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Introduzione alla logica - Logica Giuridica, Appunti di Metodologia E Logica Giuridica

1) Cosa è la logica? - 2) Fallacie ; 3) Sulla logica della costruzione dei principi generali (Gaetano Carcaterra); 4) Teoria del garantismo penale. Il potere punitivo tra verificazione e valutazione; 5) Le preleggi e l’interpretazione.Una introduzione critica – Vito Velluzzi.

Tipologia: Appunti

2015/2016

Caricato il 18/01/2016

Ius.Iuris
Ius.Iuris 🇮🇹

4.4

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Scarica Introduzione alla logica - Logica Giuridica e più Appunti in PDF di Metodologia E Logica Giuridica solo su Docsity! Introduzione alla logica. Che cos’è la logica? La logica è lo studio dei metodi e principi usati per distinguere il ragionamento corretto da quello scorretto.Ci sono criteri oggettivi in base ai quali si può definire il ragionamento corretto. Lo scopo dello studio della logica è quello di scoprire e di mettere a disposizione i criteri che possono essere usati per il controllo degli argomenti, e per distinguere quelli buoni da quelli cattivi.Il logico si interessa del ragionamento in ogni campo.Si incontrano molte specie diverse di ragionamento,e tutti rientrano nel campo di interesse del logico.Nel testo di Cohen e Copi l’interesse verte non sul particolare soggetto degli argomenti,quanto sulla loro forma e qualita. Nel considerare gli argomenti che sono prodotti dal ragionamento,il logico si chiede se la conclusione raggiunta segua dalle premesse usate o assunte,se le premesse forniscano buone ragioni per accettare la conclusione.Se le premesse forniscono basi adeguate per accettare la conclusione,se affermare che le premesse sono vere garantisce l’affermazione che anche la conclusione è vera,allora il ragionamento è corretto.Altrimenti non lo è. Proposizioni ed enunciati:iniziamo considerando le proposizioni,che sono i mattoni di ogni argomento.Una proposizione può essere asserita o negata.Le proposizioni si distinguono per questo aspetto dalle domande,dai comandi e dalle esclamazioni.Le domande possono essere poste,i comandi possono essere emessi,le esclamazioni possono essere pronunciate,ma nessuna di queste può essere asserita o negata.Solo le proposizioni asseriscono o negano stati di fatto,e percio possono essere vere o false.Si suole distinguere gli enunciati dalle proposizioni che essi possono asserire.Due enunciati chiaramente distinti,in quanto composti in modi diversi con parole diverse,possono avere lo stesso significato nel medesimo contesto ed essere usati per asserire la stessa proposizione. In contesti diversi,è possibile usare lo stesso enunciato per fare asserzioni molto diverse.Ad esempio,l’enunciato L’attuale presidente degli USA è un ex governatore potrebbe essere stato pronunciato nel 1997 per fare un’asserzione vera riguardo a Clinton ma se fosse stato detto nel 1992 avrebbe prodotto una asserzione falsa riguardo a George Bush. Argomenti,premesse e conclusioni.Le proposizioni sono i mattoni con cui gli argomenti sono costruiti e su cui i logici lavorano.Il termine inferenza si riferisce al processo attraverso cui si arriva ad affermare una proposizione sulla base di una o piu proposizioni accettate come punto di partenza del processo.Per determinare se una inferenza è corretta,il logico esamina le proposizioni che costituiscono i punti iniziale e finale di tale processo e la relazione tra loro.Questo gruppo di proposizioni costituisce un argomento,e percio ad ogni possibile inferenza corrisponde un argomento. E’ soprattutto degli argomenti che si occupa la logica.Dal punto di vista logico,un argomento è un qualsiasi gruppo di proposizioni di una delle quali si afferma che è conseguenza delle altre,che rappresentano il supporto o il fondamento per la sua verità.Un argomento,in questo senso,non è una semplice collezione di proposizioni.Perche sia presente un argomento,l insieme di proposizioni deve avere una struttura.Per descrivere questa struttura,vengono generalmente usati i termini premessa e conclusione.La conclusione di un argomento è la proposizione che viene affermata sulla base delle altre proposizioni dell’argomento,e queste altre proposizioni,che vengono affermate in quanto forniscono il fondamento e le ragioni per accettare la conclusione,sono le premesse dell’argomento.Il piu semplice tipo di argomento consiste di una sola premessa e di una conclusione che si sostiene segua o sia implicata da essa. Argomenti piu complessi. L’ordine in cui compaiono in un argomento premesse e conclusione non è significativo dal punto di vista della logica.Ma con il crescere del numero delle premesse e il variare dell’ordine,gli argomenti diventano piu complessi.Gli argomenti di solito hanno due o piu premesse,e la conclusione può precederle.Ci sono casi poi in cui al contrario le premesse precedono la conclusione. Si possono evidenziare casi in cui la stessa proposizione che appare come conclusione di un argomento può servire come premessa in un diverso argomento,cosi come una stessa persona può essere dipendente in un contesto e datore di lavoro in un altro.Nessuna proposizione presa per se stessa,isolatamente,è una premessa o una conclusione.E’ una premessa solo quando si presenta come assunzione in un argomento.E’ una conclusione solo quando si trova in un argomento in cui viene riconosciuta come conseguente dalle proposizioni assunte in quell’argomento.Pertanto premessa e conclusione sono termini relativi. Deduzione e induzione:gli argomenti vengono tradizionalmente distinti in due tipi,deduttivi e induttivi.In ogni argomento di entrambi i tipi è implicita l’affermazione che le sue premesse offrono una qualche ragione per la verità della sua conclusione.I due tipi di argomenti differiscono, tuttavia,rispetto ai modi in cui le premesse sostengono la conclusione.Per quel che riguarda la deduzione soltanto in un argomento deduttivo è implicita l’affermazione che le sue premesse offrono ragioni conclusive per la sua conclusione.Se tale affermazione è giustificata,il ragionamento di un argomento deduttivo è corretto e diciamo che quell’argomento è valido;se l’affermazione non è giustificata,il ragionamento di un argomento deduttivo è scorretto e diciamo che quell’argomento è invalido.Possiamo pertanto definire la validità come segue.Un argomento deduttivo è valido quando le sue premesse,se vere,forniscono ragioni conclusive per la verità della sua conclusione.In un argomento deduttivo valido la relazione tra premesse e conclusione è tale che è assolutamente impossibile che le premesse siano vere a meno che la conclusione non sia anche essa vera.Nel campo della logica deduttiva,il compito centrale è chiarire la relazione tra premesse e conclusione negli argomenti validi,in modo da poter distinguere gli argomenti validi dagli invalidi.Un argomento induttivo si distingue da uno deduttivo in quanto fa un’affermazione molto diversa sulla relazione tra premesse e conclusione.Non sostiene che le sue premesse danno ragioni decisive per la conclusione,ma soltanto che le sue premesse forniscono qualche sostegno per quella conclusione.Gli argomenti induttivi,perciò, non possono essere validi o invalidi nel senso in cui questi termini si applicano agli argomenti deduttivi.La differenza fondamentale tra deduzione e induzione è messa in evidenza dal fatto che in un argomento deduttivo,se esso è valido,nessuna premessa aggiuntiva può aggiungere nulla alla forza dell’argomento.Se un argomento è valido, nessuna ulteriore verità può renderlo piu valido. Ma la relazione tra premesse e conclusione,anche nel caso del migliore argomento induttivo,è molto meno rigida e di tutt’altro tipo. Fallacie. Che cos’è una fallacia? Un argomento,qualunque sia il soggetto o l’area su cui verte,in generale è costruito per provare che la conclusione è vera.Ma vi sono due modi in cui un argomento può fallire questo obiettivo.Un modo consiste nell’assumere una arte.I prodotti pubblicizzati sono associati,in maniera esplicita o nascosta,a cose alle quali aspiriamo ovvero a cose che ci eccitano favorevolmente.L’appello alla pietà può venir considerato come un caso speciale di appello all’emozione nel quale l’altruismo e la misericordia degli uditori sono le emozioni a cui si fa appello. L’appello alla forza:argomento ad baculum. L’appello alla forza per determinare l’accettazione di una conclusione sembra a prima vista una fallacia cosi ovvia da non meritare alcuna discussione. L’uso o la minaccia di metodi forti per costringere gli oppositori sembrerebbe l’ultima risorsa,un espediente utile quando l’evidenza o i metodi razionali falliscono.E’ la forza che fa il diritto è tutto fuorchè un principio sottile.L’appello alla forza è il tradimento della ragione. Conclusione irrilevante:ignoratio elenchi. La fallacia di ignoratio elenchi viene commessa quando un argomento volto a stabilire una particolare conclusione viene invece orientato verso la dimostrazione di una conclusione differente.Le premesse non colgono il punto;il ragionamento può sembrare in se plausibile,e invece l’argomento fa cilecca come difesa della conclusione entro una disputa.Gli argomenti nella sfera della legislazione sociale commettono di frequente questa fallacia:un programma di un tipo particolare,costituito per conseguire un obiettivo piu ampio che è largamente condiviso,viene sostenuto da premesse che forniscono si ragioni per condividere l’obiettivo piu ampio,ma che non dicono niente di rilevante intorno al programma specifico in discussione.Talvolta questo metodo è seguito di proposito;talvolta è il risultato del dedicarsi appassionatamente al conseguimento dell’obiettivo piu ampio. Fallacie di presunzione. Alcuni errori nei ragionamenti comuni sono dovuti ad una assunzione ingiustificata,spesso suggerita dalla formulazione dell’argomento.Il lettore,o ascoltatore,o anche l’autore possono essere indotti ad assumere la verità di qualche proposizione non provata o non giustificata.Quando dubbie assunzioni del genere nascoste in un argomento sono decisive per il sostegno della conclusione,l’argomento è bacato e può essere fuorviante.Salti ingiustificati di questo tipo sono detti fallacie di presunzione.In argomenti con fallacie di questo tipo le premesse sono spesso anche non rilevanti per la conclusione.In verita si potrebbe dire che in ogni fallacia c’è un salto tra le premesse e la conclusione.Ma le fallacie di presunzione esibiscono uno speciale tipo di errore:la supposizione tacita di qualcosa che non è stata presentata come sostegno,e che forse non lo può essere.Per portare alla luce una simile fallacia è di solito sufficiente richiamare l’attenzione su quella assunzione contrabbandata,e sul suo carattere dubbio se non falso. Domande complesse:una delle fallacie di presunzione piu comuni consiste nel porre una domanda in maniera tale da presupporre la verità di una conclusione annidata nella domanda.Spesso si tratta di una domanda retorica,alla quale non si attende risposta:ma porre la domanda seriamente,e introdurre dunque in maniera surrettizia la presupposizione che contiene,ottiene spesso in maniera fallace l’obiettivo di colui che solleva la domanda.La domanda complessa è spesso un artificio per ingenerare inganni e,quando viene deliberatamente usata sui giornali,è il segno del cosiddetto giornalismo scandalistico.E quando la domanda si accompagna alla richiesta aggressiva di una risposta del tipo si o no,vi sono buone ragioni per sospettare che la domanda sia caricata,cioè slealmente complessa. Le domande complesse possono essere molto infide.Un oratore può ingegnosamente porre la domanda,rispondere,e quindi procedere utilizzando la conclusione deliberatamente annidata nella domanda.Altrimenti,la domanda può venir posta,e l’assunzione fallace può venir tratta,mentre la risposta rimane non formulata,ma solo suggerita o presunta. Aggirare la questione:petitio principii. Aggirare la questione significa assumere la verità di quanto si cerca di dimostrare,nel tentativo di dimostrarlo.Sembrerebbe questo un errore buffo,evidente a tutti,ma quanto sia sciocco o ovvio l’errore dipende in larga misura dal modo in cui sono espresse le premesse dell’argomento.La loro formulazione verbale spesso oscura il fatto che la conclusione medesima è seppellita dentro ad una delle premesse assunte. Le premesse di un argomento,in questo caso, non sono irrilevanti,esse provano la conclusione,ma la provano in maniera proprio banale.Una petitio principii è sempre tecnicamente valida,ma al prezzo dell’inutilità. Accidente e accidente converso.Le fallacie di accidente e di accidente converso sorgono come risultato di un uso incauto,o deliberatamente ingannevole,della generalizzazione. Ma persino quando gli asserti generali sono del tutto plausibili,dobbiamo stare attenti a non applicarsi in maniera troppo rigida a casi particolari.Le circostanze alterano i casi;una generalizzazione che è vera nella maggior parte dei casi può non applicarsi in un caso particolare e per ragioni che hanno a che fare con le circostanze speciali proprie di quel caso. Quando assumiamo l’applicabilità di una generalizzazione a casi particolari,che la generalizzazione non copre in maniera propria,commettiamo la fallacia di accidente.Quando facciamo l’opposto e,per mancanza di attenzione o per proposito,supponiamo che un principio che è vero di un caso particolare sia vero di una gran quantità di casi,commettiamo la fallacia di accidente converso. Accidente è la fallacia che commettiamo quando procediamo senza cautela o troppo in fretta da una generalizzazione:accidente converso è la fallacia che commettiamo quando muoviamo senza cautela o troppo in fretta verso una generalizzazione. L’accidente converso è un errore che,una volta rivelato,è riconosciuto da tutti;ed è tuttavia un inganno conveniente,sul quale molte persone sono tentate di basarsi quando argomentano senza attenzione o con grande passione. Fallacie di ambiguità:i significati delle parole e delle espressioni possono slittare come risultato di disattenzione o per voluta manipolazione nel corso di un argomento.Un termine può avere un senso in una promessa,e uno molto diverso nella conclusione.Quando l’inferenza dipende da tali cambiamenti è naturalmente fallace.Errori di questo genere sono detti fallacie di ambiguità, o talvolta sofismi.L’uso intenzionale di tali artifici è di solito rozzo e facile da identificare,talvolta la ambiguità può essere oscura,l’errore accidentale,la fallacia sottile.Ne distinguiamo 5 varietà. Equivocazione. Quando confondiamo i diversi significati di una parola o di una espressione facciamo un uso equivoco della parola.Se facciamo questo nel contesto di un argomento,commettiamo la fallacia di equivocazione.Essa talvolta è ovvia e assurda e viene usata in battute o passi scherzosi. C’è un tipo speciale di equivocazione che merita una menzione speciale:riguarda i termini relativi,che hanno significati differenti in contesti differenti.La parola buono è un termine relativo e conduce di frequente a forme di equivocazione quando si sostiene,ad esempio,che il tale è un buon generale e sarebbe di conseguenza un buon presidente,o che è un bravo studioso e deve per forza essere un bravo insegnante. Anfibolia. La fallacia di anfibolia ricorre quando l’argomento contiene premesse le cui formulazioni sono ambigue per via della loro costruzione grammaticale. Un asserto è anfibolo quando il suo significato risulta indeterminato a causa del modo slegato e contorto in cui le parole sono combinate.Un asserto anfibolo può risultare vero in una interpretazione e falso in un’altra.Quando una premessa è formulata nell’interpretazione che la rende vera e la conclusione è inferita a partire dalla premessa,questa volta interpretata nel modo che la rende false,in questo caso si è commessa la fallacia di anfibolia. Accento. Un argomento si puo rilevare ingannevole e invalido,quando la modificazione di significato che avviene al suo interno è originata da cambiamenti nell’enfasi data alla parole o alle sue parti.Quando il significato immediato di una premessa si basa su una possibile enfasi,mentre una conclusione inferita da essa si basa su un significato delle medesime parole sotto un accento differente,si commette la fallacia di accento.La fallacia di accento può venir caratterizzata in senso lato in modo da includere la distorsione che si produce quando in una citazione si estrae un passo fuori dal suo contesto,lo si introduce in un altro,e si trae una conclusione che non avrebbe mai potuto venire inferita entro il contesto originale. Composizione. Il termine fallacia di composizione è applicabile a due tipi strettamente connessi di argomento invalido.Il primo lo si puo descrivere come il passare,fallacemente,dalle proprietà delle parti di un tutto alle proprietà del tutto medesimo.Un esempio particolarmente evidente consisterebbe nel sostenere che,dal momento che ogni parte di una certa macchina è leggera,la macchina presa come un tutto è leggera.L’errore è qui del tutto manifesto e noi riconosciamo che una macchina molto pesante può consistere di un gran numero di parti leggere.Non tutti gli esempi di composizione fallace sono tuttavia cosi ovvii.Alcuni sono ingannevoli.L’altro tipo di fallacia di composizione è strettamente parallelo al tipo appena descritto.Qui il ragionamento fallace procede da proprietà degli elementi o membri individuali di una collezione a proprieta della collezione o della totalità di quegli elementi.Sarebbe per esempio fallace sostenere che,dal momento che un autobus usa piu carburante di una macchina,tutti gli autobus usano piu carburante di tutte le automobili.Questa versione della fallacia di composizione muove da una confusione fra uso distributivo e uso collettivo dei termini generali. Queste due varietà di composizione,benché parallele,sono in realtà distinte per via della differenza fra una mera collezione di elementi e un tutto costruito a partire da questi elementi. La prima procede in maniera invalida dalle parti al tutto,la seconda procede in maniera invalida dagli elementi alla collezione.La fallacia di divisione è semplicemente l’inverso della fallacia di composizione:vi troviamo la medesima confusione,ma l’inferenza procede nella direzione opposta.Come nel caso della composizione,si possono distinguere due varietà della fallacia di divisione.Il primo tipo di divisione consiste nel sostenere in maniera fallace che quanto è vero di un tutto deve essere vero anche delle sue parti.Dal momento che una certa compagnia è assai importante e il signor Rossi è un dirigente,sostenere che il signor Rossi è assai importante significa commettere la fallacia di divisione. Il secondo tipo della fallacia di divisione viene commesso quando si argomenta dalle proprietà di una collezione di elementi alle proprietà degli elementi medesimi. Gaetano Carcaterra-Sulla logica della costruzione dei principi generali. 1.Il problema. Il problema che il prof.Carcaterra ha inteso affrontare nella sua opera è un problema di metodologia della scienza giuridica,piu specificatamente di logica inferenziale dall’effetto alla causa,dal segno o indizio al fatto da provare, poteva avere rapporti con l’idea opinabile e del probabile,anche se il concetto classico della probabilità non possedeva ancora connotazioni precise.Cominciò tuttavia ad acquistarle nella dialettica medievale,che concepì una scala di gradi di probabilità,quasi una aritmetica delle prove, nel cui quadro la dialettica pensò le inferenze non deduttive e in particolare le presunzioni come prove probabili che partono dai segni.Ma il vero e proprio calcolo delle probabilità,è noto,si sviluppò solo alla fine del 17° secolo,ed è in questo contesto che può trovare la sua precisa teorizzazione l’inferenza che conclude a partire da indizi,come è quella che costruisce un principio generale sulla base di determinate norme che ne sono la manifestazione.A tal proposito vanno ricordati due contributi decisivi.Nell’800 Peirce,filosofo e logico americano,ha definito,accanto alla deduzione e alla generalizzazione induttiva,un terzo genere di ragionamento che ha chiamato abduzione o retroduzione.L’abduzione è il ragionamento per cui,dato che si sono verificati certi fatti che sono effetto necessario o probabile di una causa ipotizzata,si trae la conclusione in qualche grado plausibile secondo cui l’ipotesi di quella causa è vera:l’esistenza degli effetti è in qualche misura prova dell’esistenza di una certa causa.Peirce non si è servito del calcolo delle probabilità,ma si ritiene che in questo calcolo è rigorosamente definibile la sua abduzione: precisamente in base ad un famoso teorema,quello di Thomas Bayes,teologo e logico inglese del 700,che per primo lo ha enunciato. 3)la struttura del ragionamento per abduzione.Sarebbe fuori luogo analizzare il ragionamento per abduzione nei termini tecnici del teorema di Bayes.E’ tuttavia possibile illustrarne il senso e la struttura in modo intuitivo attraverso esempi elementari.Ad esempio,accusiamo mal di gola e sapendo che questo può essere conseguenza di un virus influenzale formuliamo l’autodiagnosi di influenza.Analoghi ragionamenti compie la scienza anche nelle sue scoperte piu importanti: ragionò allo stesso modo Galilei quando osservò che Venere presenta delle fasi e ritenendole verosimile conseguenza del fatto che il sole si trova al centro delle orbite dei pianeti trasse la conclusione che il sistema planetario è eliocentrico.In questi casi l’esistenza di un fatto ipotizzato F,ovvero l’influenza e l’eliocentrismo viene desunto dalla presenza di qualche segno o indizio I come il mal di gola e le fasi di Venere,sulla base della conoscenza per cui quel segno o indizio è conseguenza di F.Lo schema generale di siffatti ragionamenti è:è dato il fatto I il quale è probabile conseguenza di F fatto ipotizzato dunque è vero F. Un corollario del teorema di Bayes dimostra anche che la forza logica del ragionamento per abduzione cresce col crescere del numero dei segni o indizi dai quali si trae la conclusione.Piu spesso percio l’abduzione si presenta in forma multipla: sono dati piu indizi i quali sono probabili conseguenze del fatto ipotizzato per cui questo è vero.Da un punto di vista deduttivo,se enunciamo il dunque nel senso di necessariamente dunque,questo tipo di ragionamento è semplicemente sbagliato:è una tipica fallacia,la fallacia dell’affermazione del conseguente.Eppure ragionamenti di tal genere sono frequenti,fecondi e non privi di logica:benche non deduttivi,sono ragionamenti plausibili,ragionamenti appunto abduttivi,nei quali il dunque ha il senso di probabilmente,presumibilmente dunque.Le strutture presentate dei ragionamenti esemplificati rappresentano però solo il nucleo centrale dell’abduzione,che,cosi come sta,è logicamente incompleto.Per completarlo occorrono altre informazioni,delle quali del resto ci serviamo di solito implicitamente.Quando il medico formula una diagnosi confronta la probabilita che i sintomi rilevati siano conseguenza della malattia ipotizzata con la probabilita che potrebbero essere conseguenza anche di altra malattia.In questo caso e in analoghi la conclusione è logicamente influenzata dalla probabilità apriori del fatto ipotizzato,cioè in qualche modo stimata gia prima di ragionare sulla base dei dati indizi o sintomi.Non basta dunque sapere che sono presenti gli indizi I e quanto è probabile che essi seguano da F,ma bisogna anche sapere se è piu o meno probabile che invece seguano da fatti diversi da F e occorre tener conto della probabilità apriori di F stesso.Schema generale piu adeguato alla logica dell’abduzione è allora: sono dati i vari indizi i quali sono probabili conseguenze del fatto ipotizzato e sono meno probabili conseguenze non di F,di altri fatti alternativi ipotizzabili e d’altra parte gia da prima è in certo modo probabile F dunque ci sono buone ragioni per presumere che è vero F.C’è un modo diverso ma equivalente e forse piu semplice di presentare la sostanza del procedimento dell’abduzione diretto a scoprire le cause di dati fatti,ed è ancora la teoria della probabilità che ne offre il fondamento logico:l’ipotesi piu probabile è quella che meglio,piu coerentemente,spiega la presenza degli indizi.La relazione fra l’ipotesi e gli indizi può essere letta in due direzioni:gli indizi confermano l’ipotesi e l’ipotesi spiega la presenza degli indizi.Gli indizi hanno funzione confermativa dell’ipotesi,l’ipotesi ha funzione esplicativa della presenza degli indizi.E’ importante evidenziare talune caratteristiche del procedimento per abduzione che saranno utili per chiarire alcuni aspetti del processo di ricerca dei principi generali nell’ambito del diritto.L’induzione in senso ampio comprende differenti specie di ragionamento oltre la generalizzazione induttiva che è la sua forma piu nota.Ciò che distingue l’induzione in senso ampio dalla deduzione risiede nel nesso inferenziale,nella natura del dunque,che è necessario nella deduzione,e nella induzione è solo piu o meno probabile,presumibile.Ora,poiché l’abduzione presenta un nesso inferenziale solo probabile o presumibile,essa si rivela un caso particolare di ragionamento induttivo.Di qui una importante conseguenza:come in genere nella induzione,nell’abduzione la conclusione non è contenuta nelle premesse ma le sorpassa e vi aggiunge qualcosa.Un’altra caratteristica dell’abduzione,in quanto forma della induzione in senso ampio,è la defeasibility,provvisorietà, rivedibilità delle sue conclusioni.E’ un modello di ragionamento la cui plausibilità può essere modificata da nuove informazioni.Mentre in una deduzione valida l’aggiunta di altre premesse non intacca la necessari età del nesso inferenziale,in una induzione,e perciò in una abduzione,nuovi dati possono modificare in meglio o in peggio la forza del nesso e quindi la plausibilità del ragionamento.L’abduzione vale sempre allo stato dell’arte,in quanto nuove conoscenze possono indurre ad emendare le sue conclusioni.In tutte le presentazioni di questo procedimento è dichiarato il ruolo della formulazione di ipotesi.Ciò che con l’abduzione vogliamo sapere è quanto sia plausibile l’ipotesi di un fatto dati certi suoi indizi.Ciò comporta due operazioni:la formulazione di una ipotesi e,per conoscerne il grado di plausibilità,il controllo della sua maggiore o minore congruenza con quei dati indizi.Vedendo il terreno bagnato formuliamo l’ipotesi che abbia piovuto e,per sapere se e in che misura questa ipotesi sia accettabile,la controlliamo sulla base di quell’indizio.Ebbene,le ipotesi sono frutto della intuizione,della immaginazione,della fantasia creativa,spesso geniale talora banale,non importa.Ne segue che la fantasia creativa e il suo controllo con i dati sono i due fattori indispensabili della ricerca per abduzione delle cause. D)La costruzione dei principi generali come abduzione.Nella logica dell’abduzione si inquadra bene il procedimento di costruzione o ricostruzione dei principi generali in quanto diretto a trovare la causa finale,la fonte e idea ispiratrice di un dato insieme di norme presenti nell’ordinamento giuridico.Come,nel campo dei fatti fisici,dalla presenza di certi dati si trae presuntivamente la conclusione che è vera la ipotesi di un fenomeno o di una malattia di cui quei dati rappresentano segni,sintomi,manifestazioni particolari e indizi,cosi,nell’indagare l’interna motivazione dell’agire umano,ma con un processo logico parallelo,da certi comportamenti,assunti anche essi come manifestazioni e indizi,si giunge a presumere lo scopo,il carattere o il principio di condotta riposto che li ha motivati e originati.Lungo la stessa linea logica,sul terreno del diritto,dall’osservazione di certi comportamenti uniformi dei membri di un gruppo il sociologo può trarre la conclusione presuntiva che essi agiscono cosi perche seguono una norma prescrittiva.E infine,salendo di un gradino nella scala dei fatti normativi,il giurista può presumere che certe norme,presenti nell’ordinamento,siano indizi di un principio generale che ne ha ispirata la produzione.Una stessa logica che in tutti questi casi ha le caratteristiche dell’abduzione.I veri schemi illustrati della abduzione si applicano infatti senza alcuna forzatura al caso della ricerca dei principi generali dell’ordinamento.E’ del tutto naturale ragionare cosi:sono date in quanto valide le varie norme le quali sono probabili conseguenze dell’ipotizzabile principio generale P che,come fonte,può averle ispirate,e meno probabili conseguenze di altri immaginabili principi;del resto,indipendentemente da queste norme,P gia si accredita piu di altri quale verosimilmente principio generale dell’ordinamento e ci sono dunque buone ragioni per presumere che P sia il principio ispiratore delle norme in questione.O anche e piu semplicemente:date varie norme valide,tra gli ipotizzabili principi ispiratori di cui quelle norme sono possibili manifestazioni quello piu ragionevolmente presumibile è P che meglio quadra con la presenza delle norme stesse nell’ordinamento,tenuto conto di tutta la conoscenza di cui dispone il giurista,inclusa la verosimiglianza già stimata apriori delle ipotesi in campo.E in ultima sintesi l ipotesi di principio generale piu ragionevolmente presumibile è quella che meglio spiega la presenza nell’ordinamento delle norme dalle quali si intende trarlo. Pregi del modello abduttivo:il modello dell’abduzione applicato al caso dei principi generali nel diritto offre ulteriori vantaggi,perche chiarisce alcune discusse o non spiegate caratteristiche dei principi e del procedimento della loro ricerca.Emilio Betti ha affermato che,rispetto alle norme dalle quali li si desume,i principi generali sono caratterizzati da un’eccedenza di contenuto deontologico.L’affermazione ha fatto discutere,ma,nel quadro dell’abduzione,essa risulta rigorosamente vera quanto ovvia.Come detto,infatti,l’abduzione è una forma di induzione in senso ampio,ed è tipica caratteristica dell’induzione in generale che la conclusione dica di piu di quel che è detto nelle premesse,e che quindi il contenuto del principio sia piu ampio del,e appunto ecceda il contenuto delle norme dalle quali lo si trae.Si è visto che l’abduzione è un tipo di ragionamento defeasible,provvisorio,emendabile,esposto sempre alla possibilità di una smentita o di una riduzione della sua forza logica in base ad ulteriori considerazioni.Cosi,nella costruzione dei principi nuove informazioni relative a norme prima non note o non prese in esame possono indurre a limitare la portata del principio ottenuto.In un primo momento si sono prese in considerazione date norme e sulla base di queste si è desunto un certo principio;successivamente si è estesa la considerazione ad altre norme che escludono il principio in determinati casi:la prima conclusione può essere emandata formulando il principio stesso con la eccezione di quei casi. Poiché la eventualità di un emendamento è sempre strutturalmente aperta nell’abduzione, adottando tale modello nella scienza giuridica abduzione traendo una conclusione che non è una generalizzazione omogenea alle premesse,perche queste contengono concetti disparati e distinti da quelli che occorrono nella stessa conclusione.Ne segue che la possibilità di impiegare il modello abduttivo è più ampia di quella che è offerta dalla generalizzazione induttiva.Attraverso l’abduzione possiamo trarre un principio generale anche da premesse concettualmente disomogenee rispetto ad esso e tutte differenti fra di loro.Molti dei vari principi classificati da Bobbio si possono ricavare in questo modo,senza alcuna corrispondenza con la tecnica della generalizzazione induttiva,ad esempio i principi desunti dallo spirito del sistema o quelli impliciti nella struttura dell’ordinamento.Cosi,non c’è una serie uniforme di disposizioni dalle quali sia desumibile il principio della separazione dei poteri:esso piuttosto è manifestato dalla interazione di un complesso eterogeneo di disposizioni.Il principio di democrazia che ispira l’intero ordinamento si evince non solo e non tanto dalla enunciazione testuale dell’articolo 1 comma 1 della Costituzione,ma anche e specialmente da un contesto di numerose e svariate norme che contengono concetti molto differenti:il principio trova conferma nelle norme che ripongono nel popolo la sede della sovranità,in quelle che stabiliscono la elettività a diversi livelli degli organi istituzionali,nelle norme dalle quali si ricava lo stesso principio di uguaglianza,in quelle che garantiscono il pluralismo delle posizioni politiche e tutelano la minoranza parlamentare.In questi casi non è una generalizzazione che conduce al principio perché le norme di partenza sono disparate,ma è il fatto che tali norme,benche disomogenee,sono tutte conseguenze dell’ipotizzato principio,rapporto di consequenzialità che rientra tipicamente nel ragionamento abduttivo. L’abduzione fra fenomeno e noumeno.Il fatto che l’abduzione sia in grado di attingere conclusioni qualitativamente e concettualmente nuove laddove la generalizzazione produce solo un incremento quantitativo e omogeneo della conoscenza conferisce all’abduzione una funzione epistemologica,e oserei dire ontologica,che supera quella della generalizzazione per induzione, anche al di la del diritto.La generalizzazione induttiva è lo strumento tipico del positivismo radicale:parte dal dato empirico e conclude sempre sul terreno dei fatti empirici.L’abduzione invece può porsi al servizio di un positivismo moderato.Anche essa muove da cio che è osservabile e vi àncora i propri risultati,ma la sua logica,che è capace di mediare tra premesse e conclusioni eterogenee,consente di passare dall’osservabile non solo a ciò che non è stato ancora osservato, ma persino a cio che per sua natura non lo è.Questo lo si puo cominciare a notare gia nelle scienze empiriche che sono un tessuto di concetti osservativi e di concetti o costrutti teorici che designano entità che invece non sono suscettibili di percezione diretta ne sono definibili interamente in termini empirici.Nella fisica,dato il fenomeno ben visibile dell’attrazione e della repulsione dei corpi si inferisce l’esistenza di un campo gravitazionale,che è un’idea costruita dall’intelletto,non oggetto di osservazione;in chimica,osservando la varia combinazione delle sostanze si desume la valenza degli elementi,che tuttavia è concetto puramente teorico;in psicologia,i comportamenti sono segni osservabili di disposizioni e tendenze,che per se sfuggono alla percezione.Per esprimerci in termini classici,l’abduzione permette di trascendere l’orizzonte del fenomeno nella sfera di un noumeno che si manifesta bensi nel fenomeno e lo spiega,ma in se potrebbe essere solo ipotesi pensabile di natura diversa dal fenomeno:la logica abduttiva ammette salti audaci al di la della esperienza immediata.Ciò è dovuto al fatto che essa allarga il quadro delle stesse categorie kantiane,perche amplia la categoria della causalità empirica nella categoria piu generale della capacità esplicativa o interpretativa dei dati,offrendo cosi un criterio ontologico meno vincolante di quello del positivismo radicale.La sua stessa formula dice che il grado di verità di una ipotesi è essenzialmente funzione della sua esplicatività,dice che ha presumibile esistenza ciò che riesce a spiegare i fatti noti meglio di altre congetturabili realtà,criterio che non impone vincoli alla natura dell’explicans.Su questo criterio e sull’abduzione gioverebbe che,oltre la scienza giuridica, riflettesse la filosofia.Forse non è avventato pensare che molti dei suoi storici problemi potrebbero trovare per questa via altri spazi di discussione.Le ipotesi del noumeno sembrano legittime nella misura in cui offrano una plausibile spiegazione alla realtà fenomenica attraverso l’abduzione,dal momento che questa si mostra capace di mediare anche tra regioni ontologiche diverse,tra il sensibile e l’intelligibile,tra l’uomo e i suoi fini,tra l’esistenza e il suo perche,tra il mondo e il suo principio.Non imponendo vincoli ontologici,l’abduzione è in grado di gettare ponti fra diversi,anzi fra opposti.Dal noto permette di risalire all’ignoto,il visibile può spiegare con l’invisibile,dal finito lancia sonde nell’infinito. Teoria del garantismo penale. Il potere punitivo tra verificazione e valutazione. 1. L’interpretazione. Il potere di denotazione e le garanzie penali. Ove le condizioni che devono essere apprestate sul piano legale e soddisfatte su quello giudiziario per consentire la decidibilità in astratto e la decisione in concreto della verità processuale, difettino, si aprono nel giudizio spazi di incertezza che corrispondono ad altrettanti spazi di potere ai fini dell’analisi di questi spazi si distinguono quattro aspetti o dimensioni del potere del giudice: il potere di denotazione o verificazione giuridica, il potere di accertamento probatorio o di verificazione fattuale, il potere di connotazione o di discernimento equitativo e il potere di disposizione o di valutazione etico- politica. Queste 4 dimensioni del potere giudiziario sono tra loro asimmetriche. Le prime 3 sono complementari, nel senso che l’estensione dell’una è determinata da quella delle altre;ma tutte e 3, se estese oltre certi limiti,degenerano nel potere di disposizione, ove le funzioni di denotazione,di connotazione e di accertamento probatorio si smarriscono lasciando il campo al mero arbitrio decisioni stico. I primi due spazi di potere sono inerenti alle decisioni sulla verità processuale che intervengono nella inferenza induttiva o prova,ove il potere inerisce alle decisioni sulla verità fattuale della conclusione,e nella inferenza deduttiva o sussunzione,ove esso inerisce alle decisioni sulla verità giuridica delle premesse. I problemi della verificabilità e della falsificabilità sono ovviamente pregiudiziali a tutti gli altri. A quali condizioni possiamo usare sensatamente i termini vero e falso come predicati di asserzioni? In via generale, in una concezione empiristica della conoscenza,sono verificabili e falsificabili solo le asserzioni dotate di significato o di riferimento empirico, ossia che descrivono fatti o situazioni osservativamente determinate: per esempio, la Terra è un pianeta che ruota intorno al Sole. Non lo sono,invece, i giudizi di valore e le asserzioni di fatti o situazioni osservativamente indeterminate: per esempio, “Mevio è socialmente pericoloso”. Le condizioni della verificabilità e della falsificabilità, ovvero dell’uso dei termini vero e falso a proposito di una asserzione,dipendono dunque dalla semantica del linguaggio in cui questa è formulata. Scriveva Hobbes piu di 3 secoli fa –“ dire verità equivale a dire proposizione vera:ma vera è una proposizione in cui un nome conseguente,che i logici chiamano predicato,abbraccia nella sua estensione anche il nome antecedente,che si chiama soggetto”. Questa lucida intuizione di Hobbes è stata sviluppata dalla teoria referenziale del significato in uso nella logica moderna. Secondo questa teoria,formulata da Frege,si devono distinguere due accezioni diverse di significato di un segno: l’estensione o denotazione,che consiste nell’insieme degli oggetti cui il segno si applica o si riferisce;la intensione o connotazione,che consiste nell’insieme delle proprietà evocate dal segno e possedute dai singoli oggetti che rientrano nella sua estensione. Precisamente,l’estensione di un predicato è la classe degli oggetti da esso denotati in proposizioni accettate come vere. L’intensione di un predicato è invece costituita dal concetto da esso connotato,ossia dalla somma delle sue note costitutive e delle sue caratteristiche essenziali: -uomo-,per esempio,connota un animale intelligente,dotato della parola,dell’uso delle mani, di posizione eretta e ancora, di altri attributi. Due predicati saranno qui equiestensivi o equivalenti se e solo se possono reciprocamente sostituirsi in un qualunque enunciato senza che di questo risulti alterato il valore di verità;mentre si diranno equintensivi o sinonimi se sono uguali per definizione. Quanto all’estensione e all’intensione di un soggetto,esse consistono rispettivamente nell’individuo singolo da esso denotato e nelle sue caratteristiche individuali o singolari. Meno intuitiva è la distinzione tra estensione e intensione di un enunciato: laddove l’estensione è il valore di verità dell’enunciato,sicchè sono tra loro equiestensivi tutti gli enunciati veri e per altro verso tutti quelli falsi,l’intensione è invece il suo contenuto informativo,che rende ciascuna proposizione non equintensiva rispetto a tutte quelle di contenuto diverso,anche se ugualmente vere o egualmente false. In ogni caso un segno denota la sua estensione e connota la sua intensione. Questa teoria del significato è anche una teoria delle condizioni di uso del termine vero,ovverosia della verificabilità. La locuzione “Denota”,riferita ad un soggetto o ad un predicato, è infatti fungibile con “vero di”. D’altra parte, l’estensione o denotazione di un termine è determinata dalla sua intensione o connotazione. Piu segni equiestensivi,infatti,possono avere intensioni diverse, mentre piu segni equintensivi devono avere la medesima estensione. E l’estensione di un termine è tanto maggiore quanto minore è la sua intensione. Diremo su questa base che un termine è vago o indeterminato se la sua intensione non consente di determinare con relativa certezza l’estensione, cioè se esistono oggetti che non sono né esclusi ne inclusi chiaramente nella sua estensione. Le ri-definizioni servono a rendere precise,mediante connotazioni convenzionali,le intensioni dei termini vaghi onde determinarne nella maniera piu chiara l’estensione. Ci sono però dei termini non solo vaghi ma anche valutativi – buono, cattivo – la cui estensione è oltre che indeterminata anche indeterminabile,dato che non connotano proprietà o caratteristiche oggettive ma esprimono piuttosto gli atteggiamenti e le valutazioni soggettive di chi li pronuncia. 2. Verificabilità giuridica e denotazione legale:la stretta legalità e la semantica del linguaggio legislativo. Se applichiamo la teoria del significato della sussunzione o deduzione giuridica. Tizio è imputato o riconosciuto colpevole del fatto G,per aver commesso il fatto F che è denotato dalla legge come reato G. il principio di stretta legalità garantisce,con la tassatività delle figure legali di reato,soltanto la precisione dell’intensione e la determinatezza dell’estensione del predicato G,ma non anche del soggetto F. per stabilire che il nome conseguente,che i logici chiamano predicato,abbraccia nella sua estensione anche il nome antecedente,che si chiama soggetto, occorre che sia esattamente determinata anche l’estensione del soggetto. G infatti è predicabile come vero di F e F è qualificabile come G,a condizione non solo che sia tassativo il significato di G,ma anche che F sia individuabile come membro della classe di oggetti denotati da G. questa seconda condizione riguarda la verificabilità e la falsificabilità fattuale di PF. Essa dunque è una questione di tecnica giudiziaria. Non dipende dalla semantica del linguaggio legale,ma da quella del linguaggio giurisdizionale. Correlativamente al principio di stretta legalità si può conseguentemente formulare un principio meta processuale di stretta giurisdizionalità, che equivale ad una regola semantica di formazione del linguaggio giurisdizionale diretta ad assicurare la determinatezza delle denotazioni fattuali. Si tratta in realtà di una serie di regole che richiedono, come condizione della stretta giurisdizionalità,ossia della verificabilità e della falsificabilità delle tesi che nel processo enunciano i fatti e le prove,che sia quelli che queste siano esattamente individuati mediante descrizioni precise e senza l’uso di parole vaghe o valutative. Tali sono, nel nuovo codice di procedura penale italiano,la norma che impone la contestazione alla persona indiziata in forma chiara e precisa del fatto che le è attribuito e degli elementi di prova esistenti contro di lei, nonché quella che stabilisce che il testimone sia esaminato su fatti determinati,che egli non possa deporre sulla moralità dell’imputato,ne sulle voci correnti nel pubblico e che non gli sia consentito di esprimere apprezzamenti personali. Nelle teorie dell’interpretazione e dell’applicazione della legge, il problema della semantica del linguaggio giudiziario nel quale gli attori del processo espongono i fatti e le prove è di solito ignorato,o quanto meno trascurato. Esso,invece,non è meno importante di quello della semantica del linguaggio legale. In via di principio,data la vaghezza del linguaggio comune,anche la determinatezza della denotazione fattuale non è mai perfetta,ed anche per essa deve quindi parlarsi di grado di tassatività. Tuttavia,riferendosi a fatti individuali e non a classi di fatti astrattamente prefigurate,essa può essere assai maggiore di quella della denotazione giuridica operata dalla legge. Ciò non toglie che nella pratica gli organi inquirenti formulino spesso le loro accuse in termini vaghi e indeterminati. L’uso di parole equivoche e di giudizi di valore nella descrizione dei fatti contestati e nella assunzione di prove può produrre la totale dissoluzione delle garanzie allorchè la indeterminatezza delle denotazioni fattuali si combina con quella delle denotazioni giuridiche. 4. La deduzione giuridica e l’etero-integrazione giudiziaria della lingua penale. Principio di stretta legalità e principio di stretta giurisdizionalità si possono configurare come due regole semantiche complementari,l’una rivolta al legislatore,l’altra rivolta ai giudici onde garantire,con la verificabilità delle denotazioni giuridiche e di quelle fattuali,la riserva assoluta di legge in materia penale e la conseguente soggezione del giudice penale soltanto alla legge. Teoricamente,ove questi principi fossero entrambi pienamente soddisfatti,la denotazione penale di un fatto concreto con un predicato legale non richiederebbe nessun potere giudiziario di decisione,dato che sarebbe la conclusione di una deduzione avente come premesse una asserzione fattuale verificabile empiricamente e una asserzione giuridica vera analiticamente,cioè in base al significato dei termini in essa impiegati. Nella pratica,a causa dei vizi semantici del linguaggio legale e del linguaggio giudiziario, tutto questo di fatto non succede se non in misura piu o meno approssimativa. La sussunzione giudiziaria può ben esibire una forma deduttiva. Ma ciò può accadere anche perche il giudice o l’accusa hanno convenientemente interpretato o ridefinito il predicato legale o/e altrettanto convenientemente interpretato o connotato il soggetto fattuale onde includere il secondo nell’estensione del primo. Le operazioni di adattamento sono arbitrarie e in contrasto con la riserva assoluta di legge in materia penale,nonché con il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge. La prassi giudiziaria è tuttavia piena di operazioni di questo genere:di surrettizie ridefinizioni descrittive e precisanti associate alle qualificazioni giuridiche onde determinarne empiricamente la denotazione fattuale,e di surrettizi giudizi di valore associati alla descrizione dei fatti onde derivarne analiticamente la denotazione giuridica. Tutta la giurisdizione di legittimità della Cassazione, in particolare, è un gigantesco lessico di ridefinizioni ad hoc,con cui vengono volta a volta precisati i significati indeterminati dei termini legali al fine di consentirne l’applicazione ai fatti giudicati. Nella misura in cui i principi di stretta legalità e di stretta giurisdizionalità non sono pienamente soddisfatti,la denotazione da parte del giudice di un soggetto fattuale con un predicato legale non è dunque vera analiticamente o per definizione legale. essa è vera bensi per ridefinizione giudiziale,ossia per la decisione con cui il giudice ha interprato o ridefinito il soggetto o il predicato della premessa giuridica nella materia da lui reputata conveniente ai fini della sussunzione del fatto nella legge,ovvero dell’applicazione della legge al fatto. Possiamo ben chiamare potere giudiziario di denotazione penale il potere esercitato dal giudice che vale a supplire i difetti semantici della lingua legale mediante appropriati adattamenti del linguaggio giurisdizionale e perciò ad integrare o addirittura a creare i presupposti stessi della verificabilità processuale. Precisamente si chiamerà potere di denotazione giuridica o di interpretazione della legge quello esercitato dal giudice nel denotare un soggetto fattuale con un predicato legale da lui appositamente ridefinito con termini di estensione determinata;e potere di denotazione fattuale o di interpretazione dei fatti quello esercitato dal giudice nel denotare con un predicato legale un soggetto fattuale da lui appositamente connotato con i termini di estensione indeterminata usati dalla legge. Di solito queste due forme di denotazione potestativa ed integrativa sono alternative tra loro, nel senso che una di esse è sufficiente per rendere possibile la deduzione giuridica aggirando la riserva assoluta di legge : o l’integrazione della premessa giuridica onde consentire la verificazione empirica della premessa fattuale,o l’integrazione della premessa fattuale onde consentire la verificazione analitica della premessa giuridica. Ma può anche accadere che esse siano operate congiuntamente, tramite convenienti interpretazioni o ridefinizioni delle fattispecie astratte e convenienti interpretazioni o caratterizzazioni di quelle concrete. In tutti i casi questa etero-integrazione del diritto per via giudiziaria contraddice, oltre al modello cognitivi stico del diritto penale,le basi stesse della legittimità politica della funzione punitiva nello stato di diritto,che risiedono nella divisione dei poteri, nel monopolio legale del potere di denotazione penale e nella soggezione del giudice soltanto alla legge. E ne compromette altresi la legittimità giuridica. Ne consegue che il potere giudiziario penale è sempre viziato da un tasso irriducibile di irrazionalità e di illegittimità politica e/o giuridica. Questo tasso di irrazionalità e di illegittimità è ovviamente variabile,dipendendo dal grado di incertezza giuridica generato dalla indeterminatezza semantica del linguaggio penale, ovvero dal grado di ineffettività delle garanzie nel funzionamento concreto dei diversi ordinamenti e dei loro singoli statuti. Dunque riserveremo l’espressione “potere di denotazione” alla potestà del giudice comunque necessaria per integrare gli spazi irriducibili di discrezionalità lasciati aperti dai difetti inevitabili di denotazione del linguaggio legale e di quello comune; e useremo l’espressione potere di disposizione per designare la potestà del giudice allorchè la mancanza di stretta legalità e di stretta giurisdizionalità sia tale da non consentire neppure di parlare di denotazione sia pure potestativa e richieda invece decisioni discrezionali non sulla verità ma su valori diversi,di tipo etico politico. 5. La prova. Il potere di verificazione e le garanzie processuali. Verificazione e induzione fattuale. Le condizioni della verificabilità e della falsificabilità processuale sono logicamente pregiudiziali rispetto a quelle della verificazione e della confutazione: solo se il tema del giudizio consiste in un fatto empirico tassativamente determinato in tutti i suoi elementi costitutivi – l’azione,l’evento,la colpevolezza- esso può formare oggetto di prova in senso stretto, nonché di contraddittorio e di imparziale accertamento; laddove non si può provare una accusa indeterminata o espressa mediante valutazioni, tanto inverificabili quanto inconfutabili. Le medesime condizioni semantiche o garanzie penali della verificabilità e della falsificabilità – se sono sufficienti oltre che necessarie ad assicurare la verificazione o la confutazione giuridica- sono però solo necessarie ma non anche sufficienti ad assicurare la verificazione o la confutazione fattuale, le quali dipendono da complesse garanzie processuali che vanno ben al di là delle semplici regole sulla formazione del linguaggio penale. La verificazione fattuale nel processo penale è il risultato di una illazione di fatti provati del passato da fatti probatori del presente; e questa illazione ha la forma di una inferenza induttiva ove le premesse sono costituite dalla descrizione dell’evento da spiegare e delle prove esperite e la conclusione dall’enunciazione del fatto che si ritiene provato dalle premesse. A differenza che nella deduzione, che è sempre tautologica,la verità delle premesse dell’induzione non implica mai la verità della conclusione,essendosi solo una rilevante probabilità che la conclusione sia vera se sono vere le promesse. Proprio perché non implicate dalle premesse, le conclusioni di una induzione hanno rispetto a queste un contenuto informativo maggiore,che consente di considerarle come una loro spiegazione attendibile anche se non valida logicamente. È per questo che esse, per quanto non necessariamente ma solo probabilmente vere,accrescono pari delle prove legali,sono infatti prove formali,nel senso che escludono l’indagine e la libera valutazione del giudice surrogandole con un giudizio infallibile e superiore,divino nel primo caso e legale nel secondo. Ed anche le prove legali,come le prove magiche, sono d’altra parte prove simboliche,nel senso che agiscono come segni normativi della conclusione dedotta,al punto che le semiprove e i quarti di prova legali appaiono pur sempre come segni normativi di qualcosa:se non della colpevolezza,di una semicolpevolezza che comporta una semipena o una pena comunque ridotta. Ne è una conferma il fatto che la tortura,che ha funestato ininterrottamente il meccanismo delle prove legali e particolarmente quello della confessione, mantiene sicuramente nella procedura inquisitoria premoderna il carattere ordalico di un giudizio di Dio,ossia di un cimento fisico ove la soccombenza è segno della colpevolezza dell’accusato e la resistenza è segno della sua innocenza. 4. il superamento moderno delle prove legali e il principio potestativo del libero convincimento. La critica e il superamento delle prove legali rappresentano una conquista del pensiero illuministico e della Rivoluzione Francese. Il decreto dell’Assemblea costituente del 9 ottobre 1789 riformò radicalmente i principi della procedura inquisitoria,imponendo in tutti i gradi del giudizio la pubblicità e la difesa dell’imputato. E due anni dopo venne abbattuto interamente il vecchio sistema introducendo fin dalla fase istruttoria il rito accusatorio,istituendo le giurie popolari,abolendo ogni tipo di segreto,vincolando il processo alla oralità e all’immediatezza,e infine sopprimendo le prove legali e consacrando il principio del libero convincimento del giudice. Benché questi due decreti siano giustamente ricordati come il momento piu avanzato dell’illuminismo riformatore da cui prende avvio l’assetto del processo penale moderno, nessuno dei principi in essi enunciati può essere considerato una scoperta interamente moderna: né l’idea della verità giudiziaria come non necessaria ma solo probabile,ne i principi della terzietà e del libero convincimento del giudice al di là di prove legali,e neppure le garanzie dell’oralità,della pubblicità e del contraddittorio. Questi principi hanno alle spalle una elaborazione piu che bi millenaria che risale agli albori della civiltà occidentale: precisamente,a quella ricca e raffinata tradizione retorica e topica dell’ars disserendi, inveniendi e iudicandi che ebbe origine nella Grecia classica ad opera degli oratori attici, fu sviluppata da Aristotele,fu ripresa da Cicerone e dai giuristi romani di età imperiale e poi tramandata, per il tramite di Cassiodoro,Boezio e Isidoro di Siviglia,alla cultura giuridica medioevale dei secoli IX-XIII. Sono importanti due considerazioni. La prima riguarda la logica del ragionamento probatorio. Questa logica si configura fin dall’antico processo attico come una logica modernamente induttiva basata sulla concezione della prova come argumentum, ma la logica induttiva nasce in gran parte in seno all’esperienza del processo, come logica more iuridico chiaramente distinta,in quanto afferente alla sfera del probabile, o dell’opinabile o del verosimile, dalla logica deduttiva di tipo analitico o apodittico. Storicamente è la metodologia della ricerca empirica che si modella sulla induzione giudiziaria attraverso la configurazione della tecnica della disputa per prova ed errore,elaborata per le controversie giuridiche, come logica o teoria generale della indagine induttiva. La seconda considerazione riguarda piu in generale la concezione classica del processo come disputatio o competizione dilemmatica tra opposte ragioni,articolata e risolta per confirmations e refutationes. Grazie al suo stretto legame con la retorica,la scienza giuridica processuale si sviluppa come scientia civilis e conjecturalis basata sulle regole del liberaliter disputare e su una sofisticata teoria degli errori. Ed incorpora per tal via i valori democratici e liberali,oltre che razionali e laici, della contrapposizione tra opposte ragioni come metodo maieutico di discussione e di ricerca, dell’eguaglianza e del diritto della parola che escludono verità autoritative e postulano la libertà e parità dei disputanti, della tolleranza delle ipotesi e delle argomentazioni in conflitto, della relatività e della provvisorietà delle prove e dei giudizi nel campo delle civiles quaestiones. È da questi presupposti umanistici che traggono origine e alimento la struttura accusatoria del processo penale classico e la maggior parte delle garanzie processuali: il contraddittorio tra le parti come metodo di ricerca della verità, l’imparzialità e l’estraneità del giudice rispetto alla contesta, la prudenza e il dubbio come metodo investigativo e stile intellettuale. Sia il rifiuto delle prove legali che il principio del libero convincimento del giudice sono anche il riflesso di due acquisizioni moderne, l’una epistemologica,l’altra garantista. La prima acquisizione è il riconoscimento non solo del carattere meramente probabile della verità empirica che gia Locke e Leibniz avevano chiaramente elucidato,ma anche della frattura logica che immancabilmente separa i dati probatori dai fatti provati e che nessun artificio legale è in grado di colmare. La seconda acquisizione è l’affermazione dei principi di retributività e di stretta legalità,secondo cui la pena deve essere una conseguenza del fatto tassativamente previsto dalla legge come reato e non di un altro fatto da essa previsto come probatorio. La legalità delle prove è incompatibile con la legalità dei reati e delle pene. Le due acquisizioni sono tra loro connesse. In tanto si può dire,in base al principio di stretta legalità,che la condanna e la pena non conseguono dalla prova ma dal reato,in quanto si riconosca,sulla base del carattere induttivo del ragionamento probatorio, che nessuna prova implica necessariamente il reato. In questo senso il principio del libero convincimento del giudice non rappresenta un criterio positivo di decisione sulla verità alternativo a quello delle prove legali, ma equivale semplicemente al rifiuto delle prove legali come sufficienti a determinare la condanna e la pena. Precisamente esso significa: 1) la non presunzione legale di colpevolezza in presenza di tipi di prove astrattamente previsti dalla legge; 2) la presunzione di innocenza in assenza di prove concretamente convincenti della sua falsità; 3)l’onere dell’accusa di esibire tali prove,il diritto della difesa a confutarle e il dovere del giudice di motivare in base ad esse il proprio convincimento in caso di condanna; 4) la infirmabilità di qualunque prova,che sempre giustifica il dubbio quale abito professionale del giudice e consente in base ad esso l’assoluzione. L’abbandono delle prove legali in favore del libero convincimento del giudice ha però corrisposto ad una delle pagine politicamente piu amare e intellettualmente piu deprimenti della storia delle istituzioni penali. La formula del libero convincimento è stata infatti intesa acriticamente come un criterio discrezionale di valutazione,sostitutivo delle prove legali. Recepita in tal senso dalla dottrina e dalla giurisprudenza,essa ha consentito ad entrambe di eludere,sul piano teorico e su quello pratico,l’enorme problema della giustificazione dell’induzione su cui,da Hume in poi,si è affaticata la riflessione epistemologica. È accaduto cosi che il rifiuto delle prove legali come condizioni sufficienti della condanna e della pena si è di fatto risolto nella negazione della prova come condizione necessaria del libero convincimento sulla verità dei presupposti dell’una e dell’altra;e che il principio del libero convincimento, anziché operare come presupposto indispensabile della garanzia dell’onere della prova,è entrato con essa in contraddizione vanificandone ogni funzione normativa. L’equivoco è stato indubbiamente favorito dalla perversione della struttura del processo penale verificatasi nel continente europeo all’indomani della Rivoluzione francese. Il principio del libero convincimento del giudice era nato all’interno del modello processuale accusatorio, coerentemente con altri principi tra loro interdipendenti: la netta separazione tra l’accusa,cui incombe l’onere probatorio,e il giudice inteso come spettatore imparziale;il contraddittorio tra le parti come tecnica di formazione e di argomentazione delle prove; la immediatezza,la oralità e la pubblicità del giudizio;il sistema delle giurie popolari. Questo modello processuale non sopravvisse in Francia alla stagione rivoluzionaria. Il codice napoleonico ne scardinò l’assetto,sostituendo il giurì di accusa con una istruttoria scritta e segreta condotta di ufficio dal giudice istruttore,e cosi innestando su una procedura inquisitoria l’ormai acquisito principio dell’intime conviction. Ne è risultato quel processo misto prevalentemente inquisitorio nella fase istruttoria,prevalentemente accusatorio nella fase dibattimentale e dominato in entrambe le fasi dal principio del libero convincimento del giudice- inquisitore. Si capisce che esso, nato dall’accoppiamento dell’inquisitorio e dell’accusatorio processo ha sommato i difetti dell’uno e dell’altro compromettendo di fatto l’unico pregio ad essi comune: l’obbligo del giudice di decidere iuxta alligata atque probata che caratterizza sia il processo puramente inquisitorio,dove è necessaria la prova legale, sia il processo puramente accusatorio dove il giudice è passivo di fronte all’attività probatoria delle parti e ad essa vincolato. La dissoluzione moderna dell’onere della prova all’ombra dell’intimo o libero convincimento del giudice dipende tuttavia,ancor piu che da questa alterazione istituzionale della struttura del processo, della mancata elaborazione di una adeguata teoria della prova e del convincimento induttivo. Se si interpreta il convincimento del giudice non semplicemente come insufficienza della sola prova legale ma anche come criterio positivo di valutazione che sostituisce tale tipo di prova, il ragionamento probatorio rischia di cadere in una petizione di principio che rimanda alla potestà del giudice,e l’onere della prova di configurarsi altrettanto circolarmente come onere di addurre le prove ritenute tali da chi ha il potere di valutarle e magari di raccoglierle. Ciò vuol dire che la formula del libero convincimento apre il problema della identificazione delle condizioni probatorie che giustificano il convincimento,ovvero della definizione del concetto di prova adeguata o se si vuole convincente. Lo schema nomologico-deduttivo della spiegazione causale. Una soluzione soddisfacente di questo problema suppone che si abbandoni del tutto la pretesa illusoria di fornire una giustificazione deduttiva o assoluta delle conclusioni induttive,quale è quella artificialmente prestata dal sistema delle prove legali. La impossibilità di fondare l’induzione su una giustificazione siffatta non esclude però che sia possibile raggiungerne una giustificazione relativa. La strada migliore per pervenire a criteri di decisione o giustificazione che ci consentano di considerare una inferenza induttiva piu ragionevole e plausibile di altre è quella offerta dal modello nomologico- deduttivo della spiegazione causale elaborato da Popper e piu diffusamente da Hempel e Oppenheim. Secondo questo schema l’inferenza induttiva,che dai fatti da spiegare o explenandum consente di risalire ai fatti che ne sono la spiegazione o explanans, si giustifica perché può essere rovesciata in una inferenza deduttiva,che dall’explanans consente di ridiscendere all’explanandum,grazie all’inclusione nelle premesse esplicative di leggi o generalizzazione empiriche accettate come vere sulla base dell’esperienza passata. La descrizione dei fatti e delle condizioni iniziali forma la spiegazione causale o explanans, o piu rozzamente la causa,da cui è dedotta o indotta dalla descrizione del fatto da spiegare o explanandum, o piu rozzamente primo, che ha il merito di essere la sola tra quelle storicamente prospettate che abbia un qualche valore garantista. Questa soluzione consiste nella teoria delle cosiddette prove legali negative,secondo cui,se è vero che nessuna prova legalmente predeterminata può essere considerata da sola sufficiente a garantire la verità della conclusione in contrasto con il libero convincimento del giudice, neppure il libero convincimento può a tal fine essere considerato da solo sufficiente,essendo necessario che sia accompagnato da qualche prova legalmente predeterminata. È facile capire che le prove legali cosiddette negative,per quanto accomunate acriticamente dall’odierna dottrina processualistica a quelle positive,sono rispetto a queste totalmente diverse e sotto almeno un aspetto opposte. Le prove legali positive sono infatti quelle in presenza delle quali la legge prescrive al giudice di considerare provata l’ipotesi accusatoria anche se tale prova contrasta con il suo convincimento;le prove legali negative sono quelle invece in assenza delle quali la legge prescrive al giudice di considerare non provata la medesima ipotesi anche se tale non prova contrasta con il suo libero convincimento. Laddove le prove del primo tipo sono perciò sufficienti a giustificare l’accettazione della verità della ipotesi accusatoria,quelle del secondo sono invece solo necessarie al medesimo fine; e mentre la presenza delle prime rende obbligatoria la condanna,la presenza delle seconde semplicemente la consente fermo restando l’obbligo,in loro assenza, della assoluzione. Sul piano giuridico,conseguentemente,le prove legali negative equivalgono ad una garanzia contro il convincimento erroneo o arbitrario della colpevolezza,assicurando normativamente la necessità della prova e la presunzione di innocenza fino a prova contraria. Il difetto del sistema delle prove legali negative è di natura epistemologica,ed è in parte comune a quello delle prove legali positive. Diversamente da queste,le prove legali negative non sono utilizzabili come premesse da cui sia possibile dedurre, in contrasto con il principio di Hume,la verità dell’ipotesi accusatoria,ma hanno solo il valore di conferme,richieste dalla legge come necessarie ma da sole insufficienti senza il libero convincimento a suffragare la conclusione. Analogamente allo schema delle prove legali positive,tuttavia,è l’assenza della prova legale che in questo schema consente di dedurre inoppugnabilmente la conclusione contraria. Il paralogismo consiste in questo caso nell’equivalenza presunta legalmente tra la mancanza della prova legale e la prova contraria,grazie ad una premessa generale che collega la mancanza del tipo di fatto previsto come prova con la negazione del tipo di fatto da provare. È chiaro che anche una premessa di questo tipo è una norma giuridica;e che sono del tutto arbitrari sia il riconoscimento in astratto da essa operato di valore probatorio necessario alle prove legali negative,sia il disconoscimento parimenti in astratto di tale valore ad altri tipi di prova. È infatti falsa qualunque generalizzazione sull’attendibilità o la non attendibilità di un tipo di prova. Le prove legali negative,conseguentemente,esigono troppo e al tempo stesso troppo poco:troppo perché esse possono essere non necessarie a fronte di altre prove in concreto adeguate e convincenti; troppo poco perché possono essere in concreto inadeguate a giustificare razionalmente il convincimento induttivo che richiederebbe l’acquisizione di ben altri e piu rilevanti dati probatori. Possiamo esprimere questa medesima critica delle prove legali affermando che non esiste nessun criterio,formulabile in via generale ed astratta,per stabilire il grado oggettivo di probabilità di una ipotesi rispetto ad un tipo di prova. È anzi impossibile stabilire il grado oggettivo di probabilità o di conferma di una qualsiasi ipotesi relativamente ad un qualsiasi insieme di dati disponibili. Ne consegue l’arbitrarietà di qualunque valutazione legale e quindi aprioristica del grado di probabilità di una ipotesi rispetto ad una prova,che riferendosi inevitabilmente alla sua probabilità oggettiva è altrettanto infondata quanto la predeterminazione legale della sua certezza oggettiva. Se non è possibile una valutazione oggettiva, è pero possibile una valutazione soggettiva della probabilità. E una valutazione siffatta può essere compiuta dal giudice in relazione alle prove e agli indizi concretamente disponibili. Questa distinzione tra probabilità oggettiva e probabilità soggettiva –la prima riferita alla verità in senso oggettivo,la seconda riferita alla credibilità in senso soggettivo- è antichissima. Laddove la probabilità oggettiva è il significato della parola “probabilità”, la probabilità soggettiva è il criterio di accettazione di una ipotesi come probabile. E come non esistono criteri di verità oggettiva ma solo criteri di verità soggettiva, cosi non esistono criteri di probabilità oggettiva ma solo criteri di probabilità soggettiva. Anche in sede giudiziaria,pertanto,i soli criteri di decisione riguardano la probabilità soggettiva. Se cosi non fosse il principio in dubio pro reo,inteso il dubbio nel senso di incertezza oggettiva,non consentirebbe mai la condanna, dato che qualunque ipotesi è per sua natura probabilistica ed è sempre possibile, qualunque ne sia il grado di probabilità o di conferma,che essa sia oggettivamente falsa. Ciò che è possibile e si può quindi pretendere è solo la mancanza di dubbio o certezza soggettiva sui presupposti della condanna,quale può essere assicurata da criteri di decisione parimenti soggettivi. Possiamo pertanto identificare le condizioni che soddisfano i criteri della coerenza delle ipotesi accusatorie con i dati probatori e della loro accettabilità giustificata da una capacità esplicativa maggiore di quella posseduta da altre, con i tre ordini di garanzie processuali. La necessità della prova,la possibilità della smentita o controprova,e il giudizio imparziale sulla capacità esplicativa delle ipotesi in conflitto. L’ipotesi accusatoria deve essere innanzitutto confermata da una pluralità di prove o dati probatori. A tal fine essa deve essere formulata in modo da implicare la verità di piu dati probatori e la spiegazione di tutti i dati disponibili. Una ipotesi vera,infatti,è sempre feconda, cioè idonea a spiegare molti piu fatti di quelli per i quali è stata formulata e quindi a produrre per modus ponens molteplici e svariate conferme. Nella pluralità di queste conferme, di cui non è predeterminabile il numero e la qualità,consiste la condizione o garanzia della prova:che dunque comporta la necessità di acquisire non un dato probatorio,ma un sistema coerente di dati- gravi,precisi e concordanti,come stabilisce l’articolo 192 del codice di procedura penale- in forza del quale tutti i fatti noti ed altri fatti addizionali originariamente ignoti siano deducibili dall’ipotesi provata. A conclusione della indagine, tutti i dati disponibili devono quadrare con l’ipotesi scoperta,che deve essere anche in grado di illuminarci nella spiegazione di altri fatti ed indizi inizialmente ignorati. A differenza che nel sistema delle prove legali negative, questa configurazione della prova obbliga pertanto alla produzione non di determinate prove, ma semplicemente di prove. Ma analogamente a tale sistema essa richiede come condizione necessaria del giustificato convincimento,idonea a superare la presunzione di innocenza,la produzione di piu prove compatibili,in base al criterio della coerenza,con l’ipotesi provata. Ancor piu importante della necessità della prova è la garanzia del contraddittorio,ossia della possibilità della smentita o della controprova. Di una ipotesi infatti,se è impossibile la verificazione,dato che la sua verità non può essere dimostrata ma solo confermata,è invece possibile la falsificazione per modus tolens. E mentre nessuna prova o conferma è sufficiente a giustificare il libero convincimento del giudice sulla verità dell’accusa,una sola controprova o smentita è sufficiente a giustificare il convincimento contrario. La garanzia della difesa consiste precisamente nella istituzionalizzazione del potere di confutazione dell’accusa da parte dell’accusato. Occorre che una ipotesi accusatoria non sia contraddetta da nessuno dei dati virtualmente disponibili. A tal fine tutte le implicazioni delle ipotesi devono essere esplicate e saggiate,onde ne siano possibili non solo le prove ma anche le controprove. E la ricerca di queste deve essere tutelata e favorita non meno della ricerca di quelle. Ovviamente neppure le controprove,essendo solo probabili,garantiscono la falsità oggettiva dell’ipotesi con esse incompatibile. Ma una sola di esse,se è accettata come vera,è sufficiente ad escludere la decisione del giudice sulla verità dell’ipotesi e a fondare,in base al criterio della coerenza,la decisione sulla sua falsità. Il libero convincimento,conseguentemente,mentre può superare le prove necessarie ma non sufficienti a giustificare la condanna,non può superare le controprove sufficienti ma non necessarie a giustificare l’assoluzione. La terza condizione o garanzia della verità fattuale,connessa alle altre due e non meno decisiva,riguarda l’imparzialità della scelta operata dal giudice tra ipotesi esplicative concorrenti. La ipotesi accusatoria,per essere accettata come vera,deve non solo essere confermata da piu prove e non smentita da nessuna controprova,ma anche prevalere su tutte le possibili ipotesi con essa in conflitto, che devono essere falsificate per modus tollens. Qualora non siano falsificate ne l’ipotesi accusatoria né le ipotesi con essa concorrenti,il dubbio è risolto a sfavore della prima. Questo principio equivale ad una norma di chiusura sulla decisione della verità processuale fattuale che non consente la condanna fino a che, accanto all ipotesi accusatoria,permangono altre ipotesi non falsificate con essa concorrenti. Perciò, mentre l ipotesi accusatoria prevale solo se confermata,le contro ipotesi prevalgono anche se solo non falsificate: la loro non smentita infatti è sufficiente a giustificare la non accettazione come vera della ipotesi accusatoria. Queste 3 garanzie,unitamente al presupposto semantico della stretta legalità o verificabilità delle ipotesi accusatorie, assicurano la stretta giurisdizionalità del processo penale. Grazie ad esse,il processo si configura come una contesa tra ipotesi concorrenti che il giudice ha il compito di dirimere: precisamente, l’onere della prova a sostegno dell’accusa risulta integrato dall’onere della controprova o smentita delle ipotesi concorrenti; il diritto di difesa o confutazione è a sua volta integrato dal potere di prospettazione di contro ipotesi compatibili con l’insieme dei dati disponibili e capaci di fornire spiegazioni alternative; e la motivazione del giudice risulta una giustificazione adeguata della condanna solo se è in grado,oltre che di suffragare l’ipotesi accusatoria con una pluralità di conferme non contraddette da nessuna controprova, anche di smentire con adeguate controprove tutte le contro ipotesi prospettate e prospettabili. Di qui il valore della separazione,secondo uno schema triangolare,tra accusa,difesa e giudice: se l’accusa ha l’onere di scoprire ipotesi e prove e la difesa ha il diritto di contraddire con contro ipotesi e controprove,il giudice, i cui abiti professionali sono l’imparzialità e il dubbio, ha il compito di saggiare tutte le ipotesi,accettando quella accusatoria solo se provata e non accettandola, in base al criterio pragmatico del favor rei, non solo se essa è smentita ma anche se non sono smentite tutte le ipotesi con essa concorrenti. L’onere della prova,il contraddittorio,la motivazione. Le tre garanzie, se si esclude la norma in dubio pro reo, hanno tutte carattere epistemologico e non specificamente giuridico. Esse non predeterminano normativamente la valutazione delle prove,ma semplicemente riflettono,nella indagine giudiziaria,la logica dell’induzione scientifica. Proprio per questo esse riducono al minimo il potere di verificazione o denotazione fattuale del giudice e l’arbitrarietà del suo convincimento,assicurando la massima certezza possibile delle decisioni di condanna: ragione con cui il giudice interpreta e corregge la legge scritta. E si pensi alla definizione di Hegel,secondo cui l’equità contiene una deroga che si al diritto formale e addirittura consente di decidere sul caso singolo senza attenersi alle formalità del processo giuridico e,in particolare, ai mezzi di prova oggettivi,quali possono essere raccolti legalmente. Ancor oggi la contrapposizione dell’equità alla legalità come modello di giudizio complementare o alternativo è un luogo comune della filosofia giuridica,che si confonde talora con la contrapposizione tra formalismo e antiformalismo: l’equità sarebbe allora un mezzo per supplire alle lacune o alle palesi storture della legge attraverso il rinvio al diritto naturale,alla coscienza sociale o alla discrezionalità normativa del giudice. In tutti i casi l’equità è accreditata come fonte di diritto alternativa alla legalità,oppure come strumento piu o meno eccezionale di interpretazione e di integrazione della legge. Una nozione semantica dell’equità: legalità come denotazione,equità come connotazione. Lingua e linguaggio penale. Il problema dell’equità e del suo rapporto con la legalità si può risolvere se forniamo una caratterizzazione semantica adeguata di questi due concetti utilizzando a tal fine la teoria logica del significato e la distinzione da essa elaborata da connotazione e denotazione di un segno. Se applichiamo questa distinzione al linguaggio giuridico,possiamo dire che la legalità o conformità alla legge di una asserzione giudiziaria consiste nella denotazione di un fatto con un predicato connotato dalla legge come reato e nella sua conseguente verità processuale; mentre la sua equità o conformità al caso singolo consiste nella connotazione del medesimo fatto denotato dalla legge come reato e nel suo conseguente contenuto informativo singolare. La legge,infatti,connota le caratteristiche essenziali o gli elementi costitutivi che formano l’intensione di una figura o concetto legale di reato e che determinano l’estensione della classe dei casi individuali denotati dal giudice come quelli di cui la figura legale è predicabile in asserzioni giudiziarie accettate come vere; il giudice,invece,connota le caratteristiche accidentali e le circostanze specifiche, non connotabili ne denotabili legalmente,che formano l’intensione dei casi individuali denotati dalla legge come membri della classe la cui estensione è determinata dalla figura di reato da essa connotata. La legge connota ciò che il giudice denota,e denota ciò che il giudice connota. Legalità ed equità – riguardando l’una la denotazione,l’altra la connotazione operate nel giudizio- possono conseguentemente essere concepite come due aspetti diversi della conoscenza giudiziaria: il giudizio di legalità corrisponde alla verificazione delle caratteristiche essenziali e comuni che consentono di affermare che un dato caso individuale rientra in una data classe di reati connotata dalla legge; il giudizio di equità consiste invece nella comprensione delle caratteristiche accidentali e singolari del caso individuale verificato e non connotate dalla legge. Questa complessa fenomenologia del giudizio può essere espressa con l’ausilio,anziché della distinzione tra denotazione/estensione e connotazione/intensione dei segni,di quella tra lingua e linguaggio giuridico, intesa la prima come l’insieme delle regole di uso delle espressioni impiegate nel secondo. Prendiamo in considerazione il termine “Rapina”. Diremo in tal caso che il predicato rapina disegna nella lingua legale il concetto giuridico di rapina definito in astratto dalla legge,ed esprime nel linguaggio giudiziario i caratteri essenziali o costitutivi del fatto concreto denominato dal giudice “rapina”; che i caratteri singolari e accidentali di tale fatto concreto,mentre non sono designabili al livello normativo della lingua legale, sono esprimibili nel linguaggio giudiziario con le parole della lingua comune; che infine l’insieme delle proposizioni legali che stabiliscono le regole di uso dei concetti giuridici stanno all’insieme delle proposizioni giudiziarie che ne fanno uso cosi come il dizionario e la grammatica di qualsiasi lingua stanno al linguaggio di quanti la parlano. Si puo inoltre aggiungere che l’interpretazione dottrinale del giurista consiste nella ridefinizione e nell’esplicazione delle condizioni di uso dei concetti giuridici definiti dalle norme nella lingua legale,mentre l’interpretazione operativa compiuta dal giudice o da altri operatori consiste nel loro uso per denominare i fatti nel linguaggio giudiziario. Principio di legalità e principio di equità come regole semantiche del linguaggio penale. Gli elementi costitutivi e le circostanze del reato. Correlativamente al principio di legalità, regola semantica sulla formazione del linguaggio penale,anche il principio di equità può essere peraltro caratterizzato come una regola semantica sulla formazione di tale linguaggio. La differenza è che esso non riguarda la denotazione, bensi la connotazione giudiziaria. Precisamente,esso può essere concepito come una regola meta-giudiziaria che prescrive che il giudizio connoti nella maniera piu precisa e penetrante i fatti denotati dalla legge,comprendendone tutte le caratteristiche accidentali,o specifiche o singolari. Queste caratteristiche accidentali sono quelle che si chiamano circostanze del reato. Esse non costituiscono i connotati essenziali del concetto di reato,ma sono solo le sue aggravanti o attenuanti o scusanti. Molte di queste circostanze sono prestabilite dalla legge,che nel tentativo di disciplinare al massimo grado il potere equitativo del giudice ne fornisce essa stessa connotazioni normative; sicchè anche per esse la funzione del giudice è diretta principalmente alla loro denotazione e verificazione. Oltre a quelle legali, il giudice ha però il compito di comprendere tutte le circostanze che rendono ciascun fatto diverso da tutti gli altri e che hanno comunque rilevanza per la valutazione della sua specifica gravità e per la conseguente determinazione della misura della pena,predeterminata di solito dalla legge tra un minimo ed un massimo. Del resto,anche le circostanze legali sono espresse assai spesso in termini valutativi che rimandano alla connotazione equitativa: si pensi al carattere abbietto o futili dei motivi dell’azione oppure al loro particolare valore morale o sociale. È chiaro che la comprensione equitativa di tutte queste circostanze specifiche comporta un potere di connotazione,che si esprime in scelte e in valutazioni largamente discrezionali. Questo potere, al pari del potere di denotazione dei fatti come reati sulla base degli elementi costitutivi connotati dalla legge, è un potere intrinseco alla funzione giudiziaria che non può essere soppresso. È infatti non solo legittima,ma ineludibile,la discrezionalità equitativa che esso comporta e che è legata al fatto che il giudice non giudica il tipo di reato,che è questione legislativa,ma il reato concreto,singolare e irripetibile, e deve quindi intenderlo nella sua specificità- la legalità e l’equità costituiscono due aspetti diversi della conoscenza giudiziaria legati a due dimensioni diverse,ma logicamente indissociabili,del linguaggio giuridico e del significato dei segni in esso impiegati. Sicchè,né la legalità è possibile senza equità, ne l’equità è possibile fuori della legalità. Tutti i giudizi sono pertanto piu o meno equi od iniqui,a seconda del loro grado di comprensione dei connotati specifici e differenziali del caso giudicato; cosi come possono essere piu o meno legali o illegali a seconda del loro grado di approssimazione alla verità processuale. Il paradosso del carattere insieme uguale e diverso degli infiniti casi concreti sussunti in una medesima norma astratta si scioglie se solo si considera che l’uguaglianza dei casi riguarda la loro denotazione,mentre la differenza riguarda la loro connotazione. È per questi che tutti i casi di rapina sono uguali sul piano estensionale,ma sono diversi sul piano intensionale: perché il giudice,in un sistema di legalità,connota in modo diverso ciò che la legge denota,e denota in modo uguale ciò che la legge connota. Gli equivoci del formalismo e dell’antiformalismo. Iurisdictio e iurisprudentia. Molti dei luoghi comuni che hanno afflitto e diviso il pensiero giuridico,e che vanno al di là della stessa questione del rapporto tra legalità ed equità nel diritto penale,possono essere su questa base eliminati. Risultano di conseguenza screditati molti equivoci paradigmi che variamente confortano le distorsioni pratiche del costume giudiziario. Il detto dura lex,sed lex o peggio la massima summum ius,summa iniuria non possono essere un alibi alla durezza o alla iniquità del giudizio,ma sono solo degli schermi all’ottusità dei giudici. E l’equità non può essere invocata per oltrepassare la legge,ma solo per applicarla. L’applicazione della legge al fatto concreto è infatti una attività conoscitiva che richiede insieme,come condizioni ambedue necessarie e ciascuna insufficiente,sia la verificazione che la comprensione. Essa è al tempo stessa iurisdictio,ossia verificazione della corrispondenza alla legge del fatto provato e compreso, e iurisprudentia,ossia comprensione dei connotati specifici del caso denotato e verificato. È precisamente nella prudentia,o comprensione, o discernimento delle differenze che Aristotele identificata la virtù dell’equità. Il favor rei: comprensione equitativa,valutazione simpatetica e graduazione delle pene. È chiaro che quanto piu approfondita e penetrante è la comprensione del fatto,tanto maggiore è l’attenuazione, ai limiti della giustificazione,della sua gravità. Mentre la prova fattuale e la verificazione giuridica richiedono, come scriveva Beccaria, l’indifferenza e il distacco del giudice dal caso denotato,la comprensione equitativa ne richiede la non indifferenza,cioè quella partecipazione alla situazione di fatto connotata che si esprime nella benevolenza,nella compassione,nella pietas. La valutazione equitativa non riguarda mai,infatti,il caso astratto, ma sempre il caso concreto e umanamente determinato. È dunque attraverso di essa che si attua il rispetto della persona umana giudicata,che nel nostro come in altri ordinamenti non è solo un principio razionale e morale,ma anche un principio giuridico costituzionale. Ed è in essa che si manifesta la moralità del giudice. Essa tanto meno riflette la soggettività emozionale e parziale del giudice. Al contrario,essa è il prodotto di uno sforzo intenzionale del giudice diretto a prescindere il piu possibile dalle sue personali ideologie, dai suoi pregiudizi e dalle sue inclinazioni per comprendere o partecipare delle ideologie, delle inclinazioni e dei condizionamenti del soggetto giudicato. In questo senso l’equità è anche una condizione della imparzialità o terzietà del giudice. La discrezionalità. Il potere di disposizione e i principi generali. Verità indecidibile e arbitrio dispositivo. Il potere giudiziario di disposizione. I limiti della verità processuale escludono che la certezza penale possa mai essere assoluta. La certezza,sia di fatto che di diritto, delle motivazioni giudiziarie è nel migliore dei casi una certezza soltanto relativa. Accanto agli spazi irriducibili di incertezza dovuti ai limiti intrinseci alla verità processuale ed ammessi di fatto anche dal sistema di stretta legalità del sistema garantista,possono darsi però spazi assai maggiori e riducibili di incertezza dovuti all’assenza di una o piu garanzie ed ammessi, in aggiunta ai primi,da tutti gli altri sistemi. Se gli spazi del primo tipo consentono di parlare della verità processuale come di una verita soltanto approssimativa – giuridicamente opinabile e fattualmente probabile- quelli del secondo tipo possono giustizia sostanziale o politici. E poiché in tutti i sistemi penali positivi esiste sempre, pur se in grado diverso a seconda delle diverse norme,qualche elemento dello stato di polizia o della giustizia di cadì, in tutti il potere giudiziario è in diversa misura potere di disposizione,di natura politica e non solo legale od equitativa. Dunque la politicità dell’attività giudiziaria non è il frutto di una opzione ideologica o deontologica,ma un dato di fatto,legato ai difetti di garanzie e alle imperfezioni strutturali variamente presenti in tutti gli ordinamenti penali positivi. Il potere giudiziario di disposizione consiste precisamente nella autonomia del giudice,chiamato ad integrare dopo il fatto la fattispecie legale con valutazioni etico politiche di natura discrezionale. Tale potere può essere assoluto,come nei regimi di polizia e nella giustizia di cadì ove il suo esercizio non è vincolato all’accertamento di nessuna condizione legalmente predisposta, oppure relativo,come in tutti i casi in cui la regola semantica della stretta legalità è solo in qualche misura insoddisfatta. È chiaro che esso vanifica nel primo caso e indebolisce nel secondo non solo le garanzie penali richieste dalla stretta legalità,ma anche quelle processuali richieste dalla stretta giurisdizionalità. Ne consegue – nei moderni ordinamenti democratici caratterizzabili come stati di diritto – una strutturale illegittimità politica del potere di disposizione del giudice e delle decisioni che ne sono espressione. In tali ordinamenti,infatti, il potere di disporre ciò che è reato è giustificato esclusivamente in quanto è riservato preventivamente alla legge; e il potere giudiziario è legittimato come potere separato e indipendente dagli altri poteri solo in quanto è deputato alla verificazione e alla connotazione dei fatti penalmente denotati dalla legge sulla base di tassative connotazioni dei loro elementi costitutivi. Inoltre- in ordinamenti come il nostro, nei quali la stretta legalità,la soggezione del giudice alla legge e le altre garanzie sono prescritte da norme costituzionali di livello superiore – il potere giudiziario di disposizione è per di piu affetto da una non meno strutturale illegittimità giuridica. Precisamente,il potere di denotazione giuridica che il legislatore delega al giudice mediante la stipulazione di una lingua legale indeterminata segnala un vizio di invalidità delle leggi per difetto di stretta legalità;mentre il potere di denotazione fattuale che il giudice si arroga mediante l’uso di un linguaggio giudiziario indeterminato segnala un vizio di invalidità delle pronunce giudiziarie per difetto di stretta giurisdizionalità. I principi generali del diritto quali criteri di orientamento del potere di disposizione. Il potere giudiziario, nella misura in cui è anche potere di disposizione,è dunque,nei sistemi positivi costituzionalmente basati sui principi di stretta legalità e di stretta giurisdizionalità, strutturalmente illegittimo. Questa illegittimità strutturale è in una certa misura fisiologica nel moderno stato di diritto,ove contrassegna non solo il potere giudiziario ma in generale tutti i poteri legittimati sulla base di valori sanciti costituzionalmente ma destinati, quanto piu alti e difficili, a non essere mai soddisfatti perfettamente;ma che essa è particolarmente vistosa nell’ordinamento penale italiano,ove la divaricazione tra normatività dei principi ed effettività della prassi ha raggiunto dimensioni patologiche. Ciò che ora importa sottolineare è che una simile illegittimità non esonera il giudice dal dovere e dalla responsabilità delle decisioni. È questa una aporia intrinseca alla struttura dei sistemi penali positivi: il dovere giuridico di decidere sia pure illegittimamente o con legittimità ridotta quale fondamento effettuale della legittimità relativa del potere giudiziario di disposizione. Questa aporia può essere attenuata, anche se non eliminata. Il fatto che le decisioni penali con cui è esercitato il potere di disposizione non vertano sulla verità processuale non vuol dire che esse non debbano o non possano essere giustificate. Vuol dire soltanto che esse sono motivabili solo o prevalentemente con giudizi di valore,in quanto tali non vincolati a tassative previsioni legali. Ma anche i giudizi di valore sono suscettibili di argomentazione e di controllo,sulla base di criteri pragmatici di accettazione. Questi criteri altro non sono che i principi generali dell’ordinamento,cioè principi politici espressamente enunciati nelle costituzioni e nelle leggi oppure in esse impliciti e ricavabili tramite elaborazione dottrinale. Alcuni di essi sono i medesimi che presiedono all’esercizio del potere di verificazione, cioè alle decisioni sulla verità processuale con cui sono risolte le incertezze create dai difetti di denotazione delle fattispecie legali: tali,per esempio,il criterio del favor rei e il suo corollario in dubio pro reo. Altri sono gli stessi che informano l’esercizio del potere equitativo di valutazione dei connotati particolari dei fatti denotati dalla legge: come il rispetto della persona umana,il favore dovuto ai soggetti socialmente piu deboli. Altri,ancora,sono relativi specificamente al potere di disposizione: come i principi di uguaglianza e di libertà nel senso non solo formale ma anche sostanziale espresso dall’articolo 3 della nostra Costituzione. Naturalmente, anche se dotati di valore normativo,i principi generali utilizzati come criteri per argomentare l’esercizio del potere di disposizione non hanno che una capacità debolissima di vincolare le decisioni: essi,infatti,operano quali criteri di decisione su valori di giustizia sostanziale,non definibili in astratto e talvolta tra loro incompatibili. E richiedono quindi scelte e valutazioni irriducibilmente discrezionali che rimandano alla responsabilità politica e morale del giudice. Proprio questa responsabilità, legata immediatamente ai valori di giustizia sostanziale espressi dai principi generali, rappresenta però un fattore di razionalizzazione del potere di disposizione e di limitazione dell’arbitrio ad esso altrimenti connesso. La funzione specifica dei principi generali è infatti proprio quella di orientare politicamente le decisioni e di consentirne la valutazione e il controllo tutte le volte che la verità processuale è in tutto o in parte indecidibile. Si può anzi dire che un sistema penale è tanto piu prossimo al modello garantista del diritto penale minimo quanto più è in grado di esprimere principi generali idonei ad operare come criteri pragmatici di accettazione o di repulsione delle decisioni nelle quali si esprime il potere giudiziario, in particolare di disposizione. E poiché i principi generali sono costruzioni dottrinali elaborate su norme o sistemi di norme,la ricchezza di principi di un ordinamento è determinata non solo dai valori di giustizia sostanziale da esso incorporati a livello legale,ma anche dal lavoro scientifico e giurisprudenziale su di esso compiuto dai giuristi. Nell’operare le scelte imposte da questi spazi di discrezionalità il giudice, in particolare, non è mai neutrale,se per neutralità non si intende soltanto la sua onestà intellettuale il suo disinteresse personale per i concreti interessi in causa ma una impossibile avalutatività o a politicità delle opzioni e una illusoria oggettività dei giudizi di valore. E se le scelte sono inevitabili,e tanto piu discrezionali quanto piu ampio è il potere giudiziario di disposizione,è quanto meno una condizione del loro controllo ed autocontrollo, se non cognitivo quanto meno politico e morale,che esse siano consapevoli, esplicite e informate a principi anziché acritiche o mascherate o comunque arbitrarie. Il rifiuto della politicità del giudizio è in effetti il frutto di un equivoco: esso scambia gli spazi strutturali di arbitrio lasciati aperti nell’ordinamento dalla carenza di garanzie con il pur debole rimedio ad essi opposto. Ciò che in realtà è illegittimo è il potere di disposizione generato dall’impianto sostanzialistico e decisionistica del sistema, e non certo gli argomenti politici o sostanzialistici con cui esso è esercitato e controllato. Le preleggi e l’interpretazione Una introduzione critica – Vito Velluzzi le concezioni dell’interpretazione giuridica. Le teorie dell’interpretazione sono state opportunamente presentate come risposte diverse ad una stessa domanda:quanti significati si possono attribuire ad una disposizione giuridica,uno o piu di uno? Tuttavia,pur condividendo la base concettuale,le differenti teorie divergono nel modo di configurare l’attribuzione di significato a disposizioni normative. Se cosi stanno le cose può risultare più appropriato trattare delle teorie in termini di concezioni,ovvero di differenti interpretazioni del medesimo concetto, nel nostro caso differenti interpretazioni del concetto di interpretazione delle disposizioni giuridiche,o con maggiore puntualità: differenti interpretazioni di ciò che significa attribuire significato a disposizioni giuridiche. Formalismo interpretativo: il modo consueto di presentare il formalismo interpretativo è più o meno il seguente: ad ogni enunciato normativo può essere attribuito un solo significato corretto. A partire da questa definizione si possono distinguere due versioni della concezione formalista,una versione semantica,e una di natura non strettamente semantica,talvolta etichettata come concezione neoformalista. La prima versione del formalismo interpretativo si risolve in una teoria semantica per la quale le parole e gli enunciati da esse composti hanno sempre un significato univoco e chiaro. Ne segue che attribuire significato a disposizioni normative vuol dire scoprire,individuare,conoscere il solo significato semanticamente e giuridicamente corretto che l’enunciato normativo esprime. L’interpretazione è dunque attività di mera conoscenza dell’unico significato della disposizione normativa,tanto è vero che alla parola formalismo viene sovente preferita la parola cognitivismo per rappresentare il tratto peculiare di questa concezione dell’interpretazione giuridica. Tuttavia questa versione della concezione formalista,pur ritenendo che sia o sia stata sostenuta,presenta difetti non emendabili che ne comportano la complessiva irragionevolezza,non fosse altro perché questa prima versione del formalismo non considera la rilevanza nell’interpretazione giuridica dell’ambiguità degli enunciati e la vaghezza dei significati. Si parla di concezione formalista per riferirsi pure a coloro che da un lato ammettono che l’interprete è tenuto a misurarsi con problemi di ambiguità degli enunciati e di vaghezza dei significati, e dall’altro ritengono che ciò nonostante vi è sempre una sola interpretazione,un solo significato tra quelli determinabili da preferire agli altri. Seguendo questa impostazione,quindi,per quanto una disposizione normativa non abbia un univoco,chiaro,significato sul piano semantico,vi è però, per quella stessa disposizione normativa,un solo significato corretto sul piano giuridico. Riassumendo dunque il nucleo della concezione formalista consiste nel ritenere che per ogni disposizione normativa vi è un solo significato corretto; in un primo caso il significato è corretto in quanto è l’unico veicolato dalle parole;in un secondo caso il significato è corretto in ragione di uno o piu criteri,nonostante a quella disposizione normativa si possono attribuire,sul piano linguistico,altri significati. Scetticismo interpretativo. La concezione scettica dell’interpretazione giuridica sostiene che per ogni disposizione normativa non vi è mai un solo significato determinabile,o che per ogni enunciato normativo vi è sempre piu di una interpretazione. Ne segue che l’interpretazione, in particolare quella giudiziale, è atto di scelta, e pertanto di volontà. L’attribuzione di significato ai testi normativi è frutto di decisione discrezionale degli interpreti. Anche della concezione scettica esistono due favore,i giudici sono tenuti istituzionalmente a motivare le loro decisioni fondandole sulla legge,ed è proprio attraverso le parole spese dai giudici a sostegno delle proprie scelte che si esercita il controllo da parte della società sulle decisioni; è un controllo attinente ai procedimenti intellettuali che conducono alla decisione sui significati, e si palesano abitualmente nella motivazione,ovvero conducono ad una proposta di decisione sui significati e si palesano abitualmente in argomentazioni. Gli argomenti interpretativi sono stati variamente classificati. Taluni argomenti interpretativi sono in grado di sostenere da soli una attribuzione di significato,mentre altri possono soltanto svolgere un ruolo ausiliario di altri argomenti interpretativi; vi sono poi argomenti interpretativi che servono a scegliere tra piu significati di una disposizione normativa,ma non a determinare uno o piu di questi significati. Ma riguardo agli argomenti interpretativi è di primario interesse la questione del loro censimento,ovvero di quali siano quelli utilizzabili in ambito giuridico. Non qualsiasi argomento può essere addotto dai giudici o dagli studiosi per suffragare l’attribuzione di significato ad enunciati normativi,ma gli strumenti disponibili sono quelli che da lunghissimo tempo sono talmente radicati nell’uso giuridico da poter essere considerati specifici. Quali e quanti siano gli argomenti dell’interpretazione è questione difficile da stabilirsi,nel senso che in ogni sistema giuridico si strutturano delle abitudini in ordine al come giustificare le interpretazioni. Argomento letterale e argomento a contrario. L’argomento letterale è rivolto all’individuazione del significato letterale e viene considerato,di solito,il punto di partenza dell’interpretazione giuridica. Si tratterebbe di un argomento imprescindibile in virtu del fatto che l’interpretazione giuridica ha per oggetto parole ed enunciati linguistici e comprendere il loro significato letterale costituisce per l’interprete il primo passo. Il significato letterale può riferirsi alle singole parole o all’enunciato normativo. Nel primo caso “letterale” può voler dire due cose differenti: a)significato che la parola ha indipendentemente dall’enunciato in cui è inserito; b)significato che la parola ha se posta in relazione con le altre che compongono il medesimo enunciato. Se si ritiene che le parole abbiano un significato letterale che prescinde dall’enunciato in cui ricorrono,allora il significato dell’enunciato sarebbe dato dalla combinazione dei significati di ogni parola che lo compone. Se si ritiene,invece,che il significato letterale di una parola non si individuabile se non in ragione del posto che essa occupa all’interno dell’enunciato,il significato letterale delle parole confluisce e si dissolve nel significato letterale dell’enunciato. Segnaliamo dunque alcune delle nozioni di significato letterale presenti nel panorama dottrinale,teorico e giurisprudenziale. Un significato prima facie. Il significato letterale in questo caso sarebbe quello che viene attribuito istintivamente dall’interprete al momento della lettura della disposizione normativa. Il secondo sarebbe quello conforme alle regole di funzionamento della lingua in cui è formulata la disposizione normativa. Questo modo di intendere il significato letterale può sovrapporsi al precedente, ma non necessariamente si sovrappone ad esso. Il significato prima facie può coinvolgere infatti, oltre alle competenze linguistiche,pure il retroterra culturale dell’interprete. Nella terza nozione l’assimilazione del significato letterale al significato chiaro viene sostenuta in due modi differenti. Per alcuni,infatti,ogni parola e ciascun enunciato hanno un nucleo di significato chiaro e un ambito semantico incerto,il nucleo di significato chiaro viene etichettato come letterale. Per altri,invece,non vi è necessariamente un nucleo chiaro di significato, può esserci come non esserci, e, ove vi sia,il significato chiaro è chiamato letterale, mentre se il significato è oscuro la parola o l’enunciato sono privi di significato letterale. Una quarta nozione considera il significato letterale come l’insieme dei significati attribuibili alla parola e all’enunciato normativo,ossia i significati che possono essere attribuiti conformemente alle regole semantiche e sintattiche della lingua nei vari possibili contesti. Nel quinto caso il significato rappresenta il frutto di una stretta interpretazione,nel senso che una interpretazione stretta si attiene al significato letterale,inteso come il significato piu immediato della disposizione normativa o piu aderente ad essa. Nel sesto caso il significato collima con ciò che il legislatore intendeva dire,ossia si tratta del significato che riproduce fedelmente l’intenzione del legislatore. L’ultima accezione di significato letterale conduce verso il secondo argomento interpretativo: l’argomento a contrario. Si usa questo argomento laddove si sostiene che il legislatore ha voluto solo ciò che ha detto,ossia ha formulato la disposizione normativa in guisa tale da incorporare la propria intenzione nelle parole. Dell’argomento in questione esistono due versioni. La prima versione,detta interpretativa, prevede che il legislatore ha voluto solo ciò che ha detto,tuttavia non sappiamo cosa abbia voluto rispetto a ciò che non ha detto. Un esempio può essere utile. L’articolo 81 del codice civile dispone che in caso di rottura senza giustificato motivo della promessa di matrimonio il promittente è tenuto a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa”. Orbene,se si usa l’argomento a contrario nella versione interpretativa si sostiene che il legislatore ha voluto che il promittente risarcisca all’altra parte il danno per le spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa della promessa,ma non sappiamo cosa abbia voluto il legislatore rispetto al risarcimento dei danni non patrimoniali che il contraente incolpevole della promessa ormai sciolta possa aver subito. La seconda versione,detta produttiva,si presenta cosi: il legislatore ha voluto solo ciò che ha detto e riguardo a ciò che non ha detto ha voluto l’opposto. Riprendiamo l’esempio appena fatto. Se si usa l’argomento a contrario nella sua versione produttiva si sostiene che vista la formulazione dell’articolo 81 del codice civile,per la quale il risarcimento dovuto è di natura patrimoniale e limitato alle sole spese sostenute e obbligazioni contratte a causa della promessa, va esclusa la possibilità di accordare il risarcimento per i danni non patrimoniali eventualmente patiti. Il risultato dell’uso di questa versione dell’argomento a contrario è appunto quello di produrre una norma nuova,la norma per la quale la rottura senza giustificato motivo della promessa di matrimonio non fa sorgere in capo al promittente l’obbligo di risarcire il danno non patrimoniale. Argomenti teleologici. Gli argomenti interpretativi teleologici hanno a che fare con lo scopo, la finalità delle disposizioni normative. Gli argomenti teleologici fanno capo all’interpretazione teleologica. Nel lessico dei giuristi,dei giudici e dei teorici del diritto ricorrono sovente le espressioni “interpretazione teleologica soggettiva” o secondo l’intenzione del legislatore e “interpretazione teleologica oggettiva” o secondo lo scopo del testo di legge. È diffuso il ricorso alla formula latina ratio legis. I problemi che si pongono nell’analizzare questo tipo di interpretazione sono parecchi,da piu parti e ripetutamente messi in rilievo. Per prima cosa è dubbio se l’interpretazione teleologica possa o debba svolgersi avendo riguardo all’intenzione del legislatore o guardando al testo di legge come provvisto di proprie finalità sganciate dal soggetto che ha prodotto il testo stesso. È dubbio quindi se sia preferibile l’interpretazione teleologico soggettiva o l’interpretazione teleologica oggettiva. In secondo luogo è problematica sia l’individuazione dell’intenzione del legislatore, sia dello scopo oggettivo del testo di legge. Bisogna soffermare l’attenzione su questo punto. Come si può individuare l’intenzione del legislatore? Il primo inciampo che si incontra nel rispondere a questo interrogativo risiede nella difficoltà di poter attribuire al legislatore intenzioni e scopi univoci. Nelle società giuridiche contemporanee,infatti,i testi di legge sono prodotti, di solito,da organi collegiali e non è possibile trattare della intenzione di un organo collegiale negli stessi termini in cui si parla della intenzione dei singoli individui. Le critiche appena esposte alla tesi dell’interpretazione teleologico soggettiva sono state compiute ricorrentemente. Tuttavia,alcuni dei sostenitori di tale tesi non contestano la fondatezza delle critiche, ma caratterizzano in termini diversi l’intenzione del legislatore. Essi sostengono che si può individuare una intenzione riconducibile ad una pluralità di soggetti sulla base di indici presuntivi,ottenendo cosi una intenzione presunta o standard,e comunque non l’intenzione effettiva ma quella che può essere ragionevolmente attribuita ad un insieme di individui. Pertanto, il problema risiede nel valutare l’efficacia degli strumenti utilizzati per ricostruire l’intenzione del legislatore cosi intesa. Da parte di alcuni,allora,si ritiene che l’intenzione del legislatore sia costituita dallo o dagli scopi condivisi da chi ha approvato il documento normativo,o dalla maggioranza di essi. Il criterio utilizzato è quello della coincidenza tra intenzione del legislatore e scopi condivisi dalla maggioranza. Altri preferiscono ricorrere ad un modello di legislatore ideale,legando gli scopi perseguiti ai caratteri ad esso attribuiti: si raffigurano l’immagine di un buon legislatore,coerente,ragionevole e razionale e in ragione di questi requisiti determinano le finalità della legge. È problematica pure la tesi per la quale la ratio legis consiste nelle finalità oggettive della legge in quanto dotata di propri scopi. Guardando alla letteratura in materia si nota che i seguaci dell’interpretazione teleologico oggettiva si sono preoccupati principalmente di criticare con dovizia di argomenti la tesi soggettiva, ma poco hanno detto che indicare i criteri utili a rintracciare le finalità oggettive della legge. Si è detto per esempio che lo scopo perseguito è immanente al testo,oppure che i valori tutelati sono da porre in connessione con la volontà del sistema giuridico,realizzando cosi una sorta di personificazione dello stesso sistema giuridico. La tesi intenzionali sta nella sua versione radicale e la tesi oggettiva,nei termini un po generici in cui è solitamente formulata, non sono agevolmente fruibili nell’attività interpretativa,in quanto non è chiaro come si possa individuare una effettiva intenzione del legislatore per un vero e per l’altro verso serve a poco dire che un testo di legge è portatore di proprie finalità. La versione più moderata della tesi intenzionali sta,ricorrendo ad una intenzione standard,presunta,dal legislatore,comporta una inevitabile idealizzazione dell’intenzione che risulta determinata, quindi, sulla base di qualità attribuite convenzionalmente ad un legislatore modello, diluendo, se non addirittura smarrendo del tutto,il nesso con i soggetti autori del testo di legge. In conclusione si può dire che la ratio legis ha carattere piu o meno oggettivo se tra gli strumenti utilizzati per la sua determinazione rispettivamente non vi sono o vi sono i lavori preparatori o materiali che consentono di tener conto di opinioni,volontà,intenzioni espresse dai componenti dell’organo legislativo al momento della formulazione del testo di legge,lavori e materiali che comunque solo talvolta o raramente si rivelano decisivi. Il ruolo rilevante è svolto dal modo col quale si individua la ragione e le finalità del testo di legge,non tanto dal fatto che ci si riferisca a parole all’intenzione del legislatore o allo scopo oggettivo della legge. L’argomento a maggior ragione e la riduzione teleologica. Due argomenti usati da giuristi e giudici utilizzano la ratio in uno dei suoi due significati per ottenere identiche come principi. Anche per l’argomento della congruenza entrano in gioco le gerarchie normative e l’interpretazione di un enunciato normativo viene adeguata ad un principio,inteso appunto come uno scopo,un fine che accomuna piu norme. L’interpretazione adeguatrice conduce alla scelta del significato piu compatibile,che meglio soddisfa scopi,esigenze e fini rilevanti. L’argomento della coerenza invece si limita ad escludere dal lotto i significati non compatibili. Si è individuata,cosi,una seconda accezione di interpretazione adeguatrice: adeguamento come espressione della massima compatibilità tra norme. Ecco un esempio di uso dell’argomento della congruenza che riguarda il rapporto tra una disposizione di legge ed il contratto o una singola clausola contrattuale. L’articolo 1367 del codice civile dispone che” nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto,anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”. Parte della dottrina e certa giurisprudenza ritengono che tale enunciato normativo consenta di individuare in ambito contrattuale il principio di conservazione del contratto e dei suoi effetti,ma soprattutto sostengono che tale principio comporta l’obbligo di interpretare l’intero contratto o una o piu delle sue clausole in modo tale che lo stesso contratto,o clausola,possa produrre il suo massimo effetto. L’argomento della congruenza presuppone,quindi,l’individuazione del significato del principio da ottimizzare. Nell’esempio fatto presuppone che il principio di conservazione venga inteso come conservazione dell’effetto maggiore. Passiamo ora ad analizzare le costruzioni dogmatiche. Leggendo gli elaborati scritti dagli studiosi di diritto capita di imbattersi in parole,sintagmi,nozioni di particolare importanza per l’autore. Orbene, queste nozioni esprimono un concetto,un significato costruito dalla dottrina che può essere usato per interpretare disposizioni normative. Ecco un esempio. Parecchi manuali istituzionali di diritto privato hanno dedicato e continuano a dedicare uno spazio cospicuo al negozio giuridico,eppure leggendo il Codice civile italiano non vi è alcun enunciato normativo che menzioni o definisca il negozio giuridico. Nel diritto italiano,quindi,il negozio giuridico è una costruzione dogmatica. La costruzione dogmatica può condizionare il significato di disposizione normative. Nella sfera del combinato disposto possono individuarsi tre accezioni. In una prima accezione,la piu semplice ed intuitiva,per combinato disposto si intende l’interpretazione effettuata combinando tra loro piu enunciati normativi,o piu parti di enunciati normativi differenti o dello stesso enunciato. Cosi inteso,il combinato disposto non indica uno specifico argomento interpretativo rivolto a giustificare un prodotto dell’interpretazione, bensi diviene sinonimo di attività interpretativa,in quanto l’operazione interpretativa solitamente comporta il coinvolgimento di una serie di enunciati normativi e non solo di un singolo enunciato. In una seconda accezione combinato disposto equivale a interpretazione adeguatrice. Si fa riferimento al combinato disposto per indicare che il processo interpretativo è condizionato dalla rilevanza di gerarchie normative, per cui l’esito dell’interpretazione è il frutto del condizionamento che il contenuto di significato della fonte di rango gerarchico superiore opera sulla determinazione di significato della disposizione di rango inferiore. In una terza accezione la formula del combinato disposto evoca il rinvio ad altre disposizioni normative,vale a dire il rinvio che un enunciato normativo può operare ad altro enunciato normativo. In questo caso l’interprete lavora tenendo conto dell’enunciato in cui vi è il rinvio,e non può però evitare di operare la determinazione del significato dell’enunciato oggetto del rinvio. In sintesi,il combinato disposto è una formula che individua un oggetto dell’interpretazione,ma non individua uno specifico argomento interpretativo. Sono questi, fatta eccezione per il combinato disposto,gli argomenti sistematici dell’interpretazione, poiché tutti assumono come riferimento un sistema,ma non il medesimo sistema. Si possono opportunamente distinguere,infatti, quattro tipi di interpretazione sistematica: sistematico-testuale; sistematico-logica; sistematico- teleologica; sistematico- dogmatica. Nell’ interpretazione sistematico-testuale il sistema di riferimento dell’interprete è costituito dal testo normativo considerato come insieme di enunciati tra loro connessi e parte del medesimo discorso. Fanno capo a questo tipo di interpretazione sistematica gli argomenti della sedes materie e della costanza semantica. Nell’interpretazione sistematico-logica l’interprete ritiene che sia caratteristica rilevante del sistema giuridico l’assenza di antinomie, per cui le previene. Fa capo a questo tipo di interpretazione sistematica l’argomento della coerenza. Nell’interpretazione sistematico-teleologica il sistema di riferimento dell’interprete è costituito dagli scopi,dalle finalità, che accomunano un gruppo di norme o l’intera sistema giuridico. Fa capo a questo tipo di interpretazione sistematica l’argomento della congruenza. Nell’interpretazione sistematico-dogmatica il sistema di riferimento dell’interprete è costituito dalla costruzione concettuale da lui stesso operata o mutuata da altri. Fa capo a questo tipo di interpretazione sistematica l’argomento delle costruzioni dogmatiche. Interpretazione estensiva,restrittiva ed evolutiva. Alcune formule lessicali vengono usate per indicare esiti,risultati dell’interpretazione,piuttosto che argomenti. In questa categoria vanno ricondotte l’interpretazione estensiva e quella restrittiva. I sintagmi “interpretazione estensiva” e “interpretazione restrittiva” designano esiti,risultati interpretativi e non strumenti adatti a determinare o giustificare interpretazioni. Piu in particolare con interpretazione estensiva si indica un esito interpretativo diverso e piu ampio rispetto ad una interpretazione precedente dello stesso enunciato normativo,mentre con interpretazione restrittiva si indica un esito interpretativo diverso e ridotto rispetto ad una interpretazione precedente dello stesso enunciato normativo. Le due nozioni presuppongono una interpretazione precedente,non necessariamente una interpretazione letterale precedente, come sostenuto sovente da giudici,giuristi e teorici del diritto. Gli argomenti adatti a conseguire risultati interpretativi estensivi o restrittivi sono molti. Taluni argomenti interpretativi sistematici,per esempio,a seconda dell’enunciato normativo col quale vengono in contatto, possono far scaturire risultati interpretativi estensivi o restrittivi. La nozione di stretta interpretazione è usata spesso per accreditare un esito interpretativo letterale, ma talvolta la stretta interpretazione serve a sostenere un risultato restrittivo rispetto al significato assunto come letterale. Per la nozione di interpretazione estensiva si pongono delicate questioni connesse alla legalità penale,specie con riguardo alla misura dell’estensione. Un’altra nozione alla quale prestare attenzione e presente nel lessico di giuristi e giudici è quella di interpretazione evolutiva. Anche essa designa un risultato interpretativo e ha contenuti non del tutto chiari. Indica infatti in maniera vaga la necessità di mutare una interpretazione consolidata alla luce di una evoluzione,di cambiamenti avvenuti nella realtà sociale,nell’ordinamento giuridico. L’interpretazione evolutiva cosi intesa presuppone che vi sia un risultato interpretativo da correggere in virtu dei mutamenti interventi. Spesso il risultato interpretativo dal quale emanciparsi,da far evolvere,è frutto dell’interpretazione di una disposizione normativa ancorata al momento della sua emanazione. Non a caso è ricorrente l’appello all’interpretazione evolutiva di enunciati normativi la cui emanazione è risalente nel tempo. Capitolo II. Gli articoli 12 e 14 delle Preleggi. L’articolo 12 delle Preleggi. L’esame delle concezioni dell’interpretazione giuridica e dei principali argomenti interpretativi consente di studiare l’articolo 12 delle Preleggi. L’articolo si compone di due commi. Il primo è cosi formulato: “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse,e dalla intenzione del legislatore; il secondo dispone che “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio,si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Gli aspetti piu rilevanti da affrontare riguardo alla disposizione normativa in questione sono i seguenti: A)interpretazione dell’articolo 12, ossia determinazione dei suoi contenuti; B) rapporti tra gli strumenti interpretativi previsti dalla disposizione normativa; C)ambito di applicazione,vale a dire a quali testi normativi si applichi l’articolo 12; D)se l’articolo 12 sia obsoleto,superfluo,se non tacitamente abrogato o addirittura costituzionalmente illegittimo. Per ciò che concerne il primo punto, vi è da chiedersi quali siano i mezzi ermeneutici da usare per determinare il significato dell’articolo 12. Se si dicesse che l’articolo 12 va interpretato in base a quanto dispone l’articolo 12, vi sarebbe da affrontare la questione dell’autoriferimento, questione molto delicata. Pur volendo eludere questo intuitivo quanto imbarazzante problema,resta la questione dell’individuazione dei contenuti dell’articolo 12: bisogna stabilire il significato di espressioni quali “significato proprio delle parole”, “intenzione del legislatore”, “materie analoghe”. Per quel che riguarda i rapporti tra i mezzi interpretativi indicati dalla disposizione normativa che ci occupa bisogna distinguere il 1° comma dal 2° comma per soffermare l’attenzione, per il momento,sul primo comma. Quest’ultimo indica strumenti di interpretazione,cioè di determinazione del significato degli enunciati normativi, mentre il 2° comma indica strumenti di integrazione del diritto,che entrano in gioco solo quando non sia possibile risolvere la controversia con una precisa disposizione,come dispone in apertura. L’enunciato normativo sembra fissare una sorta di progressione:prima vengono gli strumenti interpretativi, poi, solo se necessario, quelli integrativi. In questo modo è stato letto l’articolo dal Quadri,per il quale la disposizione normativa impedisce di procedere dall’alto in basso,da principi astratti e generalissimi per gettare luce sulle disposizioni particolari,ma al contrario dal basso in alto. Se ciò significa che l’articolo 12 scandisce un percorso dal certo all’incerto,la tesi va rifiutata,almeno per due ragioni. La prima ragione consiste nel fatto che le espressioni usate nel 1° comma dell’articolo 12 non sono per nulla equivoche e determinate, bensi ambigue e vaghe,per cui non sono in grado di costituire una bussola in grado di orientare con sicurezza l’interprete. In secondo luogo non è pacifico quale sia la relazione tra i mezzi interpretativi regolati dall’articolo 12,ovvero non è pacifico che l’ordine espositivo delinei pure un ordine preferenziale o gerarchico. Quel che si può ribadire è solo che l’articolo 12 muove dall’interpretazione per condurre all’integrazione. Proprio il rapporto tra significato proprio delle parole e intenzione del legislatore è uno dei nodi nevralgici dell’articolo 12 delle Preleggi, 1° comma,ed è indispensabile affrontarlo. In astratto si possono configurare almeno quattro soluzioni: A) subordinazione dell’intenzione del legislatore al significato proprio delle parole: l’interprete deve ricercare il significato proprio delle parole e ricorrere all’intenzione del legislatore solo qualora il primo sia oscuro,ambiguo o insufficiente; B) subordinazione del significato proprio rispetto all’intenzione del legislatore: è la l’inadeguatezza dell’articolo 12? Le risposte alla domanda oscillano tra considerazioni caute e atteggiamenti piu drastici e risoluti. Vi è chi osserva che la Costituzione rigida non può non aver avuto impatto sulle norme che regolano l’interpretazione della legge. Alcuni desumono dall’interazione della Costituzione con le fonti europee,un grado di vincolatività dell’articolo 12 inferiore al passato. Per altri ancora le conseguenze giuridiche della presa di coscienza riguardo alla gerarchia delle fonti sono ineluttabili: l’articolo 12 o è tacitamente abrogato o è costituzionalmente illegittimo. Se si ritiene infatti che i principi generali richiamati in tale disposizione sono quelli che si deducono a livello di legislazione ordinaria non vi è difficoltà a ritenere la scansione dei passaggi ermeneutici dell’articolo 12 conforme alla gerarchia delle fonti,ove invece i principi in questione fossero soltanto o anche quelli costituzionali, la norma sarebbe in tutto o in parte manifestamente incostituzionale, rilevandosi ostativa al rispetto in sede interpretativa della gerarchia delle fonti. Se la legge ha perso centralità per il giudice,visto che i contenuti della legge stessa vanno adeguati, resi conformi, quando possibile,alla Costituzione, è proprio l’interpretazione adeguatrice e conforme ad occupare interamente la scena,comporta la necessità dell’utilizzo nell’interpretazione dei testi di legge di tutti i mezzi ed argomenti di interpretazione che, in quanto tale,si sottrae alla ipostatizzazione come schema predeterminato,senza confinare il giudice all’uso del solo significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e della intenzione del legislatore. Seguendo questa linea di ragionamento l’inadeguatezza dell’articolo 12 delle Preleggi si appalesa ancor piu chiaramente se oltre alla Costituzione si considerano il diritto dell’Unione europea e la CEDU. Infatti,è ben noto,che la dinamica dell’interpretazione adeguatrice o conforme che dir si voglia,ha avuto e continua ad avere uno sviluppo giurisprudenziale incessante e solleva continue e assiologicamente compromesse questioni riguardo alla relazione gerarchica e al coordinamento tra gli stessi parametri di adeguamento o conformazione. Per esempio, è opinioni pressoché pacifica che riguardo al diritto dell’Unione europea il protagonista principale della sua attuazione sia il giudice ordinario attraverso lo strumento della disapplicazione o non applicazione della legge difforme. Il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse. A fronte di tutti gli aspetti problematici restano da sviscerare ancor piu in dettaglio i contenuti dell’articolo 12 delle Preleggi. Bisogna partire dalla nozione di significato proprio delle parole. Un modo diffuso di intendere questa nozione consiste nell’assimilare il significato proprio delle parole al significato letterale. Tuttavia,l’assimilazione del significato proprio al significato letterale ha come conseguenza l’ambiguità del significato proprio delle parole. Infatti, visto che la nozione di significato letterale può essere intesa in vari modi,altrettante vesti semantiche può assumere il significato proprio delle parole. Vi è poi un secondo modo di intendere il significato proprio delle parole,vale a dire come il significato appropriato, adeguato della disposizione normativa. Tuttavia,il significato delle parole di un enunciato normativo può essere ritenuto appropriato o adeguato in base a criteri differenti. Si potrebbe sostenere infatti che si appropriato il significato esito di un tipo di interpretazione sistematica o di applicazione dell’argomento a contrario,oppure dell’intenzione del legislatore in qualche guisa intesa. E inoltre: per i termini tecnicizzati potrebbe giudicarsi appropriato o adeguato il significato che la parola ha assunto nel contesto giuridico e tale scelta potrebbe variare da settore a settore del sistema giuridico in ragione delle particolarità tecniche di ciascuno. Tuttavia non va dimenticato che il significato proprio delle parole dell’enunciato normativo va determinato secondo la connessione di esse. Questo passo dell’articolo 12 indica sicuramente la necessità di tener conto della sintassi,ossia richiede all’interprete di considerare la relazione che intercorre tra le parole che compongono un enunciato normativo. A dire il vero al 1° comma dell’articolo 12 non viene indicato con chiarezza l’ambito testuale rilevante per l’interprete e all’interno del quale l’interprete stesso è chiamato a operare la connessione tra le parole. L’articolo tratta solo di tale connessione, per cui se è plausibile pensare che la sintassi dell’enunciato normativo non possa essere trascurata, non è però poco o per nulla plausibile aggiungere ambiti testuali piu ampi dell’enunciato. L’intenzione del legislatore. L’articolo 12 indica,al 1° comma,pure l’intenzione del legislatore. L’esame della giurisprudenza ha messo in luce che l’intenzione del legislatore viene intesa anche in senso teleologico oggettivo,vale a dire come scopo intrinseco, immanente alla disposizione normativa. L’intenzione del legislatore può essere intesa anche in un senso non teleologico,riferendola,cioè,a ciò che il legislatore voleva,intendeva dire e non a ciò che voleva o intendeva fare. Si tratta di tener conto dell’intenzione comunicativa del legislatore,senza associarvi necessariamente uno o piu scopi. Si può ricercare l’intenzione comunicativa del legislatore storico che ha emanato il testo oggetto di interpretazione facendo capo alle regole linguistiche di quel periodo; oppure si può andare in cerca dell’intenzione comunicativa del legislatore qui e adesso,ricercando ciò che il legislatore avrebbe voluto se avesse emanato ora la disposizione normativa,facendo capo, quindi, alle regole linguistiche del momento in cui si interpreta. L’ambito di applicazione dell’articolo 14 delle Preleggi. L’articolo 14 delle Preleggi esordisce trattando delle leggi penali vietandone l’applicazione oltre i casi e i tempi in esse considerati. La giustificazione del divieto,espressione del principio di tassatività della fattispecie penale,tassatività che costituisce a sua volta la proiezione verso l’esterno del principio di determinatezza:esso vincola cioè l’interpretazione giudiziale a ricondurre nella fattispecie incriminatrice o aggravatrice soltanto i casi da essa espressamente preveduti. È quindi preclusa l’analogia. L’articolo 14 delle Preleggi si inserisce e trova una base giustificativa, per ciò che concerne l’ambito penale, all’interno di una articolata rete normativa che comprende oltre allo stesso articolo,almeno le disposizioni normative di cui al 2° comma dell’articolo 25 della Costituzione e agli articoli 1 e 199 del Codice Penale. Nonostante l’articolo 14 delle Preleggi non menzioni l’analogia giuridica o non usi formule linguistiche equivalenti, dottrina e giurisprudenza marciano coese nel ritenere che il divieto riguardi l’analogia giuridica e non anche l’interpretazione estensiva. Quali sono le leggi penali che incappano nel divieto? Di sicuro vi rientrano le disposizioni normative incriminatrici, ossia quelle disposizioni che individuano una condotta come reato e ne fissano la relativa sanzione. Vi rientrano pure tutte quelle norme la cui applicazione “ oltre i casi e i tempi in esse considerati” andrebbe a detrimento del reo. Quali leggi che interferiscono con la fattispecie penale e con la sanzione a essa collegata sono applicabili analogicamente? Ossia: quali di queste leggi non sono da considerare penali e nemmeno eccezionali? Secondo accreditata dottrina il divieto sancito dall’articolo 14 delle Preleggi non abbraccia le norme che prevedono le cause di giustificazione. Non sono infatti norme penali, trattandosi di norme con finalità proprie,situate in ogni luogo dell’ordinamento: ne sono norme eccezionali,perché anzi sono espressione di altrettanti principi generali dell’ordinamento. Le cause di esclusione della punibilità non sono applicabili per analogia per il loro carattere di norme eccezionali. Le norme che prevedono circostanze attenuanti non ammettono estensione analogica,essendo il frutto della precisa scelta politico criminale di attribuire rilevanza attenuante a ben individuate sanzioni ed esclusivamente a quelle. Il dibattito in campo penale è tutt’ora aperto,pur tuttavia raccoglie un consenso esteso e solo rare opposizioni la tesi che le cause di giustificazione non incontrino il limite applicativo stabilito dall’articolo 14 delle Preleggi. Per concludere le considerazioni su questo punto è opportuno ricordare l’autorevole opinione secondo la quale l’analogia non è utilizzabile in rapporto a quelle che norme che,pur essendo favorevoli e non eccezionali,quali sono essenzialmente le cause di giustificazione,siano però formulate in modo da non essere logicamente suscettibili di estensione analogica. Il che può capitare in due ipotesi. O quando la loro formulazione è tassativa,nel senso che rivela in modo chiaro una volontà legislativa di esclusione dei casi non previsti. Cosi, ad esempio,lo stato di necessità è configurato per il salvataggio dei soli beni personali,con una evidente esclusione di quelli patrimoniali. Oppure quando la formulazione della disposizione è tale da aver tradotto nella sua massima estensione applicativa la ratio di disciplina,cosi che non sono ipotizzabili casi simili non previsti, e pur tuttavia rispondenti alla eadem ratio. Orbene,la questione è di sicura importanza. Per affrontarla bisogna indicare le caratteristiche proprie del ragionamento analogico. Il nucleo del ragionamento analogico va individuato nel giudizio di rilevanza delle somiglianze e di irrilevanza delle differenze tra classi di casi. Il giudizio in questione è effettuato in base al criterio della ratio legis e vista la formulazione delle disposizioni normative con riferimento a classi,la configurazione di una impossibilità logica dell’analogia giuridica appare una ipotesi perlomeno improbabile. Infatti,data una classe di casi e isolata una caratteristica della classe stessa non vi è ostacolo logico alcuno a ricercare quella stessa caratteristica in una altra classe di casi per valutarne la rilevanza o l’irrilevanza ai fini del trattamento giuridico: per decidere cioè se procedere con una analogia o argomentare a contrario. Gli esempi addotti dall’autorevole dottrina evidenziano opzioni valutative dell’interprete. Si tratta di una scelta a favore dell’argomento a contrario nella sua variante produttiva nel primo caso,dove si usa l’argomento a contrario per sostenere la lettura tassativa della disposizione normativa,ritenendo che il legislatore ha voluto solo ciò che ha detto e per quel che non ha detto ha voluto la conseguenza giuridica opposta a quella da lui espressamente prevista. Nel secondo caso,invece,si propone di usare la ratio legis nella sua massima estensione andando oltre le possibilità semantiche della disposizione normativa,estendendo la conseguenza giuridica prevista per i diritti a tutte le facoltà giuridicamente riconosciute; qui viene addirittura compiuto un ragionamento analogico. Le norme eccezionali. Con riguardo alla possibilità di praticare l’analogia giuridica in senso favorevole al reo, la discussione ha ad oggetto non solo la natura penale delle leggi coinvolte,ma talvolta la loro natura eccezionale,vale a dire la caratteristica del fare “eccezione a regole generali o ad altre leggi”. La questione trascende il solo ambito penale e diviene trasversale ai molteplici settori del sistema giuridico. Orbene,quando è che una norma può dirsi regolare o eccezionale? L’opinione prevalente riconosce l’eccezionalità nella non riconducibilità della norma ai principi generali dell’ordinamento. L’espressione “ non riconducibilità” rende adeguatamente conto della genericità della tesi: chi la sostiene, infatti, esprime la relazione tra la comparazione tra classi omogenee per grado di generalità,e non tra una fattispecie concreta e una astratta. La seconda puntualizzazione. La definizione di analogia che si è fornita lega il ragionamento giuridico all’eguaglianza. Che vi sia una relazione tra analogia giuridica ed eguaglianza è intuitivo. Superando le intuizioni si scopre che la relazione è ricostruita con intensità varia e terminologia diversificata. L’eguaglianza consiste nell’eguale trattamento di situazioni eguali e nel diverso trattamento di situazioni che eguali non sono,e allora in che senso esprimersi in termini di eguaglianza,di similitudine o di analogia vuol dire usare termini col medesimo significato? Quale sia il rapporto fra i termini analogo,simile ed eguale può essere spiegato attraverso un felice esempio formulato da Letizia Gianformaggio. L’autrice ha asserito che se si afferma “A e B sono eguali” lo si fa al fine di mettere in luce ciò che A e B hanno in comune; se si afferma che A e B sono diversi si sottolinea ciò che non ha in comune. E cosa accade se si sostiene che A e B sono simili o analoghi? Letizia Gianformaggio ha sostenuto che la particolarità dell’enunciato “A e B sono simili o analoghi” sta nel fatto che l analogia rivolge l’attenzione non soltanto su ciò che accomuna A e B ma pure sulle reciproche differenze. Simile e analogo richiamano, quindi,un giudizio complesso,vale a dire la necessità di tener conto,in una specifica argomentazione analogica,sia degli elementi di somiglianza sia di quelli di differenza fra le entità che vengono comparate. L’esempio costituisce uno strumento utile per valutare le condizioni argomentative minime di una buona analogia giuridica. Un ragionamento analogico è adeguatamente sviluppato in ambito giuridico,soltanto se si argomenta sia intorno alle somiglianze,sia intorno alle differenze tra le classi di casi raffrontate. Si tratta di una condizione necessaria di elaborazione di un ragionamento analogico giuridico. Un giudizio di rilevanza delle somiglianze concluderà per l’irrilevanza delle differenze e quindi per l’attribuzione del medesimo trattamento giuridico alle classi di casi coinvolte; oppure si potrà avere un giudizio di rilevanza delle differenze e quindi una conclusione che nega il medesimo trattamento giuridico alle classi di casi coinvolte. Ne consegue che l’argomento a simili e l’argomento a contrario sono entrambi argomenti che si fondano sull’eguaglianza come nucleo razionale; soltanto che l’argomento a simili è correlato all’accertamento della rilevanza delle somiglianze che consegue all’irrilevanza delle differenze,mentre l’argomento a contrario è correlato al giudizio di rilevanza delle differenze che rende irrilevanti le somiglianze. Argomentando in questi termini l’analogia giuridica è un ragionamento comparativo legato all’eguaglianza. La terza puntualizzazione: per stabilire quando si è di fronte a somiglianze rilevanti e quindi a differenze irrilevanti vi è bisogno di una criterio. Giuristi e giudici sostengono che il criterio sia la ratio legis. Si interpreta in chiave teleologica la disposizione normativa che regola una classe di casi individuandone la ratio: se alla medesima ratio è riconducibile la classe di casi non regolata vuol dire che le due classi meritano lo stesso trattamento giuridico,quello stabilito dalla norma. È per mezzo della ratio legis,quindi,che si valuta la rilevanza delle somiglianze e l’irrilevanza delle differenze. Il riferimento alla ratio pone in rilievo un aspetto fondamentale dell’analogia giuridica, ossia che l’analogia giuridica ha natura valutativa e di conseguenza la correttezza dei ragionamenti analogici non può prescindere da come si individua e si usa l’elemento valutativo. Ciò comporta che le controversie relative ai ragionamenti analogici compiuti in ambito giuridico ruotano principalmente intorno a due aspetti: A) l’individuazione della ratio; B)la sua coerente applicazione. Il costante assillo:la distinzione tra interpretazione estensiva e analogia. Dottrina e giurisprudenza prevalenti non dubitano della possibilità di poter interpretare estensivamente le disposizioni normative penali. Tuttavia,l’ammissibilità dell’interpretazione estensiva ha senso se si ritiene possibile differenziarla dall’analogia. Se analogia e interpretazione estensiva si possano distinguere è discusso e controverso da tempo immemorabile. Per mezzo dell’analogia viene attribuita ad una fattispecie astratta non regolata la medesima conseguenza giuridica prevista da una norma che regola una fattispecie simile in maniera rilevante a quella non regolata. Con l’interpretazione estensiva si determina un esito interpretativo diverso e piu ampio rispetto ad una interpretazione precedente dello stesso enunciato normativo. L’analogia presuppone una lacuna e la colma estendendo una conseguenza giuridica ad una fattispecie non prevista sulla base di una somiglianza rilevante con la fattispecie regolata da una norma; l’interpretazione estensiva è invece operazione di natura strettamente interpretativa,nel senso che il significato della norma viene ampliato sino a ricomprendervi una fattispecie esclusa da una interpretazione precedente. Il principale aspetto critico è dato dal fatto che entrambi i procedimenti comportano un’estensione e non è agevole sapere sino a quale punto l’estensione operata resti interpretativa e quando invece divenga analogica,ovvero integrativa. Norberto Bobbio si è cimentato piu volte sull’argomento; ha sostenuto dapprima che interpretazione estensiva e analogia sono pressoché equivalenti sul piano del ragionamento,per poi aderire alla posizione di Massimo Severo Giannini e sostenere successivamente che “l’interpretazione estensiva non esiste come tertium genus tra interpretazione dichiarativa e procedimento per analogia”. Massimo Severo Giannini,dal canto suo,ha sostenuto in un approfondito studio sull’analogia che l’interpretazione estensiva non comporta,diversamente dall’analogia,il coinvolgimento di altre norme del sistema giuridico: nel caso dell’interpretazione estensiva si estende il significato della norma,nel caso dell’analogia si risale ad una norma superiore che comprende sia il caso regolato,sia quello simile in maniera rilevante da regolare. Per Letizia Gianformaggio l’interpretazione estensiva altro non è che un’analogia facile,conforme al senso comune dei giuristi che non necessita di giustificazione. Gaetano Carcaterra sostiene che sia nell’interpretazione estensiva,sia nell’analogia entra in gioco la ratio legis: nella prima essa serve a decidere i casi dubbi,nei quali “ non si è in grado di stabilire univocamente se la norma attribuisca o no,neghi o no,a B la disciplina D; nella analogia la ratio serve a decidere casi omessi,ovvero casi in cui la norma non attribuisce ma neppure nega a B la disciplina D. Andrea Belvedere ritiene che l’interpretazione estensiva si possa distinguere dall’analogia per il diverso uso della ratio stessa:per la prima è escluso il ricorso all’argomento a simili. Dunque si può osservare che: laddove due procedimenti siano assimilabili non significa necessariamente che conducano al medesimo risultato,dipende dal punto in cui il comune modo di procedere si arresta nell’un caso,ma non dell’altro. Tutte le opinioni riportate lasciano,inoltre,aperto un interrogativo:quale è il criterio che consente di capire che un caso è dubbio o omesso,oppure che l’interpretazione realizzata risponde al senso comune dei giuristi,o che si tratta di una estensione di significato pur sempre rapportabile alla formulazione normativa? Si può fornire un tentativo di risposta ripercorrendo i passaggi cardine dello scetticismo interpretativo moderato fatto assurgere a concezione privilegiata dell’interpretazione giuridica e attraversando il campo del diritto penale con riguardo al principio di legalità che lo caratterizza. Lo scetticismo moderato sostiene che per ogni enunciato vi soni più interpretazioni possibili e l’ambito delle soluzioni interpretative è delimitato. L’attività interpretativa è dunque discrezionale, si sostanzia in una scelta,ma il prodotto dell’interpretazione di un certo enunciato normativo è tale solo se determinato all’interno di un lotto di significati delimitati. Seguendo lo scetticismo moderato delineato è possibile distinguere estensioni interpretative ed estensioni integrative, estensioni, queste ultime,che non costituiscono un esito interpretativo che possa essere considerato un significato di un determinato enunciato normativo. L’adozione dello scetticismo moderato consente,dunque,di distinguere attività e risultati interpretativi da attività ed esiti che interpretativi non sono,tra interpretazioni estensive e analogie. Tuttavia, un certo significato può essere considerato un significato di quel particolare enunciato normativo in virtù del criterio usato per delimitare l’ambito dei possibili significati dell’enunciato normativo stesso. Sintetizzando le posizioni in campo se ne possono delineare due principali:la prima individua l’ambito dei possibili significati per mezzo delle regole semantiche e sintattiche della lingua in cui è formulato l’enunciato normativo;la seconda fissa i paletti degli esiti interpretativi facendo ricorso alle tesi dogmatiche e ai giudizi di valore formulati o sottintesi da chi interpreta. Inoltre non è problematica soltanto la questione della scelta del criterio necessario a tracciare la cornice,ma è altrettanto rilevante la questione dell’applicazione del criterio. Se si scegliesse un criterio che non fosse mai,o quasi,in grado di assolvere il proprio compito,proseguire nel propugnarlo sarebbe infruttuoso. Tuttavia,è ragionevole sostenere che le regole riguardanti la semantica e la sintassi della lingua,per quanto talvolta mutevoli e in taluni casi di incerta applicazione, garantiscono una comunicazione efficace e consentono di individuare sovente situazioni riconducibili nell’ambito di significato di un enunciato e soprattutto sanzioni che non sono riconducibili nel nucleo di significato di un enunciato. A questo punto si tratta di mettere assieme lo scetticismo moderato prescelto e le tematiche della legalità penale. Se si intende la legalità penale in senso stretto,la norma di chiusura del sottosistema penale per cui “tutto ciò che non è penalmente rilevante è consentito” andrebbe in tal modo integrata: “in caso di dubbio se un comportamento sia riconducibile ai significati possibili,bisogna preferire un esito interpretativo favorevole all’irrilevanza penale del comportamento”. La legalità penale cosi configurata funge da meta criterio per stabilire se un certo esito sia interpretativo o non lo sia. L’adozione della prospettiva della legalità penale in senso stretto è in armonia con il dato normativo vigente,in particolare con gli articoli 1 e 199 del codice penale, con il 2° comma dell’articolo 25 della Costituzione e con l’articolo 14 delle Preleggi. Il diritto penale può considerarsi un’impresa pienamente sensata solamente se lo si concepisce come destinato a farsi comprendere dai soggetti dei quali vuole scoraggiare i comportamenti. Questo è uno degli scopi irrinunciabili del diritto penale. In ambito penale,dunque, il dato testuale, nella sua articolazione semantica e sintattica,costituisce lo spazio di manovra all’interno del quale gli aspetti tecnici del diritto penale svolgono il loro ruolo. In campo penale il dato testuale,inteso nella sua massima estensione semantica e sintattica, non è l’unico rilevante per l’interpretazione,ma non è mai irrilevante,costituisce il terreno all’interno del quale l’interprete è tenuto a muoversi. Per queste ragioni lo scetticismo interpretativo moderato si rivela la concezione dell’interpretazione giuridica piu adeguata. Infatti le conseguenze di quanto si è appena detto sono fondamentalmente quattro: A) lo scetticismo interpretativo moderato nella sua versione che individua il criterio idoneo a delimitare le interpretazioni possibili nelle regole semantiche e sintattiche della lingua, ben si presta a soddisfare le esigenze comunicative del diritto penale; B) se si adotta la concezione della legalità penale in senso stretto,di innanzi a difficoltà o dubbi analogico in questione risiede nel prendere avvio non da una singola disposizione normativa, come è per l’analogia legis,bensi da piu disposizioni normative e nel giungere all’individuazione della ratio,del principio comune alle varie disposizioni normative. Il principio individuato verrà utilizzato per colmare la lacuna. Tra i due ragionamenti analogici legis e iuris esiste una differenza di grado. La base normativa di individuazione del principio è nel caso dell’analogia iuris piu ampia. L’applicazione di una qualsivoglia norma suppone la ricerca di un principio: precisamente di quel principio che costituisce la ragione, la ratio della norma in questione. Pertanto si può dire che, quando il diritto presenta una lacuna,l’interprete è obbligato a colmarla facendo ricorso: o ad un principio particolare che stia a fondamento di una norma specifica o,in mancanza,ad un principio generale, che stia a fondamento di un intero complesso di norme. Nell’un caso la lacuna è colmata mediante analogia legis; nell’altro,essa è colmata mediante analogia iuris. Anche l’analogia legis giunge alla formulazione di un principio,ma si tratta di un principio specifico,particolare,sotteso ad una sola disposizione o a poche disposizioni e in grado di colmare la lacuna. Per quanto sia abitudine inveterata degli studiosi e della prassi identificare i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato con l’analogia iuris,va segnalato che i ragionamenti ricondotti nell’ambito di questa nozione hanno sovente un legame tenue,o addirittura nessun legame,con l’analogia. Si tratta infatti di ragionamenti nei quali manca un giudizio di rilevanza delle somiglianze e di irrilevanza delle differenze,oppure tale giudizio viene presupposto, dato per scontato,ma non argomentato dall’interprete. Conclusioni. Consideriamo separatamente il 1° comma dal 2° comma dell’articolo 12 e infine l’articolo 14. Molte delle questioni riguardanti il 1° comma dell’articolo 12 delle Preleggi sono ben riassunte da una recente sentenza della Cassazione penale. Con essa i giudici di legittimità dichiarano di poter decidere la questione a loro sottoposta senza dirimere i molti nodi al pettine,perché nessuna questione si pone allorchè tutti e 3 i predetti criteri letterale,teleologico soggettivo e teleologico oggettivo conducono al medesimo risultato. La decisione mette bene in luce i problemi della disposizione normativa legati soprattutto alla molteplicità dei significati a essa attribuibili. Se lo scopo del 1° comma dell’articolo 12 delle Preleggi è quello di statuire gli strumenti interpretativi ai quali l’interprete deve attenersi,si può dire che il fine stenta ad essere raggiunto. Regna l’incertezza su come vada intesa l’intenzione del legislatore,su quale sia il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse,sul rapporto tra intenzione del legislatore e significato proprio. Certo l’enunciato normativo indica,ragionevolmente,che la determinazione del significato delle disposizioni non può che consistere nella ricerca delle intenzioni di chi quel testo ha prodotto e del senso delle parole utilizzate. Tuttavia,ciò non trasforma l’intenzione del legislatore e il significato proprio delle parole in limpidi e non manipolabili mezzi di giustificazione interpretativa. Lo spettro di significati plausibili attribuibili al 1° comma dell’articolo 12 è talmente ampio da consentire all’interprete di ricondurvi moltissimi argomenti interpretativi,cosi tanti da ritenere assolto l’onere imposto all’interprete stesso con particolare facilità. Vi è da aggiungere,inoltre,che i giudici svolgono sovente il loro compito di interpreti interpretando e giustificando le loro interpretazioni ricorrendo ad argomenti interpretativi consolidati nella comunità giuridica di riferimento. Tra questi argomenti vi sono pure l’intenzione del legislatore e il significato proprio delle parole,ma essi non vengono trattati in guisa tale da risultare necessari o decisivi. In altre occasioni gli interpreti concedono alla disposizione normativa in esame una semplice menzione,evocativa dell’intenzione del legislatore o del significato proprio senza impegnarsi nella spiegazione di che cosa sia l’una e che cosa sia l’altro,senza indicare come si individui l’una e come l’altro. La polemica sul 1° comma dell’articolo 12,inteso come vetusto, inadeguato o abrogato implicitamente,se non addirittura costituzionalmente illegittimo,rischia di essere una polemica superata dai fatti,o comunque superabile tenendo conto che i contenuti del 1° comma dell’articolo 12 sono vaghi e ambigui al punto da poter essere adattati,piu o meno agevolmente,ai mutamenti del quadro delle fonti. Questa ultima riflessione conduce il discorso verso il 2° comma dell’articolo 12. Anche i contenuti di questo comma sono oggetto di una lunga,vivace e mai sopita discussione,non può dirsi, infatti,che l’analogia legis e specialmente l’analogia iuris siano ragionamenti dai contorni pacifici e poco problematici. Per chiudere l’articolo 14. Le esigenze sottese al divieto di analogia per le norme penali sfavorevoli hanno radici salde e nobili,ed è per questa ragione, forse,che l’articolo 14 delle Preleggi è ancora preso sul serio dalla giurisprudenza e dalla dottrina. Il peso di dover argomentare a sostegno della propria interpretazione per mostrare che non si è compiuta una analogia in malam partem è piuttosto sentito dal giudici,pur se sovente abilmente aggirato o malamente assolto. Ne segue,che per quanto a presidiare la legalità penale vi siano ulteriori disposizioni normative di rango legislativo,costituzionale e di diritto dell’Ue,l’espresso divieto di applicazione delle norme penali oltre i casi e tempi in esse considerati non è ridondante o superfluo, conserva un suo spazio specifico che completa il quadro delle garanzie. Davvero magmatica risulta,infine,la questione delle norme eccezionali. La formulazione dell’articolo 14 e l’atteggiamento dei giudici non autorizzano a formulare conclusioni attendibili,permettono però di rilevare che la qualifica di norma eccezionale,nonché le ragioni che inducono a operarla,sembrano nella disponibilità dell’interprete e sovente superficialmente argomentate.
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