche della tarda antichità, ma comunque nello stesso momento comparivano le nuove tendenze formali: ciò trovò proprio a Tessalonica, precisamente nei mosaici di San Demetrio, compiuta realizzazione. •La basilica dell’Acheiropoietos La basilica dell’Acheiropoietos, situata proprio nel cuore della città, fu edificata sul luogo di un complesso termale di epoca tardoantica, caratterizzato da varie fasi costruttive. Molto probabilmente la chiesa era in origine dedicata alla Theotokos (Vergine Madre di Dio); invece il nome attuale di Panagia Acheiropoietos fu ridato alla struttura nel 1930, ovvero quando fu riaperta al culto ortodosso, dopo i cinque secoli di utilizzo come moschea. Il termine Acheiropoietos sta a significare letteralmente “non fatto da mano umana”, e che quindi si collega ad un’immagine venerata della Vergine. Con la conquista turca del 1430 la chiesa divenne subito moschea con il nome di Eski Djami (Vecchia Moschea) e il nome Acheiropoietos scomparve per secoli. La datazione è un altro enigma, per cui diverse ipotesi sono state fatte: -451-460=Bakirtzis si è occupato dell’identificazione del personaggio di nome Andreas, riconoscendovi un prete, rappresentante del vescovo di Tessalonica, presente nel 451 al Concilio di Calcedonia. -490-510=un vescovo della città con lo stesso nome è attestato più o meno in questi anni. -447-460=ipotesi cronologica legata all’analisi dei bolli impressi su alcuni dei mattoni impiegati nella costruzione della basilica. -450-475 (datazione più accettabile)=deriva dall’analisi stilistica dei capitelli della navata centrale, del tipo composito con foglie d’acanto finemente dentellato, strettamente analoghi a quelli nella chiesa di San Giovanni di Studio a Costantinopoli. La basilica è un edificio a tre navate divise da due serie di dodici colonne di marmo proconnesio, gallerie, abside unica, nartece e atrio; due colonne di marmo verde di Tessaglia sorreggono le tre arcate del tribelon tra la navata e il nartece; il pavimento della navata centrale, fino all’altezza del bema è ancora quello originario a grandi lastre di marmo proconnesio con marcate venature. L’intera dotazione della chiesa fu probabilmente commissionata e creata nelle botteghe costantinopolitane. Della decorazione musiva parietale sono sopravvissuti solo i pannelli decorativi nei sottarchi, i quali sono realizzati con motivi di tipo aniconico su fondo dorato. L’arcata centrale di ciascuno dei due colonnati, ovvero la settima a contare da ovest, mostra una decorazione particolarmente originale e una bordura molto elaborata: questa anche perché la settima areata si trova in corrispondenza del grande ingresso laterale dell’edificio, posto sul lato sud. Dunque la successione dei gruppi tematici è evidente se si osservano le varie arcate, a partire dal nartece e andando verso l’abside: si Succedono temi geometrici (ottagoni e meandri), nastri intrecciati, girali vitinei, schemi embricati (come quello a squame con piuma di pavone), ghirlande intrecciate, elementi vegetali, composizioni di foglie acquatiche. I tre mosaici del tribelon sono eseguiti con maggiore cura a causa della loro posizione preminente nel passaggio fra nartece e navata centrale, e contengono le iscrizioni dedicatorie dei committenti della decorazione. L’arcata centrale reca una originalissima ghirlanda di foglie acquatiche, uscente da due grandi vasi messi alle estremità. Comunque anche qui è presente il simbolo della croce, sempre all’interno di clipei con fondo azzurro e celeste, oppure la stella a otto punte (allusione al monogramma cristologico). Invece nei due mosaici delle arcate trasversali del nartece, possiamo trovare una serie di figurazioni appartenenti alla simbologia cristiana: come il pesce poggiato entro una coppa e il volume chiuso, evidenti riferimenti al Cristo e alle scritture. Infine i mosaici delle arcate della galleria meridionale (gli unici conservati) sono caratterizzati da una maggiore uniformità nella scelta dei motivi decorativi. Qui i due tipi decorativi impiegati sono: -le ghirlande nella forma a spirale=caratteristica del medaglione centrale della cupola della Rotonda di Galerio -ghirlande raccordate da fasce “a tubo” -ghirlande arricchite da rosette a quattro petali=elementi noti nel ciclo della Rotonda. Compaiono tuttavia anche tralci vitinei, composizioni ad acanto e altre a foglie acquatiche, ovviamente in versione semplificata rispetto agli esempi della navata centrale. La scelta dei tipi decorativi della basilica dunque rappresenta un gusto sì convenzionale, ma nello stesso tempo arricchito da elementi di tipo “esotico”: questi possono essere giunti a Tessalonica solo tramite le comunicazioni via mare, in particolare dalle regioni orientali dell’Impero e da quei grandi centri di mediazione culturale e artistica, come Antiochia in Siria o la stessa Costantinopoli. •La chiesa di Hosios David La piccola chiesa di Hosios David sorge nella parte alta della città; dunque la dedica attuale è moderna e risale al 1921, quando la chiesa fu riconsacrata al culto dopo secoli di vita come moschea. La Diègesis (Narrazione) del monaco Ignazio riveste particolare importanza, dato che ci dà informazioni interessanti relativi sia ad una precedente dedica a Zaccaria, sia alla riscoperta del mosaico: questo era stato nascosto da un rivestimento di cuoio, ma con la miracolosa apparizione dell’immagine di Cristo cambiò l’intitolazione della chiesa, con quella al Salvatore. L’edificio ad oggi è cambiato a causa di numerosi interventi, la maggior parte riconducibili al periodo della trasformazione in moschea. Comunque prima si presentava con una pianta quadrangolare di m 12,10 x 12,30 a croce inscritta, coperta da cupola nel vano centrale e probabilmente da basse volte, quasi a crociera, sui quattro vani angolari. Celebre però è la decorazione interna della chiesa, soprattutto quella che riguarda il catino absidale, dove è inserito un mosaico di estrema importanza, sia per il tema raffigurato (una complessa teofania collegata alle visioni profetiche vetero-testamentarie, ossia relative al Vecchio Testamento), sia per i caratteri stilistici che lo differenziano dagli altri mosaici di Tessalonica. Al centro della composizione abbiamo quindi la figura di un Cristo giovane e imberbe, seduto su di un segmento di ciclo multicolore entro una mandorla di luce, e col capo circondato da un’aureola con croce gemmata; alza la mano destra e sostiene con la sinistra un cartiglio che reca, con piccole varianti, due versetti del testo del profeta Isaia (XXV, 9-10): “Guardate il Signore nostro, nel quale abbiamo confidato, e ci siamo rallegrati nella nostra salvezza, perché Egli darà la pace a questa casa”. Dalla mandorla luminosa fuoriescono: -le quattro protomi=ciascuna con due ali -del tetramorfo vetero-testamentario=l’uomo, l’aquila, il toro e il leone; sorreggono ciascuno un volume gemmato e si rivolgono verso l’esterno. -a Tessalonica=denso e modulato cromaticamente su diversi piani, quasi fuso con i personaggi che vi si immergono. -a Ravenna=schematizzato ed astratto come un rigido scenario. Invece un parallelo potrebbe essere individuato piuttosto nell’area del Mediterraneo orientale ed in particolare a Cipro, che conserva, insieme a Tessalonica, alcune delle più importanti testimonianze musive pre-iconoclaste. Le frammentarie teste clipeate degli apostoli della Panagia Kanakaria a Lythrankomi, attribuite alla primissima età giustinianea, mostrano infatti un analogo trattamento pittorico morbido e sfumato. •Il santuario di San Demetrio Il santuario di San Demerito (martire protettore della città) sorge al centro dell’impianto urbano, poco più a nord dell’antica agorà, e costituisce il luogo più venerato dalla popolazione. Quindi la tradizione ci dice che Demetrio è stato martirizzato nel 303, per ordine di Galerio, all’interno di una struttura termale: quest’ultima è stata riconosciuta come la costruzione su cui si è insediata la chiesa paleocristiana. I resti di questa struttura ancora in parte emergono in alzato lungo il fianco nord, mentre in parte risultano inglobati nell’edificio all’angolo nord-ovest, e soprattutto nella zona della cripta. A Tessalonica la venerazione verso San Demetrio divenne sempre più consistente, fino a rendere il santo un vero e proprio baluardo (non solo spirituale) contro i nemici della città: grazie ai suoi interventi miracolosi gli Slavi non riusvirono mai a conquistare la città (tra VI e VII sec); la fama di Demetrio si diffuse poi in tutto l’impero. Non vi sono tuttavia dati certi sulla tomba del santo, le cui reliquie furono più volte negate dalla Chiesa di Tessalonica agli imperatori di Costantinopoli, i quali fecero molte richieste alla fine del VII secolo. Il più antico luogo di culto in realtà sarebbe una sorta di ciborio esagonale, il quale sorgeva più o meno al centro della navata centrale: la base marmorea è stata rinvenuta durante le indagini archeologiche nel pavimento della chiesa. Comunque per avere un’idea certa dell’aspetto di questo ciborio bisogna riferirsi a due dati: -sia alla descrizione che ne viene fatta (prima del 665) dall’arcivescovo Giovanni nel secondo libro dei “Miracula sancti Demetri”. -sia alla raffigurazione che di esso ci era conservata nei mosaici della navata nord, purtroppo andati perduti nell’incendio del 1917; ma comunque ci sono noti dagli acquerelli del George. Dunque l’aspetto attuale della basilica è il risultato di radicali restauri, successivi all’incendio del 1917, che distrusse gran parte dell’edificio. Dunque la chiesa venne ricostruita dopo soli cinque anni, e passò da moschea a chiesa: la ricostruzione si prolungò nel tempo, e si concluse soltanto dopo la fine della II Guerra Mondiale. L’unica cosa che rimase immutata è praticamente l’impianto monumentale: -cinque navate con ridotto nartece ad ovest, separato dalla navata centrale da un tribelon; -transetto colonnato aperto ad est, nell’unica grande abside traforata da una pentafora su colonne. L’originaria decorazione della navata centrale era realizzata con rivestimenti a lastre marmoree e in opus sectile, composto da riquadri con motivi geometrici e da raffigurazioni simboliche; quindi un fregio che simulava una cornice a modiglioni prospettici chiudeva in alto la decorazione: inoltre il fregio richiamava l’analoga membratura a tessere musive dei pannelli della Rotonda. Le superfici musive si dispiegavano invece nelle navate laterali e nella zona del bema. Ancora non sono del tutto chiare le vicende edilizie del San Demetrio: molto probabilmente sul luogo della morte del martire fu stata elevata una piccola memoria (oikiskos), della quale tuttavia non siamo in grado di ricostruire tipologia e forma; in seguito, nel corso del V secolo, il prefetto dell’Illirico Leonzio (guarito dal santo miracolosamente da una grave infermità), costruì in suo onore una grande basilica, in parte riconoscibile in quella attuale. Infine intorno alla metà del VII secolo, dopo il furioso incendio descritto nei Miracula sancti Demetri, la chiesa fu ristrutturata con la sostituzione (nella navata centrale) di colonne e pilastri ad un precedente colonnato, e fu quindi in parte ridecorata. Le fonti del S. Demetrio sono rappresentate sia dalle campagne fotografiche condotte nel 1908 dall’Istituto Archeologico Russo di Costantinopoli, sia dagli splendidi acquerelli eseguiti da Walter S. George tra 1907 e 1908 (oggi a Londra, presso il Warburg Institute): erano rimasti sconosciuti fino a quando Robin Cormack li pubblicò in una sua opera nel 1969. Dunque gli studiosi fecero affidamento soprattutto a questa serie di acquerelli per ricostruire l’aspetto della decorazione musiva della navata interna nord, dove si trovano alcuni tra i mosaici più antichi: qui correva una decorazione musiva, articolata in diversi campi delimitati da cornici, in cui si succedevano rappresentazioni votive, le quali avevano come figura principale quella del santo patrono. Nelle decorazioni Demetrio appare quasi sempre stante (posa di orante), ha addosso clamide e tablion riccamente realizzati, ed è affiancato da offerenti che con le mani velate (segno di rispetto) avanzano verso di lui. Oltre a Demetrio compaiono anche altri gruppi iconici: per esempio nel terzo pennacchio (a partire da ovest) vi è la Vergine seduta su un trono riccamente gemmato con spalliera a lira, le quindi tiene sul grembo il Bambino, e due angeli le stanno per mettere la corona. Quindi alla sinistra della Vergine abbiamo Demetrio clamidato, mentre dall’altro lato un altro santo similmente abbigliato (Teodoro?) è in posa di orante; concludono la decorazione del largo pannello le aree al di sopra delle arcate, su cui risaltano, su un fondo verde, cinque clipei con santi e sante. Per l’ampiezza di quattro pennacchi e tre arcate abbiamo narrata la vicenda di una bambina (di nome Maria, lo sappiamo dalle iscrizioni): dai genitori viene posta sotto la protezione speciale di Demetrio, e anche di Cristo e della Vergine; la bimba appare in all’inizio piccolissima tra le braccia della madre, mentre viene benedetta dal santo, e vicino a Cristo e la Vergine. Dopo tra le strutture architettoniche o liturgiche di difficile decodificazione, troviamo nuovamente la Vergine, affiancata da due angeli che le presentano una Maria un po’ più cresciuta in braccio alla madre, e dall’altro lato appare un secondo offerente; col suo gesto la Vergine cerca la benedizione di un personaggio entro clipeo (sicuramente Cristo), che doveva apparire sulla sesta arcata occupata poi da un importante mosaico di seconda fase. Il ciclo della giovane si conclude nel pennacchio successivo, quando compie assieme ai genitori un nuovo omaggio a San Demetrio. Datare questi mosaici è difficile, tuttavia grazie agli acquerelli del George le ipotesi vanno più verso la fine del V e gli inizi del VI, se non addirittura entro la seconda metà del V secolo; gli studiosi si basarono anche sui numerosi confronti con i mosaici della Rotonda, anch’essi purtroppo privi di una cronologia certa. Certamente però un elemento che collega questi mosaici di San Demetrio con quelli della Rotonda, e anche con quelli della Acheiropoietos, è la decorazione dei sottarchi: sia quelli nella trifora di facciata con le scaglie a piume di pavone (decorazione che è sopravvissuta), sia quelli documentati dagli acquerelli del George, delineati da rigogliose ghirlande rettilinee fuoriuscenti da canestri, mostrano somiglianze con i mosaici delle altre due grandi chiese tessalonicesi. Sulla parete della navata interna nord una équipe di mosaicisti intervenne, e inserendo nuove figurazioni, reintegrarono parti andate perdute. Solitamente questa seconda fase decorativa viene legata dagli studiosi all’incendio che (secondo i Miracula) colpì la chiesa tra il 603 e il 649. Durante questo intervento venne realizzata la lunga cornice entro la quale era disegnato un nastro ondulato con rametti negli spazi di risulta, e anche il pannello collocato sopra la sesta arcata (a partire da ovest). Su un fondo verde si stagliavano tre clipei di uguali dimensioni: -centrale (di poco più alto)=busto di S. Demetrio, nimbato e clamidato; -ai lati=busti di personaggi in vesti sacerdotali (il primo un chierico, il secondo un vescovo). Sotto alla triade dei clipei vi è una lunga tabula ansata, con su scritto “al tempo di Leone puoi vedere rinnovata la chiesa di Demetrio, che in precedenza era bruciata”. Sulla faccia nord del pilastro sud abbiamo un gruppo a figure intere con Demetrio al centro, il quale presenta (mettendo le mani sulle loro spalle) un vescovo con una folta Ravenna. Da alcuni frammenti possiamo confermare l’eccellente qualità del mosaico, caratterizzato da uno stile quasi impressionistico, che gioca quindi sulla disposizione libera delle tessere, con tonalità tenue e sfumate, e che in assenza di linee costruisce i volumi dei volti con il colore. Non abbiamo una cronologia certa, ma molto probabilmente il programma musivo è datato nei primi decenni del VI secolo. •Panagia Angeloktistos a Kiti. La chiesa della Panagia Angeloktistos si trova sulla costa meridionale dell’isola (a Kiti), e che come l’altra chiesa ingloba i resti di un’abside più antica. Dunque per quanto riguarda la raffigurazione è molto simile a quella della Panagia kanakaria, ma è differente sia a livello iconografico che stilistico. La Vergine è avvolta in un maphorion color porpora sopra una tunica blu scuro; quindi sorregge il Bambino sul braccio sinistro, e quest’ultimo tiene nella mano sinistra un rotulo, mentre il suo nimbo reca all’interno una croce (fatta di tronchi di legno. Ai lati di questi due personaggi si dispongono gli arcangeli, Michele e Gabriele, identificati dalle scritte messe in verticali: entrambi indossano tunica e pallio bianchi con clavi dorati, hanno l’aureola e ali a penne di Pavone (simbolo di immortalità); inoltre sostengono con la mano sinistra una lunga asta dorata, e con la destra il Globo sormontato dalla Croce, immagine dell’ecumene cristiana. Come nella Kanakaria la raffigurazione del catino è racchiusa in un’ampia fascia decorativa, tuttavia al posto dei clipei qui troviamo la rappresentazione allegorica della Fontana di Vita: accanto a eleganti vasi e cespi di acanto ci sono coppie di anatre, pappagalli, e cervi, che convergono verso un clipeo con la croce alla sommità dell’arcata. Rispetto alla Kanakaria, che ha un uno stile più impressionistico, la Panagia Angeloktistos ha un andamento più compatto e lineare, ed utilizza anche cifre geometrizzanti; per questo motivo il suo mosaico viene datato verso la fine del VI e gli inizi del VII. •Panagia tis Kyras a Livadia Il programma musivo di questa chiesa è purtroppo andato totalmente perduto, ed è noto sola dalle fotografie. Però sappiamo che al centro del catino era collocata la Vergine in atteggiamento orante, vestita di un ampio maphorion purpureo e poggiante su di un suppedaneo gemmato. Interessante era il fondo d’oro che era realizzato con un tessuto a pelte, o se mi cerchi sovrapposti: Questo era una caratteristica poco diffusa nel campo del mosaico parietale, ma molto nota in quello parimentale. Questo terzo mosaico viene generalmente collocato nella prima metà del VII secolo in quanto lo sfondo è privo di qualsiasi carattere naturalistico, e anche perché di solito si mette in analogia con un altro mosaico situato nell’abside della cappella di San Venanzio al Laterano a Roma (databile tra il 642 e il 649). 15.IL MOSAICO DEL MONASTERO DEL SINAI Il monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai è un monastero cristiano che esiste ancora e che è ancora operativo: è infatti uno dei pochi non distrutti e/o trasformati in una moschea. È collocato nella parte meridionale nella penisola del Sinai (Egitto): cerniera tra l’Asia e l’Africa, e luogo fondamentale di scambi tra i due continenti. Questa zona è molto difficile da visitare: situata in una valle rocciosa e aridissima. Il monastero fortificato, che sembra quasi una cittadella (molti monasteri erano così), grazie alla sua posizione e alla sua natura di fortificazione riuscì a resistere negli anni come centro di religione e cultura cristiana (anche durante il dominio arabo). Dunque il monastero è legato alle storie di Mosè: la sua storia è narrata nel secondo libro dell’Antico Testamento del Pentateuco (Genesi, Esodo); egli tra l’altro era ritenuto l’autore del Pentateuco, ossia i primi 5 libri dell’Antico Testamento, ma comunque sappiamo che non è così. Secondo la tradizione il luogo di culto sarebbe stato istituito da Elena, madre di Costantino, sul sito legato all’episodio del Roveto Ardente di Mosè: ci dice l’Antico Testamento che Mosè viene chiamato da un roveto che brucia senza mai consumarsi, e che è manifestazione del dio di Israele (chiama a sé Mosè e gli affida il compito di liberare il popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto). Dunque il Roveto ardente è la reliquia che si venera a Santa Caterina di Sinai. La prima menzione effettiva della presenza di una comunità monastica si deve ad una fonte importante, all’Itinerarium Egeriae (anni 80 del IV sec): l’itinerario era un diario di viaggio di una pellegrina, chiamata Egeria, la quale negli anni 80 del IV sec percorse diversi luoghi sacri della cristianità, e ne descrisse l’aspetto in questo suo diario. Giustiniano intervenne anche qua, facendo costruire un nuovo monastero il cui katholikon è dedicato alla Madre di Dio (ce lo dice Procopio). La chiesa è commissionata probabilmente dopo il 548 (morte di Teodora). Nel IX sec., dopo il ritrovamento delle reliquie di Santa Caterina d’Alessandria, il monastero assume l’attuale intitolazione. Cosa si è conservato della struttura dell’epoca giustinianea: mura esterne, torre, e il katholikon (chiesa). La basilica è a 3 navate, ed è preceduta dal nartece; inoltre ha un orientamento strano, in quanto è stata costruita attorno al Roveto ardente: essendo una pianta il roveto sta fuori l’edificio, e non può essere di certo spostato. La chiesa venne costruita in modo tale che ci siano due ambienti, accanto all’abside (i pastofòri), attraverso cui i pellegrini potevano andare a vedere il retro dell’abside, dove sta appunto il roveto. All’interno (nulla di bizantino), su una delle travi del soffitto, c’è un iscrizione: «Per la memoria e la quiete della nostra defunta/beata imperatrice Teodora». Alle spalle dell’iconostasi troviamo la decorazione musiva (originale) dell’epoca di Giustiniano; è uno dei più complessi programmi musivi dell’epoca. Il mosaico è stata recentemente restaurato, c’è stato anche un contribuito dell’Italia: restauri eseguiti a cura del centro di conservazione di Roma. L’oggetto centrale è la Trasfigurazione: scena tratta dal Nuovo testamento, in cui Cristo sale sul monte Tabor insieme agli apostoli Giovanni, Pietro e Giacomo; per la prima volta manifesta la sua natura divina in terra. Inoltre ci sono due profeti vicino Gesù, ossia Mosè ed Elia. Cristo in mandorla, è circonfuso di luce, con 3 toni di azzurro differenti. Nell’intradosso dell’arco, sopra Cristo, troviamo gli Apostoli (alcuni hanno un libro in mano, molto probabilmente sono gli Evangelisti). Sotto cristo ci sono i ritratti di profeti, tra cui Davide; quest’ultimo è il soprano più importante e famoso dell’Antico Testamento, in quanto è il tipico prototipo dell’imperatore: vincitore in battaglia, intellettuale, ecc (come lo sono ad esempio Carlo Magno ed Ercole). Quindi nei punti di giunzione (tra gli Apostoli e i profeti) troviamo il Diacono Giovanni e l’Egumeno Longino (abate del monastero): le tessere argentee attorno alle loro teste ci dicono che i due personaggi erano ancora in vita al tempo dell’esecuzione del mosaico. A sinistra Giovanni Battista e a destra Maria: sono collocati fuori, ma in diretta connessione con Cristo: questo è uno dei primissimi esempi della daesiis bizantina; lo troviamo anche in Santa Cecilia. Sopra Giovanni e Maria troviamo sono due angeli, con ali di pavone, i quali convergono verso un agnello. Infine al di sopra degli angeli ci sono gli ultimi due pannelli, dove sono raffigurati: -a sx=Mosè davanti il Roveto ardente; -a dx=Mosè riceve le tavole della legge. Anche in Sant’Apollinare in classe abbiamo una Trasfigurazione, ma ci sono delle differenze con il mosaico dei Sinai: -in Apollinare vi è Apollinare come elemento centrale della scena, e la Trasfigurazione è estremamente simbolica; -questa è molto più vicina al racconto evangelico. Gli studiosi si domandarono del perché di questo soggetto; fecero varie ipotesi: -come Dio di Israele si era manifestato a Mosè nell’Antico Testamento, la Trasfigurazione costituisce il parallelo di questo episodio nel Nuovo Testamento; -legato al Roveto ardente=era collocato dietro a questa scena, e le finestre consentono un legame tra interno ed esterno. con due torrette a due piani (oggi rimane solo quella di destra), e in origine anche da un ampio quadriportico; la struttura è conclusa ad est da un’abside affiancata da due pastofori: sia l’atrio che quest’abside molto probabilmente hanno origine siriaca. Due file di dodici colonne in marmo grigio venato (proveniente dal Mar di Marmara) suddividono internamente la chiesa in tre navate: al di sopra vi sono capitelli “a foglie d’acanto mosse dal vento”, tipica impostazione orientale. Anche questa chiesa poiché realizzata da un architetto di Costantinopoli unisce in sé sia maestranze orientali che locali. Elemento tipicamente bizantino lo troviamo nel mosaico dell’arco absidale, che è diviso in 5 registri: -superiore al centro=dentro un clipeo è rappresentato il busto del Redentore col capo cinto dall’aureola, la mano destra è quella benedicente, mentre con la sinistra tiene un libro chiuso. -superiore ai lati=simboli degli evangelisti a mezza busto, ed ognuno tiene in mano un libro gemmato -inferiore alle estremità=città di Gerusalemme e Betlemme, da cui escono dodici agnelli (sei per parte), a simboleggiare gli Apostoli (che vanno verso Cristo). -nei fianchi dell’arco absidale=due palme, e sotto le quali ci sono due pannelli simmetrici figuranti Michele e Gabriele. La decorazione del catino absidale si divide in due zone: -superiore=fondo oro, nubi stilizzate, in cui vi è la scena simbolica della Trasfigurazione: essa è composta da da un disco azzurro cosparso di stelle auree, e con al centro una croce gemmato. Dunque all’incrocio dei bracci entro un clipeo vi è il volto Barbato di Cristo. Accanto al disco azzurro vi sono le figure a mezzo busto di Elia e Mosè, mentre i tre agnelli in basso rappresentano gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni: sono rappresentati in quanto facevano parte della scena della Trasfigurazione. Dall’alto, perpendicolarmente alla croce, scende la Mano di Dio, ad indicare il Figlio. -inferiore=al centro del prato verde pieno di alberi e fiori, compare stante la figura di Sant’Apollinare, affiancato da dodici agnelli (sempre sei per parte). 17.I CODICI MINIATI DEL VI SECOLO L’epoca tardoantica assiste ad un fenomeno di estrema importanza per la cultura europea e mediterranea, ovvero il passaggio dal rotolo al codice (III-IV sec). Si passa dal papiro, che ha origine vegetale, alla pergamena, di origine animale (pelle di bovino/ovino); una delle pergamene più pregiate, quindi puramente bianca, derivava dai vitelli non nati/abortiti. Quindi cominciarono a diffondersi i codici miniati; il termine “miniatura” deriva da “minium”, ossia il colore rosso che era usato dagli scribi antichi per scrive le iniziali. Miniatura vuol dire anche illustrazione libraria. I libri nel mondo medievale erano ovviamente oggetti super rari e molto costosi, in quanto contenevano testi sacri: il libro miniato è simbolo del Logos, ossia la parola di Dio; ha valore di oggetto sacro. Un manoscritto di estrema importanza è il ”Dioscoride di Vienna”, chiamato così perché oggi si trova in questa città; il codice di contenuto scientifico comprende sei trattati antichi di medicina e scienze naturali, tra cui il “De Materia medica” (erbario) di Pedanio Dioscordie, ossia un trattato con molte illustrazioni (400). Il manoscritto è legato al nome di Anicia Giuliana, principessa di dinastia imperiale, membro della Gens Anicia e nipote di Valentiniano III. Realizzato in onore di Anicia per committenza degli abitanti del quartiere di Onorato (Costantinopoli), presso il quale ella aveva fatto edificare una chiesa dedicata alla Vergine nel 512, ossia la chiesa di San Polieucto. Quindi il manoscritto è pieno di miniature, e i più rilevanti sono i frontespizi a piena pagina. In uno dei più famosi è raffigurato Dioscoride, che indica la personificazione della Scoperta, la quale ha in mano una pianta, con foglie in alto e con radice antropomorfe. In basso c’è un cane morente: si credeva che questa pianta, ossia la mandragora, se estratta dal suolo emettesse grida così potenti da provocar la morte di chi la ascoltasse. In un’altra miniatura importante abbiamo sempre la personificazione della scoperta con in mano la mandragora, e a destra Dioscoride che descrive la pianta, mentre a sinistra c’è il miniatore che la disegna. Questo soggetto venne anche dipinto molte volte. Fondamentale di questo periodo è un frontespizio con Anicia Giuliana, la quale è circondata da una serie di accessori. La cornice esterna è a forma di cerchio, all’interno del quale si intrecciano due quadrati che compongono uno spazio interno a forma ottagonale; quindi all’interno degli 8 triangoli che si formano è stato scritto il nome Giuliana in greco. Invece negli spazi pentagonali blu di risulta vi sono delle scene di puttini a lavoro, i quali appunto dipingono e scolpiscono: queste azioni fanno riferimento a Giuliana come patrona dell’arte. Quindi ella è affiancata dalla prudenza e dalla magnanimità; inoltre tende la mano per depositare delle monete all’interno di una scatola, sorretta da un puttino. Sappiamo che l’oggetto è denominato da un’iscrizione come “il desiderio della fondatrice”, e il suo desiderio è quello di promuovere le arti, le quali vengono simboleggiate dalla personificazione di una donna vestita di bianco che si prosta ai piedi di Anicia Giuliana (è la gratitudine delle arti). Il manoscritto presenta diverse immagini di piante medicinali, come la rosa selvatica e il corallo (rappresentato poiché si pensava che fosse una pianta). I manoscritti purpurei erano quelli più preziosi, dato che la pergamena veniva appunto colorata con la porpora (ancora più preziosa). Vi sono tre manoscritti purpurei di estremo lusso. Uno di questi era il Codex Purpureus Rossonenis (di Rossano), ossia la raccolta di vangeli, in cui vi erano scene del nuovo Testamento in alto e i busti dei profeti in basso, i quali hanno dei cartigli dove profetizzano cosa sta accadendo sopra: questa è una chiara connessione tra il Vecchio e il Nuovo Testamento. Legato a questo codice abbiamo le cinque pagine miniate (tot di 43 figli) sopravvissute del Vangelo Sinopense/di Sinope, ossia il nome della città turca sul Mar Nero dove il manoscritto fu rinvenuto nel 1899 (oggi è conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi): rispetto al codice di Rossano qui abbiamo uno stile più immediato e drammatico, c’è un numero minore di personaggi, e le scene sono meno complesse e classicheggianti. Dunque le immagini rimaste illustrano diversi episodi del Vangelo di Matteo. Terzo di questi codici purpurei è la Genesi di Vienna con immagini tratte dal Libro della genesi: è un manoscritto composto da 24 fogli, ossia gli unici rimastici (prima forse erano 96), scritti e miniati su retto e verso (totale di 48 miniature). Rispetto al Rossanense l’impaginato è meno complesso: il testo occupa la parte superiore del figlio mentre l’immagine occupa la parte inferiore. Dunque le pagine miniate partono da Genesi, 3,4 (Il peccato dei Progenitori Adamo ed Eva), e si conclude con Genesi, 50,4 (La morte di Giacobbe), ed include anche scene con Noe, Abramo, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Giuseppe. Comunque molti di questi codici hanno perso il loro colophon, ovvero la sezione del libro (inizialmente o nella parte finale) nella quale veniva riportato il nome dello scriba, del committente e il luogo di origine. Infine anche se si tratta di miniatura le scene appaiono monumentali, nelle quali sono presenti un gran numero di personaggi e serie di elementi architettonici e naturalistici. 18.LE ICONE DEL SINAI Il monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai conserva ancora molte icone, di età pre-iconoclasta: le icone sono sopravvissute alle distruzioni dell’VIII-IX sec. Dato che in quell’epoca il Sinai era già sotto la dominazione araba. Non abbiamo una sicura cronologia delle opere, però sappiamo che sono state realizzate prima dell’VIII sec e in luoghi diversi del Mediterraneo orientale. Tra le icone spiccano per originalità e formato tre tavole: icona raffigurante il Cristo Pantocratore, quella di San Pietro e quella con la Vergine in trono col Bambino, santi e angeli. Le fonti storiche a nostra disposizione sono abbondanti, ma presentano due ordini di problemi: -sono in buona parte più tarde, o comunque revisionate e/o interpolate; -sono estremamente parziali: offrono quasi solo il punto di vista della fazione vincitrice, a favore delle immagini sacre. Abbiamo diverse tipologie di fonti: -Cronache=es. “Chronographia”, di Teofane Confessore. -Ageografiche=es. “Vita di Santo Stefano il giovane”, di Ignazio Diacono. -Trattati e omelie=es. Omelie di Giovanni Damasceno. -Atti di Concilio=es. Secondo Concilio di Nicea. Dunque il periodo iconclasta attraversa vari periodi, e le tappe principali erano: -726=Leone III fa rimuovere e distruggere l’immagine di Cristo dalla Chalke (porta monumentale che dava accesso al palazzo imperiale). -730=probabilmente emanò un editto contro le immagini sacre. -754=Costantino V convoca il Concilio di Hieria, con cui si condanna il culto delle immagini; i dissidenti cominciano a venire perseguitati. -787=Irene, reggente per Costantino VI, convoca il Secondo Concilio di Nicea, con il quale condanna le decisione iconoclaste dei predecessori {I Concilio di Nicea nel 325}. -815=Leone V ripristinò l’iconoclastia. -843=Teodora, vedova dell’imperatore Teofilo, e reggente di Michele III, che mette fine alla controversia iconoclasta, con l’appoggio del patriarca Metodio. In tutto ciò si crearono due fazioni a confronto: +Posizione iconoclasta/iconomachia=Cristo ha due nature, quella umana e quella divina. Quindi quando si rappresenta un’immagine sacra, non si rappresenta la sua parte divina. Si cade in peccato di idolatria quando si venera un oggetto materiale. Per loro si poteva venerare solo la croce. +Posizione degli iconoduli/iconofili=è vero che Cristo ha due nature. Ma poiché si è incarnato, ha assunto un aspetto umano ed è stato visto, può anche essere rappresentato in immagine. Venerare un’icona non significa venerare l’oggetto in sé, ma si venera il prototipo divino che lo ha ispirato. Le ragioni effettive della controversia iconoclasta restano poco chiare: -Influenza ebraica o islamica? -Reazione all’uso incontrollato delle immagini sacre? L’iconoclastia sarebbe stata una forma di controllo sociale, secondo questa ipotesi. -Opposizione politica al potere del monachesimo da parte della corte? Monaci molto propensi all’uso delle immagini. La corte con l’iconoclastia poteva controllare questo fenomeno. -Influenza diretta di chiese eterodosse o sette contrarie all’uso di immagini sacre nel culto? Come il monofisismo. Comunque queste vicende non si escludono l’un l’altra. La fase iconoclasta rientra nel cosiddetto periodo buio, e comprendere quali effetti vi furono sulle immagini è difficile, in quanto abbiamo poche testimonianze. Alcune delle testimonianze che vengono oggi studiate come prova degli effetti che l’iconoclastia ebbe sulla produzione artistica e architettonica sono le immagini retrospettive: esse ricostruiscono un recente passato, ma non risalgono a quel passato. Un caso eclatante che viene citato molte volte è quello riguardante i Salteri a figurazione marginale. Il Salterio è praticamente un libro della Bibbia, più precisamente una raccolta dei salmi. Inoltre i bizantini impararono a leggere sul salterio, per questo motivo è importantissimo sul piano culturale. È anche uno strumento musicale antico a corde. Per quanto riguarda invece i salteri a figurazione marginale sono appunto pagine che però non prevedono quasi mai immagini che riempiono l’intero foglio, ma occupano solo il margine, oppure spazi lasciati liberi dalle colonne di testo. I primi esempi risalgono al IX secolo, subito dopo il termine dell’iconoclastia. Il salterio di Khludov è uno dei salteri più famosi, oggi nel Museo storico di Mosca. Le figure polemizzano contro gli iconoclasti, dato che sono a favore delle immagini sacre. Sul foglio 67 retto troviamo un’immagine che accompagna il salmo 69: “hanno messo fiele nel mio cibo, e mi hanno dato da bere aceto per dissetarmi”. I miniatori introducono la crocifissione di Cristo: si riferiscono in particolare al momento quando danno da bere con una spugna di aceto a Cristo. Dall’altra parte abbiamo un soldato che ha appena Colpito il costato di Cristo, da quale esce il sangue. Si crea una connessione tra antico e nuovo testamento. Nelle immagini ci sono dei personaggi, con le facce grattate via, le quali coprono l’immagine di Cristo con della calce: questo era un chiaro esempio di atto iconoclastico, e che venne messo in parallelo con la crocifissione di Cristo. Comunque per fortuna non mancano testimonianze documentabili delle manomissioni iconoclastiche: basti pensare alle serie di pannelli marmori con busti di Cristo e Apostoli, rinvenuti negli scavi del San Polieucto, i quali sono sfigurati nelle parti del volto e delle mani. Ancor meglio documentato è il caso dei mosaici che decorano la stanza sopra la rampa che dà accesso alla galleria meridionale della Santa Sofia, ossia il Piccolo Sekreton, che faceva parte di una serie di ambienti del palazzo patriarcale (costruiti tra il 565 e 577). Quest’area è decorata da tondi con delle croci: tuttavia dato che si nota che le tessere del fondo dorato sono state rattoppate, e anche i bordi di questi tondi mostrano degli evidenti ritocchi, molto probabilmente prima vi erano raffigurati dei Santi, e sotto erano scritti i loro nomi. In epoca iconoclasta quindi queste figure furono sostituite da croci. Invece Santa Irene, dopo il 740, ossia quando un terremoto la abbatté parzialmente, venne ricostruita in segno iconoclasta: una monumentale croce venne posta nell’abside, come accadde anche in altre chiese (Santa Sofia a Tessalonica). 21.I PERDUTI MOSAICI DELLA CHIESA DELLA DORMIZIONE A NICEA Un monumento simbolo fondamentale di questo periodo è la chiesa della Dormizione di Nicea: “dormizione” significa “assunzione della Vergine” (15 agosto). Purtuttavia non vi è più questa chiesa, poiché è stata distrutta con la guerra greco-turca degli anni 20 del 900. Dunque la chiesa è documentata da fotografie: alcuni fotografi con degli acquerelli ci diederono anche immagini a colori, così da farci capire com’erano prima le decorazioni. Nel catino absidale vi era la Vergine in piedi con Bambino in braccio, poggiante su un piedistallo, e in più un emiciclo celeste con mano di Dio e 3 raggi (quello centrale colpisce la testa della Vergine). Tutto intorno vi era un’iscrizione, il salmo 109 “Prima di Lucifero io ti generai”. Sulla sommità dell’arcone absidale abbiamo invece la rappresentazione della Etimasia, vale a dire il trono vuoto preparato per la seconda venuta di Cristo (etimaso in greco vuol dire preparo): l’etimasia è chiuso da un medaglione. A destra e a sinistra del medaglione abbiamo due potenze angeliche, che tengono dei labari (stendardi), e sopra di questi c’è scritto “Agios, Agios, Agios”. Le potenze Angeliche sono Principati e Virtù, Dominazioni e Potestà. Possiamo notare che la Theotokos (l’immagine della Vergine) non faceva parte della decorazione absidale originaria. A destra e a sinistra dei gomiti della Theotokos si nota il profilo dei due bracci laterali di una croce. A sua volta la croce doveva aver sostituito un’immagine ancora precedente; siamo di fronte a tre fasi diverse. Quindi si fecero delle ipotesi, e il catino absidale fu sottoposto a pesanti modifiche che si articolano in tre fasi: -prima fase, pre-iconoclasta=fondo d’oro del catino, piedistallo, figura centrale (nessuno sa chi fosse). -seconda fase, iconoclasta=figura centrale rimossa, ed inserita una croce -terza fase, post-iconoclasta=Theotokos; non si sa se 787 o 843. Forse anche prima della croce vi era una Vergine. Ma dato che c’è quell’iscrizione (riferita a Lucifero), e che su quei lapidei c’è scritto Agios al maschile, fa pensare che molto probabilmente era raffigurato Cristo. Tra le ali delle due figure angeliche un piede e di un’ala; mentre dell’altro, ossia Gabriele, l’immagine è in gran parte intatta. Questa straordinaria figura, alta quasi cinque metri e larga tre e mezzo, è posta frontalmente con le ali dispiegate e le braccia distese, e con la destra tiene un’asta e con la sinistra sorregge un globo. Inoltre l’arcangelo indossa le ricche vesti imperiali: una divitission blu scuro con bordi dorati e un segmentum sulla spalla destra, una clamide è fissata con una fibula sulla spalla destra, e i calzari purpuri sono ornati di perle. Lungo il bordo della conca absidale correva un testo, “Le immagini che gli impostori avevano qui abbattuto, i pii imperatori hanno ripristinato”: gli imperatori menzionati potrebbero essere Michele III e Basilio I, poiché i due per un periodo regnarono insieme, prima che il macedone uccidesse Michele III e diventasse unico Imperatore. •La lunetta sopra la Porta Imperiale La porta imperiale, zona che porta dal nartece al naos, è sovrastata da una lunetta mosaicata: al centro è raffigurato Cristo, seduto su un trono riccamente decorato da perle e pietre preziose; egli indossa chitone dorato e himation, con la mano destra quindi benedice mentre con la sinistra tiene aperto un volume con un’iscrizione: “La pace sia con voi. Io sono la luce del mondo”. Ai suoi piedi, nella parte sinistra del mosaico, è ritratto una figura di imperatore anonimo, che indossa una clamide bianca. Più in alto ai lati del Cristo sono posti sul fondo d’oro due clipei contenenti uno il busto della vergine, che ha lo sguardo e le mani rivolte verso l’alto, e l’altro il busto di un angelo. Alcuni studiosi cercarono di capire chi fosse quell’imperatore, e dato che quest’ultimo è caratterizzato da barba e capelli lunghi (caratteristiche della dinastia macedone), si è pensato che fosse o Basilio I (867-886) oppure Leone VI, ossia suo figlio (886-912). Comunque si vedono due stili diversi tra il mosaico della lunetta, e quelli dell’abside e del bema: questo lascia presupporre la mancanza di attività nella ridecorazione della Grande Chiesa, che sarà ancora più evidente nei mosaici dei timpani e della stanza sopra il vestibolo sud. •I Padri della Chiesa Sulle pareti dei grandi timpani finestrati, che a nord e a sud racchiudono lo spazio del naos, nella seconda metà del IX secolo si ricoprono di immagini sacre: il programma iconografico c’è noto in parte dai disegni dei fratelli Fossati, i quali documentarono i mosaici, e che vennero poi nascosti nuovamente sotto uno strato di pitture aniconiche. La decorazione quindi si articolava in tre registri sovrapposti: -in basso=vi erano 14 figure di Padri della Chiesa, accolti da sette nicchie per porte (identificati dalle iscrizioni con loro nome). -registro mediano=occupato dai profeti: i quattro maggiori stanno all’estremità (Ezechiele, Geremia, Isaia, Daniele), mentre i dodici minori tra le finestre. -registro più alto=dedicato agli angeli. Inoltre in questa composizione vi erano quattro lunghe iscrizioni e quattro medaglioni coi monogrammi. Sappiamo che i profeti apparivano come figure veramente monumentali, alti circa 4 metri e mezzo, in atteggiamento solenne e con la mano sinistra tenevano un lungo cartiglio. Invece i Padri, raffigurati in posizione frontale e nibati, mostrano tutti lo stesso atteggiamento: hanno la mano sinistra sollevata in segno di benedizione e la destra sostiene un volume gemmato. Inoltre indossano la tunica, la casula e una lunga stola decorata da croci. •L’imperatore Alessandro Nella galleria settentrionale, in alto fra due arcate, vi è il ritratto musivo dell’imperatore Alessandro, ossia figlio di Basilio I e fratello di Leone Vi, il quale regnò da solo per 13 mesi, quindi dall’11 maggio 912 al 6 giugno 913: regnò così poco poiché aveva solo quattro anni. Dunque il mosaico fu rinvenuto e disegnato da Giuseppe Fossati nel 1849, poco prima della fine dei lavori di restauro di questa chiesa. L’imperatore è raffigurato da solo che poggia su un terreno (a tre fasce), in posizione frontale. Indossa una tunica con maniche lunghe, avvitata e lunga fino ai piedi (skaramangion); veste bordata d’oro e di perle (sagion); larga sciarpa che avvolge tutto il corpo, piena di perle e pietre preziose (loros). Questo abbigliamento sontuoso corrisponde a quello prescritto da Costantino VII Porfirogenito nel “De Coerimoniis”, per la domenica di Pasqua. Infine sul capo è posta una corona di colore rosso, piena di perle e con una croce; invece ai piedi indossa stivaletti rossi, ornati anche questi da perle. Con la mano sinistra tiene un globo, mentre con la destra stringe un sacchetto di seta pieno di terra, che simboleggia l’essenza mortale dell’imperatore. Ai lati dell’imperatore ci sono quattro grandi medaglioni contenenti uno il suo nome, e gli altri tre una breve invocazione: “Signore soccorri il tuo servo, fedele imperatore ortodosso”. Il volto dell’imperatore è simile ai ritratti del padre e del fratello: quindi è caratterizzato dalla barba scura, e da un incarnato rosato, con tenui passaggi tonali. •La lunetta del vestibolo sud-ovest Nella lunetta al di sopra della porta principale della chiesa si trova campito uno splendido mosaico, il cui tema iconografico è fortemente simbolico. Al centro vi è quindi la Vergine in trono col Bambino, affiancata da due grandi clipei contenenti i monogrammi “Madre di Dio”. A questa figura sono rivolte due personaggi, ossia due imperatori in atto di porle uno il modellino della Santa Sofia e l’altro il plastico della città di Costantinopoli: grazie alle iscrizioni sappiamo che questi personaggi sono Giustiniano e Costantino. È evidente come quest’immagine, quella della Theotokos, veniva molto utilizzata (soprattutto nel catino absidale): però qui la resa stilistica delle figure ha un modulo molto più allungato e sottile. Anche i volti degli imperatori ad esempio sono disegnati con una trama di linee che si incurvano, grazie alle quali si evidenziano gli zigomi, il naso e il mento. Gli imperatori sono raffigurati inberbi e con lunghi capelli ricadenti oltre le orecchie: quindi sono realizzati con caratteristiche ben diverse da quelle dei ritratti imperiali di età macedone. Anche il loros ricamato, ossia la toga che veniva indossata dai consoli nei dittici del VI secolo, rinvia ad antichi modelli. 24.LA DECORAZIONE MUSIVA DELLA SANTA SOFIA DI TESSALONICA TRA IX E X SECOLO Nella grande cupola della Santa Sofia di Tessalonica è stato realizzato una monumentale raffigurazione dell’Ascensione, su un fondo aureo; un’opera sicuramente post-iconoclasta. La parte più importante di questo mosaico è il clipeo al centro, realizzato da fasce concentriche di varie tonalità di azzurro e sorretto da due angeli, dentro il quale è raffigurato Cristo benedicente. Egli, in veste dorato e con l’aureola, è seduto su un arco di luce e poggia i piedi su un arco minore (questo sembra marcare parte di un piccolo globo). Un’aria uniforme di tessere d’oro circonda il clipeo, e poi questa è occupata dalle figure degli angeli con le ali spiegate. Invece i testimoni dell’ascensione, ossia i dodici apostoli e la Madonna orante (affiancata da due angeli), si dispongono lungo il perimetro della cupola su un fondale roccioso, alternati ad alberi. Dunque aprono il corteo San Paolo, che ha in mano un libro, e San Pietro, con una croce astile nella mano sinistra; questi sono seguiti rispettivamente da Sant’Andrea e San Giovanni: tutti questi personaggi sono rivolti verso Maria. Completano il giro altri Apostoli in pose diverse. Al moto centripeto della rappresentazione si sovrappone un asse verticale che collega le figure di Cristo e della Vergine, ovvero gli unici personaggi con una posa frontale e solenne, e caratterizzati dal limbo intorno al loro capo (l’aureola ce l’hanno anche gli angeli), e dal colore uniforme blu e oro delle vesti. Oltre agli alberi e alle rocce un altro carattere naturalistico è la ghirlanda fiorita, che corre lungo la base della cupola; questa è interrotta da due iscrizioni dorate sul fondo scuro: una di esse riporta il nome di un arcivescovo Paolo (all’epoca del quale furono eseguiti dei lavori), l’altra invece contiene una data, che in parte andò perduta, e dunque di incerta definizione. Con dei destauri, successivi al terremoto del 1978, si è capito che le iscrizioni appartenevano ad una fase decorativa precedente, attribuita Come nella Chiesa Vecchia, anche nella Chiesa Nuova fu dipinto un vasto ciclo di episodi significativi della vita di Cristo, sulla parte alta dei muri. 26.LA MINIATURA MEDIOBIZANTINA I libri nel mondo medievale erano oggetti super rari e molto costosi. Dunque i bizantini davano particolare attenzione ai libri sacri, infatti per loro realizzare un libro rappresentava un atto di fede, commissionarlo era un atto di devozione, farne dono ad una chiesa era un atto di contrizione, mentre studiarlo era un dovere. Il più importante libro liturgico è l’Evangelario, ossia la raccolta di letture o lezioni tratte dai Vangeli (noto anche come Lezionario), ordinate nella sequenza cronologica delle celebrazioni del calendario liturgico bizantino (a cominciare dalla Pasqua). Di solito questo libro veniva esposto sull’altare, a simboleggiare il Logos, ossia il verbo divino. Un altro libro molto importante è il Salterio, ovvero la raccolta dei 150 salmi ed altri Cantici, riguardanti il Vecchio Testamento (le cosiddette Odi): questi venivano cantati durante il rito accompagnato dal salterio (uno strumento simile alla cetra, dal quale il libro prende il suo nome). Gran parte di questi libri sacri erano stati realizzati accompagnati da cicli di miniature: queste o occupavano l’intera pagina, oppure erano distribuite tra le righe del testo o addirittura al margine di questo. Riguardo ciò molto importante erano i Salteri miniati, suddivisi in due grandi categorie: -manoscritti illustrati con immagini di Davide, Mosè, Isaia ed Ezechia; immagini realizzate a piena pagina sui frontespizi. Questa categoria comprende anche i salteri aristocratici. -qui le immagini sono campite a margine e fungono a commento visivo, per guidare la lettura. Tra IX e X secolo i minatori cominciarono a prendere il Tetravangelo e il Lezionario come punto di riferimento quando scrivevano i loro libri: entrambi si aprivano con 10 tavole decorate da strutture architettoniche ritmate da colonne, piene di motivi geometrici e vegetali. Inoltre in questo periodo cominciava a delinearsi l’iconografia degli Evangelisti: Matteo e Giovanni rappresentati anziani, con i capelli e barba bianca; mentre Marco e Luca disegnati con un aspetto giovanile: il primo con una corta barba nera mentre l’altro imberbe. Per quanto riguarda invece le illustrazioni del racconto evangelico il numero delle miniature e le forme non erano costanti: i miniatori Bizantini limitarono il numero delle immagini, favorendo la rappresentazione degli episodi evangelici celebrati nelle principali feste liturgiche. Rari erano i vangeli illustrati da sequenze narrative con ampi cicli di piccole miniature. Sono pochi i libri profani che ci sono rimasti, tuttavia sappiamo che all’epoca venivano molto apprezzati, soprattutto opere filosofiche, tragedie e quelli di carattere tecnico scientifico. Comunque è difficile capire da dove proveniva un manoscritto bizantino, poiché raramente gli artefici inserivano i dati, come il nome dei copisti, la data di esecuzione, e appunto il luogo dove era stato realizzato quel libro. 27.I CODICI MINIATI DELL’ETÀ MACEDONE •Le Omelie di Gregorio Nazianzeno A testimoniare le tendenze statistiche della prima età macedone sono le Omelie di Gregorio Nazianzeno: è un codice complesso pieno di miniature a piena pagina; venne realizzato per l’imperatore Basilio I, il quale è ritratto, insieme alla moglie e ai figli, nei primi fogli del codice, e quest’ultimo si apre con una Maestosa figura di Cristo in trono. Seguono una miniatura rappresentante l’imperatrice Eudocia tra i due suoi figli (Leone e Alessandro), in ricche vesti cerimoniali. Sul terzo foglio vi è Basilio I tra il profeta Elia e l’arcangelo Gabriele, il quale pone la corona sul capo del reggente. Il codice contiene più di 40 miniature a piena pagina. Gregorio trattava varie tematiche, sempre sulla base dei suoi sermoni. Ad oggi il codice è situato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, ed ha un repertorio iconografico molto vario; abbiamo quindi: -immagini tratte dal Vecchio Testamento= visione di Ezechiele, la storia di Giona, il Sacrificio di Isacco, il sogno di Giacobbe e l’unzione di Davide. -scene dai Vangeli=vita di Cristo. -scene che trattano eventi storici=concilio costantinopolitano del 381, sogno di Costantino, battaglia di Ponte Milvio e il ritrovamento della vera Croce. Anche scene della vita di Gregorio di Nazianzeno. Poche miniature contengono una sola storia, poiché dominano composizioni con più scene distribuite su più registri. Alcune miniature presentano un realismo descrittivo, altre invece hanno scene più complesse. Comunque le ambientazioni, gli sfondi architettonici e i paesaggi sono tutti realizzati in modo prospettico, da far sembrare gli oggetti tridimensionali. Le figure sono compatte, le vesti sono aderenti al corpo, e i volti esprimono un senso di indifferenza/disinteresse •La topografia cristiana di Cosma Indicopleuste La Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste è un testo molto singolare, a carattere scientifico, in cui si dibattono problematiche relative all’universo. I primi cinque libri trattano l’argomento principale; gli altri 5 sono testi aggiuntivi, ma probabilmente scritte dallo stesso autore. All’inizio dell’opera ci sono teorie cosmologiche, astronomiche, e meteorologiche del passato. Dopodiché è descritto il cosmo, una specie di bauletto in cui è inserita la terra (di forma quadrangolare e piatta). Comincia ad essere descritta la Terra in base ai viaggi che fece l’autore, il quale parlò anche delle sfere celesti mosse dagli Angeli. Ovviamente questo testo è accompagnato da miniature a carattere scientifico. Tale manoscritto è conservato nella nella Biblioteca Apostolica Vaticana, e risale alla metà del IX secolo. In esso sono contenute 64 miniature, di cui 18 a piena pagina. Il taglio della pagina è quadrato, e vengono rappresentate scene sia del Vecchio che del Nuovo Testamento: scene sparse in modo vago sul foglio bianco. Nel codice mancano le storie dell’Esodo degli ebrei nel deserto: molto probabilmente queste storie si trovavano nel prototipo del VI secolo. •Il Rotulo di Giosuè Il Rotulo di Giosuè è un codice che contiene 27 illustrazioni, che rappresentano scene tratte dalla prima parte del Libro di Giosuè, in cui si narra la conquista della Regione ad ovest del Giordano, da parte degli israeliti (guidati appunto da Giosuè). Il rotulo ad oggi è composto da 15 fogli di pergamena, ed è conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. I fogli dal 1902 vennero separati, ma prima erano incollati insieme in modo da formare un rotolo, che in lunghezza misurava complessivamente dieci metri e mezzo. Dato che le figure sono malamente tagliate e ci sono varie lacune nel testo, è evidente la perdita di un gran numero di fogli. Sono narrati diversi episodi, costruiti con grande chiarezza compositiva, allineati in forma di fregio continuo, e separati da vari elementi paesaggistici; le figure si muovono liberamente nello spazio. Rispetto al testo biblico il testo è monocromo, ha solo inchiostro marrone: le uniche eccezioni sono le vesti, le armi, i paesaggi e gli elementi architettonici, ossia elementi a cui sono aggiunte colorazioni in cui predominano il blu scuro e il viola; invece con il bianco si sottolineavano i contorni dei volti. Gli studiosi del passato avevano datato questo rotolo tra il V e l’VIII secolo: ad oggi sappiamo che il manoscritto è stato realizzato nel X secolo, come si sa sicuramente che è stato fatto a Costantinopoli. Si sa che è di questo secolo poiché è scritto con la minuscola: questa è l’erede della scrittura corsiva, che si cominciò a diffondersi nell’VIII secolo, e si sostituì alla scrittura maiuscola. Alcuni studiosi invece pensano che questo manoscritto sia stato realizzato al tempo di Eraclio, per celebrare i successi che l’imperatore ebbe sui persiani durante il 630 in Terra Santa. Comunque alcuni considerano questo testo una produzione originale dell’età macedone, mentre altri pensano che il committente voleva riprodurre esattamente un modello antico. In quest’opera d’arte la complessa narrazione degli eventi bellici si sviluppano in modo eccezionale, in una forma che messe a paragone a quelle dell’eroe. Comunque sia l’ambientazione piena di elementi architettonici, naturali, che il prezioso fondo d’oro insieme alle gamme cromatiche e alla struttura delle figure, rimandano alle pagine miniate del Menologio. Nella parte alta della miniatura dove è rappresentato l’imperatore vi è Cristo che tiene sospesa sopra il capo di quest’ultimo la corona, a simboleggiare il potere; quindi mentre riceve la corona da Cristo, tramite l’arcangelo Gabriele, Basilio è assistito nella vittoria dall’arcangelo Michele. Ai lati sono rappresentati, tre per parte, i busti di santi guerrieri identificati da un’iscrizione: a sinistra abbiamo Teodoro, Demetrio e un altro il cui nome è illeggibile (forse Nestore), mentre a destra vi sono Giorgio, Procopio e Mercurio. 28.L’AVORIO IN ETÀ MEDIOBIZANTINA A differenza di altri prodotti artistici bizantini, la produzione di manufatti in avorio si concentra in periodi specifici, questo perché era un materiale difficile da reperire e di alto costo. Nel primo periodo bizantino l’avorio era legato sia ad oggetti profani che religiosi, e veniva realizzato sia nella capitale che nelle altre grandi metropoli del Mediterraneo orientale, entro un arco di tempo che comprende tutto il VI secolo. In epoca Mediobizantina, soprattutto in età macedone, vengono privilegiati i pannelli a soggetto religioso, soprattutto dittici e trittici, in avorio. In ambito profano invece si sviluppa la realizzazione di oggetti, come cofanetti o cassettine, di uso privato. In questo periodo vengono realizzati anche gli avori commemorativi di onorificenze pubbliche, i quali vengono messi a paragone con i dittici consolari del V e VI secolo. In epoca Protobizantina i vari centri di produzione di oggetti in avorio vengono tutti concentrati nella sola Costantinopoli; tuttavia grazie a degli scavi abbiamo scoperto come ad esempio anche a Corinto vi erano modesti centri di lavorazione dell’avorio. •Avori Imperiali Un avorio molto importante è quello che ad oggi è conservato nei musei di Stato di Berlino, contenente da un lato Cristo e santi, mentre dall’altro la Vergine accompagnata da un angelo e un imperatore. Le iscrizioni a rilievo, messe lungo le architravi e le arcate (l’architettura richiama quella della Santa Sofia di Costantinopoli), citano un imperatore di nome Leone: gli studiosi lo hanno identificato come Leone VI (886-912), ma in passato il nome veniva associato a quello di Leone V (813-820). Le figure di questo dittico sono rappresentate a mezzo busto e identificate da iscrizioni incise ai lati. Fondamentale è la Vergine, rappresentata nell’atto di aggiungere una perla alla corona dell’imperatore: ciò sta a simboleggiare le virtù necessarie per l’amministrazione dell’autorità, date proprio dalla Vergine. Questo legame tra potere divino e potere imperiale è avvalorato anche dalle immagini del cofanetto di Palazzo Venezia, un oggetto risalente all’epoca di Leone VI, e realizzato per celebrare il suo terzo matrimonio con Eudocia Baianè nel 900: sul coperchio è rappresentato Cristo che è nell’atto di benedire la coppia imperiale; mentre nel registro inferiore ci sono due personaggi, ossia i parenti degli sposi e i committenti del dono, che assistono appunto al matrimonio. In un’altra parte del cofanetto sono rappresentate le storie di David, le quali furono restaurate del corso del XVII secolo: anche qua vi è il parallelo tra il re del Vecchio Testamento e l’imperatore bizantino. Simile a questo ritratto imperiale è l’avorio di Romano: anche qua vi è Cristo che benedice la coppia imperiale, è che inoltre mette le mani sulle corone degli sposi; grazie ai nomi incisi al di sopra delle loro teste, ovvero Romano e Eudocia, si sono avanzate delle ipotesi: i due potrebbero essere o Romano II e Berta-Eudocia, (figlia di Ugo di Provenza), oppure erano Romano IV Diogene ed Eudocia Makrembolitissa. Per questo motivo la questione cronologica di questa avorio è molto delicata. Emblematica icona imperiale è anche il pannello frammentario con scene di incoronazione, conservato nel Museo Pushkin di Mosca. Qui, al di sotto di un ciborio, Cristo pone la corona sul capo di Costantino, il quale è stato identificato come Costantino VII Porfirogenito. Come accadde nella cassettina di Leone VI, anche qui l’iconografia è legata a modelli religiosi, soprattutto al battesimo di Cristo: questo viene messo in rapporto con la divina incoronazione del Basileus. •Gli avori a soggetto religioso In epoca medio bizantina la maggior parte degli oggetti in avorio venivano richiesti da istituzioni, come chiesa e monasteri, e da privati, però sempre a soggetto religioso. La maggior parte di queste icone, inserite sia in placche singole, che dittici, trittici, ma anche in composizioni più articolate, sono dedicate alle immagini di Cristo e della Vergine: queste o erano isolate oppure erano accompagnate da teorie di santi (o scene narrative). Questi avori erano privi di iscrizioni, quindi senza dati riguardanti i committenti e la funzione dell’oggetto. Fanno eccezioni alcuni avori, come quello contenente una reliquia della Vera Croce conservata in San Francesco a Cortona: sul recto ci sono le figure della Vergine, San Giovanni Battista, e i santi Stefano e Giovanni Evangelista: mentre sul verso vi è un’iscrizione, su cui si può leggere il nome di Niceforo, molto probabilmente si tratta di Niceforo II Foca. Formano un gruppo omogeneo i trittici di Roma (dmetà del X secolo), dei Musei Vaticani (seconda metà del X secolo), ed il trittico Harbaville al Louvre (metà dell’XI): sono tutti con sportelli incernierati alla placca centrale, ed hanno più o meno la stessa dimensione (25x30 cm). Questi oggetti in avorio presentano un’analoga iconografia, vale a dire una Deesis allargata, articolata in due registri: -Cristo in trono tra la Vergine e il Battista -Santi=sono o a figura intera o in busto entro medaglioni; sono apostoli, padri della chiesa, santi militari, e santi medici. Altrettanto importanti sono i pannelli in cui sono ritratti apostoli messi in coppia: Andrea e Pietro (Vienna), e Giovanni e Paolo (Venezia, Dresda); questi pannelli presumibilmente non erano isolati, ma erano placchette che componevano una Deesis, al centro della quale si trovava un’immagine di Cristo in trono. Un ulteriore gruppo di avori a soggetto religioso è costituito da placchette contenenti episodi cristologici: le scene richiamano il ciclo del Dodekaorton (Dodici Feste), assai diffuso in epoca mediobizantina. Questo ciclo, che va dall’Annunciazione alla Pentecoste, percorre le tappe fondamentali della vita di Cristo. Esemplari di altissimo livello qualitativo e tecnico sono il pannello con la Crocifissione (Metropolitan Museum di New York), quello con l’ingresso a Gerusalemme (Musei di Stato di Berlino), ed il pannello con la scena della Koimesis (Monaco di Baviera). •Il cofanetto di Veroli e le cassettine a rosette Oggetti in avorio molto lussuosi e realizzati in massa, erano i cofanetti eburnei, ossia contenitori a forma di parallelepipedo di varie dimensioni, rivestiti appunto al di fuori da avorio e all’interno da del legno; erano chiusi da un coperchio piano o a sarcofago. Ci restano più di 120 esemplari interi o frammentari, composti da pannelli figurati, incorniciati da fasce di bordura: questi oggetti non erano concepiti per uno specifico manufatto, ma venivano realizzati in serie e successivamente assemblati. Il cofanetto più stimato è quello custodito fino al 1861 nel tesoro del Duomo di Veroli, e ad oggi è inserito nella collezione del Victoria and Albert Museum (Londra). Questo era il prototipo dei cofanetti a rosette, chiamati così per le cornici composte da fili di rosette disposte entro clipei; il cofanetto è composto da pannelli in cui sono incise scene di carattere mitologico, come il ratto di Europa e il sacrificio di Ifigenia. Quindi insieme a cofanetti a soggetto profano, venivano realizzati anche quelli di stampo veterotestamentario. Numerose cassettine a rosette hanno storie di Adamo ed Eva, e quindi narrano le vicende dei due progenitori: la tentazione e il peccato, la cacciata dal Paradiso e il pentimento dei due peccatori, i lavori che sono costretti a fare. Tanto importanti sono anche i cofanetti con soggetti sempre dell’Antico Testamento, come ad esempio le storie di Giosuè conservato nel Metropolitan Museum di New York: le cornici delle placchette di questo oggetto contengono rossette alternate ad effigi maschili. I pannelli quindi descrivono episodi di combattimento; in uno di questi vi è Giosuè in trono che ordina la condanna de re di Ai e riceve gli ambasciatori da al suo interno una reliquia, identificata dalla relativa iscrizione. Quindi ci sono 10 reliquie: sei sono della Passione, tre della Vergine e una di Giovanni Battista. Gli smalti di questa stauroteca sono del tipo a incasso, luminosi e splendenti, con accostamenti cromatici che risaltano contro il fondo d’oro. Comunque si notano delle differenze tra le opere di smalto pieno e quelle a smalto a incasso: infatti nel primo gruppo le paste vitree erano principalmente traslucide, e lasciavano trasparire i fondi di metallo. Negi smalti incassati invece predominano gli impasti opachi, compatti, in sintonia con i fondi d’oro circostanti. Condividono le stesse caratteristiche tecniche e stilistiche della stauroteca di Limburg altri oggetti del Tesoro di San Marco: il medaglione con il Cristo pantocratore, un oggetto con il busto dell’arcangelo Michele, e due calici di sardonica, e in cui vi è scritto il nome di un imperatore romano, identificato con Romano II. Questi calici fanno parte della collezione del tesoro Marciano che comprende ben 28 calici, databili dal decimo al XII secolo: anche se sono diversi dal dal punto di vista tecnico e materiale, questi calici hanno un omogeneità estetica. Il calice più grande è sostenuto da un piede e sulla piattaforma si legge”il Signore aiuti l’imperatore ortodosso Romano”. Sia sull’orlo che sul piede di questo calice ci sono le immagini a mezzo busto di Cristo, la Vergine, santi e angeli. Lo stile delle figure è analogo a quello di un altro calice, di forma polilobata: il bordo di questo secondo calice è decorato da 15 placchette rettangolari, incorniciate da perle; sono anche qui raffigurati Cristo benedicente, la Vergine, arcangeli, apostoli e santi. Quindi ci sono delle somiglianze tra questi calici e la stauroteca di Limburg, come i visi che mostrano le stesse sopracciglia folte e leggermente arcuate, i nasi lunghi, le piccole bocche a mezzaluna, e anche la resa dei palleggi, realizzati con fluidi segmenti di colori più chiari e più scuri giustapposti. Poco più avanti si realizzò un altro calice, detto dei patriarchi, probabilmente donato dal patriarca Teofilatto, figlio di Romano I Lecapeno, all’oratorio dedicato al suo santo eponimo ossia San Teofilatto di Nicomedia, inserito nel grande palazzo imperiale di Costantinopoli: come gli altri calici del tesoro anche questo è un capolavoro di perfezione tecnica e raffinata eleganza formale. Oggetto estremamente importante dell’undicesimo secolo è la corona di Costantino IX (1042-55), composta da sette placchette, tre delle quali (centrali) mostrano l’imperatore Costantino, affiancato dalle imperatrici-sorelle, ossia Zoe e Teodora; ai lati delle figure ci sono piante rampicanti stilizzate, sulle quali posano uccelli. Altre due placchette sono decorate con figure danzatrici, anch’esse con il capo nimbato; mentre le ultime due recano figure femminili, identificate come una la personificazione della Verità e l’altra dell’Umiltà. Trent’anni più tardi un altro imperatore bizantino, ossia Michele VII Ducas offriva alla moglie del re d’Ungheria Géza I, ossia la principessa bizantina Synadene (nipote del futuro imperatore Niceforo Botaniate, 1078-81), un diadema; questo venne riassemblato, durante il periodo del re Bela II (1173-76), insieme agli elementi di un’altra corona, la quale sarebbe stata donata da papa Silvestro II al primo sovrano ungherese, ossia Santo Stefano. Sul diadema ci sono due placchette, una con il Pantocratore, l’altra con il ritratto del donatore Michele VII: il primo è affiancato dagli angeli, mentre il secondo dal figlio Costantino e dal re Géza. Sulla fascia ci sono altre placchette con figure di santi. In entrambe le corone abbiamo numerosi colori, brillanti e contrastanti, con tanti dettagli, e l’impianto di alveoli si fanno sempre più fitti e ravvicinati. Il disegno dei panneggi e delle vesti si complica, e anche le aureole sono piene di minuscoli motivi ornamentali; lo sguardo dei personaggi è sempre orientato da sinistra verso destra. •La Pala d'Oro La Pala d'Oro di San Marco, ossia una delle opere più belle e singolari conservate a Venezia, è formata da una tavola lignea sulla quale sono inserite delle lamine d'argento, e su di esse sono lavorate a cloisonné preziosi smalti. La tavola è composta da numerosissimi medaglioni, e da oltre 2000 pietre preziose, come perle, ametiste, zaffiri, smeraldi, rubini, topazi e due cammei; a tutto ciò sono aggiunti i 39 piccole busti di santi fusi in argento sulla cornice esterna. La pala risale alla metà del XIV secolo nella sua struttura attuale, fatta restaurare quindi dal doge Andrea Dandolo nel 1345: la giunta delle pietre preziose e di alcuni smalti non alterò l'assetto originario, che ancora riflette le due fasi esecutive precedenti. La storia ci narra che il doge Pietro Orseolo I (976-78) ordinò a Costantinopoli una pala in argento e oro per l'altare della nuova Basilica di San Marco: sulla decorazione di questo manufatto non sappiamo molto. Dopodichè fu commissionata un'altra pala dal Doge Ordelaffo Falier (1102-18) sempre a Costantinopoli. Quest'opera, articolata in tre registri, si configurava come un paliotto piuttosto che come una pala, e potrebbe essere stata donata nel 1082 dall'imperatore Alessio I Comneno, poiché appare il suo ritratto in una placchetta del registro inferiore: la sua testa tuttavia fu sostituita con quella del doge Falier. La tavola primitiva si articolava in 3 registri di placche raffiguranti angeli, apostoli e profeti, disposti ai lati del pannello centrale rettangolare, in cui vi è Cristo seduto in trono (è affiancato da quattro clipei contenenti le immagini degli evangelisti). Sul lato superiore e sui due laterali vi era 27 formelle quadrate che raffigurano 11 scene della vita di Cristo, 10 della storia di San Marco e 6 Santi diaconi. Nella pala d'oro le scene cristologiche, quelle marciane e le figure di santi hanno un'unità di stile, e inoltre la gamma cromatica, la presenza di suppellettili, e la tipologia degli edifici di sfondo, fanno pensare ad un'unica maestranza. In una seconda fase di restauro, fatta nel 1209 per iniziativa del doge Pietro Ziani (1205-29), venne aggiunta la parte superiore di coronamento (al tempo ripiegabile), composta da sette grandi smalti con incorniciatura a fregio. Nel registro inferiore della Pala, in posizione centrale al di sotto del pannello con Cristo in trono, compaiono cinque scomparti: i due estremi contengono un'iscrizione, quello centrale la Vergine orante e due mediante le figure del doge e delle imperatrice Irene. I dati stilistici ed iconografici attribuiscono questi smalti ad un periodo che va dalla fine dell'XI agli inizi del XII secolo: la raffinatezza esecutiva rimanda ad un atelier della capitale; fra X e XII secolo vengono invece datate le formelle, le quali vennero sempre realizzate a Costantinopoli. Anche se questa Pala è composta da varie maestranze non appare come un oggetto di carattere disarmonico, appare invece come un capolavoro d'armonia e di unità: ciò è il risultato dei maestri veneziani e bizantini, i quali seppero fondere l'oriente e l'occidente in una perfetta sintesi. 30.I PANNELLI NELLA SANTA SOFIA DI COSTANTINOPOLI Sappiamo che la chiesa all'epoca di Giustiniano era prettamente aniconica, dopodiché cominciarono ad essere realizzate anche le immagini della Vergine, di Cristo, dei Santi e dei padri della Chiesa, immagini che erano posizionate negli spazi alti della chiesa. Accanto ad esse fanno la loro comparsa le rappresentazioni degli Imperatori: questi pannelli musivi venivano esposti negli spazi riservati delle gallerie, accessibili quindi solo ai sovrani, al loro seguito, al clero della Grande Chiesa e a pochi altri ospiti prediletti. Nella campata est si trovano due pannelli musivi che ritraggono rispettivamente gli imperatori Costantino IX Monomaco e Zoe ai lati del Cristo, e Giovanni II comemeno con l'imperatrice Irene e il figlio Alessio, ai lati della Vergine con il bambino. •Il mosaico di Costantino IX Monomaco e Zoe Questo mosaico è inquadrato da una cornice di marmo bianco e da tessere musive con sfondo aureo. Al centro vi è Cristo e alla sua destra vi è l'imperatrice Zoe, mentre alla sua sinistra l'imperatore Costantino IX: la figura centrale domina, sul suo trono senza schienale, questa struttura poiché è in una posizione sopraelevata ed è leggermente più grande degli altre due; la figura di Cristo viene risaltato anche grazie al blu scuro della sua veste, la quale fa focalizzare lo spettatore proprio su questo personaggio. I personaggi imperiali sono abbigliati con abiti di corte: il chiton, il volta), che riflettono le mode orientalizzanti molto utilizzate in quel momento a Costantinopoli; tuttavia non rimane quasi nulla della decorazione pittorica interna la chiesa. L'altra chiesa più tarda ospita il ciclo musivo più completo e meglio conservato della età medio bizantina; gli studiosi ancora dibattono sulla cronologia relativa a questa struttura, ma le ipotesi vanno tra la seconda metà del X secolo alla metà dell'XI. L'ipotesi più probabile è quella che fissa la costruzione della chiesa al 1011, poiché è la data in cui vennero spostate le reliquie di San Luca, inaugurando quindi l'attuale chiesa. All'interno la grande cupola poggia su quattro trombe angolari, e su articolati pilastri traforati da molteplici aperture ad arco, aperture presenti sia al pianterreno che al piano delle gallerie. I muri fino all'altezza delle volte sono ricoperti da preziosi rivestimenti marmori, e al di sopra di essi e nelle numerose volte si distende una grandiosa decorazione a mosaico, la quale esprime al meglio i nuovi programmi iconografici, formulati dopo la fine dell'iconoclastia; sono anche noti nella chiesa di Chios e in quella di Kiev. Nel catino absidale quindi su fondo oro abbiamo la Vergine col bambino seduta in trono. Al di sopra del bema vi è la Pentecoste: qui gli apostoli sono seduti su delle basse sedie disposte lungo la base circolare della Cupola; sempre nel bema gli arcangeli Michele e Gabriele raffigurano le guardie celesti della Vergine e del Cristo. La decorazione del naos è andata perduta nel 1593 a causa di un terremoto: tuttavia le pitture del XVII secolo producono a grandi linee ciò che vi era rappresentato in precedenza, quindi il Cristo Pantocratore al centro circondato da angeli e profeti. Come si è già detto l'episodio dell'Incarnazione di Cristo è realizzata nelle quattro trombe angolari: -nord-est=Annunciazione (oggi perduta); -sud-est=Natività; -sud-ovest=Presentazione al tempio; -nord-ovest=Battesimo. Nel nartece abbiamo altri episodi cristologici, relativi alla Passione e alla Resurrezione. Il programma musivo è decorato anche da immagini a figura intera negli intradossi delle arcate, e a mezzo busto nelle lunette, oppure dentro i clipei nei sottarchi e nelle volte a crociera. Fondamentali sono anche ritratti di Santi monaci, tra i quali spicca ovviamente San Luca, che è ritratto nella lunetta sulla parete ovest del braccio nord della Croce, il quale è in atteggiamento orante. Questo programma iconografico ha un altissimo livello stilistico: la bidimensionalità delle figure viene accentuata dai panneggi lineari schematici; viene data particolare attenzione alla dimensione spirituale dei personaggi, evidenziata dai grandi occhi scuri, che esprimono distaccamento. La tecnica esecutiva è molto raffinata, data per la disposizione ordinata e lineare delle tessere, e anche per la gamma cromatica che alterna ampie campiture scure a morbidi passaggi di toni pastello. In passato gli studiosi pensavano che le maestranze di questi mosaici provenivano da un'area provinciale, ma più recentemente si è capito che in realtà erano lavoratori di Costantinopoli, dove erano attive più botteghe di diverse tendenze e livelli stilistici. •Nea Moni a Chios Il monastero della Nea Moni (nuovo monastero) sorge sui monti dell'isola di Chios, il quale conserva ancora il katholikon decorato da uno straordinario ciclo musivo, datato all'XI secolo e attribuito a committenza imperiale. La struttura architettonica dell'edificio è a pianta quadrangolare triabsidata, e coperta da una cupola poggiante su muri articolari in otto pilastri e otto grandi conche; dunque l'edificio offre uno spazio ampio ed unitario, e la decorazione musiva si estende al di sopra dei rivestimenti marmorei. Nelle tre absidi, le quali sono di piccole dimensioni e separate dal naos, vi è raffigurata la Vergine orante al centro con gli arcangeli Michele e Gabriele (nei catini laterali); sulla volta del diaconicon rimane una croce gemmata a otto bracci, mentre il resto è frammentario. Nella grande cupola, ricostruita dopo il terremoto del 1881, vi era il busto di Cristo Pantocratore all'interno del medaglione, e quest'ultimo è circondato da 9 angeli (in vesti imperiali); nei sottostanti otto pseudopennacchi vi erano: 2 serafini, 2 cherubini, e i 4 evangelisti. Nel naos sono rappresentate le scene dell'Annunciazione, della Natività, e della Presentazione al tempio. Il Battesimo invece è realizzata nella conca sud: rispetto alla corrispondente ad Hosios Loukas, la scena è molto più affollata. Nella conca sud-ovest vi è una scena assente nell'altro monastero, ossia e la Trasfigurazione. Anche la Crocifissione (conca ovest) è piena di personaggi, i quali poggiano i loro piedi su una fascia scura di terreno. Nella conca nord-ovest, tra La Crocifissione e l'Anastasis, si inserisce un episodio meno frequente nei cicli più antichi, ossia la Deposizione della Croce: qui Nicodemo schioda il Cristo dalla croce e Giuseppe d'Arimatea prende il corpo tra le sue braccia. Infine l'ultima scena, inserita nella conca nord, è quella dell'Anastasis: qui il Cristo è ritratto in atto di trarre dal sarcofago, messo alla sua sinistra, Adamo ed Eva, mentre calpesta le porte degli inferi. Numerose altre scene cristologiche si trovano nel nartece: Resurrezione di Lazzaro, l'entrata in Gerusalemme, la Lavanda dei piedi, la Preghiera nell'orto, il fallimento di Giuda ed infine l'Ascensione e la Pentecoste. Completano il programma iconografico tantissime figure di santi, soprattutto Santi monaci come Sant'Antonio, e martiri collocati vicino al busto della Vergine a figura intera, o a mezzo busto dentro i medaglioni. Rispetto al Hosios Loukas le composizioni sono più ricche di personaggi e di paesaggi; inoltre sono animate da una potente drammaticità e da una tensione emotiva, accentuata degli atteggiamenti dinamici delle figure. •Santa Sofia di Kiev Verso la fine del X secolo il principe Vladimir I proclamò il cristianesimo ortodosso religione di Stato, e si sposò con Anna, ossia la sorella degli imperatori Basilio II e Costantino VIII. In questo modo furono messe le basi per il legame tra la nascente Russia e l'Impero bizantino, rapporto intensificato ancora di più grazie all'architettura e alle arti figurative; dunque venne creata la Santa Sofia a Kiev. Questa chiesa venne realizzata dal figlio di Vladimir, ossia Jaroslav il Saggio, tra il 1037 e il 1046. La decorazione musiva è realizzata nella zona del bema e del naos, mentre nel resto della chiesa il programma iconografico è completato da cicli di affreschi con numerose scene evangeliche e figure di santi. La chiesa di Kiev è uno dei pochi che conserva integra la decorazione della cupola, dove vi è appunto il Cristo Pantocatore chiuso all'interno di un medaglione pieno di luce, ed è circondato da quattro angeli: questi sorreggono con la mano sinistra il labaro e con la destra il Globo, ed indosso un prezioso loros gemmato. Tra le 12 finestre si disponevano gli apostoli, quasi del tutto perduti, e ancora più in basso nei oennacchi sono collocati i quattro evangelisti, dei quali sopravvive integro soltanto Marco (come a Chios è intento a scrivere il suo Vangelo). Nel grande arco orientale si trova il Cristo sacerdote entro un clipeo. Nel catino absidale vi è la figura della Vergine in atteggiamento orante che indossa una tunica blu scuro. Sopra all'arco absidale ci sono tre clipei con i busti della Vergine, di Cristo e del Battista, i quali compongono la Deesis. Nella parte superiore del semicilindro absidale è raffigurata la Comunione degli Apostoli: questo tema iconografico è molto antico, tuttavia la sua diffusione nei programmi decorativi risale all'età post iconoclasta; n questa scena vi è l'altare davanti ad un ciborio, mentre a destra e a sinistra c'è la figura sdoppiata del Cristo accompagnata da due angeli: quindi Cristo distribuisce a sinistra il pane e a destra il vino ai due gruppi di apostoli (capeggiati da Pietro e Paolo). La scena costituisce la traduzione in senso liturgico dell'ultima cena. Nella parte inferiore del semicilindro ci sono le figure frontali di otto padri della Chiesa. La decorazione musiva comprende anche l'Annunciazione sulla faccia ovest divisa tra i due pilastri orientali. Il programma decorativo di questa chiesa ha uno stile più lontano da quello della Neo Moni di Chios, mentre è più vicino a quello di Hosios Loukas: infatti questi due condividono lo stesso modo disorganico e geometrizzante nel disporre le pieghe al di sopra dei corpi, e anche i volti ovali e arrotondati vengono illuminati da una luce chiara e uniforme. Anche per la chiesa di Kiev si è pensato ad un'équipes di diversi lavoratori, provenienti sia da zone locali che da botteghe di Costantinopoli. da un manoscritto realizzato nel monastero al tempo di Teodoro. Sono quindi rappresentate molte cerimonie religiose, come la Festa dell’esaltazione della Croce, e ci sono anche ovviamente numerose immagini di santi, i quali sono ritratti isolati, in gruppi oppure in scene più o meno complesse: i santi sono per lo più utilizzati per esemplificare le virtù che i monaci, sotto la guida dell’abate Michele, devono praticare, come l’obbedienza, la carità, la castità ecc.; altre scene mettono in guardia i monaci sui pericoli della vita cittadina. Nel manoscritto compare anche la polemica anti-iconoclasta, evocata per sottolineare il ruolo svolto dai monaci del monastero di Studio contro quell’eresia, e per evidenziare la responsabilità dell’abate Michele nel far rispettare ai monaci l’ortodossia. I temi teologici vennero copiati da antichi manoscritti, come nel caso del Salmo 77 in cui vediamo Samuele che unge Davide, mentre la Vergine con il Bambino appare sulla sommità di una montagna. I paesaggi e le strutture architettoniche sono estremamente semplici, in cui viene esaltata un’atmosfera irreale ottenuta con il fondo neutro della pergamena; qui le piccole figure sono eleganti, i movimenti leggeri e sciolti, e le vesti sono smaglianti e variopinte. Altrettanto ricco e raffinato è il corredo illustrativo del Tetravangelo gr. 74 della Bibliothèque Nationale di Parigi, un manoscritto di piccole dimensioni: qui ogni Vangelo si apre con degli elaborati frontespizi ‘a tappeto’, e medaglioni che accolgono minuscole figurine, prive di consistenza e volume, avvolte in panneggi schematici e piene di luce aurea. La maggior parte delle pagine contiene fregi figurati che illustrano diversi episodi evangelici: in tutto ci sono 375 immagini, caratterizzate da colori puri e da un disegno molto raffinato, che rimanda agli ideali estetici dell’XI secolo. Come nel Salterio di Londra le figure sono prive di consistenza ed indossano panneggi schematici, disegnati da una ragnatela d’oro. Dunque il Salterio di Londra si richiama ai codici con figurazioni marginali dei primi decenni del IX secolo (Salterio Khludov), mentre il Vangelo di Parigi rinvia ad un tipo di illustrazione di carattere narrativo, ispirato ai cicli paleocristiani, ai quali si aggiungono elementi tratti dalla vita monastica o dalla liturgia, proponendo quindi una riflessione sulla natura teofonica del Vangelo. È strutturato in modo analogo l’apparato illustrativo del Tetravangelo della Biblioteca Laurenziana di Firenze, datato tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo; in questo manoscritto ci sono ben 294 strisce miniate, molte delle quali raffiguranti più episodi giustapposti, per un totale di quasi 750 scene. Rimanendo su questa corrente stilistica possiamo parlare anche del sofisticato Lezionario (con Sinassario) della Vaticana, datato all’ultimo trentennio dell’XI secolo: qui le illustrazioni comprendono eleganti ritratti di evangelisti seduti presso scrittoi su fondo dorato. •I codici con le Omelie di Gregorio Nazianzeno Tra la fine dell’XI sec. E l’inizio del XII sono stati realizzati due codici molto affini tra di loro, i quali contengono una raccolta delle Omelie di Gregorio Nazianzeno: questi due codici sono uno nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, e l’altro sta al Monastero del Sinai. Quest’ultimo venne realizzato su commissione di Giuseppe Hagioglykerides, uno dei primi egumeni del monastero costantinopolitano del Pantocatore, fondato da Giovanni II Comneno (1118-43): questo codice venne realizzato per onorare la ricostruzione del Monastero della Vergine Pantanassa sull’isola di Hagia Glykeria, nel Mar di Marmara. Questo egumeno era un personaggio molto importante poiché riuscì a portare a Costantinopoli da Efeso la pietra sulla quale era stato preparato per la sepoltura il corpo di Cristo, pietra che fu collocata nel Monastero del Pantocratore presso la tomba di Manuele I Comneno. Il codice del Sinai è uno dei più importanti a causa delle tante illustrazioni che ci sono al suo interno: particolari sono le soluzioni decorative che rivelano una grandiosa creatività, mostrate soprattutto nelle lettere iniziali o sul margine. La prima Omelia è dedicata alla Pasqua ed ha come frontespizio la scena dell’Anastasis, realizzata in uno spazio polilobato e all’interno di un riquadro pieno di girali floreali su fondo d’oro; il tema dell’Anastatis è replicato anche nell’iniziale della parola stessa. A piena pagina vi è il ritratto di Gregorio Nazianzeno, il quale sta scrivendo nel suo studio ed è circondato da una struttura architettonica e da un più articolato complesso monumentale. L’artista si soffermò anche a descrivere i giardini che circondavano i monasteri, rari arredi marmori delle chiese di Costantinopoli, rappresentando anche la Vergine con il Bambino nell’abside. Lo stile di questo codice rivela un linguaggio più formale, raffinato e utilizza un chiaroscuro più sapiente nel realizzare i volti e i panneggi delle vesti. •Le Omelie di Giacomo Monaco e i manoscritti attribuiti al cosiddetto Maestro di Kokkinobaphos Durante il secondo quarto del XII secolo nasce una produzione libraria con uno stile fortemente decorativo, in cui l’ornamentazione acquisisce sempre più spazio nell’apparato illustrativo dei manoscritti: i testi vengono riempiti di magnifici frontespizi simili ad arazzi e con bellissime iniziali zoomorfe. Questo stile venne attribuito al monaco Giacomo Kokkinobaphos; egli scrisse sei Omelie, testi in cui vi è la biografia di Maria narrata in modo cronologico, quindi dalla sua Concezione alla Visitazione a Santa Elisabetta; inoltre queste omelie sono piene di illustrazioni. Queste raccolte illustrate delle Omelie fanno parte di due codici, uno conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, e l’altro nella Biblioteca Vaticana. Entrambi i codici non contengono solo la vita di Maria, ma anche una serie di miniature che illustrano la vicenda di Maria nella storia della salvezza: «Maria è lo strumento e la garanzia del piano salvifico di Dio per ricondurre l’umanità all’originale splendore del Paradiso». Le immagini riproducono una intensa espressività, e lo fanno grazie all’uso del colore decisamente originale ed innovativo, con campiture dense e tonalità molto accese; tuttavia la gamma cromatica è ristretta, in cui dominano il rosso, il verde, il rosa pallido e il blu. I contrasti non turbano l’armonia, ma esalta il carattere del paesaggio e delle architetture, piena di dettagli e nozioni di genere. In entrambi i codici è straordinaria la miniatura realizzata sul frontespizio, che riproduce le forme architettoniche di una chiesa con cinque cupole su tamburo finestrato: lo spazio interno di questa chiesa è alternato da quattro coppie di colonne annodate, tra le quali al centro vi è Maria e gli Apostoli (testimoni dell’Ascensione di Cristo), mentre i lati ci sono i profeti Isaia e Davide, con un rotolo su cui si leggono le rispettive profezie. Al di sopra in un ambiente cupolato vi è rappresentata la Pentecoste. Tra gli altri manoscritti realizzati dell’équipe del Maestro Kokkinobaphos il più noto è il piccolo Tetravangelo della Vaticana, un codice molto raffinato e famoso per il fatto che venne realizzato su committenza Imperiale: questa informazione ci è indicata dalla miniatura a prima pagina in cui sono ritratti Giovanni II Comneno e il figlio Alessio. Tale manoscritto si apre con la lettera di Eusebio a Carpiano scritte in oro, e comprende: -le tavole dei canoni con arcate decorate da motivi a girale su colonne. -la miniatura con i ritratti dei due imperatori sul fondo oro; sopra le loro teste ci sono le mani di Gesù in trono, segno di protezione, e a fianco a loro ci sono le personificazioni della Misericordia e della Giustizia. Qui ogni Vangelo è preceduto da una miniatura a piena pagina, con una scena della vita di Cristo, messa in relazione alle 12 feste liturgiche. Al Maestro di Kokkinobaphos sono stati attribuiti anche: -Evangeliario, conservato nella Bodleian Library di Oxford; -Ottateuco di Smirne, andato perduto; -Ottateuco della Biblioteca del Serraglio ad Istanbul. 33.LA PITTURA MONUMENTALE NEI BALCANI IN ETÀ COMNENA Durante il XII secolo comincia ad affermarsi uno stile più solenne, in cui la figura umana è statica e frontale ed è caratterizzata da una gestualità rigidamente prestabilita; quindi la figura si allunga e il panneggio che indossa diventa più fitto di linee. I fondali aurei hanno il sopravvento, mentre quelli architettonici diventerò più semplici e schematizzati. I colori sono più densi, simili agli smalti, e i toni sono più luminosi per trasmettere il bagliore del mondo ultraterreno. Tuttavia nella seconda metà del secolo, durante l’età Comnena, lo stile cambia: infatti le figure sono più inchinano di fronte a lei. Nella parete occidentale vi è l'immagine di Cristo nell'iconografia dell'Antico di Giorni: in questa scena Cristo è circondato da angeli e da schiere celesti. La scena della Dormitio Virginis è messa nella parete ovest sopra l'ingresso all'edificio. Nel ciclo pittorico di questa chiesa c'è una serie di immagini di santi vescovi, medici, e profeti. Lo stile del San Giorgio va verso elementi barocchi, dove la decorazione assume un nuovo dinamismo: i corpi si allungano e spesso si muovono in modo innaturale; la linea è più nervosa, spezzata e spesso aggrovigliata. Infine nelle scene del ciclo della passione di Cristo notiamo un accrescimento della tensione drammatica, già presente a Nerezi, che si esprime in gesti più eclatanti di dolore e disperazione, come nella Deposizione. 34.I MOSAICI DELLA SICILIA NORMANNA In Sicilia si conservano ampi cicli musivi realizzati durante il XII secolo, e commissionati dai sovrani Normanni a botteghe bizantine di primissima qualità: queste grandiose intraprese si svolsero in diversi luoghi ed in un breve lasso di tempo, ossia tra il 1130 e il 1194. Con la nascita del Regno di Sicilia nel 1130 Ruggero II d'Altavilla (1130-54) per legittimare il proprio potere legò la propria immagine agli usi e costumi della Corte costantinopolitana, importando botteghe di mosaicisti a Costantinopoli per decorare chiesa e Palazzi. Quindi diede inizio alla costruzione della Cappella Palatina dedicata a San Pietro, all'interno del Palazzo Reale fortificato di Palermo; si occupò anche della cattedrale di Cefalù, chiesa destinata ad accogliere le spoglie del sovrano: svolge funzione di Pantheon dinastico. Gli studiosi capirono che la Cappella Palatina in origine aveva due funzioni: -il transetto, il presbiterio e la zona asidale svolgevano una funzione religiosa=questa parte era decorata da immagini iconografiche e stilistiche, appartenenti al mondo bizantino -le tre navate funzionavano come sala del trono o aula di udienza del re=la navata centrale si decorò con un magnifico soffitto realizzato da maestranze arabe; stile utilizzato anche nell'egitto fatimide. Questa parte verrà poi legata all'edificio di culto, e ricoperta anch'essa con cicli musivi della Genesi e delle storie di Pietro e Paolo. Nella chiesa si può notare come era attiva una bottega che lavorava con uno stile tipico della prima età Comnena, stile che si esprime attraverso figure che hanno nobili proporzioni e un accentuato illuminismo, intensificato dall'ampio uso di tessere d'argento. Vi è anche qui la tendenza verso quel gusto lineare e dinamico che si afferma nella seconda metà del XIII secolo: i sinuosi contorni e gli elaborati panneggi compongono scene complesse, inquadrate da elementi paesaggistici, architettonici e vegetali. Nella cattedrale di Cefalù la decorazione musiva si esprime in un linguaggio nobile e grandioso, improntato ad una solenne classicità. Il busto del Pantocratore è qui collocato nel catino absidale: di solito questa immagine era inserita nella cupola, cose che qui non poteva avvenire in quanto la chiesa è sprovvista di tale elemento architettonico. Al di sotto di questa immagine vi è la Vergine orante con degli arcangeli; invece nei due registri ancora inferiori ci sono gli apostoli. Sulla volta costolonata appaiono i Cherubini e i Serafini. Dunque le iscrizioni sono tutte in greco, fa eccezione il testo scritto sul libro aperto di Cristo che è bilingue (greco-latino). Questa parte è realizzata con un altissima qualità decorativa: con il Pantocratore di Cefalù gli artisti bizantini attivi in Sicilia nel XII secolo raggiunsero il loro massimo splendore. Di minore qualità sono invece le figure dei santi e dei profeti nella zona presbiteriale: qui le figure sono più pesanti, e ciò dimostra che queste immagini non erano realizzate da una solo scuola, ma da più maestranze locali che imitavano le opere dei musivari bizantini. Lo stile bizantino quindi venne ammirato dal re Ruggero II, ma non solo, anche il Grande Ammiraglio Giorgio di Antiochia nella sua fondazione di Santa Maria dell'Ammiraglio, nota anche come Martorana, impiegò maestranze bizantine per la decorazione dell'edificio. Tale chiesa era dotata di pianta centrale a croce greca iscritta in un quadrato e di quattro colonne che sorreggono la cupola centrale. Nella cupola centrale quindi abbiamo il Pantocratore a figura intera, assiso in trono e circondato dagli angeli: questa scelta iconografica non era per niente comune nel mondo bizantino. Il carattere dinamico risulta qui più accentuato, così come la linea è più frammentata; al posto dell'oro comincia ad esserci una più vasta gamma di colori smaglianti. L'ultimo grande complesso voluto dal re Normanno Guglielmo II è il duomo di Monreale, commissionato nel 1173 come nuovo Pantheon Reale, al posto della cattedrale di Cefalù. All'interno dell'enorme chiesa abbiamo tre navate, un ampio transetto, un lungo presbiterio e una terminazione triabsidata; qui fu eseguito una decorazione musiva che ricopre circa 6400 metri quadrati di superficie. Guglielmo II è qui raffigurato due volte, sempre incoronato da Cristo e in veste di donatore del tempio alla Vergine. Dunque nel grande complesso fu rappresentato il Pantocratore, scena della vita di Cristo, storie della Genesi, le storie degli apostoli Pietro e Paolo, e i vari miracoli che fece Gesù. Gli storici sono d'accordo sul fatto che in questa struttura ci furono più maestranze bizantine per elaborare gli apparati decorativi. Con la morte di Guglielmo II avvenuto nel 1189 terminò anche il Regno Normanno di Sicilia, che cadde in mani germaniche/svedese nel 1194. 35.LO SVILUPPO DELL'ICONA TRA X E XV SECOLO •Le icone dipinte Dopo la fine della crisi iconoclasta, l'icona come strumento di preghiera si diffonde sempre di più presso i più ampi strati della popolazione; tale uso troverà il suo culmine nei paesi slavi, ad esempio la Russia. Purtroppo non si è conservato molto della produzione di icone dell'età macedone (IX-XI secolo). Il Monastero di Santa Caterina al Sinai accoglie una ricchissima serie di icone medio e tardobizantine, inserita in quattro riquadri; questa presenta scene relative al Mandylion, ossia il mitico ritratto autentico del Cristo che era stato portato a Costantinopoli da Edessa nel 944 e qui accolto dagli imperatori Romano I e Costantino VII Porfirogenito: quest'ultimo si fece ritrarre come il re Abgar. Il monastero è stato datato alla fine dell'XI secolo (ma anche oltre il XII). In età comnena (1081-1204) quindi si incentiva la produzione di icone, sia per la devozione pubblica che privata. II XII secolo ci ha dato delle maestose opere d'arte e di spiritualità, come la Vergine con Bambino della Galleria Tretjakov di Mosca, nota come Vergine di Vladimir, probabile dono dei Bizantini ai principi russi di Kiev, tra il 1130 e il 1140; in questa immagine vi è un rapporto più intimo tra Madre e Figlio, che sono raffigurati guancia a guancia: raffinatezza d'esecuzione, morbidezza della gamma cromatica, intensità di espressione. Realizzata a invece durante lo stile tardo-comneno è l'icona dell'Annunciazione, custodita anch'essa nel convento di Santa Caterina al Monte Sinai: immagine realizzata con diverse tonalità d'oro. Iniziarono ad affermarsi in tarda età commena anche altre peculiari tipologie di icone: -icone a mosaico minuto -icone agiografiche=manufatti di grande formato, con al centro una immagine di santo o santa, a figura intera o a mezzo busto, circondata da una serie di scenette che narrano gli episodi più importanti del personaggio raffigurato. Grandissimo esempio di questa tipologia è un'altra icona sinaitica, quella di San Nicola a mezzo busto, del XII secolo. In età Paleologa si cominciano ad affermare centri diversi da Costantinopoli, dove si segnalano le contaminazioni con le arti dell'Occidente. Sono un esempio le Madonne Kahn e Mellon della National Gallery di Washington: non sappiamo precisamente quando sono state realizzate, ma vanno sicuramente attribuite a maestranze sia bizantine che italiane. Quindi dopo il 1453 il primato nella produzione di icone si sposterà in Russia. Un'icona di altissima qualità è quella della Trinità dell'Antico Testamento, inserita un tempo nel Monastero della Trinità di San Sergio a Zagorsk (ora Sergiev Posad), oggi invece alla Galleria Tretjakov di Mosca; in questa immagine abbiamo i tre nobili angeli, 36.LA PITTURA DEL XIII SECOLO NEI BALCANI Il XIII secolo rappresenta un periodo fondamentale per la storia dell’arte bizantina. Molti artisti bizantini abbandonarono Costantinopoli quando la città venne presa dai Latini nel 1204, ossia dopo la quarta crociata: quindi in molti si recarono in Serbia, in Bulgaria, Armenia, Georgia, Italia, ad esercitare la loro arte, facendola espandere sia in Oriente che in occidente. Ovviamente gli artisti che si spostarono rimasero fedeli alla loro tradizione, ma tennero conto anche delle diverse realtà locali in cui si trovavano ad operare. Dunque nel 1261 Michele VIII Paleologo cacciò i Latini da Costantinopoli: in quel periodo Nicea era diventata la città più importante, dove vi era il sovrano, la quale aveva permesso a quest’ultimo la riconquista del trono. Purtroppo né a Costantinopoli né a Nicea si conservano opere monumentali, le quali ci potevano consentire di conoscere gli esordi dell’arte paleologa. Quindi dobbiamo guardare alla Serbia, oltre che a Salonicco e a Trebisonda, per capire il processo evolutivo che prese avvio in quegli anni. L’arte si sviluppò in questo stato per vari fattori, come ad esempio il volere essere sempre più esperti di cultura da parte dei sovrani, i quali appunto disponevano di consistenti mezzi finanziari: così in questo modo stavano al passo con lo splendore della capitale bizantina. L’altro fattore importante che determinò lo sviluppo artistico fu appunto il fatto che molti artisti bizantini di alto livello si erano trasferiti in Serbia per un lungo periodo, attorno i quali si crearono scuole d’arte; gli artisti di questo periodo si esprimevano in maniera anche più libera e spontanea, distaccandosi a volte dalle tradizioni. Assume un ruolo importante lo sfondo, anche se sempre subordinato la figura umana. Complessi pittorici molto importanti di questo periodo li abbiamo nella Chiesa della Madre di Dio a Studenica (1208-09), e nella Chiesa dell’Ascensione a Mileseva (1228). Nella prima chiesa possiamo notare come negli affreschi vi è un notevole distaccamento dal solito trattamento grafico, dagli eccessi decorativi e dall’esagerato allungamento delle figure; vi è invece un modellato meno spigoloso e più disinvolto, e i colori si fanno più tenui e luminosi: cominciamo a vedere come emerge la foglia d’oro, la quale serviva ad emulare gli effetti del mosaico. Ma gli affreschi che hanno assimilato al meglio la pittura serba sono quelli della Chiesa della Santa Trinità nel monastero di Sopocani (1263-68), dove il nuovo stile paleologo è già delineato da mani di artisti di altissimo livello: il loro stile è caratterizzato da figure imponenti, delineate secondo i canoni di un classicismo che ricorda la statuaria classica, e la gamma cromatica ricerca tonalità tenue di pastello (verde, rosa, azzurro, Malva, bianco). Di tratto antichizzante sono i volti, dall’espressione grave e solenne, con labbra carnose, nasi lunghi, e orecchie ben delineate; quindi i panneggi presentano pieghe ampie, che avvolgono il corpo in modo largo e pagato. Alla fine del secolo vennero realizzati i dipinti della Chiesa di San Clemente ad Ochrida (1295), in cui abbiamo il massimo esempio di stile paleologo con forti inflessioni locali. Comunque il programma iconografico di questa Chiesa ha una base narrativa e simbolica, influenzata dai testi apocrifi, in particolare nelle scene della vita della Vergine e di Gioacchino ed Anna. Nello stile di questi dipinti si nota l’importanza che si diede alle architetture, e alla rappresentazione del dramma, che assume toni più profondi. I personaggi appaiono più massicci, robusti e pesantemente modellati: i volti sono più carnosi, e le espressioni sembrano più marcate e corrucciate. Le figure sono segnate da linee scure, troppo pesanti, che conferivano una durezza un po’ troppo eccessiva, e la gamma cromatica era caratterizzata da forti contrasti: tutto ciò era ben lontano dalla sobria pacatezza di Sopocani. 37.LA DECORAZIONE MUSIVA E PITTORICA A COSTANTINOPOLI NELL’ETÀ DEI PALEOLOGI •La Deesis nella Santa Sofia La Deesis realizzata nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, a mosaico nella campata centrale della galleria Sud, fu molto probabilmente seguita intorno al 1261, forse per celebrare la riconquista della Capitale da parte di Michele VIII Paleologo. Grazie a documenti sappiamo che di fronte al mosaico si trovava una recinzione presbiteriale con lastre e pilastrini di reimpiego: il complesso quindi funzionava come una cappella laterale. I ritratti dei personaggi, ossia Cristo, Maria e Giovanni Battista, sono realizzati in modo monumentale, quasi il doppio del vero. Gli artisti che operarono su questo dipinto misero una fortissima carica umana nei personaggi: l’intenso Cristo, la dolente Vergine, e il tormentato Battista. Vi è un richiamo ad Antiche Tradizioni, che possiamo trovare anche nella lavorazione del fondo d’oro a pelte trilobate, stile che possiamo trovare nel mosaico pavimentale del Grande Palazzo di età giustinianea. •Il Parekklesion della Theotokos Pammakaristos Il Parekklesion della Pammakaristos è un piccolo edificio, accostato dopo il 1306 ad una chiesa preesistente, probabilmente di età comnena, su committenza di Maria (poi monaca Marta) come cappella sepolcrale del marito Michele Ducas Glabas Tarchaneiotes, dove si è conservato parte del ciclo musivo e resti della decorazione marmorea. L’impianto architettonico di questo edificio è tradizionale, ossia a croce greca inscritta su quattro colonne, le quali ad oggi sono in parte di restauro. Della decorazione musiva resta la cupola centrale con il Pantocratore nel clipeo, circondato da 12 profeti. Nell’abside invece abbiamo un’altra immagine di Cristo in trono, affiancato nelle lunette del bema dalla Vergine e dal Battista: è una sorte di Deesis; tale immagine era sormontata nella volta del bema dagli Arcangeli Michele, Gabriele, Raffaello e Uriele. Tra le feste liturgiche si è conservato integralmente quella del Battesimo. I mosaici sono opera di almeno due mani principali e con uno stile diverso, ma con una base simile: le figure sono di ridotte dimensioni ma eleganti, e atteggiate ma senza e accessi espressionistici; i volti sono definiti con raffinati dettagli. •La chiesa del monastero di Chora (Kariye Camii) Di grandissimo importanza è il ciclo musivo realizzato nel monastero di Chora, ciclo che si è conservato nella maggior parte e se ne conosce committente e datazione. I mosaici sopravvissuti decorano esonartece, nartece e naos della chiesa di antica origine, che fu katholikon di un monastero, ricostruita varie volte: -prima volta da Maria ducena, suocera di Alessio I Comneno, tra il 1077 e il 1081 -seconda volta da Isacco Comneno, fratello di Giovanni II e padre di Andronico I, tra il 1118 e il 1122. -ultima volta venne realizzata tra il 1315 e il 1320, quando Teodoro Metochite venne nominato primo ministro: una delle sue figlie si sposò con Giovanni, ossia nipote dell’imperatore Andronico II Paleologo. Nel pannello che sovrasta la porta centrale del nartece è raffigurato Metochite in ginocchio, di fronte a Cristo, nell’atto di offrirgli il modellino. Gli abiti sono resi con uno stile che si avvale della moda turchesca, quindi con un lungo caftano verde e oro, e un enorme turbante sulla testa. Anche in questo pannello il fondo d’oro è lavorato a pelte come nella Deesis della Santa Sofia. Nell’esonartece e nel nartece sono rappresentati due cicli principali, ovvero il ciclo dell’infanzia della Vergine e di quello del Ministero di Cristo (cioè i miracoli). Oltre ai rivestimenti marmorei e al pavimento nel Naos si sono conservati solo i soffitti delle finestre a motivi vegetali sul fondo bianco, due icone murali di Cristo e della Vergine, e il pannello della Koimesis sopra la porta centrale. Sulla apertura nell’arco absidale abbiamo da una parte Cristo e dall’altra la Vergine con il Bambino, rappresentati in un formato monumentale, figure racchiuse in spettacolari cornici scultore a motivi vegetali e figurativi. La Koimesis è di piccolo formato, ed è incastonata in una parete marmorea: ha uno stile raffinato e compositivo, giocato soprattutto tra oro, argento e angeli in monocromia bella Mandorla del Cristo. Nel nartece il ciclo mariano è estremamente dettagliato e complesso, e le sue storie sono tratte dal Proto-vangelo di Giacomo. Le storie di Maria vanno dall’annuncio dell’Angelo alla madre Anna, e seguono con la Natività, la Strage degli innocenti, la Fuga in Egitto. Il ciclo cristologico presenta i miracoli e le guarigioni effettuate da Gesù, sempre accompagnato da due o più apostoli. Nei mosaici della Chora possiamo
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