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Introduzione alla filosofia del linguaggio, Sintesi del corso di Storia Della Filosofia

Riassunto di alcune parti del libro "Introduzione alla filosofia del linguaggio" di C. Penco.

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Scarica Introduzione alla filosofia del linguaggio e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! Filosofia e Scienze e tecniche psicologiche Esame: Storia della filosofia contemporanea Testo: “Introduzione alla filosofia del linguaggio” Carlo Penco (seguito da Prof. Calemi) Capitoli: 1, 4, 5, 6 (pag. 63-68), 8, 9, 10, 11 (pag. 129-135), 13 (pag. 150-160) Parte prima: Filosofia, logica e linguistica Capitolo 1: Dare ragioni 1.1 Che cos’è un’argomentazione Studiare filosofia capire la struttura delle argomentazioni ragionamento che tende a dimostrare una tesi (conclusione) in modo persuasivo 1- sulla base di ragioni (premesse o assunzioni) 2- usando regole o schemi riconosciuti • si dice sconclusionato un discorso senza conclusione • una vera conclusione deve seguire ragioni presentate in un certo ordine, con una connessione le ragioni si connettono secondo regole comunemente accettate e tali da garantire la verità • Lavoro di Frege: distinzione tra assiomi e regole assiomi, o assunzioni sono ciò che costituisce il punto di partenza del nostro ragionamento; regole di inferenza sono le regole accettate che permettono di passare dalle assunzioni alle conclusioni; inferenza, il termine si usa per parlare 1- dell’azione del passare dalle premesse alle conseguenze secondo regole 2- della struttura di questo passaggio Un’argomentazione è costituita da una o da una serie di inferenza di solito seguiamo regole di inferenza implicitamente il lavoro dei logici consiste nel rendere esplicite alcune di queste regole, in particolare quelle che garantiscono la verità della conclusione Esempio classico di regole di inferenza: regola del Modus Ponens posta da Frege come regola base del suo sistema logico: 1° riga se p allora q 2° riga p _________________________ 3° riga q Le prime 2 righe costituiscono le premesse dell’argomento; la 3° riga costituisce la conclusione; “p” e “q” possono essere sostituite da proposizioni qualsiasi (es. se piove allora mi bagno, piove, quindi mi bagno) La riga fa parte del segno di derivazione, sta per “quindi”, “ragion per cui”. Si distinguono argomentazioni deduttive e induttive: • argomentazione valida (valid): un’argomentazione in cui non è possibile che la conclusione sia falsa e le premesse vere • argomentazione corretta (sound): un’argomentazione valida e fondata, ossia le cui premesse sono vere • argomentazione buona (good): un’argomentazione corretta, ma anche psicologicamente plausibile e convincente • argomentazione invalida: la cui conclusione necessariamente delle promesse • argomentazione scorretta: invalida o con premesse false • argomentazione fallace: sembra corretta, ma non lo è; scorretta ma anche psicologicamente plausibile e convincente Passi dell’argomentazione (“commettere un passo falso”) rende un’argomentazione invalida o scorretta distinguere validità da verità: se le premesse sono false un’argomentazione può avere una conclusione falsa eppure essere valida; Un’argomentazione non valida può avere conclusioni vere: 1. italiani mafiosi milanesi italiani -conclusione falsa argomentazione valida, segue delle premesse milanesi mafiosi 2. italiani mafiosi milanesi mafiosi -conclusione vera, ragionamento insensato milanesi italiani Perché interessarsi alla prova\dimostrazione? La dimostrazione ci da garanzia di mantenere la verità attraverso il ragionamento se le premesse sono vere, e si segue un’argomentazione valida, allora la conclusione sarà anch’essa vera. 1.2 Forma degli argomenti e fallacie Fin da Aristotele si è cercato di distinguere argomentazioni valide e invalide individuando la loro forma. Per questo la logica, fin dai tempi di Aristotele, viene chiamata “logica formale”. Ad esempio le argomentazioni (1) e (2) hanno due forme diverse, o due diversi schemi di inferenza rappresentabili in diagrammi: 1. Tutti gli A sono B, tutti i C sono A, tutti i C sono B VALIDO 2. Tutti gli A sono B, tutti i C sono B, tutti i C sono A INSENSATO Come respingere argomentazioni scorrette? Fornire un controesempio: 1- applicare la stessa forma o schema di argomentazione usato nell’esempio che pare convincente; 2- produrre con questa forma, una conclusione altamente non plausibile. Controesempio: gli italiani sono europei, i francesi sono europei, gli italiani sono francesi Si può riassumere così: • la falsità di quanto si dice può essere smascherata con l’evidenza di prove e dati empirici o anche di ipotesi non considerate • la scorrettezza dell’argomentazione può essere smascherata da controesempi, o mostrando l’anello debole della catena di inferenze Lo studio della fallacie, o almeno la cura dell’argomentazione, dovrebbe far parte dell’armamentario di ogni filosofo 1.3 Logica, argomentazione e analisi del linguaggio Anche Frege come Aristotele vede nella logica uno strumento utile a chiarire confusioni concettuali. Cercando di dare un fondamento logico alla matematica Frege ha fallito, ma ha scoperto un intero contenente intellettuale: la nuova logica e i problemi della filosofia del linguaggio riferimento normale. Un’espressione in un contesto indiretto assume come riferimento un riferimento indiretto, che corrisponde al senso normale. Secondo Frege: credere, pensare, sapere sono atteggiamenti che riguardano proposizioni. 4.5 Senso e verità: determinatezza del senso Senso di un enunciato: abbiamo due tipi di valori, il valore conoscitivo e il valore semantico. Il senso è il valore di conoscenza degli enunciati e il riferimento è il valore di verità. Senso e riferimento sono intimamente collegati: il senso è ciò che è rilevante per la verità. Per Frege equazioni matematiche come 2+2=8-4 sono costituite da proposizioni con lo stesso riferimento e con diverso senso. Il senso di ciascuna proposizione è determinato e inequivocabile e permette di verificare a quale condizione l’equazione è vera. Diversa è la situazione del linguaggio naturale problemi secondo Frege: 1) l’oscillazione del senso dei nomi; 2) l’indeterminatezza del senso di espressioni considerate fuori dal contesto di emissione. 1. Nel linguaggio naturale parlanti diversi possono attribuire sensi diversi allo stesso nome. 2. Nel linguaggio naturale per sapere quale pensiero si è espresso da un enunciato, la sola espressione linguistica non basta (per esempio bisogna conoscere anche il tempo, il luogo o il parlante) Capitolo 5 Nominare oggetti: Frege, Russel, Wittgenstein 5.1 Frege, Russel e Wittgenstein La filosofia del linguaggio contemporanea nasce dall’intreccio delle relazioni di tre pensatori molto diversi tra loro, ma indissolubilmente legati sia da relazioni teoriche profonde che da intensi rapporti personali. W. conosceva e apprezzava i lavori di F., e F. gli consigliò di andare a studiare da R. Il primo e fondamentale libro di W. venne pubblicato nel 1921 con il titolo di “Tractatus logico- philosophicus. F, R e W ebbero spesso contrasti, uno di questi riguardava il problema delle idee denotanti, cioè espressioni come “pegaso il cavallo alato”, “Sherlock Holmes”. Se i nomi sono espressioni del linguaggio che si riferiscono a oggetti, a cosa si riferiscono tali nomi? E come valutare gli enunciati in cui compaiono tali nomi? 5.2 Frege, termini non denotanti e presupposizione Frege in ogni tipo di espressione linguistica del linguaggio logico ha un senso e un riferiento, secondo lo schema seguente: Nome proprio Predicato Enunciato Senso modo di dare il riferimento modo di dare il riferimento pensiero Riferimento oggetto concetto valore di verità Estensione classe Frege usa il termine “nome proprio” al posto di quello che noi indichiamo come “termine singolare”, o termine che ha per riferimento un singolo oggetto. Tesi fondamentale di Frege è che espressioni che denotano un singolo oggetto presuppongono l’esistenza dell’individuo in questione. Se dico “l’inventore delle orbite ellittiche dei pianeti morì in miseria” o “Keplero morì in miseria” presuppongo che vi sia qualcuno che inventò le orbite ellittiche dei pianeti o presuppongo che via sia una persona chiamata Keplero. L’argomento di questa tesi è semplice: se nell’enunciato “Keplero morì in miseria” fosse contenuto il pensiero - Keplero denota un individuo esistente -, la negazione di tale enunciato dovrebbe essere “Keplero non morì in miseria”, oppure il nome “Keplero non denota alcunché”. Ma la normale negazione dell’enunciato è “Keplero non morì in miseria”. In questo si vede che quando si formula un’asserzione si presuppone l’esistenza dell’individuo dal nome proprio che viene usato. L’esistenza di un individuo chiamato “Keplero” è una presupposizione sia dell’enunciato in questione, sia della negazione. E questa è la prima definizione della presupposizione semantica: una presupposizione semantica di p è un enunciato q che deve essere vero affinché sia p che non p possano essere veri; o schematicamente, p presuppone semanticamente q se: a. se p è vero allora q è vero b. se p è falso allora q è vero Keplero morì in miseria\Keplero non morì in miseria presuppongono Keplero esiste. Normalmente dunque l’uso di un nome proprio presuppone l’esistenza dell’individuo denotato dal nome. Nel linguaggio naturale però è possibile introdurre nomi senza riferimento, ad esempio si può parlare di Ulisse anche se costui non è mai esistito. Ma solo per gli oggetti individuali concreti, bensì per quelli astratti è possibile costruire espressioni che non si riferiscono ad alcunché, ad esempio “la serie meno convergente”, o “il massimo numero intero”. La teoria logica di Frege ha alla base il principio della composizionalità: sia il senso che il riferimento del tutto è funzione, rispettivamente, del senso e del riferimento delle parti. 5.3 Russel: descrizioni definitive e forma logica Bertrand Russel si ribella all’idea di Frege e ritiene che l’errore stia nel credere che i nomi abbiano sia senso che riferimento. Egli sostiene una tesi alternativa che pretende di fare piazza pulita a tutte le entità ideali di dubbia esistenza, Russel sostiene la tesi per cui il significato di un nome proprio si riduce al suo riferirsi ad un oggetto. I nomi propri del linguaggio naturale non assolvono questa funzione proprio perché non danno garanzia di riferirsi a un individuo. Tutti sappiamo che Sherlock Holmes non esiste… e, quindi, se i nomi propri non necessariamente denotano individui esistenti, quale altra funzione assolvono? Risposta: i nomi propri del linguaggio naturale sono abbreviazioni di descrizioni definite. I nomi propri sono espedienti retorici utili per brevità, che di fatto abbreviano descrizioni come “l’autore di Waverley” o “l’amico del dottor Watson e protagonista dei romanzi di Conan Doyle”. Si distinguono, quindi, due tipi di espressioni differenti: 1. le descrizioni definite (esempio: “il F”, “il presidente del consiglio”), valgono per chiunque soddisfi la proprietà. I normali nomi propri rientrano in questa categoria in quanto abbreviazioni di descrizioni. 2. i nomi logicamente propri, come le costanti individuali della logica matematica, svolgono la funzione di riferirsi direttamente ad oggetti, a prescindere da una quale proprietà. Dove trovare questa funzione nel linguaggio naturale? Nelle espressioni dimostrative come “questo\quello”. Questa differenza tra tipi di espressioni richiama una tesi epistemologica fondamentale nel pensiero di Russel, per cui occorre distinguere tra: i. conoscenza per descrizione, che individua un oggetto in quanto caratterizzato da certe proprietà ii. conoscenza diretta, che individua un oggetto direttamente, a prescindere dalle sue proprietà, senza mediazione concettuale Se i nomi propri sono abbreviazioni di descrizioni, è fuorviante trattarli come costanti individuali in un linguaggio logico. • Tutti gli enunciati del linguaggio, compresi gli enunciati con termini non denotanti, hanno sempre un valore di verità 5.5 Rivelare la forma logica: il concetto di senso e l’ontologia Anche se non viene definito cosa sia un oggetto semplice, si assume comunque che oggetti semplici esistano e la ricerca della forma logica di enunciati atomici e composti resta dunque un punto fermo del Tractatus. Wittgenstein ricorda come la forma logica venga travestita nel linguaggio comune da accordi e convenzioni che impediscono di coglierla con chiarezza; compito del logico filosofico è mostrare chiaramente la forma logica del linguaggio. Esempio analisi verso essere: il verbo essere assolve la triplice funzione di copula, identità e esistenza. Nel linguaggio logico il verbo essere sparisce e viene sostituito da diverse espressioni non ambigue, che mannifestano una forma logica molto diversa dalla forma grammaticale apparente (nome e copula). Nell’analisi della forma logica gioca un ruolo fondamentale per Wittgenstein il rifiuto della tesi di Frege per cui i nomi hanno senso e riferimento. Se per Wittgenstein i nomi non hanno senso, ma solo riferimento, d’altra parte gli enunciati hanno un senso. E un prima definizione del senso di un enunciato contiene un implicito richiamo alla forma logica e al tema del dire e del mostrare. L’enunciato mostra il suo senso. Esso mostra come stanno le cose se è vero e dice che le cose stanno cosi. In altri termini l’enunciato mostra il suo senso sia tramite le relazioni tra nomi e oggetti, sia tramite la sua forma logica, ciò che ha in comune la realtà, la forma dello stato di cose raffigurato. 5.6 Linguaggio naturale e forma logica: atomismo logico Ci troviamo con l’analisi di Frege, Russel e Wittgenstein, di fronte a un contrasto di principio, basato su alcune idee di fondo comuni. Come Frege anche Russell riconosce che il linguaggio naturale è spesso ambiguo e fuorviante. Ma le due visioni divergono in due posizioni antagoniste: • una visione riformista o correttiva sostiene che una parafrasi in forma logica mira a correggere il linguaggio naturale e renderlo meno ambiguo; • una visione ermeneutica vede invece che nella parafrasi in forma logica il modo di esplicitare la vera struttura profonda soggiacente al linguaggio naturale (la sua essenza) Frege ritiene che il linguaggio naturale sia fuorviante perché inevitabilmente imperfetto, e che solo un linguaggio simbolico diverso, artificiale come il formalismo logico da lui inventato, possa evitare le ambiguità e gli inganni tipici del linguaggio comune. Russell suggerisce una diversa idea: il linguaggio comune, una volta correttamente interpretato, rivela una forma logica sottostante che lo disambigua. Questa idea di Russell, che emerge chiaramente nella sua teoria delle descrizioni, viene considerata molto importante da Wittgenstein che, su questo punto si schiera con Russell. Così l’analisi del linguaggio dovrebbe portare all’individuazione della forma logica delle preposizioni non ulteriormente riconducibili, le proposizioni atomiche. Tale teoria, sviluppata dopo Russell e Wittgenstein dai primi neopositivisti, viene chiamata atomismo logico. La logica dovrebbe trovare una scrittura simbolica che permette di descrivere come le proposizioni complesse vengono costruite a partire da preposizioni elementari o atomiche. Così si chiarisce che in parte il lavoro del logico è dare lo scheletro del linguaggio la struttura essenziale di come funziona il rapporto tra parole e oggetti del mondo. Capitolo 6: Condizioni di verità e mondi possibili: Wittgenstein e Carnap 6.1 Significato come condizioni di verità Per l’atomismo logico l’analisi dell’enunciato deve portare a un enunciato non ulteriormente analizzabile, delle tavole di verità, cioè un metodo di decisione per cui, dato il valore di verità degli enunciati componenti, è sempre possibile decidere in un numero finito di passi quale sia il valore di verità degli enunciati composti. Il metodo delle tavole di verità è il contributo principale di Wittgenstein alla logica del ‘900. Le tavole di verità si possono presentare con uno schema del genere: Capitolo 8 Senso, tono, forza: un’introduzione 8.1 La distinzione senso/forza e il problema della comprensione Nel suo articolo Il pensiero, scritto nel 1918 Frege fa una distinzione tra: 1. L’afferrare un pensiero – il pensare 2. Il riconoscimento della verità di un pensiero – il giudicare 3. La manifestazione di questo giudizio – l’asserire Mentre i primi 2 sono atti o processi mentali, il 3 è un atto o un processo linguistico. Frege distingue così tra la comprensione del pensiero o senso di un enunciato, il giudizio sulla verità e l’asserzione che si può fare proferendo l’enunciato come vero. Già nella Ideografia del 1879, egli usa un segno apposito per esprimere quella che chiamerà “forza assertoria”. Per Frege giudicare è un’azione: l’azione mentale del riconoscere la verità. L’espressione linguistica di un giudizio è l’asserzione e questa azione linguistica deve essere riconosciuta nel simbolismo logico con un segno speciale. Il senso di forza assertoria indica dunque che l’enunciato che segue il segno viene usato per asserire che quando è detto è vero. Ma non sempre un enunciato viene usato con forza assertoria; uno stesso enunciato può essere usato ad esempio con forza interrogativa, o anche semplicemente preso in considerazione senza essere giudicato vero. Questi casi sono comuni nella scienza, quando non si è scuro della verità di una ipotesi; le ipotesi sono analoghe a domande, sono enunciati il cui senso non è asserito come vero finché la verità non viene riconosciuta. Qualcosa di analogo vale anche negli enunciati condizionali: se asserisco “se perdo l’aereo allora non arriverò in tempo”, non asserisco che perdo l’aereo o che non arriverò in tempo, ma solo che, se lo perdo, allora non arriverò in tempo. Una teoria del linguaggio dovrà dunque distinguere in un’enunciazione linguistica il senso o contenuto informativo dell’enunciazione e la forza. Possiamo definire la forza nel modo seguente: la forza di un enunciato il modo o lo scopo in cui l’enunciato viene preferito (ad esempio per asserirlo come vero o per domandare se è vero). La forza riguarda il modo o lo scopo generale con cui viene proferito un enunciato: per asserir la verità del pensiero espresso o domandare se questo sia vero. 8.2 Senso, tono e inferenza Lo stesso senso può essere espresso in diverse lingue, in diversi dialetti o anche in diversi modi nella stessa lingua. Lo stesso senso può cioè essere espresso da enunciati con diverso tono, ove per tono Frege intende la particolare coloritura data dalla forma grammaticale o dalla scelta lessicale. Il senso o contenuto concettuale di un enunciato è il suo potenziale inferenziale. Per potenziale inferenziale si intende la capacità di un enunciato di permettere diverse inferenze, cioè di far derivare un certo numero di conseguenze. Questa visione del senso come potenziale inferenziale è una caratteristica molto discussa nella filosofia contemporanea sotto diverse etichette, come “semantica del ruolo inferenziale” o “semantica del ruolo concettuale”. L’idea di fondo di queste tendenze è che capire il senso di un enunciato equivale a conoscere le principali inferenze che sono connesse ad esso (per capire il senso di “quella poltrona è rossa” devo sapere che il rosso è un colore e che una poltrona è un oggetto fisico su cui sedersi”). Questa definizione del senso come condizioni di verità, ma con certe restrizioni le due definizioni si possono integrare. 8.3 Senso, tono e intenzione Il senso o contenuto cognitivo di un enunciato si distingue dunque non solo dalla forza con cui viene emesso l’enunciato, ma anche dal tono o colorazione retorica associata ad esso. Mentre il senso di rivela chiaramente nella forma logica, il tono si rivela nella forma grammaticale. Una delle conseguenze più eclatanti delle riflessioni sul concetto di tono e sulla differenza tra forma grammaticale e logica riguarda la distinzione tra soggetto e predicato, distinzione ritenuta per secoli centrale in logica, ma non più così da Frege: la distinzione soggetto\predicato è un aspetto della grammatica che può essere rivelante per influenzare i parlanti, e riguarda dunque il tono, ma non il senso o contenuto concettuale. Espressioni con diversi soggetti grammaticali possono avere lo stesso senso e diverso tono (es. “i Greci sconfissero i persiani a Platea” o “i Persiani furono sconfitti dai Greci a Platea”). Ma che funzione ha il tono? Ha soprattutto la funzione di comunicare quelle intenzioni dei parlanti che non sono riconducibili al contenuto cognitivo esplicito e diretto, ma dipendono, come dice Frege, dal rapporto del parlante con le circostante e l’uditorio. Frege ricorda che spesso si esprimono anche cose che si vogliono fare intendere, ma che non si dicono. Senso contenuto cognitivo concerne il contenuto cognitivo espresso dall’enunciato e la sua verità; Tono contenuto indiretto concerne le intenzioni dei parlanti e ciò che viene suggerito, ma non asserito esplicitamente 8.4 Senso e contesto d’uso: perché il “terzo regno” Come abbiamo già notato Frege rileva che in enunciati del tipo “questo albero è coperto di foglie”, la semplice sequenza di parole non è l’espressione completa del pensiero. Se non si sa a quale albero ci si riferisca con “questo”, o quando e dove sia stata proferita la frase, non si riesce a cogliere il pensiero completo. Ci si trova dunque nella situazione in cui l’enunciato esprime a volte di più ma di meno a un pensiero completo. Sembra che il pensiero dipenda da situazioni occasionali e dai rapporti tra parlanti e perda quella oggettività che Frege voleva riservare al regno del senso in quanto contrapposto alla rappresentazione soggettiva. L’atteggiamento di voler considerare il pensiero principalmente dal punto di vista psicologico è comune ai tempi di Frege; molti suoi contemporanei tendono a collocare il pensiero nel mondo delle rappresentazioni soggettive e a definirlo come qualcosa che riguarda essenzialmente la psicologia. Come reagisce Frege a questo comportamento? La reazione di Frege sta in una mossa retorica che colloca i pensieri in un “terzo regno”, una visione che e stata a ragione definitiva “platonismo fregeano”: i pensieri appartengono a un regno che non è costituito né da entità fisiche (cose del mondo esterno) né da entità psichiche, ma è un terzo regno, il regno dei pensieri. A giustificazione di questa tesi Frege sostiene chei pensieri hanno validità atemporale, sono un patrimonio comune dell’umanità. Un esempio di pensiero? Il teorema di Pitagora. Capitolo 9 Significato e uso: il secondo Wittgenstein 9.1 Principio del contesto e svolta pragmatica Influenzato dalle opere di Frege per il quale aveva una grande ammirazione, dopo il Tractatus Wittgenstein sviluppa una tormentata critica delle sia opera giovanile. In “Le ricerche filosofiche” alcune idee del tractatus vengono mantenute, ma l’impianto del lavoro si presenta come antagonista alla prima opera. Si sviluppa soprattutto un’analisi delle molteplici funzioni del linguaggio. Il linguaggio non è solo un mezzo per descrivere il mondo, un mezzo di cui si può evidenziare la struttura logica essenziale come aveva proposto Russell. Al contrario Wittgenstein si preoccupa: • di approfondire i diversi usi del linguaggio che Frege aveva abbozzato parlando di forza e tono • sviluppare l’idea che il senso sia sempre indipendente dal contesto. Wittgenstein da così rilievo al fatto che il linguaggio è inestricabilmente connesso a un contesto di azioni, usi, istituzioni. In questo porta alle estreme conseguenze il principio fregeano di contestualità ripreso nel Tractatus ove “un nome ha un riferimento solo nel contesto di un enunciato”. Nelle Ricerche il filosofo mantiene il principio di contestualità e l’antipsicologismo che ad esso si accompagna, pur rifiutando il platonismo fregeano del terzo regno. Per Wittgenstein il significato di una parola non è: ne un oggetto, ne un’immagine mentale, ne un’entità del terzo regno, ma è l’uso di usa parola in un contesto. È come se Wittgenstein riportasse il significato del cielo del terzo regno alla terra della pratica linguistica. Centrale a questo punto è il concetto di gioco linguistico: un gioco linguistico è un contesto di azioni e parole, in cui un’espressione può avere un significato. Il senso è significato si può dare pertanto solo considerando il gioco linguistico nel suo insieme e nelle differenze con altri giochi Resta in ogni caso molto lavoro al filosofo soprattutto per scovare i fraintendimenti provocati da un cattivo uso del linguaggio. In questo Wittgenstein eredita la visione fregeana della filosofia come lotta contro questi fraintendimenti. 9.2 Gioco linguistico e significato come uso Wittgenstein critica due teorie del significato tradizionali: i. l’idea che la lingua sia una nomenclatura e che imparare una lingua equivalga essenzialmente a imparare ad associare parole e cose, per definizione ostensiva (“questo si chiama N”) ii. l’idea che il significato sia un’immagine mentale associata ad una parola. L’analisi delle prime pagine delle Ricerche è volta a mostrar la molteplicità degli usi delle parole e degli enunciati, a partire dalla tesi che una parola, secondo il principio di Frege ha significato solo nel contesto di un enunciato. Benché apparentemente simili le espressioni linguistiche hanno funzioni molteplici e molto diverse tra loro. Wittgenstein propone di fare esperimenti mentali in cui si veda il linguaggio entrare in funzione in una situazione idealizzata. Possiamo immaginare che il linguaggio usato in questa situazione sia un linguaggio primitivo completo. Nasce così il concetto di “gioco linguistico”, un contesto di azioni e parole in cui si definiscono gli usi – ossia i significati – delle parole stesse. Il gioco linguistico ha due ruoli nel pensiero di Wittgenstein: 1. è uno strumento per lo studio del linguaggio: studiando le situazioni idealizzate molto ristrette si possono chiarire alcuni aspetti del linguaggio 2. è un dato da cui partire: si può parlare del linguaggio, non cercando la sua essenza come nel Tractatus, ma descrivendo differenze e somiglianze dei giochi linguistici. Ogni linguaggio è un gioco, nel senso che è costituito da regole e dalla loro applicazione (le mosse del gioco). Come negli scacchi limitarsi a dire “questo è un pedone” non equivale a fare una mossa del gioco, e per fare una mossa occorre spostare il pedone secondo le regole, così nel gioco linguistico non si fa alcuna mossa a meno che non si pronunci un enunciato. La mossa minima di un gioco linguistico è il proferimento di un enunciato. La conclusione di questa analisi mostra che: il significato di una parola è il suo uso nel contesto di un enunciato, e quindi nel contesto di un gioco linguistico. Se il significato è definito come uso (nel gioco linguistico) si toglie ogni aura metafisica al significato, denunciando l’esistenza di diversi punti di vista teorici: • i significati non sono oggetti di un tipo speciale, come i “sensi” di Frege, entità appartenenti al terzo regno • i significati non sono riconducibili al riferimento, come sostiene ad esempio chi riduce il ruolo dei nomi propri al solo fornire il riferimento, l’oggetto denotato • i significati non sono riconducibili a entità mentali, come è inusuale in psicologia e nella tradizione empiristica dei significati come idee. L’uso è qualcosa di osservabile oggettivamente, non una qualche entità astratta o psichica. Si può dunque dare una descrizione oggettiva degli usi linguistici e dei significati delle nostre espressioni, riconducendole al contesto in cui vengono originariamente usate. 9.3 Comprendere e seguire una regola i. il tema kantiano dello schematismo e dell’immaginazione ii. il tema della vaghezza e dei concetti vaghi iii. il tema della divisione del lavoro linguistico sviluppato da Hilary Putnam sviluppa un argomento, basato sul concetto di “deferenza” e sulla comprensione di parole comuni e apparentemente padroneggiate da tutti i parlanti. Esempio: la mia comprensione della parola “oro” differisce dalla comprensione che ne ha un orefice come facciamo quindi a capirci se i concetti e le immagini connesse alla parola “oro” sono differenti in ciascun parlante? La risposta di Putnam è: • il significato è qualcosa di condiviso dalla comunità dei parlanti • di questa condivisione fa parte anche uno stereotipo tendenzialmente comune a tutti gli individui della comunità Riassunto tesi Putnam: nessun singolo parlante conosce in modo esaustivo il significato delle parole. La conoscenza del significato è distribuita nella società e i parlanti normalmente deferiscono agli esperti molti aspetti del significato utilizzando per lo più stereotipi semplificati. Putnam abbozza una visione che potremmo chiamare “esternismo sociale” e che verrà sviluppata da Tyler Burge, cioè l’idea che il significato di certe parole sia fissato dall’uso socialmente determinato nella comunità dei parlanti, e chi usa una parola la usa secondo il significato anche se non ne è totalmente consapevole. In molti casi gli esperti determinano il “vero significato” di una parola. Capitolo 10 Convenzione e atti linguistici: Austin e Searle 10.1 La cultura filosofica di Cambridge e Oxford Nella seconda metà del XX secolo Oxford e Cambridge rappresentavano il centro della filosofia nel mondi di lingua inglese. Alla Cambridge di Russel e Wittgenstein si contrapponeva la Oxford di Ayer e Austin. Se tradizionalmente Cambridge era platonica, Oxford era aristotelica e non a caso Austin, uno dei suoi principali rappresentanti era anche curatore delle traduzioni di Aristotele infastidito dallo slogan “il significato è l’uso” che andava di moda tra i seguaci del secondo Wittgenstein, Austin cercava una definizione sistematica che sembrava improponibile in un quadro wittgensteiniano. Austin aveva un rapporto ambiguo con Wittgenstein e un rapporto critico con il neopositivismo e il suo massimo esponente inglese del tempo, Alfred J. Ayer reso famoso dal suo libro Linguaggio, verità e logica in cui divulgava le idee del Circolo di Vienna in Inghilterra. I due libri principali di Austin sono Senso e sensibilia e Come fare cose con le parole dedicati a criticare due idee chiave del neopositivismo: • l’idea che la vera conoscenza riguarda i dati di senso • l’idea che tutto ciò che c’è da dire sul significato di un enunciato sia fornire le condizioni di verità o di verificabilità. 10.2 I performativi, i constativi e il limite del criterio neopositivista di significanza Il linguaggio serve a descrivere il mondo e il significato di un enunciato è dato dalle condizioni a cui l’enunciato è vero, come suggerivano Frege e il primo Wittgenstein. Il significato di un enunciato è correlato alla situazione rappresentata. Il problema principale dei neopositivisti del Circolo di Vienna cui Ayer si richiama era trovare un criterio di significanza che permettesse di distinguere enunciati accettabili dalla scienza, tali cioè da descrivere effettivamente dati di fatto, da enunciati che non potevano essere accolti nella scienza, ma venivano ritenuti insensati o metafisici. Il criterio richiedeva che gli enunciati accettabili avessero delle chiare condizioni di verità, e che in più potessero venire verificati. Austin formula un controesempio, costituito da enunciazioni del linguaggio comune che: • non descrivono stati di cose • non si possono ridurre a espressione di emozioni • non è facile negare loro un senso determinato Si tratta di enunciati all’indicativo attivo, in prima persona e tali che il proferirli comporta conseguenze convenzionali ben determinate. Proferendo tali enunciati, nota Austin, eseguiamo azioni con precise conseguenze, ad esempio: 1. “battezzo questa nave ‘Queen Mary’, detto mentre si lancia la bottiglia per il battesimo della nave 2. “accetto di prendere in sposa la signorina y” detto di fronte al prete 3. dichiaro che le mie terre andranno tutte al primogenito, scritto in un testamento controfirmato da un notaio. 4. “è vietato fumare” scritto su un cartello apposto nelle aule di lezione Austin definisce queste enunciazioni come enunciazioni performative perché con esse si esegue una certa azione. Esse si contrappongono alle enunciazioni constative, la cui funzione è descrivere uno stato di cose. 10.3 Condizioni di verità e condizioni di felicità Delle enunciazioni performative non si può dire che siano vere o false, esse sono azioni e un’azione non è vera o falsa; la si fa o non la si fa. Delle azioni si può dire che sono ben riuscite o mal riuscite se emesse in circostanze appropriate. Dato che le azioni vengono definite non dall’essere vere o false, ma dall’essere ben riuscite o mal riuscite, Austin chiama le condizioni in generali per una buona riuscita di un’azione “condizioni di felicità”. Condizioni di felicità: condizioni che un’enunciazione performativa deve soddisfare per poter costruire un’azione corretta (“felice”). Austin distingue 2 tipi di condizioni: • condizioni che riguardano la convenzione: le enunciazioni performative devono rispondere a certe convenzioni, altrimenti sono del tutto nulle. • condizioni che riguardano l’ intenzione: le enunciazioni performative devono essere sincere e esprimere la giusta intenzione. Se prometto senza avere l’intenzione di mantenere, la mia promessa non è nulla: dovrò rispondere comunque alla parola mancata. Nello stesso tempo il mio atto è meno pieno dell’atto della promessa detta con l’intenzione di adempierla. La violazione di questi 2 tipi di condizione porta dunque a 2 conseguenze: • colpi a vuoto l’azione non ha avuto effetto (non sono state rispettate le convenzioni) • abusi l’azione c’è stata, ma l’agente ha commesso un abuso (non sono state rispettate le intenzioni attese Austin cerca di capire cosa caratterizza i performativi la distinzione tra enunciazioni performative e constative si dimostra così un trucco retorico per introdurre una visione generale del linguaggio come azione. Usare il linguaggio è un’azione che contiene sia aspetti constativi che aspetti performativi. Una teoria del linguaggio deve essere dunque inserita in una teoria generale dell’azione. 10.4 La teoria degli atti linguistici Austin propone una teoria dell’azione linguistica la teoria dell’azione linguistica deve comprendere come sua propria parte i risultati delle teorie del linguaggio che lo definiscono sui tre livelli di fonetica, sintassi e semantica; ogni azione linguistica per essere tale deve essere data in un linguaggio così come lo hanno definitivo i linguisti e i filosofi. Austin chiama questo aspetto dell’azione linguistica “atto locutorio”. Il secondo aspetto che Austin chiama “atto illocutorio” è l’erede della sua analisi dei performativi, e richiama il fatto che un enunciato è sempre emesso con una certa forza. Il terzo aspetto dell’atto linguistico, “atto perlocutorio” è determinato dal contesto in cui viene proferito e riguarda le conseguenze dell’atto stesso. Atto locutorio (atto di dire qualcosa) È definito dagli aspetti fonetici, sintattici e semantici (ove per “semantica” Austin pensa a un’analisi del senso e del riferimento in termini più o meno fregeani) Atto illocutorio (atto che si compie nel dire qualcosa) È ciò che prende il posto dell’enunciato performativo; è l’espressione della forza illocutoria. Nel dire qualcosa lo diciamo sempre con una particolare forza: asserzione, domanda, promessa, preghiera, comando (…) Atto perlocutorio (atto che si compie col dire qualcosa) È definito come l’atto che riguarda le conseguenze non convenzionali che si ottengono con il dire qualcosa. Esempio della teoria di Austin: “Sparale!” F 0 2 0 F 0 2 0 F 0 E A F 0 2 0 L’atto locutorio: “Egli mi ha detto ‘sparale’, intendendo con ‘spara’, spara, e con ‘le’, a lei”. Si distinguono 3 aspetti: 1. l’aspetto fonetico è dato dal suono con cui si emette l’enunciato in italiano 2. l’aspetto sintattico rivela che la costruzione è data da un verso alla seconda persona dell’imperativo con apposto un pronome femminile in forma contratta che sta per “a lei” 3. l’aspetto semantico deve individuare il senso e il riferimento delle espressioni “tu” (sottinteso), “sparare” e “lei”. Oltre a “tu” sottinteso vi è un autore dell’emissione che potrebbe essere esplicitato. La forma logica potrebbe essere: [parlante] comanda a [interlocutore] (interlocutore) spara a x) L’atto illocutorio: “Egli mi ha consigliato\ordinato di spararle” L’atto è caratterizzato dalla forza convenzionale con cui è emesso l’enunciato. Se la situazione considerata presenta una relazione gerarchica tra x e y tale che x abbia diritto di comandare a y allora l’atto è un ordine. Altrimenti è un suggerimento, o consiglio. L’atto perlocutorio: “Egli mi ha persuaso a spararle” o “egli mi ha indotto a spararle”. Una cosa è suggerire, una cosa è convincere. E mentre l’atto illocutorio riguardala caratterizzazione del punto di vista dell’agente, l’atto perlocutorio caratterizza le conseguenze dell’atto sull’uditore. 10.5 Atti linguistici indiretti e classificazione degli atti La parte più originale e chiara della teoria di Austin riguarda l’atto illocutorio: 1. l’atto illocutorio riguarda gli aspetti convenzionali del tipo di proferimento 2. per l’atto illocutorio valgono le restrizioni (le condizioni di felicità) già proposte per i performativi (vedi 10.3) La teoria di Austin ha avuto fortuna in diversi settori anche per la diffusione delle sue idee fatta da diversi autori, tra cui Habermas, nella sua Teoria dell’agire comunicativo e soprattutto Searle, nella sua ripresa originale delle teoria degli atti linguistici. conversazione e che Grice chiama “principio di cooperazione”, un principio normativo, a cui parlante dovrebbe sottostare. Principio di cooperazione: conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto dall’intento comune, nel momento in cui avviene. Apparenti violazioni del principio possono sempre essere interpretate in modo da salvare al massimo la razionalità del parlante, secondo un principio di base ideato da Quine e sviluppato da Davidson, il principio di “carità e benevolenza”. Secondo questo principio occorre interpretare i proferimenti del proprio interlocutore in modo da massimizzare la razionalità o la sensatezza. Ogni espressione di apparente irrazionalità dovrebbe prima di dichiarare l’interlocutore pazzo (cosa che può sempre capitare), essere reinterpretata alla luce del contributo che il proferimento potrebbe portare alla conversazione. In questo modo il principio di cooperazione di Grice, e il principio di carità, si presentano come due principi simmetrici e complementari. Il primo ci dice come dovrebbe comportarsi un parlante, il secondo come l’ascoltatore dovrebbe intendere il parlante. Ma il principio di Grice può essere letto anche in un altro modo, come principio descrittivo: la conversazione è un’azione collettiva che funziona in un certo modo, seguendo certe regole. Per descriverla occorre capire quali siano le mosse consentite e cosa comporta fare una mossa all’interno della conversazione. Allora si può leggere il principio anche come principio costitutivo della conversazione stessa, non riguardante l’azione del parlante o quella dell’ascoltatore, quanto piuttosto il funzionamento del discorso: affinché vi sia dialogo occorre che vi sia cooperazione, se questa manca non c’è dialogo, ne può esserci. 11.3 Massime e implicatura conversazionale Grice presenta alcune “massime della conversazione” che specificano il principio di cooperazione secondo le categorie kantiane di qualità, qualità relazione e modo. • Kant sosteneva che non è possibile assumere a massima universale il dire il falso, se tutti mentissero e la sincerità fosse un puro caso, non vi sarebbe nessuna conversazione possibile. Questo implica che dire il vero è un presupposto della razionalità. È poi ovvio che si può mentire per scopi precisi, ma per far ciò occorre distinguere il vero dal falso e assumere che i parlanti si aspettano che tu dica il vero. Le massime di Grice: Quantità dai un contributo tanto informativo quanto richiesto (non di più) Qualità non dire ciò che ritieni falso o ciò per cui non hai prove adeguate Relazione sii pertinente Modo sii perspicuo (evita oscurità o ambiguità inutili) Vi sono diversi modi di non soddisfare una massima: 1. Apparenza: la violazione è apparente ma non reale e il proferimento trova il suo senso se fatto rientrare in una massima Es. (A) Ho finito la benzina (B) Dietro l’angolo c’è il garage. La reazione di B pare violare la massima di relazione (pertinenza) 2. Conflitto: la violazione di una massima è spiegata da un conflitto con un’altra massima. Es. (A) dove abita C? (B) da qualche parte al sud della Francia. La risposta di B viola la massima della quantità, assumendo che A sia interessato a sapere la città in cui abita C, ma si può inferire che B non potesse fare altrimenti per non violare la massima della qualità (non dire ciò per cui non hai prove adeguate). 3. Violazione esplicita: la violazione è esplicita e ci si burla di una massima della conversazione allo scopo di generare impalcatura conversazione. (Questo è il caso su cui Grice si sofferma di più, mostrando come certe figure retoriche, ironia, metafora, iperbole (ecc…), siano descrivibili in termini di impalcature conversazionali. Ad esempio: • massima della quantità: una lettera di raccomandazione breve e focalizzata su dettagli inutili vuole far intendere poca stima che si ha del raccomandato • massima della qualità: “è un bell’amico (detto di uno che ha rivelato un segreto) = ironia; “sei un fulmine” (detto ad uno che va veloce) =metafora; “sei un fulmine” (detto ad uno che va lento) = metafora + ironia; “non era perfettamente sobrio” (detto di un ubriaco fradicio) = litote formulazione attenuata ottenuta mediante la negazione del contrario • Massima della relazione: A. quella donna è brutta (detto dalla padrona di casa di fronte al marito) B. il tempo è stato bello oggi vero? La risposta di B viola la massima della relazione e fa capire ad A che non è il caso di proseguire la conversazione sul tema da lei proposto. • Massima del modo: un linguaggio oscuro e forbito è usato di solito per far intendere che non si vuole che altri ascoltatori capiscano il contenuto della conversazione. Dall’analisi di Grice si distingue dunque, il contenuto letterale di quello che si dice, da ciò che si vuole far intendere. Parte quarta: Linguaggio e comunicazione Capitolo 13 Olismo e traduzione radicale: Quine 13.1 I due dogmi dell’empirismo Quine (1908-2000) ha messo in serio dubbio l’esistenza dei significati come entità teoriche accettabili per affidarsi agli enunciati. Come Frege, Quine ammette l’importanza della distinzione tra significare e denotare e rifiuta di identificare i significati con idee contenute nella mente. Ma egli non trova una risposta soddisfacente per definire che tipo di entità sia il significato. Quine, quindi, demolisce gran parte della tradizione filosofica basata sulla riflessione sul significato, in particolare i neopositivisti logici, i quali avevano alcuni principi fondamentali che per Quine sono dogmi da abbattere: • La dicotomia (bipartizione) analitico\sintetico: l’idea che gli enunciati di una teoria si dividono in due classi, quelli analitici, necessari a priori, e quelli sintetici a posteriori. • Il riduzionismo: l’idea che ogni enunciato significante sia riducibile a dati osservativi immediati. In un famoso articolo intitolato “I due dogmi dell’empirismo”, Quine sviluppa una critica a queste due idee centrali con l’intenzione di liberalizzare l’empirismo. Il motore della sua critica è un’estensione del principio di contestualità di Frege, che pone le basi di una visione radicalmente “contestualista” del significato: l’unità di significanza è l’intero linguaggio non il singolo enunciato. Vediamo le linee di fondo di questa doppia critica alla teoria verificazionista del significato. 1. Contro la distinzione tra analitico e sintetico: Per Kant analitico è quell’enunciato in cui il predicato è contenuto implicitamente nel concetto espresso dal soggetto, sintetico è l’enunciato in cui il predicato non è contenuto nel soggetto. L’idea di fondo è chiara, ma presentata in questo modo, la definizione è da scartare in quanto si limita agli enunciati del tipo soggetto\predicato (da Frege in poi la logica si disinteressa della distinzione soggetto\predicato). Quine parte dalla netta distinzione tra significato e denotazione (o riferimento), sia per termini singolari che per predicati: “stella del mattino” e “stella della sera” denotano lo stesso oggetto, ma hanno diverso significato. Si parla di significato per spiegare le relazioni di sinonimia: due espressioni hanno uguale significato (“scapolo” sinonimo di “non sposato”); e analiticità: un enunciato è analitico se è vero in virtù del significato delle espressioni. Ma Quine pone dei dubbi su questi due concetti e sul concetto di significato che presuppongo, egli mostra infatti, che non possibile definire il concetto di analitico, e quindi il concetto di significato su cui esso si basa, senza cadere in un circolo vizioso. Per definire il concetto di analitico dobbiamo appoggiarci al concetto di uguaglianza di significato o sinonimia; infatti la sinonimia è un concetto che serve per definire l’analicità, come definì Frege: un enunciato è analitico se si riduce a verità logica sostituendo sinonimi con sinonimi. Esempio: “gli scapoli sono uomini non sposati” si riduce a verità logica sostituendo a “scapolo” il termine sinonimo “non sposato” e ottenendo “gli uomini non sposati sono uomini non sposati”. Esempio tipico di diversità logica. Per definire l’analiticità, e quindi il significato, occorre quindi definire la sinonimia. Per Quine il modo più affidabile per definire la sinonimia e, al contempo tale da non presupporre il concetto di analitico è la sostitutività, quindi per parlare di sinonimia si deve parlare di sostitutività in tutti i contesti, compresi quelli intensionali. La critica di Quine ha riscosso diverse reazioni favorevoli e contrarie, ma ha lasciato comunque un segno indelebile nel panorama filosofico, in quanto una dicotomia fondamentale nella storia del pensiero filosofico viene a essere posta in dubbio. Le nostre proporzioni non si possono dividere in due classi separate, da una parte quelle analitiche (la cui verità dipende dal significato) e dall’altra quelle sintetiche (la cui verità dipende dai fatti). Ogni enunciato dipende insieme, anche se in diversa misura, dal linguaggio e dai fatti. Questo ha conseguenze anche nel modo di intendere il rapporto tra filosofia e scienza che erano rigidamente separate da tale dicotomia (ai filosofi i compiti concettuali della verità analitica, agli scienziati il compito di scoprire verità fattuali). 2. Contro il secondo dogma Quine affronta l’aspetto centrale della teoria verificazionista del significato, cioè la tesi che il significato di un enunciato sia il suo metodo di verifica o conferma empirica. Questa tesi sostiene un riduzionismo fondazionalista: ogni enunciato sensato di una teoria scientifica dovrebbe potersi tradurre in un enunciato vertente su costruzioni logiche e dati osservativi immediati. Il riduzionismo dunque si basa sull’idea che la verità di un enunciato dipenda dalle due componenti logico- linguistica e fattuale, e che la verificabilità o “conferma” dipenda dalla componente fattuale. Questa idea viene messa in crisi da un principio che Quine riprende dal fisico francese Pierre Duhem Tesi Duhem-Quine: l’unità di conferma empirica di una teoria non è il singolo enunciato ma la teoria nella sua totalità. Di conseguenza non è vero che il significato di un enunciato è la sua verifica empirica, data in isolamento da altri enunciati. Al contrario ogni enunciato di una teoria scientifica dipende strettamente dagli altri enunciati della stessa teoria. Una teoria scientifica non è un mero insieme di enunciati veri, ma un insieme di enunciati veri che si sostengono fra loro. Per Quine come per tutti noi, è ovvio che la verità dipende sia dal linguaggio che dai fatti. Per non abbandonare certe verità della teoria, un enunciato che risultasse falso potrebbe essere salvato cambiando altri enunciati della
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