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INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA DEL LAVORO, Sintesi del corso di Psicologia del Lavoro

Sintesi del libro “Introduzione alla psicologia del lavoro” per il corso di Psicologia del lavoro.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 04/06/2023

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Scarica INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA DEL LAVORO e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia del Lavoro solo su Docsity! 1 PSICOLOGIA DEL LAVORO Il LAVORO: • È una attività produttiva (beni/servizi); • Implica la messa in atto di conoscenze, competenze e metodiche, intellettuali e/o manuali; • È svolto in cambio di un compenso (monetario o meno). Il lavoro viene studiato da differenti scienze (ad esempio diritto, economia, sociologia) che si occupano di diversi aspetti del lavoro. Nel lavoro, inoltre: • Devono essere raggiunti dei risultati (quasi sempre decisi e valutati da altri); • Viene richiesto uno sforzo fisico e mentale personale (erogati in uno spazio e un tempo talvolta scelti ma più spesso definiti da una organizzazione e dai clienti); • Si devono superare differenti tipi di vincoli e costrizioni stabiliti dalla natura dei compiti e delle responsabilità; • Risulta necessario regolare la propria condotta rispetto ad altre persone quasi sempre non scelte; • Si impiegano spesso artefatti e tecnologie per svolgere le attività; • Occorre utilizzare una parte consistente e definita del proprio tempo (lavorando direttamente o muovendosi con mezzi di trasporto come per molti pendolari) e scambiarlo per ottenere i ricavi attesi. Per studiare il lavoro occorre partire dalla differenza fondamentale tra che cosa si dovrebbe fare sul lavoro, e quindi quali sono gli incarichi, i compiti e le mansioni attribuite alla persona, e ciò che effettivamente viene fatto. Della prima categoria fanno parte le indicazioni, i protocolli e le norme che una persona deve seguire in ambito lavorativo, mentre della seconda categoria fanno parte i comportamenti reali della persona, ciò che fa sul lavoro, come si comporta, come si rapporta con altri e come svolge i compiti a lei assegnati. Questa differenza risulta molto importante per la psicologia del lavoro: infatti questa è una disciplina scientifica che si focalizza sui comportamenti, sulle decisioni e sui processi cognitivi delle persone, e quindi si focalizza di più su cosa effettivamente viene fatto da queste ultime. Tuttavia non è possibile comprendere al meglio tutto ciò se non si considera anche il cosa si dovrebbe fare ➝ Quindi risulta importante quando andiamo a trattare la psicologia del lavoro considerare entrambi questi due aspetti. Le attività lavorative possono essere considerate come un “artefatto sociale” ovvero una costruzione frutto dell’interazione sociale. Dunque, se non si prendono in considerazione i differenti elementi che definiscono l’effettivo campo di azione della persona (intesi come vincoli, ma anche come risorse per agire) si perde l’opportunità di comprendere in cosa consista costruire le attività lavorative, imparare a svolgerle meglio, preservare il proprio benessere anche in condizioni di difficoltà, raggiungere gli scopi personali e sociali attribuiti al lavoro, evitare effetti controproducenti inattesi. LO STUDIO PSICOLOGICO DEL LAVORO DEFINIZIONE DI PSICOLOGIA DEL LAVORO Possiamo dare questa DEFINIZIONE di psicologia del lavoro: è una disciplina scientifica che si interessa dell’interazione tra persona e lavoro ➝ è una disciplina scientifica perché una disciplina che sviluppa conoscenza attraverso evidenze empiriche e esperimenti e applicando un metodo scientifico. Questa disciplina scientifica si interessa dell’interazione tra persona e lavoro ➝ non possiamo studiare il lavoro senza studiare il contesto, le indicazioni che vengono date, le difficoltà legate all’ambiente lavorativo e tutto ciò che riguarda l’interazione fra la persona e il contesto lavorativo. Vuole comprendere il comportamento umano all’interno dei contesti di lavoro ➝ particolare attenzione viene data ai comportamenti delle persone all’interno del contesto lavorativo. Per comprendere il comportamento bisogna avere chiaro anche il contesto, le risorse, le opportunità e i problemi che ci sono in questo contesto. Si articola in vari filoni e adotta numerosi metodi di ricerca e di intervento ➝ La psicologia del lavoro si articola in tre ambiti: si declina in un ambito più legato alle risorse umane (“psicologia delle risorse umane”) che si va a focalizzare sulle procedure e sulle prassi che vengono impiegate all’interno delle organizzazioni per lo sviluppo delle carriere, per la formazione e per le valutazioni. Il secondo ambito in cui si va ad articolare la psicologia del lavoro è quello chiamato “psicologia delle organizzazioni” che fa riferimento in particolar 2 modo agli aspetti sociali del lavoro e mette dunque in evidenza gli elementi che riguardano come ci si rapporta in un gruppo di lavoro, le relazioni con i colleghi, il clima, i conflitti, leadership etc. Infine il terzo ambito, che prende semplicemente il nome di “psicologia del lavoro” prende in considerazione in maniera più verticale il rapporto che c’è tra persona e lavoro mettendo in evidenza i vissuti che emergono a seguito dell’esperienza lavorativa, gli outcomes positivi ma anche negativi legati al lavoro. Il termine psicologia del lavoro a volte viene utilizzato in senso più esteso, considerando questi tre elementi diversi, mentre altre volte viene considerato in maniera più specifica focalizzandosi su questo terzo ambito. PSICOLOGIA DEL LAVORO COME DISCIPLINA SCIENTIFICA: La psicologia del lavoro fa parte a pieno titolo delle discipline psicologiche scientifiche che si interessano della comprensione e spiegazione della mente e dell’agire umano. Le conoscenze prodotte si basano prevalentemente sul metodo scientifico che parte dalla costruzione di modelli teorici, dalla definizione di ipotesi operative, dalla formulazione di interrogativi di ricerca e giunge alla verifica o falsificazione di tali assunti mediante il ricorso a dati empirici. Al pari delle altre discipline, i metodi di ricerca costituiscono uno degli aspetti fondamentali della psicologia del lavoro. Gli strumenti principalmente utilizzati per la validazione di teorie e modelli interpretativi sono: • Osservazione sistematica; • Sperimentazione; • Studi di caso; • Indagini campionarie. Il percorso però può avvenire anche a ritroso, dal dato empirico alla costruzione di modelli teorici ➝ da una serie di evidenze si cercano di estrapolare dei modelli esplicativi. Vedendo cosa accade nella realtà si cerca di costruire una teoria. L’accuratezza dei processi di MISURA, la validità dei disegni di ricerca e la solidità delle analisi condotte costituiscono i processi fondamentali per dare attendibilità e validità ai risultati di ricerca. Per attendibilità si intende la capacità di una misura di essere priva di errori, mentre per validità si intende la capacità di misurare correttamente quello che la misura intende misurare. La psicologia del lavoro è una disciplina EVIDENCE BASED, basata sulle evidenze e su dati che provengono dalla realtà. È attraverso una sistematica conoscenza dei dati della realtà che si possono costruire modelli interpretativi ed effettuare interventi affidabili. La psicologia del lavoro si caratterizza per un forte legame tra conoscenza scientifica e intervento organizzativo. Gli approcci evidence based pongono in rilievo la necessità di utilizzare varie forme di conoscenza per programmare azioni efficaci e sostenibili. Immaginiamo che uno psicologo del lavoro venga chiamato in una azienda per valutare l’attivazione di un intervento contro l’assenteismo. L’immagine rappresenta la gamma possibile di fonti conoscitive che è opportuno utilizzare. Per assenteismo si intende il fatto di essere assenti durante gli orari lavorativi. • Innanzitutto, avvalendosi delle RICERCHE EMPIRICHE (prima tipologia di fonti) è importante chiedersi “Qual è il tasso di assenteismo in contesti comparabili?” Ovvero si vanno ad analizzare i tassi di assenteismo in contesti simili a quello dove lo psicologo è stato chiamato e si comparano questi dati con la stessa azienda. Un’altra cosa molto importante è studiare la letteratura precedente in merito al problema studiato: quindi quali sono, secondo le teorie e le indagini precedentemente fatte, le principali cause dell’assenteismo? E cosa indicano in termini di efficacia di eventuali interventi attivati? Queste fonti derivano da Ricerche empiriche. 5 2. La PSICOLOGIA DELLE RISORSE UMANE è più orientata ad affrontare una serie di problematiche individuali e organizzative relative al migliore adattamento possibile tra caratteristiche dell’individuo e richieste organizzative. La psicologia delle risorse umane va quindi a studiare le modalità di gestione e di valutazione del personale e vede le persone come parti di strutture e processi organizzativi. 3. La PSICOLOGIA DELL’ORGANIZZAZIONE riguarda lo studio di entità sovraindividuali aggregate (gruppi e organizzazione nel suo insieme) e si pone come scopo principale quello di generare e guidare il cambiamento organizzativo. La psicologia dell’organizzazione studia infine i funzionamenti di team, gruppi e organizzazioni e vede le persone come memrbi della struttura sociale “organizzazione”. LIVELLI DI ANALISI PSICOLOGICA Si possono definire in modo schematico almeno cinque diversi livelli di analisi adottati negli studi e negli interventi di psicologia del lavoro. Tali livelli di analisi indicano che uno stesso tema o oggetto di ricerca può essere visto da angolature differenti, con diverse lenti di approfondimento e considerando in misura diversa fattori di contesto. v Livello di analisi INTRASOGGETTIVO: a questo livello, la psicologia del lavoro si occupa di alcuni processi intrapsichici e cognitivi della persona al lavoro. Il punto di osservazione è solitamente costituito da alcuni processi interni, consapevoli alla persona, che conducono al comportamento, alla presa di decisione o alla elaborazione cognitiva. v Livello di analisi SOGGETTO-COMPITO: in questo caso il focus dell’attenzione è costituito dall’interazione tra persona e compito lavorativo e quindi questo livello di analisi studia i comportamenti dei soggetti. v Livello di analisi di GRUPPO: questo livello di analisi si concentra sull’analisi dei piccoli aggregati sociali che si creano nei luoghi di lavoro (gruppi di lavoro, team, task force). v Livello di analisi ORGANIZZATIVO: questo livello di analisi si focalizza sullo studio dell’aggregato sociale più ampio «organizzazione». v Livello di analisi SOCIALE: l’individuo al lavoro viene preso in esame secondo una prospettiva più ampia che considera i macroprocessi socioeconomici e culturali che regolano una società e caratterizzano una determinata fase storica. Viene quindi analizzato il lavoro in rapporto alle dinamiche economiche, culturali e sociali. Quindi nonostante il focus principale della psicologia del lavoro sia l’interazione fra persona e lavoro e che la psicologia, per sua natura, dia particolare attenzione agli aspetti intrapsichici, è importante considerare anche i livelli di analisi più ampi che mettono in evidenza le interazioni fra le persone, il contesto di lavoro, l’organizzazione e la società nel suo complesso. CENNI STORICI 6 AGLI ALBORI Le origini della psicologia del lavoro hanno le proprie radici in WUNDT (1832-1920), colui che è riconosciuto come uno dei fondatori della psicologia scientifica moderna. È alla scuola di Wundt che si sono formate due figure che avranno in seguito un ruolo importante nell’avviare la ricerca psicologica su problematiche relative al lavoro e all’organizzazione. HUGO MUNSTERBERG è lo studioso che per primo va ad applicare i concetti psicologici a diversi contesti sociali, specialmente in ambito lavorativo ed economico. Munsterberg si dedicò allo studio della psicofisiologia del lavoro umano, delle abilità dei lavoratori e del rapporto tra abilità, performance ed efficienza produttiva. Fu lui a coniare per primo l’espressione psicologia industriale e a promuovere la disciplina al di fuori dei laboratori, come strumento per lo sviluppo economico del paese. Fu lui per primo a ricorrere alla «psicotecnica» in ambito industriale, disciplina che si propone di applicare a diversi contesti della vita sociale le conoscenze psicologiche. Fu infine il precursore delle moderne tecniche di selezione del personale, attraverso le sue attività di «accertamento dei requisiti psicofisici al lavoro» per l’accesso a una occupazione. JAMES MCKEEN CATTELL. Negli stessi anni in cui Munsterberg svolgeva la sua attività, Cattell sviluppò i suoi interessi sulle differenze individuali come determinanti del comportamento umano. Creò i primi protocolli per la misurazione delle capacità e abilità individuali (da lui stesso chiamati test mentali). Grazie a questi contributi, nel primo ventennio del secolo scorso furono poste le basi per gli sviluppi della ricerca psicologica in campo industriale, militare e dei servizi. Si aprirono così nuovi scenari di utilizzo delle conoscenze psicologiche e si sviluppò una più intensa interazione tra accademia e sistema economico, soprattutto negli Stati Uniti. Ma furono soprattutto le ragioni belliche e l’irrompere della razionalizzazione dei sistemi di produzione a stimolare lo sviluppo della psicologia del lavoro. LA GUERRA E LA RAZIONALIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE Una delle prime applicazioni della psicologia alle questioni organizzative su ampia scala è costituita dall’impegno nella costruzione e somministrazione di test psicoattitudinali per la selezione e la formazione delle truppe americane da inviare a combattere durante la prima guerra mondiale. L’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto comportò l’esigenza di collocare in tempi rapidi oltre un milione di reclute (con una significativa proporzione di analfabeti) nei diversi corpi militari. Tale sforzo fu reso possibile con l’adattamento del test di intelligenza Stanford-Binet per un’applicazione a grandi numeri di persone. Furono creati così l’Army Alpha test e l’Army Beta test (a carattere non verbale progettato per gli analfabeti). Tali test si mostrarono estremamente pratici e affidabili. Al termine del conflitto, la stessa logica di selezione basata sulle abilità mentali fu adottata anche nella grande industria per la selezione dei lavoratori. Ma già alla fine del secolo precedente, un ingegnere particolarmente geniale e intraprendente, Frederick Winslow TAYLOR, anticipò e mise in pratica numerose soluzioni organizzative che avrebbero poi costituito materiale di riflessione per manager aziendali e psicologi. Taylor è considerato il padre dello SCIENTIFIC MANAGEMENT, cioè di un modello razionale di selezione del personale, di analisi dei tempi e dei movimenti di esecuzione dei compiti e di un sistema retributivo premiale a cottimo. Un modello di gestione del personale che rispondeva in modo esemplare a una serie di esigenze emergenti dell’industrializzazione di massa di fine Ottocento e che ha trovato poi ampia applicazione con il fordismo nei grandi sistemi di produzione meccanizzati della prima metà del Novecento. I PRINCIPI ESSENZIALI del modello taylorista: v Studio dei migliori metodi di lavoro: misurazione tempi e metodi; v Selezione e addestramento della manodopera: “one man, one job”; v Distribuzione uniforme del lavoro tra amministrazione e manodopera: un responsabile ogni tre operai. Gli EFFETTI principali del modello taylorista sono: Ø Imposizione e intensificazione dei ritmi di lavoro; Ø Burocratizzazione del processo produttivo; Ø Separazione della fase ideativa da quella esecutiva; Ø Parcellizzazione del lavoro; 7 Ø Dequalificazione dei mestieri operai. L’impostazione del modello di Taylor può essere definita «prepsicologica», nel senso che l’ingegnere ha condotto una serie di esperienze per comprendere come meglio organizzare il lavoro umano secondo una logica puramente economica di risparmio energetico e di tempi. Un modello che mira a semplificare i compiti, a ridurre i tempi di esecuzione, a motivare le persone in base al principio esclusivamente estrinseco del premio di produzione. Una visione della psicologia dell’essere umano semplicistica, basata su nozioni di senso comune e non su uno studio scientifico dei processi psicologici implicati. Taylor aveva posto al centro dei sistemi produttivi il «fattore umano» senza però avere gli strumenti conoscitivi per capirne la complessità. Sono queste le prime critiche mosse al modello di Taylor da parte di Munsterberg, sebbene quest’ultimo fosse affascinato dalla prospettiva dello scientific management. Un’altra serie di critiche al modello tayloristico sono arrivate dal movimento dei lavoratori e dai sindacati statunitensi. Questi denunciavano l’aumento dei ritmi di lavoro, lo sfruttamento basato sul sistema premiale che forzava i lavoratori alla massima produttività, la semplificazione e l’impoverimento dei compiti, i rischi legati alla sicurezza. ALLA SCOPERTA DEL SIGNIFICATO PSICOLOGICO DEL LAVORO UMANO Dunque i modelli tayloristi e fordisti di organizzazione del lavoro rispondono a esigenze di economicità, produttività e ordinata gestione delle forze di lavoro. Tale modello organizzativo ha messo in luce i costi psicologici che gli individui “alla catena” erano costretti a pagare: v Mancanza di significato di un compito estremamente parcellizzato; v Ripetitività dei movimenti; v Ritmi regolati dal funzionamento «impersonale» della macchina; v Tempi forzati dalle esigenze del cottimo; v Mancanza di autonomia esecutiva; v Struttura gerarchica fortemente autoritaria; v Riduzione della rete di relazioni cooperative all’interno del luogo di lavoro. Questi esiti alienanti dello scientific management sono stati oggetto di rivendicazioni, lotte operaie e inchieste. La ricerca scientifica di quegli anni, affascinata dal razionalismo del taylorismo e impegnata a costruire i primi rudimenti della disciplina emergente denominata psicotecnica, ha stentato a elaborare una posizione critica sullo scientific management. Un primo contributo in tale direzione è riconosciuto a Elton George MAYO. Questi attorno al 1927 si impegnò in una serie di ricerche-intervento per razionalizzare il lavoro del personale femminile addetto all’assemblaggio di materiale telefonico in una grande azienda americana. L’obiettivo di Mayo era orientato a individuare alcune condizioni di lavoro che potessero accrescere la produzione (illuminazione, orari, pause). Piuttosto sorprendentemente capì che vi erano alcuni aspetti sociali del lavoro che funzionavano da determinanti della qualità e quantità di pezzi prodotti. Per queste intuizioni Mayo è comunemente riconosciuto come il fondatore del movimento delle relazioni umane, un movimento che ha molto influenzato la psicologia del lavoro odierna. Con esso si sono posti al centro della ricerca e dell’intervento psicologico nei luoghi di lavoro gli atteggiamenti, i desideri e le emozioni dei lavoratori. La ricostruzione della complessità psicologica del lavoro umano, a scapito delle semplificazioni dello scientific management, continuò anche nell’immediato secondo dopoguerra a opera del Tavistock Institute of Human Relations di Londra. Influenzato in misura significativa dal pensiero dello psicologo sociale Kurt Lewin, l’istituto portò avanti una serie di esperienze di ricerca e di interventi a carattere interdisciplinare grazie ai quali si sviluppò un modello di analisi sociotecnica delle organizzazioni di lavoro. L’organizzazione deve essere esaminata come un sistema aperto nel quale confluiscono diversi tipi di risorse (umane, tecnologiche, finanziarie, infrastrutturali, materiali), si attivano diversi processi trasformativi e si esportano all’esterno beni, servizi e prodotti di utilità per altri sistemi. L’organizzazione del lavoro umano deve quindi essere esaminata come un elemento che interagisce in modo costante con gli altri fattori produttivi, in particolare con il sistema tecnico. Allo stesso tempo, la progettazione e la fruizione delle tecnologie richiedono un’attenzione particolare al «fattore umano», cioè ai bisogni, emozioni e atteggiamenti dei lavoratori. Fare job design, definire compiti e mansioni, assegnare ruoli e responsabilità diviene quindi un compito organizzativo delicato che non può rispondere alle sole istanze di tipo economico-produttivo. L’analisi sociotecnica prevede la 10 v Identificare attività e processi che aggiungono valore per il cliente interno e individuare i legami tra di loro (la cosiddetta «catena del valore»); v Eliminare le attività che non producono valore aggiunto v Cercare di ottenere una produzione just-in-time, con «zero difetti» e secondo un’ottica di miglioramento continuo; v Ridurre gli sprechi e le inefficienze nelle funzioni di sostegno (ad esempio, spese generali o gestione delle risorse umane) rispetto a quelle primarie della produzione di beni e servizi. Ciò ha già portato a importanti modifiche degli scenari lavorativi riguardanti l’organizzazione interna delle imprese e il loro modo di competere sui mercati. Sul primo aspetto basterà accennare ad alcuni mutamenti come: Ø La riduzione delle tradizionali strutture gerarchiche a molti strati e la diffusione dei centri decisionali; Ø L’attenuazione dei confini tra i vari dipartimenti, tra le categorie professionali (manager, professionisti e tecnici) e tra i ruoli organizzativi per facilitare l’interscambio comunicativo, Ø La condivisione delle conoscenze e l’autonomia operativa per raggiungere gli scopi; Ø La diffusione del teamwork come strumento per un lavoro più efficace e migliorativo dei processi lavorativi; Ø L’attribuzione di responsabilità alle persone che implica un loro più forte coinvolgimento sugli scopi organizzativi; Ø L’utilizzo diffuso delle tecnologie per automatizzare la produzione e i processi di supporto mediante, ad esempio, le macchine a controllo numerico, le risorse informatiche per la progettazione, il controllo e i processi amministrativi fino alla diffusione dei robot per la produzione di beni. Queste tendenze vengono oggi accentuate nei progetti di costruzione di «fabbriche intelligenti», chiamate anche «industrie 4.0», nelle quali, grazie alla disponibilità di grandi basi di dati e all’integrazione delle più avanzate tecnologie digitali nei processi produttivi, dovrebbe essere possibile produrre oggetti e beni personalizzati, più velocemente e con meno sprechi. Il secondo aspetto concerne la persistente competizione tra le aziende che è stata salutata ottimisticamente come nuova strategia di sviluppo rispetto a fasi precedenti di più scarsa mobilità sui mercati, di protezionismo o addirittura di centralismo statalista. La competizione è stata assunta come bene necessario e si è giocata spesso sulla disponibilità interna all’azienda di alti livelli di competenze e professionalità, sui vantaggi sopra richiamati della learn production e su un’ampia deregolazione delle modalità di ingresso e uscita dal mercato del lavoro. Ne sono conseguite profonde ristrutturazioni aziendali guidate dalla logica del successo a breve termine sui mercati, con ridimensionamenti, tagli di reparti e di livelli gerarchici, fusioni che hanno permesso alle aziende di essere più forti ma flessibili e, di conseguenza, competitive. In sostanza, la globalizzazione e il boom tecnologico hanno operato in tandem modificando il contesto di lavoro in gran parte del mondo. NUOVE FORME DI LAVORO Molti lavori (anche quelli basati su interazioni tra persone) sono svolti con modalità virtuali grazie alla diffusione di dispositivi di comunicazione telematica che assicurano la connettività, riducono le barriere spaziali (tele- work), influenzano la produttività e il tipo di lavoratori da assumere. Spesso si associa a questo termine (tele lavoro) una ampia gamma di modalità di lavoro. Questa frammentazione è evidenziata dalla pluralità di termini applicati al fenomeno che viene indistintamente denominato “lavoro da casa”, “lavoro elettronico”, “lavoro virtuale”, “lavoro da remoto“, “lavoro a distanza”, “lavoro distribuito”. La maggioranza degli studiosi sostiene che il termine “telelavoro” andrebbe associati soltanto a quelle forme di lavoro svolto regolarmente lontano dai locali di lavoro riconosciuti. 11 v Con remote e mobile work , l'attenzione è posta sul luogo geografico in cui le prestazioni sono svolte. Se con remote si intende più genericamente un lavoro “a distanza”, con mobile si sottende il fatto che l'esecuzione della prestazione avvenga in movimento. v Con flexible work si fa riferimento ad una flessibilità spaziale e anche di orario e di tempi di lavoro, nonché ad altri aspetti quali, ad esempio, le forme contrattuali adoperate, che possono ad esempio prevedere un tempo pieno o tempo parziale. v Con nomadic work ci si riferisce ad un sottogruppo di lavoratori in mobile work caratterizzati da un più alto livello di mobilità, o una maggiore distanza dall'ufficio tradizionale, o entrambe le cose (Chen & Nath, 2005). v Con Smart working, chiamato anche lavoro agile, è una modalità di rapporto di lavoro subordinato in cui c’è assenza di vincoli a livello di orario e di spazio. Il lavoratore opera in ottica di obiettivi ed organizza rispetto a questi il proprio lavoro. LAVORO AGILE (L. 81/2017 artt 18 e 19) TELELAVORO (Accordo Interconfederale 2004) FINALITÀ Conciliare tempi di vita e di lavoro incrementare la produttività ed efficienza mediante il raggiungimento di obiettivi o risultati. Conciliare tempi di vita e di lavoro. LUOGO Non si definisce una postazione fissa è ammessa l'esecuzione sia nei locali aziendali che all'esterno. Viene prevista la sola possibilità di svolgere l'attività lavorativa al di fuori dai locali aziendali. TEMPO Non sono previsti vincoli dettagliati tranne che la prestazione rientri nei limiti di durata massima. È previsto il diritto alla disconnessione. Viene lasciata libertà di gestirsi il tempo individualmente, carattere analogo al lavoro agile. Non si accenna al diritto di disconnessione. AUTONOMIA Ampia autonomia al lavoratore sia per quanto riguarda la scelta del luogo, sia per la gestione del tempo e dei carichi di lavoro. Controllo più rigido, il lavoratore ha la possibilità di richiedere assistenza dei superiori circa la gestione del carico di lavoro. ALCUNI TRATTI DISTINTIVI DELLA FORZA LAVORO I principali tratti distintivi della forza lavoro sono: v ETÀ: Uno degli aspetti più importanti che connota la composizione della forza lavoro deriva dal fenomeno della “transizione demografica” che consiste nel decremento dei tassi di natalità e di mortalità, con l’innalzamento della speranza di vita nella popolazione generale nei paesi a più elevato sviluppo. Ciò sembra comportare un “vuoto demografico” nella parte giovanile della forza lavoro particolarmente in Italia, ma evidente in tutta Europa e a livello internazionale. Mentre oggi vi sono 4 potenziali lavoratori che “sostengono” una persona in pensione, nel 2060 ve ne saranno poco meno di 2. v GENERAZIONI: La distribuzione dei lavoratori per età non ha più la tradizionale forma piramidale, ma appare come un fuso largo sui fianchi che si restringe verso le estremità. Inoltre, convivono nello stesso contesto (seppure con dimensioni quantitative assai diverse) almeno quattro generazioni di lavoratori che sono in genere etichettate nel modo seguente: § Tradizionalisti: nati fino al 1944 che in genere ricoprono posizioni imprenditoriali, di elevata consulenza o nella magistratura, § Baby boomers: nati tra il 1945 e il 1964, in larga parte in corso di pensionamento, § Generazione X:nati tra il 1965 e il 1979, § Generazione Y o millennials: nati tra il 1980 e il 1996, § Next generations, generazione Z o Post-Millenials: dal 1996 in poi. 12 Sono stati messi in evidenza alcuni tendenziali effetti negativi (come il conflitto intergenerazionale) imputabili alle differenze tra generazioni negli atteggiamenti verso il lavoro, negli stili di vita, nel coinvolgimento organizzativo, negli stili comunicativi, nelle priorità e nel grado di immediatezza degli scopi da raggiungere. Le differenze su tali dimensioni, anche se in realtà non molto elevate, sembrano essere sufficienti per attivare categorizzazioni sociali reciproche che portano a estremizzare i giudizi determinando stereotipi di età e condotte di discriminazione evidenti sia nei confronti dei lavoratori anziani sia di quelli più giovani. v GENERE: Il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro in Europa resta più basso di quello maschile e assai disomogeneo nei vari paesi, con i valori più bassi nel sud d’Europa. Esso comunque sta sensibilmente crescendo negli ultimi anni (anche in relazione al notevole incremento dei livelli di qualificazione e dei titoli di studio terziario posseduti dalle donne) nonostante i persistenti ostacoli allo sviluppo di carriera, le ingiustificate differenze di trattamento salariale e la carenza dei servizi per la prima infanzia o per gli anziani invalidi che spesso costringono le lavoratrici, come principali caregivers familiari, a interrompere i loro percorsi professionali con successive difficoltà di rientro. Va notato che la presenza crescente delle donne nel mercato occupazionale: § Rende salienti le esigenze di conciliazione dei tempi lavorativi per un migliore equilibrio tra lavoro e famiglia; § Preme sulle aziende per l’ottenimento di migliori forme di welfare aziendale; § Comporta, soprattutto nel settore dei servizi (in particolare nei servizi alle persone o nella scuola), l’accentuarsi del tasso di femminilizzazione di molte professioni, con effetti di ridefinizione del loro prestigio e valore economico-sociale. v IMMIGRATI: Dagli anni Novanta l’afflusso di emigranti anche nei paesi europei che non avevano una precedente storia coloniale risulta in costante crescita e, nonostante i vari tipi di limitazioni poste dalle politiche statali di regolazione del fenomeno migratorio, la presenza sul lavoro di persone non native o di seconda generazione risulta notevole e tali gruppi minoritari incidono sulla composizione della forza lavoro anche in Italia. Gli ambiti di inserimento tipici sono l’agricoltura, l’edilizia, il piccolo commercio con prevalenza, almeno nei primi anni di presenza nel nostro paese, di occupazioni manuali faticose, a bassa attrattività, spesso pericolose e al limite della regolarità contrattuale. Al di là degli aspetti quantitativi ciò che rileva dal punto di vista psicosociale è la consapevolezza dell’immissione in uno stesso contesto organizzativo di differenti culture, concezioni del lavoro, dello spazio e del tempo e di modalità di interazione sociale di cui gli immigrati sono portatori e che devono interagire con quelle appartenenti ai gruppi locali di maggioranza. Le differenze ormai visibili tra gruppi minoritari e di maggioranza implicano una specifica attenzione al modo con cui sviluppano relazioni intergruppi e ai potenziali effetti di categorizzazione sociale reciproca (favoritismi in-group e discriminazioni out-group). Ciò significa non solo rendersi conto delle condizioni in cui si sviluppano i processi interculturali, ma anche riconoscere il valore delle differenze tra gruppi sociali. Esse vanno analizzate e gestite nella situazione concreta onde ridurre rischi di segregazione, di malcontento o di discriminazione sia nei contesti lavorativi che nella comunità. SFIDE DA AFFRONTARE È utile riconsiderare globalmente gli elementi del cambiamento dei contesti e dei lavoratori categorizzandoli in modo da stimolare una riflessione: § Su quanto possano rappresentare, per le persone che si stanno avvicinando al lavoro o che stanno già lavorando, una sfida o un vincolo per le loro esperienze e progetti di vita; § Su quanto possano divenire temi salienti da approfondire in ambito psicologico sia per comprendere il significato personale e sociale dell’esperienza di lavorare sia per contribuire a realizzare contesti di lavoro psicologicamente sostenibili. DEREGOLAZIONE DEL LAVORO E FLESSIBILITÀ Le strategie dei datori di lavoro perseguite a livello di impresa per quanto riguarda la selezione, gli investimenti formativi, gli incentivi per il mantenimento dei lavoratori e il disegno delle carriere hanno creato mercati del lavoro segmentati e con differenti livelli di protezione sociale. Spesso ciò è avvenuto senza che si creasse un 15 socialmente vulnerabili o con scarse alternative di scelta) e innalzano le probabilità di accentuare le diseguaglianze di opportunità nell’accesso a un lavoro soddisfacente. La discussione sul DECENT WORK, attivata qualche anno fa dall’International Labour Office, ha messo in luce i limiti di una definizione del lavoro dignitoso fondata esclusivamente su parametri macro come quelli normalmente usati per considerare il benessere di una nazione (ad esempio, tasso di disoccupazione, lavoro minorile, sicurezza sociale, libertà associativa, discriminazioni di vario tipo ecc.). Si dovrebbe invece tenere conto anche di indicatori della qualità della vita lavorativa, delle istanze di equità e giustizia sociale e del carattere emancipatorio attribuibile al lavoro soprattutto per coloro che partono da condizioni di svantaggio sociale, non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche nelle società occidentali più avanzate. Inoltre, parlare di lavoro dignitoso non può prescindere dal riconoscere il valore del punto di vista del lavoratore e delle dimensioni soggettive implicate nell’attività lavorativa sia dal lato delle aspettative, desideri e motivazioni sia da quello dei risultati e degli effetti sul benessere, sulla salute e sulle chances di integrazione sociale della persona. La ricerca psicologica ha confermato gli effetti deleteri della precarietà lavorativa (e dunque il valore anche psicologico della sicurezza e stabilità), della carenza di potere di controllo, dell’erosione delle protezioni legali e del calo dei redditi anche per professioni un tempo sicure e prestigiose. Ha poi sottolineato l’importanza della significatività del lavoro per la persona. Il lavoro è dignitoso (o di qualità) quanto più è significativo per la persona ovvero coerente con i suoi valori, interessi, atteggiamenti e capacità e può svolgere le sue funzioni primarie di sostentamento e acquisizione di potere, di sviluppo di connessioni sociali e di mezzo di autodeterminazione. Quando ciò non si realizza o viene messo in discussione è assai probabile un cambiamento delle aspettative dei lavoratori di poter trovare nel loro lavoro e nelle organizzazioni ove operano sufficienti benefici per i quali valga la pena coinvolgersi. Tale rischio è frequente poiché, secondo alcuni, le aziende lancerebbero da anni segnali contrastanti ai lavoratori, determinando in questi incertezza, delusione, cinismo, paura e persino rabbia. Infatti, mentre, da un lato, sono richiesti al lavoratore coinvolgimento, partecipazione e maggiori carichi di impegno motivazionale (e di lavoro), dall’altro, le aziende hanno diminuito la stabilità del posto di lavoro, i percorsi di carriera lineari e i tradizionali benefits anche attraverso persistenti strategie di ridimensionamento aziendale. In sintesi, qualcosa non torna nel bilancio vantaggi/svantaggi del lavorare. DOMANDE E RISORSE LAVORATIVE Per decifrare la natura delle domande lavorative assumiamo come riferimento quel filone di studi classici relativo all’influenza delle caratteristiche del lavoro sulle condotte, che è stato approfondito da Schaufeli e Taris con la rivisitazione del Job Demands-Job Resources Model. Tale modello organizza in modo parsimonioso una serie di proprietà delle condizioni di lavoro all’interno di due ampie categorie: 1) Le DOMANDE al lavoratore, ovvero quegli aspetti fisici, psicologici, sociali o organizzativi del lavoro che implicano l’impegno di energie fisiche e mentali (ad esempio, complessità e pesantezza dei compiti, scadenze temporali ravvicinate, eccessivi carichi di lavoro fisico e mentale, ambiguità e incertezze dei ruoli, micro conflitti, insicurezza e minaccia di perdita del lavoro ecc.); 2) Le RISORSE per il lavoratore che il contesto offre in misura più o meno adeguata e che sono funzionali al migliore svolgimento del suo lavoro, alla riduzione dei costi fisiologici e psicologici delle domande e alla sua crescita professionale (ad esempio, la possibilità di controllare il proprio lavoro, la partecipazione alle decisioni, il ricevere feedback costruttivi, il sostegno sociale ecc.). Tutte le domande esigono risposte in termini di prestazione lavorativa e richiedono un impegno da parte della persona. Alcune però possono essere percepite con una connotazione negativa (essere viste come costi da pagare o ostacoli attuali o per la crescita futura), altre invece positiva (essere considerate sfidanti, motivanti la persona e stimolanti l’apprendimento e la sua riuscita professionale). Esse quindi influenzeranno con segno opposto le prestazioni, le motivazioni, gli atteggiamenti del lavoratore (come la soddisfazione per il lavoro) e il suo grado di benessere. Di quali domande si tratta? DOMANDE COGNITIVE Il rapido sviluppo delle tecnologie e delle tecniche di produzione di beni e servizi fa aumentare le esigenze di conoscenza dei processi di lavoro effettivo e di come agire al fine di farli funzionare in modo efficiente. 16 Infatti, tende a divenire poco rilevante la classica distinzione tra coloro che progettano e coloro che eseguono il lavoro. I lavori odierni (almeno quelli più pregiati, come quelli dei knowledge workers) comportano invece una pianificazione sempre meno rigida e più capace di adattarsi ai cambiamenti; si definiscono e acquistano valore rispetto a quanta possibilità di azione e di decisione permettono all’individuo, anche nella formulazione degli stessi obiettivi e nei modi per raggiungerli. Quindi, oltre alle capacità sensomotorie, di resistenza psicofisica e di saper seguire regole come nei lavori tradizionali, si richiedono crescenti abilità intellettuali di diagnosi, proposta di ipotesi di soluzione anche creative e presa di decisione. In altre parole, più è complesso e «mal strutturato» il compito lavorativo, più spazi per il pensiero, l’azione e la determinazione sono direttamente assegnati alla persona, seppure con l’ausilio di tecnologie sofisticate. Ciò rende salienti i margini di controllo autonomo della situazione di cui dispone il lavoratore (da notare che quando si abbassa il controllo da parte della persona si elevano i rischi di insoddisfazione e stress;. Egli può risultare sovraccaricato dagli stimoli ambientali e dal compito di autoregolazione delle sue azioni (e con minori possibilità di momenti di riflessione sulle azioni stesse), ma può anche sperimentare effetti positivi (ovvero percepire le domande come sfidanti). Infatti, confrontarsi con compiti complessi può stimolare lo sviluppo di nuovi apprendimenti, di nuove modalità per cercare le informazioni necessarie e confrontarle con gli altri; sollecitare sia la ricerca di nuove strategie per definire, affrontare e risolvere i problemi quotidiani sia la riflessione sul proprio modo di operare e sulle conoscenze teoriche e pratiche acquisite con le azioni svolte (meta-cognizione). Tutto ciò progressivamente porta a meglio padroneggiare la situazione e a prendere decisioni con modalità più competenti. DOMANDE SOCIALI La necessità di affinare conoscenze e apprendimenti per rispondere alle domande cognitive dei compiti e ruoli assegnati implica già un’interazione con gli altri sia diretta sia mediante i vari artefatti con cui si scambiano o si conservano le conoscenze e le informazioni. Vi è però qualcosa di più da considerare e cioè il fatto che molto del lavoro richiesto (e degli apprendimenti necessari) si basa sempre più su scambi informali, su relazioni interpersonali e sulla partecipazione a network sociali. Il che significa che la nuova domanda lavorativa implica lo scambio e la condivisione sistematica di informazioni. Essi, nello stesso tempo, sollecitano continue modalità di adattamento reciproco tra persone, attuate faccia a faccia o in via virtuale. In tal modo si sviluppa un apprendimento contestuale che ha basi relazionali e che può influenzare positivamente gli atteggiamenti e i modi con cui le persone di un certo gruppo o comunità lavorativa pensano, affrontano, parlano e partecipano al loro lavoro. Partecipare al lavoro non è più la semplice adesione a una regola o a un comando gerarchico, ma implica il coinvolgimento in questa rete di relazioni sociali. Al lavoratore viene richiesto di essere in grado di trovare il suo posto e di influenzare attivamente queste relazioni anche rendendo evidenti le proprie specificità e bisogni. In tal senso, la crescita della domanda sociale può diventare un compito costoso per il lavoratore che deve continuamente far fronte al peso di interazioni con gli altri spesso connotate dalla competizione, da divergenze, microconflittualità e persino condotte controproduttive. Tuttavia, si è di fronte anche alla possibilità che queste richieste relazionali siano percepite non come ostacoli ma come occasioni sfidanti e diano impulso al potenziamento delle competenze del lavoratore, alla ricerca di progetti significativi dove applicarle e a un più soddisfacente sviluppo professionale. Il carattere cruciale delle domande sociali che connotano il lavoro odierno deriva da due fattori: a) La dimensione cooperativa richiesta da molti lavori (si pensi alla diffusione del teamwork, dei gruppi di lavoro temporanei, dei gruppi di progetto, dei gruppi virtuali ecc.); b) L’ampio sviluppo dei lavori di servizio che si caratterizzano non solo per un legame istituzionale con datori di lavoro, manager e colleghi, ma per interscambi quotidiani con consumatori, cittadini, clienti, allievi, pazienti ecc. Per quanto riguarda il primo aspetto si può sostenere che la collaborazione e cooperazione sono progettate come necessarie, ma non facili da perseguire nei contesti odierni dominati dalla temporaneità del lavoro di molti. Esse sono meno legate alle posizioni gerarchiche o a indicazioni di natura ingegneristica; dipendono invece, in gran parte, dalla responsabilità del lavoratore, dalla sua capacità di integrarsi nella rete sociale e di mantenere un adeguato livello di fiducia reciproca che faciliti il lavoro collettivo. È una richiesta impegnativa alla quale rispondere con una chiara intenzionalità e specifici sforzi per contrastare la tendenza al lavoro individuale e ridurre le distanze connesse con la notevole diversificazione interna della forza lavoro. 17 Rispetto al secondo aspetto va notata la particolarità dei lavori di servizio. Il lavoratore vive il doppio ruolo, talvolta conflittuale, come dipendente rappresentante dell’azienda ma anche come lavoratore percepito come indipendente, autonomo al quale il consumatore dovrebbe potersi rivolgere con fiducia per essere aiutato senza secondi fini. Anche per tale ragione si giustifica l’enfasi negli ultimi anni posta sulle nozioni di intelligenza e competenza sociale per gestire meglio le relazioni lavorative. Con il primo termine ci si riferisce alla sensibilità nei confronti degli altri, all’ascolto attivo, alla comprensione di pensieri, sentimenti e intenzioni dell’altro, mentre con il secondo si sottolineano le capacità di azione verso l’altro (ad esempio nel linguaggio corrente si dice: saper lavorare in gruppo, comunicare con efficacia, influenzare ecc.). RISORSE NEL CONTESTO DI LAVORO Le caratteristiche del contesto lavorativo non si traducono solamente in domande alle quali il lavoratore deve rispondere, ma offrono anche risorse per l’azione. L’esistenza di un equilibrio tra domande e risorse contestuali non è facile da ottenere data la variabilità e velocità dei cambiamenti in atto, ma dovrebbe essere perseguito poiché corrisponde a un lavoro che stimola la motivazione, risulta più ricco e soddisfacente e soprattutto facilita il lavoratore nel decifrare il significato delle attività e dei ruoli che svolge per rispondere adeguatamente alle richieste. Tra le risorse del contesto: • Alcune attengono alle caratteristiche fisiche dell’ambiente lavorativo (ad esempio, alla disponibilità di spazi e mezzi efficienti per svolgere l’attività con il minor numero di difficoltà) • Altre attengono alla strutturazione del lavoro come la progettazione accurata dei compiti, la varietà delle attività da svolgere, un buon grado di discrezionalità nelle decisioni, un clima sociale poco conflittuale ecc. • Altre si riferiscono alla cultura del lavoro e alla cultura organizzativa che possono focalizzarsi su importanti valori assegnati all’attività lavorativa come la solidarietà tra lavoratori, il sostegno sociale, la giustizia e l’equità dei trattamenti, l’utilità, la correttezza e la responsabilità sociale ecc. Aspetti che rafforzano il significato del lavorare come impresa collettiva nella quale coinvolgersi anche per il suo legame diretto con lo sviluppo della persona e la sua autorealizzazione, il conseguimento di riconoscimenti sociali, il potenziamento dell’identità personale e sociale. • Altre, infine, si riferiscono più direttamente al modo con cui il lavoro viene organizzato e al modo con cui sono gestite le persone Crawford, Le Pine e Rich offrono esempi pratici di come soprattutto i manager possano contribuire a un migliore equilibrio intervenendo intenzionalmente sulla natura e il livello sia delle domande che delle risorse contestuali. Nel caso di domande eccessive (o percepite solo come ostacoli) essi potrebbero riconsiderare la progettazione dei compiti, adeguare la strumentazione, procedere all’utilizzo di forme di automazione disponibili sul mercato per alleggerire la fatica, migliorare la distribuzione dei compiti tra i membri del gruppo di lavoro o alleggerire le scadenze e i compiti di natura amministrativa. Nel caso non si possa intervenire sulla natura del lavoro e i suoi rischi di sovraccarico, potrebbero essere fornite risorse supplementari ad esempio di natura formativa (acquisizione di nuove competenze) oppure favorendo l’impegno dei collaboratori mediante il miglioramento delle modalità di feedback, variando i compiti, migliorando i riconoscimenti e i premi per l’attività svolta, sottolineando le opportunità di crescita futura in modo tale da far percepire la situazione attuale secondo una prospettiva positiva. RISORSE PERSONALI PER FAR FRONTE ALLE DOMANDE Le RISORSE PERSONALI sono definite come caratteristiche psicologiche o aspetti del self che sono generalmente associati con la resilienza e che riguardano l’abilità di controllare e influenzare l’ambiente con successo. Esse sono state studiate perché differenziano nettamente le persone nel modo in cui fanno fronte alle domande del lavoro e rispetto agli effetti che ne derivano. Numerose evidenze di ricerca confermano che le risorse disponibili possono avere un effetto diretto sul benessere lavorativo oppure un effetto di moderazione (la loro presenza rafforza positivamente l’effetto delle caratteristiche del lavoro sul benessere e viceversa la loro assenza determina conseguenze negative) o di mediazione (operare in un contesto con caratteristiche adeguate potenzia risorse personali come ottimismo e self-confidence che a loro volta mediano gli esiti finali positivi per la persona). Inoltre le risorse personali (ad esempio, la self-efficacy o 20 PERCEIVED EMPLOYABILITY: percezioni che un individuo elabora rispetto a sé stesso (alle proprie capacità) e alle opportunità lavorative disponibili all’interno dell’organizzazione o nel mercato del lavoro più ampio. Sono compresenti nella letteratura due orientamenti: § Il primo valorizza la percezione delle proprie competenze generali (come la flessibilità personale) o specifiche (come l’expertise in qualche ambito lavorativo) che possono far cogliere meglio le opportunità; § Il secondo enfatizza l’autopercezione di qualità disposizionali (come l’apertura mentale o la resilienza) che sostengono la proattività e l’adattabilità lavorativa. IL CONTRATTO PSICOLOGICO TRA LAVORATORE E ORGANIZZAZIONE NATURA E CONTENUTI DEL CONTRATTO PSICOLOGICO Il LAVORO va visto come uno scambio tra prestazione e controprestazione: io lavoratore mi impegno a fare qualche cosa che tu organizzazione mi chiedi, a dedicare le mie energie e tempo per l’attività e in cambio ricevo qualche cosa di significativo e di valore per me, per i miei obiettivi e progetti di vita. Dati i possibili squilibri dovuti alle differenze di potere sociale tra le parti questa relazione è regolata formalmente dal CONTRATTO DI LAVORO che: v Stabilisce obblighi e doveri reciproci relativi ai compiti e alle norme principali da seguire sul lavoro (ad esempio, in un contratto collettivo di lavoro queste clausole sono inserite nella prima parte del contratto stesso come «parte normativa» relativa ad esempio ai tempi di lavoro, pause, ferie, sicurezza ecc.); v Prevede sanzioni per il loro mancato rispetto da ambo le parti e la possibilità di essere impugnato legalmente. Tuttavia, nella realtà quotidiana le relazioni di lavoro non si traducono quasi mai in una completa rappresentazione formale in cui tutto ciò che riguarda la vita lavorativa quotidiana viene minuziosamente descritto in anticipo. In sostanza, non tutti gli aspetti di un rapporto di lavoro possono essere stabiliti legalmente, per iscritto in un formale contratto di lavoro. L’esperienza di lavoro è talmente complessa e dinamica che molte sue sfaccettature restano indefinite e sono affidate a intese informali, non scritte, che possono evolvere nel tempo. È quest’area non sancita formalmente che costituisce l’oggetto del CONTRATTO PSICOLOGICO. Per il lavoratore, esso assume la forma di un accordo informale con il datore di lavoro (talvolta di tipo verbale ma spesso dedotto dagli esempi di comportamento dei colleghi), ma non per questo meno vincolante. Per la sua natura non ufficiale, il contratto psicologico si concretizza in un sistema di credenze sugli obblighi reciproci esistenti tra lavoratore e azienda che di fatto amplifica i termini del contratto legale. È formato dalle percezioni individuali su ciò che è stato promesso da parte dell’azienda (ad esempio, nei casi migliori, paghe competitive, opportunità di avanzamento di carriera, sicurezza lavorativa, sviluppo delle competenze, ambiente stimolante) e da ciò che il dipendente si aspetta di dare in cambio all’azienda (lealtà, onestà, impegno, senso di appartenenza, disponibilità). IL «NUOVO» CONTRATTO PSICOLOGICO I cambiamenti nel mondo del lavoro sembrano richiedere nuovi modelli concettuali più sensibili alla lettura dei fenomeni emergenti anche nella relazione di impiego. Le connotazioni che il contratto psicologico sta assumendo in relazione ai nuovi modi di lavorare e al tipo di mercato occupazionale fortemente segmentato che si è andato delineando negli ultimi anni hanno spesso un segno negativo. In altre parole, la forma e i contenuti del contratto psicologico tradizionale stanno cambiando e si definiscono molti tipi di relazione lungo un continuum che va da contratti psicologici di carattere relazionale a quelli di natura transazionale che implicano differenti aspettative da parte del lavoratore e dei datori di lavoro. Ci sono vari tipi di contratti psicologici oggi: v CONTRATTI RELAZIONALI: Il range di obblighi non è molto specificato, si basano su relazioni a lungo termine con la previsione di offrire un insieme di opportunità e benefici anche non monetari (come ad esempio lo sviluppo di carriera) coi quali contraccambiare non solo la specifica prestazione ma 21 anche un impegno più ampio rispetto al ruolo lavorativo e alla presenza organizzativa. Proprio il carattere meno definito in partenza delle richieste e più aperto alle esigenze del momento implica lo stabilirsi di relazioni fiduciarie sostenute nel tempo dalle varie pratiche di gestione delle risorse umane v CONTRATTI TRANSAZIONALI: Definiscono in dettaglio il range di obblighi da rispettare e sono di breve durata, tipica espressione della condizione di flessibilità contrattuale. Prevedono compensi economici che contraccambiano le specifiche condotte lavorative richieste dal ruolo, senza ulteriori impegni da parte dell’organizzazione (come ad esempio, su offrire formazione, riconoscimenti o sviluppo di carriera ecc.) v CONTRATTI TRANSIZIONALI: Si riferiscono a situazioni di passaggio sperimentate da un’organizzazione nel far fronte a crisi economiche (downsizing, ristrutturazioni, fusioni). In questi casi si attua una modifica di precedenti contratti psicologici che può prevedere, ad esempio, la riduzione dei salari, aspettative di peggioramento dei benefit, l’intensificazione del lavoro (a parità di salario) e il rischio di esuberi v CONTRATTI BILANCIATI: Si basano su una impostazione flessibile delle relazioni che si concretizza con un mix di obblighi, promesse e ricavi di natura sia transazionale che relazionale. Riconoscono i contributi del lavoratore in termini di competenze e di impegno nelle performance di ruolo obbligatorie, ma anche in quelle extraruolo. Pertanto sono in grado di contraccambiare il lavoro con ricompense di natura estrinseca (come il salario) e intrinseca (ad esempio, sostegni al work-life balance) e con incentivi a breve e lungo termine In concreto la tendenza in atto sembra caratterizzata: § Da una diminuzione dei contratti psicologici di tipo relazionale caratterizzati dalla continuità dell’esperienza e dei legami formali e informali con le persone che giustificavano non solo lo sforzo di apprendimento del come lavorare bene, ma anche l’impegno a collegare l’esperienza di lavoro con le proprie aspettative future e i propri progetti e a ricavare dal lavoro elementi sufficienti per definire positivamente se stessi non solo in quanto lavoratori; § Dalla notevole diffusione di contratti psicologici di tipo transazionale ovvero da contratti di puro scambio monetario e di breve termine in cui la connessione tra il lavoro e l’identità personale risulta assai più labile e anche le motivazioni per attivare il coinvolgimento, l’apprendimento e interazioni sociali significative possono affievolirsi; § Dalla più elevata presenza, rispetto al recente passato, di contratti psicologici di natura transizionale in conseguenza dei persistenti fenomeni di ristrutturazione aziendale e di adeguamento dimensionale delle imprese; § Dalla difficile presenza di contratti psicologici bilanciati che richiedono per essere attuati un’attenta negoziazione non solo individuale ma collettiva, sostenuta dalle rappresentanze sindacali. VIOLAZIONE DEL CONTRATTO PSICOLOGICO Un modo semplice per riconoscere l’importanza del contratto psicologico è valutare le conseguenze del suo rispetto o della sua violazione. Tale tipo di contratto si presenta come una relazione di scambio tra due attori (di solito il dipendente e il datore di lavoro), in cui vengono presi in considerazione le aspettative e gli obblighi di entrambe le parti coinvolte. In tal modo si regola e si personalizza la natura, le caratteristiche e l’evoluzione futura del rapporto di lavoro. Valutazioni positive circa il rispetto del contratto psicologico cioè degli obblighi reciproci si possono tradurre in impegno, fiducia, senso di appartenenza e implicazione organizzativa, maggiore frequenza di comportamenti di cittadinanza organizzativa, più elevata soddisfazione lavorativa, miglioramento della salute mentale e riduzione del turnover. 22 Ma cosa succede quando il contratto psicologico non viene rispettato? Numerose evidenze empiriche mostrano che se un lavoratore percepisce una violazione delle aspettative e degli obblighi del suo contratto psicologico si generano effetti negativi sia sul piano emotivo, sia su quello cognitivo e comportamentale. Essi saranno più o meno forti a seconda si tratti di un’incrinatura limitata a qualche aspetto (un mancato adempimento di una o poche aspettative) o di una rottura di natura involontaria, collegabile chiaramente a fattori esterni imprevisti (come una grave crisi economica) oppure di una più grave violazione unilaterale da parte dell’organizzazione che risulta del tutto ingiustificata e che rinnega le promesse precedenti. Gli esiti negativi sono sintetizzabili come decrementi del benessere lavorativo, atteggiamenti negativi verso il lavoro e l’organizzazione, riduzione della qualità e quantità delle prestazioni. In altri termini, i dipendenti ricambiano la percezione di violazione del contratto riducendo il coinvolgimento, l’impegno e la fiducia nei confronti dei superiori, adottando comportamenti di ritirata e manifestando l’intenzione di lasciare l’organizzazione. IL LEGAME PSICOLOGICO TRA INDIVIDUO E LAVORO PERCHÉ LAVORARE? Posta di fronte a una alternativa secca (lavorare o non lavorare), la grande maggioranza ritiene che continuerebbe a svolgere una qualche attività organizzata e remunerata.Questo rafforza l’idea che il lavorare costituisce un’attività umana dotata di significati profondi che travalicano le esigenze finanziarie, almeno nelle società a capitalismo avanzato: può costituire un’ opportunità per conseguire soddisfazione, benessere, identità e per costruire ricche relazioni sociali. Il legame con il proprio lavoro può essere rafforzato attraverso l’appartenenza all’organizzazione; la costruzione di una parte dell’identità professionale ruota attorno al sentimento di membership dentro un organismo sociale più ampio (l’organizzazione di lavoro). LA MOTIVAZIONE AL LAVORO DEFINIZIONE La MOTIVAZIONE AL LAVORO può essere considerata come un insieme di forze che determinano la direzione, l’intensità e la persistenza dell’azione nelle esperienze che caratterizzano la persona in rapporto al proprio lavoro. Si tratta di un insieme di processi psicologici che influenzano il modo in cui un individuo eroga uno sforzo e alloca le risorse psicologiche disponibili per generare un comportamento o un sistema di azioni. Quindi la motivazione al lavoro è formata da tre principali componenti: § DIREZIONE: scelta degli obiettivi da perseguire. Tale aspetto mette in evidenza l’importanza degli scopi e la finalizzazione dell’azione. § INTENSITÀ: grado di investimento ed energie allocate. A questo proposito si tende a distinguire il potenziale motivazionale di una persona e la motivazione effettivamente attivata, cioè quanta energia e sforzo una persona mette in campo in un momento dato per ottenere determinati risultati. § PERSISTENZA: sforzo e continuità dell’azione nel perseguimento degli obiettivi. In questo caso la definizione considera la durata e la tenuta dei processi psicologici volti all’erogazione di energia e al raggiungimento di un obiettivo. 25 La TEORIA DELL’AUTODETERMINAZIONE (STD) di Gagnè e Deci costituisce uno sviluppo teorico recente che tenta di sistematizzare i precedenti modelli e di integrare diverse microteorie sul tema. Il principio di base della teoria è che le persone agiscono, come per Maslow, spinte dal soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali e innati. Tali bisogni, secondo questa teoria, sono però essenzialmente di natura intrinseca. In base a tali bisogni gli individui sono naturalmente spinti a cercare di realizzare il proprio potenziale e sono orientati ad apprendere continuamente e a sviluppare il proprio talento. Aspirano a integrare le proprie esperienze entro una visione coerente di sé e a stabilire relazioni con altri fondate su rispetto e reciproca attenzione. Gli ambienti di lavoro che permettono di raggiungere tali obiettivi di autorealizzazione e autonomia sono quelli con maggiore potenziale motivante e che possono favorire soddisfazione e benessere delle persone. In questa teoria un ruolo centrale è esercitato dalla distinzione concettuale tra: • MOTIVAZIONE AUTONOMA: concerne azioni condotte a partire dalla propria volontà e da un’esperienza di scelta. Essa è in gioco quando si agisce per il piacere di agire nell’ambito di un comportamento deliberatamente adottato dalla persona. • MOTIVAZIONE CONTROLLATA: fa riferimento, invece, a un’azione avviata sotto una pressione esterna o un obbligo ad agire. Secondo gli autori, questi due tipi di motivazione rispondono a diversi modelli di regolazione e sono accompagnati da diversi processi psicologici. L’elemento principale di novità di questa teoria è costituito dalla proposta di una classificazione delle diverse motivazioni estrinseche in funzione del loro grado di autonomia vs controllo esterno. Nel complesso, il modello prevede tre stati motivazionali generali: L’AMOTIVAZIONE riguarda le situazioni in cui le persone non agiscono oppure agiscono senza intenzione e senza uno specifico controllo sul proprio comportamento. La MOTIVAZIONE INTRINSECA è l’esempio paradigmatico di motivazione autonoma caratterizzata da scelta deliberata, interesse per l’attività in sé e realizzazione personale. La motivazione intrinseca indica che l’individuo esercita un’attività per il semplice piacere e per l’appagamento personale che questa genera. Le persone motivate intrinsecamente manifestano un interesse volontario e spontaneo a svolgere una determinata attività, accompagnandola con gioia e soddisfazione. La MOTIVAZIONE ESTRINSECA si articola in quattro categorie a seconda del grado di controllo esterno/autonomia: v La motivazione estrinseca ESTERNAMENTE REGOLATA si ha quando l’attività non riveste interesse per la persona e vi è la necessità di interventi esterni (incentivi) per attivare l’erogazione di energia e il comportamento. Rappresenta la forma più controllata della motivazione estrinseca. Il comportamento dell’individuo è finalizzato sostanzialmente all’ottenimento di premi o ad evitare punizioni. Si può pensare a tale tipologia di motivazione quando si considerano esperienze di lavoro a basso contenuto professionale e di scarsa qualità: «faccio questo lavoro per il denaro che mi permette di procurarmi». v La motivazione estrinseca con REGOLAZIONE INTROIETTATA si basa su un processo di interiorizzazione di obiettivi e scopi esterni (norme sociali, valori). È attiva quando il comportamento di una persona è 26 sostenuto da fattori di regolazione fatti propri ma non pienamente accettati dall’individuo, come l’interiorizzazione di regole di comportamento e di un’immagine positiva di sé in quanto lavoratore. La regolazione introiettata sembra particolarmente adatta a descrivere condizioni di debolezza psicologica in termini di strutturazione del Sé. L’individuo si autoimpone una serie di regole di comportamento per soddisfare alcuni bisogni di definizione di sé, per evitare stati d’ansia o sensi di colpa, per ricercare accettazione sociale: «lavoro perché ciò mi fa sentire a posto con me stesso». v La motivazione estrinseca con REGOLAZIONE IDENTIFICATA inquadra quelle situazioni in cui le persone hanno interiorizzato in modo più completo e coerente una serie di scopi e valori esterni. In tal caso, l’attivazione del comportamento parte da una deliberata scelta della persona (quindi aumenta la componente di autonomia) in quanto, grazie all’azione, si potranno ottenere significativi risultati in termini di soddisfacimento di bisogni personali e realizzazione della propria identità. Ad esempio, se una persona che lavora in una carrozzeria potrebbe interiorizzare l’importanza dell’estetica delle auto e si dovrebbe sentire relativamente autonomo anche se lo svolgimento delle attività in sé non è intrinsecamente interessante. v La motivazione estrinseca con REGOLAZIONE INTEGRATA rappresenta la forma più completa di interiorizzazione di interessi e valori generati dall’esterno. In questo caso l’attivazione del comportamento deriva da una chiara identificazione di scopi, interessi e obiettivi che si integrano tra loro in una coerente immagine di sé e con l’identità della persona. Avviene quando i valori che guidano il comportamento sono congruenti con i valori e i bisogni della persona stessa. Il comportamento è autodeterminato, ma è ancora funzionale a raggiungere un obiettivo importante. «Mi impegno nel lavoro perché ha un significato personale per me». Tutti i tipi di motivazione, siano essi autonomi o controllati, riflettono sempre un’intenzione ad agire e sono, quindi, in contrasto con la a-motivazione che riguarda invece una totale assenza di intenzione. CARATTERISTICHE DEL LAVORO E MOTIVAZIONE Un ampio filone di studi e ricerche psicologiche si è occupato del job design e della sua possibile influenza sulla motivazione. In questa direzione si muove una delle teorie motivazionali che ha avuto maggiore influenza: la TEORIA DELLE CARATTERISTICHE LAVORATIVE JCM (Job Characteristics Model) di Hackman e Oldham. Gli autori ritengono che la motivazione intrinseca al lavoro dei dipendenti possa essere stimolata da una strategia ottimale di job design. È possibile intervenire su alcuni aspetti, importanti per il loro potenziale motivante: • Varietà: grado di complessità e capacità richieste; • Identità del compito: possibilità del lavoratore di seguire l’intero processo del lavoro; • Significatività del compito: cioè quanto il compito è significativo all’interno del processo lavorativo; • Autonomia: discrezionalità nello svolgimento del compito; • Feedback: ricevere riscontri sulla qualità della propria prestazione. Il principio guida di tale teoria è che l’attivazione della motivazione intrinseca nello svolgimento di un compito possa scattare se un individuo può, grazie al lavoro, attivare tre stati psicologici tra loro complementari: § Generare esperienze di apprendimento grazie alla conoscenza dei risultati ottenuti con la propria attività (feedback); § Sperimentare la responsabilità di produrre una buona prestazione (autonomia); § Sperimentare il significato del proprio lavoro (varietà, identità e significatività). COS’È IL JOB DESIGN? Con il termine job design si indica un set di attività e decisioni, di solito prese dal 27 management, su come i compiti lavorativi devono essere svolti all’interno di una organizzazione. Attraverso il job design si definiscono: • Le mansioni; • Le responsabilità; • Gli obblighi; • Il sistema di relazioni; • L’interazione con le tecnologie; • I ritmi e la regolazione dei tempi; • Le forme di coordinamento con altri. La divisione dei compiti, l’integrazione tra ruoli lavorativi, la struttura gerarchica sono esiti delle politiche di job design adottate da una organizzazione. Recenti sviluppi [Parker 2014] hanno messo in evidenza come il job design non sia solo l’esito di strategie definite dal management, ma possa prendere forma anche grazie ad azioni «bottom-up», cioè grazie a soluzioni ideate e sperimentate dai singoli o all’interno dei team di lavoro. LA MOTIVAZIONE AL LAVORO: PROCESSI PSICOLOGICI PROCESSI REGOLATIVI DELLA MOTIVAZIONE AL LAVORO Gli psicologi del lavoro hanno prodotto una serie di teorie per comprendere come le persone sviluppano interessi, valori e bisogni relativi alla sfera lavorativa e come si genera, si indirizza e si mantiene nel tempo l’attivazione di energia che sostiene il comportamento lavorativo. Queste sono denominate TEORIE DI PROCESSO e toccano diverse problematiche psicologiche: il ruolo delle aspettative e della valenza, l’equità e la giustizia percepita, la spinta motivazionale generata dagli obiettivi, la funzione delle emozioni ecc. Per costruire un percorso logico all’interno di questa ampia gamma di modelli, si può adottare una struttura euristica che prevede alcune fasi tipiche dell’azione motivata. La struttura euristica assume che l’azione motivata sia parte di un complesso processo di autoregolazione della persona che procede per fasi. 1) Il primo passo che avvia l’azione motivata è caratterizzato dalla SCELTA di un corso d’azione sulla base di un sistema di preferenze e di aspettative circa il successo e i possibili benefici che si possono trarre dall’impegno. Tale fase di definizione di uno scopo comporta un processo di deliberazione (decisione). Prevede il trattamento delle informazioni relative alle varie opzioni di scelta e una valutazione della fattibilità e attrattività degli scopi in competizione. 2) Segue un processo di GOAL SETTING, cioè di pianificazione degli obiettivi che si vogliono raggiungere. Sono in gioco processi implementativi di autoregolazione dedicati alla programmazione mentale di un modo di procedere: messa a fuoco dei vari passaggi da compiere; verifica della fattibilità delle operazioni; articolazione del compito in subobiettivi. 3) La terza fase prevede il passaggio all’azione e l’erogazione di energia per il raggiungimento dello scopo (goal striving). Una serie di autoregolazioni del comportamento permette di valutare se si sta correttamente perseguendo l’obiettivo e se questo è effettivamente raggiungibile. In questa fase sono centrali i processi mentali che favoriscono l’azione, come ad esempio l’attenzione mirata e la concentrazione su informazioni connesse con il compito. 4) Infine, una volta completata l’attività se ne possono VALUTARE GLI ESITI in termini di effettivo raggiungimento dello scopo, benefici ottenuti e loro adeguatezza rispetto allo sforzo erogato. Anche l’attività valutativa prevede processi di trattamento delle informazioni, di confronto rispetto a parametri prefissati e di giudizio. L’esito della valutazione costituirà l’input per futuri processi di autoregolazione e di selezione degli scopi. LA SCELTA MOTIVAZIONALE 30 Sviluppi più recenti in questo ambito sono rappresentati dalla TEORIA DELLA GIUSTIZIA ORGANIZZATIVA che costituisce la naturale espansione del modello dello scambio di Adams. Secondo la teoria della giustizia organizzativa, le persone percepiscono diversi gradi di equità, imparzialità di trattamento e giustizia valutando come le organizzazioni distribuiscono risorse e riconoscimenti. In base a tale percezione, si stabilisce il livello di fiducia nei confronti dell’organizzazione con conseguenti livelli di implicazione motivazionale. In particolare, la teoria propone la distinzione fra: v Giustizia distributiva ovvero la credenza circa il fatto che i benefici siano distribuiti in modo equo e corrispondente alle attese; v Giustizia procedurale ovvero la credenza sull’adeguatezza dei modi di allocare e distribuire le risorse da parte dell’organizzazione; v Giustizia interpersonale ovvero la percezione di come si viene trattati all’interno dell’organizzazione in termini di rispetto e dignità. IL LAVORATORE E I SUOI COMPITI LAVORO: UNA PLURALITÀ DI SIGNIFICATI Il termine LAVORO, in senso lato, indica qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica ecc) volta a uno scopo predeterminato. Più in particolare, costituisce l’applicazione delle facoltà fisiche, intellettuali ed emotive di una persone rivolte direttamente e coscientemente alla produzione di un bene o di un servizio o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o collettiva e scambiabile in un mercato. Lo stesso termine designa, inoltre, altri tre aspetti: 1) La cosa a cui si sta lavorando; 2) Il prodotto dell’attività lavorativa ovvero la realizzazione concreta di una data attività; 3) L’occupazione entro cui si attua lo scambio tra impegno, tempo ed energie di una persona con i ricavi adatti al suo sostentamento. ATTIVITÀ LAVORATIVA: AZIONI E OPERAZIONI IN UN CONTESTO Engestrom ha elaborato un esempio per descrivere l’attività di un pediatra che lavora nel pronto soccorso di un ospedale. Dopo aver visto nel proprio ufficio la radiografia di un piccolo paziente, portato in ospedale dal padre per improvvise difficoltà respiratorie, il medico si reca in ambulatorio, insieme all’infermiere, per la visita medica. L’attenzione del medico è diretta sul bimbo, ma anche sul padre al quale vengono rivolte diverse domande. L’infermiera assiste e compie alcune manovre preparatorie sul bimbo in accordo con il medico, 31 che dopo la visita, in pochi minuti, decide di chiamare al telefono uno specialista e, successivamente, parla con il padre per tranquillizzarlo. Si può descrivere questo episodio nei termini della TEORIA DELL’AZIONE di Engerstrom per cercare di comprendere il senso delle differenti azioni lavorative e il loro possibile impatto sugli esiti finali. La figura mette in evidenza come lo scopo finale dell’attività lavorativa del medico (fare una diagnosi preliminare a successive decisioni) sia raggiunto attraverso momenti diversi nei quali si realizzano interazioni significative tra differenti elementi che, nel complesso, formano un sistema di azione. L’interazione medico-paziente (la visita) che permette di giungere alla diagnosi preliminare è in realtà solo una parte di tale sistema, che comprende altre interazioni che fungono da mediatori per la risposta finale. La rappresentazione triangolare della figura rende visibile il fatto che non ci troviamo di fronte a delle semplici risposte dirette e individuali a stimoli o a prescrizioni, ma a un processo dinamico più complesso. Esso, coinvolgendo numerosi elementi, prenderà diverse possibili direzioni in relazione al grado di facilitazione od ostacolo giocato, ad esempio, dagli oggetti su cui si opera (nel nostro esempio, una persona), dagli strumenti usati, dalle regole, dalla qualità dell’organizzazione del lavoro, dalla competenza dei collaboratori ecc. Infatti, lavorare significa svolgere un insieme di attività che un lavoratore (il soggetto), con una certa sequenza ordinata, indirizza su un oggetto per raggiungere scopi di rilevanza pratica, con la mediazione di strumenti (artefatti tecnici e organizzativi) e di significati (artefatti culturali e sociali) presenti in un determinato contesto. Da questo esempio si possono ricavare ulteriori elementi concettuali per definire meglio il campo dell’agire lavorativo. v Con ATTIVITÀ LAVORATIVA ci si riferisce alla condotta finalizzata a un insieme di scopi, mete, risultati attesi (nel nostro caso, la diagnosi) propri o assegnati dall’organizzazione. v L’attività è scomponibile in AZIONI, anch’esse mirate a uno scopo, delineate secondo un piano definito mentalmente (ad esempio, cosa fare prima e perché) e controllate dalla persona con differenti meccanismi di feedback (analizzare le radiografie, effettuare la visita, usufruire della collaborazione dell’infermiere, telefonare allo specialista ecc.). v Anche le azioni sono scomponibili in unità più elementari – le OPERAZIONI – che rappresentano un ulteriore sottoinsieme di condotte che permettono di raggiungere scopi più delimitati, ma funzionali all’attuazione delle azioni (ad esempio, alzare la cornetta del telefono). v La scomposizione potrebbe poi procedere identificando unità ancora più piccole come i SINGOLI GESTI per effettuare le operazioni (guardare dov’è il telefono, allungare il braccio, comporre il numero ecc.) sino ad arrivare ai GRUPPI MUSCOLARI attivati dai gesti stessi (ad esempio, i muscoli flessori della mano). Inoltre, come abbiamo visto il pediatra attiva un processo per produrre un esito → tutti questi aspetti riguardano il campo della PRESTAZIONE, concetto molto utilizzato per descrivere, misurare e valutare un’attività di lavoro. Questo termine unisce due diversi significati: 1. Le attività e azioni, ovvero le condotte e i processi cognitivi, emotivi e comportamentali finalizzati agli scopi (cosa viene attivato, processato e mentalmente e fatto in concreto dalla persona; 2. Gli esiti, i risultati (ovvero le conseguenze quantitative e qualitative delle azioni svolte che hanno un effetto per l’organizzazione e per il lavoratore). Questi due aspetti sono certamente collegati, ma non in modo lineare e meccanico, in quanto l’effettivo raggiungimento degli esiti attesi è influenzato dalle condizioni di realizzazione delle azioni lavorative ovvero da numerosi fattori tecnologici, ambientali, relazionali e personali che devono essere identificati anche per valutare la qualità e quantità del lavoro svolto. Per comprendere un’attività lavorativa occorre, dunque, precisare da quale punto di vista si procede e quali oggetti di attenzione si privilegiano. Ciò significa considerare i seguenti aspetti. 32 v Il DECORSO OSSERVABILE DELL’ATTIVITÀ. Ci si riferisce alle condotte manifestate secondo una data sequenza temporale delle azioni, sulle fasi, sui possibili «incroci» in cui il lavoratore compie delle scelte tra alternative ecc.; alla struttura gerarchica delle attività; agli ostacoli alla sequenza delle azioni o agli eventuali errori di coordinamento tra fasi delle azioni. v I PROCESSI COGNITIVI e i VISSUTI SOGGETTIVI dell’attività. Le attività e azioni sono sostenute da differenti processi cognitivi e affettivi. Gli stimoli ambientali sono processati attraverso il sistema sensoriale/percettivo, sono rielaborati coinvolgendo i sistemi della memoria a breve e lungo termine per poi attivare il sistema esecutivo centrale che svolge la funzione di coordinamento e gestione dei processi mentali di più alto livello che sostengono le risposte finali (azioni) e che si esprimono nella: a) Definizione e appropriazione degli scopi (possono essere prestabiliti e fissati oppure richiedono specificazioni e scelte, sono gerarchizzati, ad esempio per importanza, richiedono impegno cognitivo, ad esempio attenzione o richiami dalla memoria ecc.); b) Pianificazione (implica rielaborazione delle informazioni, confronti con esperienze precedenti, rappresentazione della sequenza di azioni ottimali, decisioni sulle vie migliori da seguire ecc.); c) Controllo/regolazione (operazioni di verifica delle mete parziali o finali raggiunte con le attività e azioni, attività di correzione a seguito di feedback ecc.); d) Valori, emozioni, intenzioni (orientano i criteri di scelta delle mete e la volontà di perseguirle, «energizzano», motivano l’attenzione, la vigilanza, la persistenza ecc.) v SIGNIFICATI SOCIALI e MEDIAZIONI OGGETTIVABILI. Le attività sono finalizzate a mete personalizzate a partire dalle richieste lavorative, ma hanno significati anche sociali (interazione soggetto-oggetto mediata da strumenti, dal contesto tecnico e organizzativo, dall’appartenenza a un gruppo professionale, dall’essere membro di una squadra ecc.) che intervengono nel modo di diagnosticare la situazione, impostare, organizzare ed eseguire le singole azioni. Oltre alle interazioni sociali dirette (ad esempio, nell’ambito di un gruppo di lavoro) ci si deve riferire a fattori sociali indiretti, in particolare alle convenzioni (sono rappresentazioni sociali dell’azione espresse in forma di istruzioni, raccomandazioni, linee guida, cultura che implicano una conformità al contesto, alla comunità, a modi di pensare condivisi) e alle regole (procedure più formalizzate relative a condotte da seguire o da evitare). In generale, tali dettami rappresentano un fattore di regolazione sociale dell’attività che integra le modalità di autoregolazione del lavoratore. ATTIVITÀ LAVORATIVA TRA COMPITI PRESCRITTI E COMPITI REALI Per comprendere l’attività lavorativa e le prestazioni del lavoratore non ci si può limitare a considerare quanto esse siano conformi alla struttura dei compiti richiesti. C’è infatti una differenza fra i compiti prescritti dall’azienda e l’attività lavorativa reale svolta dal lavoratore per raggiungere i concreti obiettivi del servizio. I COMPITI PRESCRITTI sono indicazioni formali che esprimono le richieste lavorative alle quali il lavoratore dovrebbe rispondere con la sua attività. Essi concernono gli obiettivi da raggiungere, i mezzi e le procedure da usare, la divisione dei compiti tra vari operatori, i tempi da rispettare, gli esiti attesi e i ricavi presumibili, le condizioni esterne entro cui operare. In un contesto di lavoro reale, l’attività lavorativa (le azioni e le operazioni) di un lavoratore raramente replica meccanicamente tali indicazioni e quasi mai può essere definita come semplice esecuzione dei compiti prescritti e ricavata dal loro semplice esame. I COMPITI REALMENTE SVOLTI del lavoratore sono una parte importante delle pratiche lavorative con cui il lavoratore affronta e risolve a suo modo i problemi concreti del lavoro quotidiano. C’è uno scostamento tra compiti prescritti e compiti realmente svolti che risultano dalle reali “pratiche lavorative”, dai “compromessi operativi” attuati dal lavoratore per bilanciare le richieste del lavoro e le esigenze proprie e del gruppo di lavoro. 1) In primo luogo, la ragione della distanza tra compiti prescritti e reali deriva da un alto tasso di variabilità della situazione di lavoro dovuta a: § Imprevisti (o varianze dell’attività) talvolta risolti dal lavoratore in modo più o meno originale; § Variazioni quantitative o qualitative della produzione; § Tentativi di ovviare all’uso di mezzi ritenuti inadeguati o obsoleti con altri tipi di strumenti più adatti; § Creazione di alternative nel modo di procedere per semplificare il lavoro; § Variazione dei tempi di lavoro 35 dimostrare autodisciplina nelle difficoltà; il persistere nel proprio impegno di lavoro anche quando le condizioni esterne non sono favorevoli. Si possono riconoscere due importanti funzioni di questo tipo di condotte: 1) La prima si riferisce al rendere più fluide le relazioni sociali esistenti rafforzandole e diffondendole. Per analizzare questa funzione si possono ricordare altri concetti, in gran parte sovrapponibili alla contextual performance, come i «comportamenti di cittadinanza organizzativa», definiti da caratteristiche come l’altruismo, la coscienziosità, le virtù civiche, la cortesia e lo spirito sportivo o i «comportamenti organizzativi prosociali»; 2) La seconda riguarda in generale le condotte proattive nell’organizzazione (ovvero le condotte che esprimono l’intenzione personale di farsi carico dei problemi che riguardano la propria organizzazione (si ricorda con questo stesso significato il costrutto di personal initiative di Frese). LA PRESTAZIONE ADATTIVA («ADAPTIVE PERFORMANCE») I cambiamenti nelle organizzazioni di lavoro, del modo di produrre beni e servizi, del modo di utilizzare le nuove tecnologie a base informatica e le dinamiche del mercato del lavoro spingono a riconsiderare di continuo la natura della prestazione del lavoratore. Infatti, con l’aumento dell’interdipendenza tra vari aspetti dell’organizzazione e delle forme cooperative con le quali lavorare (ad esempio, gruppi di lavoro e squadre) le dimensioni toccate dalla contextual performance divengono di particolare importanza per conseguire efficienza e qualità della prestazione erogata. Inoltre con l’aumento dell’incertezza, della complessità dei compiti e ruoli, della loro variabilità anche in tempi rapidi (si pensi ai numerosi e continui processi di cambiamento tecnologico, organizzativo e procedurale che toccano aziende private e pubbliche) e con la presenza di lavoratori spesso in mobilità o contingenti, emerge l’esigenza di considerare una ulteriore dimensione della prestazione necessaria per ottenere i risultati previsti sul lavoro, ma non considerata dal modello di Campbell. Ci si riferisce alla PRESTAZIONE ADATTIVA, che si aggiunge alla prestazione di compiti tecnici e a quella contestuale enfatizzando la versatilità dell’agire lavorativo. I suoi elementi tipici sono: § Gestire emergenze e situazioni di crisi: ci si riferisce al mantenimento del controllo emozionale e alla capacità di analizzare rapidamente la situazione e le possibili alternative decisionali scegliendo quelle più appropriate; § Gestire situazioni stressanti: riguarda la ricerca di soluzioni realistiche e costruttive evitando la fuga o il dare la colpa a qualcuno delle difficoltà o del sovraccarico reale o percepito. § Risolvere problemi creativamente: concerne l’attenzione a risolvere problemi nuovi, complessi o mal definiti non applicando le regole conosciute, ma cercando alternative, ricercando informazioni aggiuntive da integrare, uscendo dai parametri di giudizio consueti; § Imparare di continuo nuovi compiti, l’uso di tecnologie e procedure tecniche: in relazione ai processi di cambiamento in atto, le capacità (e possibilità) del lavoratore di programmare il suo apprendimento e di imparare contenuti e metodi nuovi rappresentano non solo una opportunità per autoregolare la propria carriera personale e professionale, ma un modo di anticipare le richieste future del lavoro e di predisporsi a reagire con efficacia ai cambiamenti lavorativi; § Affrontare situazioni lavorative incerte e impreviste: si tratta di essere in grado di orientarsi nelle strategie di risposta anche quando il quadro delle informazioni non è completo. § Dimostrare adattabilità interpersonale: le crescenti forme di collaborazione richieste dal lavoro implicano l’adattamento sistematico dei propri stili di azione a quelli degli altri, la sensibilità nel percepire il corretto andamento delle interazioni sociali, l’attenzione verso scambi costruttivi, la flessibilità nelle comunicazioni con i colleghi, collaboratori e superiori; § Dimostrare adattabilità culturale e valoriale: riguarda la sensibilità nel riconoscere il significato delle crescenti differenze culturali e valoriali nei contesti di lavoro che influenzano le interazioni sociali e le risposte operative. § Dimostrare adattabilità alle diverse situazioni fisico-ambientali: anche l’essere in grado di tollerare le diverse caratteristiche fisiche dell’ambiente (purché ovviamente siano entro i limiti accettabili per non procurare danni) rende possibile un adattamento indispensabile per la prestazione efficace. Le tre grandi determinanti della prestazione che spiegano gran parte delle possibili differenze individuali rispetto al conseguimento dei risultati attesi sono: 36 § La CONOSCENZA DICHIARATIVA riguarda la conoscenza da parte del lavoratore dei fatti lavorativi, dei principi che regolano le azioni e le operazioni, degli scopi delle attività e delle proprie caratteristiche e qualità personali. Essa è funzione delle abilità e interessi della persona, della formazione ricevuta, dell’esperienza lavorativa. § La CONOSCENZA PROCEDURALE e le SKILLS si riferiscono al «saper come fare» una certa attività e, dunque, sono chiamate in causa le skills psicomotorie, cognitive, fisiche, interpersonali e di gestione del self. Anch’esse derivano dalla storia personale del lavoratore, dalla sua formazione, dalla socializzazione lavorativa e dall’esperienza. § Le MOTIVAZIONI LAVORATIVE determinano la prestazione, soprattutto le scelte di impegnare energie nel lavoro, di definire a quale livello impegnarsi e quanto persistere nello sforzo. In questo caso hanno una notevole influenza sulle motivazioni sia aspetti legati alla personalità sia soprattutto fattori di attrazione e autoregolazione presenti nel contesto di lavoro VARIAZIONE DELLA PRESTAZIONE È osservazione di senso comune che la prestazione di un lavoratore possa subire delle variazioni nel corso del tempo. Queste variazioni possono essere di segno positivo o di segno negativo. Le VARIAZIONI POSITIVE sono spesso connesse ai processi di apprendimento sul lavoro e all’efficacia del progressivo processo di socializzazione lavorativa. Per quanto riguarda il workplace learning si deve sottolineare che esso è connesso con gli incontri, le persone, la comunità professionale, le regole, le culture di un concreto contesto e con le opportunità di sperimentare se stessi mediante gli strumenti di lavoro usati per raggiungere gli scopi assegnati. La partecipazione concreta alla vita della comunità lavorativa (colleghi, collaboratori, capi ecc.) e il fare esperienza dei suoi modi di pensare e di agire on the job facilitano cambiamenti nella struttura cognitiva (ampliamento e organizzazione delle conoscenze dichiarative e procedurali, sviluppo delle skills) e motivazionale che si ripercuotono sulle diverse dimensioni della prestazione. In particolare, man mano che si diventa esperti e si è socialmente ben inseriti: a) Si riduce la necessità di un controllo «passo dopo passo» delle azioni, di ricercare sostegni nella conoscenza dichiarativa e di valutare la quantità di risorse cognitive da usare (ad esempio, attenzione); b) Inoltre, le azioni divengono più rapide e in parte automatiche; c) Acquista un peso prioritario la conoscenza procedurale e si esprimono nuove capacità (di rappresentazione del compito, di pianificazione, di valutazione delle alternative, di definizione delle priorità, di sensibilità verso la soluzione dei problemi, di monitoraggio di sé e della situazione ecc.) che riducono i tempi di realizzazione, le inefficienze, i rischi di errore e, in generale, facilitano il miglioramento della prestazione. Per quanto riguarda le VARIAZIONI NEGATIVE, ovvero i decrementi nelle prestazioni, importante è il costrutto di “carico di lavoro mentale”, che riguarda il costo complessivo che il lavoratore paga per mantenere un buon livello di prestazione. Nel concetto di carico di lavoro si considerano vari elementi: § Il tipo di richieste imposte dal compito (complessità, frequenza); § Il livello di prestazione raggiunta (grado di precisione, eventuali errori); § Il livello di sforzo del lavoratore e le sue percezioni di sentirsi sovra o sottocarico. Il lavoratore ha a disposizione una quantità limitata di risorse mentali e quando le richieste sono sproporzionate, in eccesso o troppo basse, sperimenta una condizione rispettivamente di sovraccarico o di sottocarico che influenza negativamente la prestazione e, a lungo andare, diviene antecedente della fatica e un ulteriore fattore stressante. In concreto, però, il carico di lavoro e le sue variazioni dipendono dall’interazione tra le richieste obiettive del lavoro e le abilità, skills e risorse cognitive e motivazionali dell’individuo. Infatti, si è ipotizzato un sistema di protezione della performance fondato sull’autoregolazione compensatoria da parte del lavoratore. In primo luogo, si è osservato che, nel lavoro reale, vi è una notevole resistenza al decadimento della prestazione per i compiti primari (cioè prioritari e centrali per conseguire gli scopi della prestazione), anche perché essi sono significativi per il lavoratore, sono svolti in pubblico rispettando delle regole condivise, richiedono le competenze che il lavoratore possiede e il lavoratore esperto sa di poterli svolgere bene. In secondo luogo, nel caso in cui emergano rischi per il mantenimento di un buon livello di 37 prestazione ed essa sia percepita come importante, si attivano circuiti di feedback, in parte automatici e in parte volontari, in grado di far utilizzare risorse personali aggiuntive (tenute di riserva) per correggere la situazione e riportarla ad uno standard accettabile. Sono state individuate tre principali strategie di risposta compensatoria più o meno costose ed efficaci: 1) Aumento dello sforzo (engagement), sostenuto dall’entusiasmo, dal desiderio di ottenere il risultato atteso e da una riserva di energie per le situazioni impreviste. 2) Ritiro dell’impegno (disengagement) in una parte delle attività (quelle secondarie) o abbassando il livello di velocità e accuratezza. In questo caso si ha, comunque, un decremento qualitativo o quantitativo della prestazione. 3) Sopportare lo stress (strain mode). Ci si riferisce all’impegno diretto a superare gli ostacoli per mantenere gli obiettivi della prestazione. Vengono utilizzate tutte le risorse cognitive e comportamentali disponibili con il rischio di forte affaticamento e di subire effetti stressanti non solo nel contesto lavorativo. Lo sforzo di mantenersi concentrati, mediante varie strategie, sulla realizzazione dei compiti primari può però condurre alla perdita di efficienza in altre dimensioni della prestazione. I compiti secondari (percepiti come meno centrali per la prestazione) risentono direttamente della scarsa disponibilità di energie e di risorse usate per quelli primari e rischiano di degradare per primi. ANALIZZARE IL LAVORO: APPROCCI E STRUMENTI L’ANALISI DEL LAVORO può essere definita genericamente come processo di raccolta e valutazione delle informazioni sui comportamenti lavorativi, sugli strumenti usati in una data posizione di lavoro e sul contesto lavorativo. Con i cambiamenti in atto e l’alta variabilità del lavoro cresce l’importanza dell’analisi del lavoro. Inoltre, l’analisi del lavoro ha un valore strategico in due sensi: 1) Permette non solo di evidenziare e specificare la natura dei compiti lavorativi attuali, i dosaggi delle task, contextual e adaptive performance e i tipi di competenze necessarie per svolgerli, ma di acquisire tali informazioni anche rispetto ai compiti che stanno già cambiando o che, con ragionevole probabilità, si prevede che cambieranno. 2) Diventa l’occasione per i vari attori, e soprattutto per i lavoratori interessati, per riflettere su quello che fanno, per valutare meglio la loro situazione (ad esempio, il grado di corrispondenza del lavoro con le loro attese, interessi, desideri e progetti futuri) e per cercare di contribuire al cambiamento della loro attuale condizione sulla base dell’esperienza e della conoscenza diretta del loro lavoro. FUNZIONI DELL’ANALISI DEL LAVORO Le aree funzionali direttamente toccate dall’analisi del lavoro sono: 1) Politiche di personale, come ad esempio: • Selezione del personale • Valutazione delle prestazioni • Definizione di un sistema corretto di pianificazione del personale 40 Ø La sicurezza dipende dalla caratteristica degli impianti e delle macchine, ma anche dall’adozione di corretti procedimenti di lavoro. Ø La sicurezza è garantita se viene curata la formazione e sensibilizzazione del personale in materia di sicurezza. Per quanto riguarda le responsabilità ci sono varie figure: v Il DATORE DI LAVORO, secondo il Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, è titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, si deve intendere il soggetto che a seconda dell’organizzazione aziendale che dirige, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Egli deve assolvere agli adempimenti previsti, ha quindi l’obbligo di evitare che probabili e possibili pericoli dovuti all’esercizio della sua attività, possano tradursi in rischi per i lavoratori che vengono assunti per il compimento di tale attività, i quali però non decidono i criteri per portarla a termine, poiché il potere organizzativo spetta solo al datore di lavoro. Il datore di lavoro, cioè, organizza l’attività di impresa per portare a termine il lavoro che dovranno svolgere i dipendenti, i quali si devono attenere a quanto viene loro richiesto, ma nel fare questo il datore di lavoro ha l’obbligo di salvaguardare l’integrità psicofisica dei lavoratori eliminando o cercando di ridurre al massimo i rischi che possono procurare dei danni a questi soggetti. v Il DIRIGENTE è colui che attua le direttive del datore di lavoro, assomma in sé poteri, funzioni e responsabilità tali da poter esser definito l’alter ego del datore di lavoro. Il dirigente ai fini della sicurezza non deve essere confuso con l’omonima posizione contrattuale. Egli è un lavoratore subordinato, che ricopre un ruolo decisionale, organizzativo e direttivo. L’effettività del ruolo prevale sull’inquadramento contrattuale. Opera su delega conferita dal datore di lavoro. v Il PREPOSTO è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive senza il potere/obbligo di predisporre mezzi e strutture. Egli non assume una specifica posizione di garanzia (né esclusiva, né concorrente con il datore di lavoro), bensì un ruolo ausiliario rispetto al datore di lavoro, con l’obbligo di segnalargli tempestivamente sia le deficienze dei mezzi, delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta. Inoltre ha l’obbligo d’intervenire dove vi siano comportamenti non conformi o deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro, se necessario, interrompere temporaneamente l’attività e, comunque, segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità rilevate. Opera su virtù di delega conferita dal datore di lavoro. v Il RESPONSABILE DEL SERVIZIO PREVENZIONE E PROTEZIONE (RSPP), si occupa di: § Individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale; § Elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive e i sistemi di controllo di tali misure; § Elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali; § Proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori; § Partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica; § Fornire ai lavoratori le informazioni necessarie. In alcune aziende, a seconda delle dimensioni o della tipologia, il RSPP può essere affiancato da altri soggetti, gli Addetti al Servizio di Prevenzione e Protezione (ASPP), e anche queste figure professionali 41 devono avere delle caratteristiche tecniche specifiche per poter svolgere questo ruolo e aiutare il responsabile nel coordinamento del servizio di prevenzione e protezione dei rischi. v Il RAPPRESENTANTE DEI LAVORATORI PER LA SICUREZZA (RLS) ha il compito di "rappresentare (e tutelare) i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro" (art.2, lett. f, del d. Lgs. n. 626/94). Le sue funzioni non possono assimilate o confuse con quelle del preposto, chiamato a svolgere un ruolo di sorveglianza circa il rispetto delle norme antinfortunistiche da parte dei lavoratori. L’ RLS può in sostanza avvertire il lavoratore in merito agli obblighi concernenti la sicurezza e alle eventuali sanzioni a cui può andare incontro, ma non sarà certo tenuto a richiedere l’osservanza dei comportamenti dovuti né tanto meno potrà essere considerato responsabile riguardo ad essi. Ad esempio: § Accede ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni; § È consultato preventivamente e tempestivamente in ordine alla valutazione dei rischi, alla individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell'azienda ovvero unità produttiva; § Formula osservazioni in occasione di visite e verifiche effettuate dalle autorità competenti; § Partecipa alla riunione periodica in materia di salute e sicurezza sul lavoro; § Fa proposte in merito all'attività di prevenzione. v Ogni LAVORATORE deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. Il lavoratore, deve quindi: § Contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all'adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro; osservare le disposizioni impartite; utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro. § Utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e preparati pericolosi, i mezzi di trasporto nonché i dispositivi di sicurezza; § Utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione; § Segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente e al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi di cui sopra nonché le eventuali condizioni di pericolo adoperandosi nell’ambito delle proprie competenze e possibilità per eliminare o ridurre tali pericoli. Cii sono diversi APPROCCI ALLA SICUREZZA: § L’approccio ingegneristico-ergonomico è finalizzato a prevenire incidenti e comportamenti insicuri operando su tecnologie e interazione persona-macchina. § L’approccio centrato sulla gestione delle risorse umane prevede interventi mirati a selezionare e formare le persone in modo da evitare il più possibile condotte insicure. § L’approccio motivazionale è diretto a far cambiare atteggiamenti e comportamenti delle persone soprattutto per quanto concerne la percezione del rischio e la violazione di norme. § L’approccio della cultura della sicurezza considera, ad esempio, il ruolo dei leader (manager, supervisori) nel diffondere e far rispettare la sicurezza nei luoghi di lavoro. § L’approccio del clima di sicurezza prende in considerazione il modo in cui le persone percepiscono il funzionamento collettivo di una organizzazione (gruppi, reparti, uffici) in rapporto alla sicurezza. TASSONOMIA DEGLI ERRORI UMANI Lo studio degli errori umani può costituire un importante percorso per risalire alla piena comprensione degli incidenti nei luoghi di lavoro. Il modello di Reason considera errori e intenzioni come due concetti inscindibili. Per capire i primi è necessario cogliere il livello di intenzionalità degli atti. La tassonomia degli errori si basa in primo luogo su una distinzione generale tra: § ATTI NON INTENZIONALI, cioè privi di pianificazione da parte degli individui; 42 § ATTI INTENZIONALI, cioè conseguenti una pianificazione da parte dell’agente. COMPORTAMENTO NON INTENZIONALI I comportamenti senza intenzioni o che non rispettano le intenzioni o che non eseguiti seguendo le intenzioni, a loro volta, sono distinti in due categorie a seconda della loro natura: v Sviste o disattenzioni (SLIPS): il lavoratore sa come dovrebbe eseguire un compito ma inavvertitamente lo esegue in maniera non corretta. Un esempio di slip è un fallimento dell’attenzione, come quando viene premuto accidentalmente il tasto sbagliato di un’apparecchiatura o viene letta in modo errato una dicitura. Si parla quindi di sviste, disattenzioni, deviazioni dal corso di azione previsto. v Dimenticanze (LAPSES): si concretizzano in dimenticanze, omissioni, come per esempio, per un infermiere, dimenticare di somministrare un farmaco, dimenticare di trasmettere le consegne ad un collega. Si parla quindi di dimenticanze, errato recupero dati in memoria, cadute attentive. I comportamenti «non sicuri» dovuti ad atti non intenzionali (slips e lapses) sono riferiti solitamente a malfunzionamento cognitivo e costituiscono dei fallimenti di esecuzione di un compito. Derivano da errori di riconoscimento, cadute di attenzione, sviste, errata memorizzazione, malfunzionamento degli automatismi comportamentali e altri processi cognitivi che possono compromettere l’adeguato svolgimento di sequenze di azioni pianificate. Tali atti non intenzionali sono perlopiù presenti in compiti di tipo routinario, molto familiari e basati sull’uso di competenze elementari e di processi cognitivi automatici. Un esempio piuttosto frequente è riferito alle cosiddette dimenticanze dopo una interruzione. Anche il sovraccarico di lavoro può essere considerato un importante predittore di disattenzioni e dimenticanze. COMPORTAMENTI INTENZIONALI I comportamenti intenzionali si articolano anch’essi in due sottocategorie: v SBAGLI (MISTAKES): l’incidente o l’errore è provocato da un’azione guidata da un’intenzione non appropriata. L’errore è prodotto da un’intenzione errata che genera un’azione anch’essa sbagliata. La discrepanza si registra tra intenzione originaria e conseguenze del comportamento. Gli sbagli possono essere due tipi: • Errori rule-based: quando non vengono applicate le adeguate regole di soluzione. Si manifestano principalmente in compiti di problem solving. Un esempio può essere riferito all’errata interpretazione di un segnale di allarme antincendio: se suona l’allarme, allora è in corso un’esercitazione invece di: se suona l’allarme, allora vi è una situazione di pericolo. • Errori knowledge-based: quando non vengono applicate le conoscenze. Sono dovuti a limiti conoscitivi associati al compito e a circostanze impreviste e non familiari (conoscenze e competenze insufficienti per affrontare il compito). Avvengono quando un nuovo problema viene gestito senza un’adeguata analisi o perché la qualità delle soluzioni adottate non è verificata in modo completo o, infine, perché vi è una elevata fiducia del decisore nei propri mezzi. v VIOLAZIONI (VIOLATIONS): l’incidente o l’errore è provocato da un comportamento deliberatamente adottato non congruente a istruzioni, norme e codici. È una fattispecie di errore molto diffusa, spesso causa di incidenti. Nella quotidiana esperienza di circolazione nel traffico, possiamo vedere le violazioni a elementari misure di sicurezza (circolazione senza casco o senza fanale della bicicletta; 45 Come si può notare, il clima di sicurezza costituisce una dimensione soggettiva, una operazione di «sense making» da parte dei singoli membri dell’organizzazione. È il prodotto di una interpretazione del contesto da parte del lavoratore. Tale interpretazione non è individuale, ma ha un carattere condiviso con altri. Seguendo Weick, si può parlare della costruzione sociale di un clima di sicurezza, grazie al contributo dei vari attori in gioco: istituzioni organizzative, management, quadri intermedi, lavoratori, organismi di rappresentanza. In tal senso, il clima di sicurezza non va considerato come la semplice sommatoria di tante percezioni individuali. È invece la proprietà emergente che caratterizza gruppi, comunità di lavoro o altre unità sociali «naturali». Gli elementi da analizzare per studiare la percezione da parte dei lavoratori del clima di sicurezza in una organizzazione sono: • Atteggiamenti della direzione in ambito sicurezza; • Pratiche di gestione delle risorse umane; • Livello di rischio considerato accettabile; • Processi interni ai gruppi di lavoro orientati alla sicurezza; • Relazioni tra gruppi; • Pressione e ritmi di lavoro. Zohar (1980) descrisse il clima di sicurezza come "l'insieme molare/composito e unificato di cognizioni [detenute dai lavoratori] riguardo agli aspetti di sicurezza della loro organizzazione". Ovvero, una forma specifica di clima organizzativo basata sulla valutazione degli individui delle loro esperienze di sicurezza nell'ambiente di lavoro. Le percezioni sono condivise tra gli individui. Questa condivisione significa che il clima è una proprietà collettiva dei gruppi. La natura condivisa di questa percezione è fondamentale per distinguere il clima di sicurezza da altri costrutti di sicurezza come gli atteggiamenti personali verso la sicurezza, anche se entrambi sono basati su percezioni individuali. Le percezioni del clima di sicurezza sono caratterizzate come intrinsecamente descrittive e cognitive con riferimento alle caratteristiche osservabili della sicurezza organizzativa così come sono vissute dai dipendenti nelle loro interazioni quotidiane. CLIMA VS. CULTURA DELLA SICUREZZA: quest’ultima si riferisce ai presupposti e ai valori sottostanti che guidano il comportamento nelle organizzazioni piuttosto che alle percezioni dirette degli individui. Una differenza fondamentale, quindi, è la maggiore accessibilità del clima di sicurezza alla valutazione consapevole rispetto ai processi più impliciti della cultura della sicurezza. Le misure del clima di sicurezza forniscono un'istantanea dello stato di sicurezza fornendo un indicatore della cultura della sicurezza sottostante di un gruppo di lavoro, impianto o organizzazione. Nonostante queste differenze, entrambi i costrutti sottolineano il modo in cui la sicurezza viene valutata e aiutano a spiegare i processi attraverso i quali il significato attribuito alla sicurezza in un'organizzazione influenza i risultati della sicurezza. LA PRESTAZIONE SICURA: INDICAZIONI DALLE RICERCHE La PRESTAZIONE SICURA fa riferimento ad azioni e comportamenti che gli individui esibiscono nello svolgimento del proprio compito finalizzati a promuovere sicurezza e benessere dei lavoratori, dei clienti, del pubblico e dell’ambiente. La prestazione sicura rappresenta una qualificazione dei processi e degli esiti della prestazione in generale. Essa comprende: § Safety compliance: una serie di attività individuali riferite all’osservanza di norme e procedure di sicurezza; § Safety participation: una serie di comportamenti organizzativi attivi per migliorare le condizioni di sicurezza. E IL LAVORATORE? Destinatario passivo di formazione e di conoscenza Oppure Co-protagonista delle dinamiche della sicurezza. ”I lavoratori devono osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale” → Le disposizioni e le istruzioni non potranno mai 46 coprire tutte le possibili situazioni operative. Per questo la formazione deve sviluppare non solo competenze tecniche, ma anche competenze non tecniche (chiamate anche soft skills o competenze trasversali le come si percepisce, si valuta, si decide e specialmente, come ci si relaziona in materia di sicurezza). NTS: Sono competenze cognitive, sociali e personali, complementari alle competenze tecniche dei lavoratori, che contribuiscono all’ attivazione di performance lavorative sicure ed efficaci (Flin, 2003). Le NTS sono: consapevolezza situazionale, competenze comunicative, competenze decisionali, lavoro in gruppo, leadership e fronteggiare la fatica e lo stress. COSTI E RICAVI DEL LAVORO MODELLO DI LEPLAT E CUNY Leplat e Cuny creano un modello secondo il quale: 1) Nel primo livello troviamo tre classi di determinanti: § Le richieste fatte dall’organizzazione al lavoratore (per quanto riguarda compiti, responsabilità, obiettivi; § Le risorse psico-professionali che il lavoratore è in grado di mettere in atto (grazie alle sue aspettative, capacità e interessi); § Le condizioni di esecuzione (strumenti a disposizione, ambiente sociale e professionale dove il lavoratore si trova ad agire); 2) Tutto ciò va a determinare i comportamenti che si trovano al secondo livello: non tutti questi però, come indica Motowidlo, rientrano nella performance. Sono da considerarsi solo quelli che hanno un valore atteso per l’organizzazione. 3) Nel terzo livello si trovano le conseguenze in ottica della persona (ad esempio retribuzione, soddisfazione o stress) ed in ottica dell’organizzazione (ad esempio risultati conseguiti in termini di qualità che un dipendente eroga). GLI ESITI DEL LAVORARE: Gli esiti del lavorare possono essere sia esiti positivi, desiderati (come ad esempio la soddisfazione), sia esiti negativi (ad esempio lo stress). Tali esiti, positivi e negativi, in realtà non sono separati ma sono spesso intrecciati tra loro, retro-agiscono, si correlano e influenzano la regolazione delle condotte del lavoratore. LA SODDISFAZIONE LAVORATIVA La SODDISFAZIONE lavorativa è un atteggiamento favorevole verso il lavoro che, nella sua componente emozionale, considera un vissuto generale di appagamento, con emozioni piacevoli per il lavoro svolto o che si sta facendo e, nella sua componente cognitiva, esprime un giudizio relativamente favorevole sul bilancio tra costi e ricavi dell’attività svolta. La domanda «Tutto sommato, quanto è soddisfatto del suo lavoro?» costituisce uno stimolo semplice, ma che fa emergere una valutazione globale (overall satisfaction). Il concetto di soddisfazione lavorativa è stato usato con grande frequenza per riconoscere aspetti qualitativi dell’esperienza lavorativa partendo, però, da PRESUPPOSTI TEORICI differenti: v MODELLO di DISCREPANZA: La soddisfazione lavorativa deriva dalla mancanza di discrepanze tra le percezioni del lavoro attualmente svolto (della sua natura, qualità ecc.) e alcuni stati psicologici come i bisogni, i valori, le aspettative, le credenze su ciò che si ritiene giusto e corretto. In concreto, la soddisfazione deriva da un confronto tra ciò che il lavoro offre realmente e ciò che le persone desiderano ottenere, o si aspettano di ottenere o riterrebbero giusto ottenere dal lavoro. v MODELLI DISPOSIZIONALI e di PERSONALITÀ: Le molte differenze individuali nella soddisfazione lavorativa risultano connesse, a parità di condizioni lavorative, a caratteristiche della persona come il self (alta stima di sé, autoefficacia, locus of control interno risulterebbero antecedenti della soddisfazione); la capacità di tollerare lo stress; atteggiamenti generali verso la vita; un basso livello di neuroticismo. Locke e Latham, ad esempio, si soffermano sul ruolo di una elevata self-efficacy nella genesi della soddisfazione per il lavoro. Inoltre, l’affettività negativa, vista come un tratto personale che ha una certa stabilità nel tempo, assume un peso rilevante nel far percepire l’esperienza lavorativa come poco soddisfacente. Le persone con elevata affettività negativa (e pessimistica) 47 tendono a sovrastimare gli elementi di minacciosità ambientale, a percepire in maniera negativa le richieste e le varie circostanze lavorative, a provare sentimenti di preoccupazione e di ansia, a trovarsi più frequentemente in condizioni di tensione e stress. v MODELLI SITUAZIONALI: Le caratteristiche della situazione lavorativa (e in particolare le varie componenti del lavoro che hanno una rilevanza per la persona) risultano differentemente valutati dai lavoratori come possibile fonte di soddisfazione. Naturalmente, è quasi impossibile fare una lista completa degli aspetti del lavoro che possono influenzare la soddisfazione. Ci limitiamo a ricordare, come esempio, il Job Characteristic Model di Hackman e Oldham che basa le motivazioni al lavoro sulla soddisfacente relazione tra la persona e cinque tipi di caratteristiche di un lavoro ben progettato e per ciò stesso attraente e motivante: la varietà, il grado di autonomia, lo svolgere attività significative, dotate di un’identità e il feedback ricevuto per quanto viene effettuato. Altri aspetti situazionali come il reddito, la sicurezza e stabilità del posto e la qualità delle condizioni fisico- ambientali sono stati considerati come importanti antecedenti della soddisfazione. SODDISFAZIONE E REDDITO: Il lavoro è una situazione di scambio concreto di energie, di tempo, di impegni in cui gioca un ruolo centrale la contropartita materiale offerta dall’organizzazione: la retribuzione concreta espressa in forma diretta (lo stipendio) o indiretta (promozioni, modalità pensionistiche e assicurative, partecipazione agli utili). Le modalità con cui la retribuzione del lavoro viene effettuata (oltre che il suo ammontare) rappresentano una parte consistente del sistema premiante che caratterizza una organizzazione. Tale sistema ha l’obiettivo di attrarre, motivare l’ingresso, rafforzare la permanenza e la presenza attiva sul lavoro delle persone, sostenere la loro produttività, incentivare la loro appartenenza organizzativa, ridurre le occasioni di uscita precoce alla ricerca di alternative, facilitare un clima di relazioni sociali positive ecc. Gli effetti principali della distribuzione di ricompense tangibili sono abbastanza chiari e persino ovvi: l’aumento di tali ricompense migliora le condizioni di vita, gli stili di consumo, la gestione del tempo libero, il prestigio sociale. Quando la distribuzione di tali ricompense non corrisponde a criteri di equità e viene percepita un’incrinatura nella traduzione pratica dei principi di giustizia procedurale, distributiva e relazionale, è assai probabile che anche il livello di soddisfazione tenda a diminuire. SODDISFAZIONE LAVORATIVA E PRESTAZIONE: La relazione tra soddisfazione lavorativa e prestazione risulta influenzata da numerosi fattori, come ad esempio i mezzi, le condizioni di lavoro e gli scopi dell’attività. Il legame è forte: § Quando non vi è troppa pressione a ottenere elevati rendimenti; § Quando vi è volontà e competenza del lavoratore; § Quando vi è un sistema esplicito di distribuzione degli incentivi salariali; § Quando il lavoro fatto ha un notevole valore anche organizzativo; § Quando vi sono opportuni riconoscimenti esterni. SODDISFAZIONE E EMOZIONI LAVORATIVE: Le emozioni vissute dal lavoratore e il suo stato dell’umore sono considerate predittori della soddisfazione globale. Le emozioni positive sono una risorsa importante che determina diretti vantaggi motivazionali, di arricchimento del pensiero e di benessere soggettivo, ma anche le emozioni negative (così come quelle positive) svolgono una funzione adattiva. Ad esempio, un’emozione negativa come la rabbia può indurre comportamenti impulsivi inopportuni, ma un’altra emozione altrettanto negativa come la paura può invece facilitare atteggiamenti e condotte più guardinghe di fronte a un potenziale rischio lavorativo. Un caso particolare del legame tra soddisfazione ed emozioni riguarda il modo con cui, a livello organizzativo, vengono elaborate e gestite le emozioni. Ci si riferisce alla regolazione delle emozioni con il cosiddetto lavoro emotivo che viene svolto dalla persona per corrispondere alle attese, regole e prescrizioni emotive tipiche dell’organizzazione in cui lavora. La ricerca ha mostrato che vi sono due principali strategie di gestione: § Le strategie superficiali («surface acting») si riferiscono al cambiamento dell’espressione delle emozioni senza cercare di modificare ciò che si prova veramente. Specialmente nel lavoro dei servizi educativi, sociali o sanitari e nei lavori di front-office le modalità di manifestazione delle emozioni rispondono a regole abbastanza precise e il lavoratore che si adatta a tali regole dovrà esprimerle 50 lavorativi e un’efficace risposta alle richieste situazionali. Inoltre, va considerata la facilitazione nei rapporti di cooperazione tra i lavoratori che si traduce in migliori prestazioni di gruppo e per l’organizzazione. FATICA FISICA, MENTALE ED EMOTIVA I lavoratori sono da sempre soggetti a varie forme di fatica in relazione al tipo e alla quantità di richieste lavorative, ai tempi e ai ritmi di lavoro, alle scadenze assegnate, alle condizioni fisiche, tecniche e organizzative in cui operano. v La FATICA FISICA risulta sostanzialmente di tipo muscolare e connessa con richieste lavorative di carattere psicomotorio. Essa è dovuta al consumo delle riserve di energia e all’accumulo di sostanze catabolitiche, con necessità di reintegrazione mediante il riposo e il sonno. La fatica fisica è tipica del lavoro prevalentemente manuale, tuttavia anche lavori impiegatizi, di concetto e manageriali sono toccati da questo tipo di fatica, soprattutto quando si lavora sino a tardi e si intacca il ritmo veglia- sonno o si deve viaggiare di frequente in aereo attraversando diverse time-zone. v La FATICA MENTALE può essere definita come un processo che conduce al decremento della performance e alla modifica dello stato emotivo della persona. Si presenta dopo un periodo consistente di lavoro in risposta a richieste di natura cognitiva, emotiva e relazionale, che implicano, ad esempio, un «sovraccarico di lavoro». v In stretta connessione con la fatica mentale si parla specificamente di FATICA EMOTIVA quando sono messi in primo piano i processi di elaborazione e gestione delle emozioni attivate dal lavoro. La fatica emotiva è particolarmente collegata al lavoro emotivo e a quelle situazioni che comportano un’intensa attività di relazione con le persone (ad esempio, nei lavori di servizio educativo o sociosanitario) e di adattamento psicosociale come nei casi di forte cambiamento organizzativo, di downsizing, di conflitto interpersonale e di gruppo. In ogni caso, soprattutto nella situazione di fatica mentale, vanno considerate due caratteristiche tipiche: 1) Un decremento delle capacità di lavoro e delle prestazioni lavorative; 2) Un’esperienza soggettiva di disagio e avversione per l’attività, una tendenza a ridurre la spinta a continuare il lavoro e a cercare il riposo. EFFETTI DELLA FATICA: I sintomi della fatica mentale si esprimono a vario livello: come difetti nelle regolazioni dell’omeostasi tra l’organismo e l’ambiente, difetti nei processi cognitivi di progettazione, organizzazione ed esecuzione dell’azione, e perdita di stabilità dei fattori che motivano, dirigono l’azione e la fanno persistere sino al risultato atteso. In particolare, la fatica mentale si esprime mediante l’interferenza su vari subsistemi cognitivi: § La percezione, riduzione dei movimenti oculari, della discriminazione dei segnali, della soglia percettiva; § L’elaborazione dell’informazione, allungamento dei tempi di reazione e di decisione, incertezza decisionale, aumento della disattenzione, adozione di strategie di risposta rischiose, disturbi nel movimento e nei gesti per difetti di coordinamento sensomotorio; § La memoria, difficile memorizzazione, difetti nel richiamo delle informazioni presenti nella memoria a breve termine, ritardi nel deposito delle informazioni nella memoria a lungo termine, disturbi nei processi di ricerca delle informazioni. Quando si analizza una situazione lavorativa concreta occorre ricordare che non sempre la fatica è associata al decremento delle prestazioni. Esso si determina solo se non esiste la possibilità di compensare in qualche modo l’attuale carenza (la compensazione prevede, ad esempio, aumento del livello di attivazione, aumento temporaneo dello sforzo, modificazione del tipo di attività, uso di caffè o farmaci ecc.). La compensazione da parte del lavoratore si realizza in genere quando esistono forti spinte motivazionali che 51 per un certo tempo permettono il mantenimento del livello di attività mascherando, ma non eliminando, lo stato di fatica (con possibili effetti peggiorativi nel periodo successivo). NOIA E SATURAZIONE LAVORATIVA: La NOIA è una condizione vicina alla fatica mentale, caratterizzata dalla percezione di stare in un contesto cupo, tedioso, povero di stimoli con attività ripetitive e con cicli temporali di lavoro brevi, che si susseguono senza sosta. Essere annoiato significa vivere uno stato affettivo insoddisfacente, di bassa attivazione psicofisica, con tratti di tristezza, vissuti di solitudine e facile distraibilità. La noia è connessa a compiti troppo semplici, ripetitivi, poco stimolanti e poco stimolanti. Tuttavia, molto dipende da come essi vengono percepiti e interpretati dalla persona e dalle implicazioni emotive che essi determinano. Infatti, vedersi situato in un contesto povero di stimoli influenzerà la valutazione della persona in termini di disinteresse e di ridotto attaccamento affettivo. Si sono considerate anche alcune differenze individuali nell’esperienza di noia: si è visto che alcune persone necessitano di maggiori stimoli (ad esempio gli estroversi) per mantenere il loro livello di attivazione e dunque vanno più facilmente incontro a esperienze di noia. Tra le caratteristiche disposizionali capaci di influenzare tale stato psicologico si è considerata la cosiddetta suscettibilità o predisposizione alla noia. La noia ha effetti come la riduzione dell’efficienza e della produttività, l’insoddisfazione, l’aumento di manifestazioni ansioso-depressive e la riduzione del benessere. L’esperienza di noia giustifica anche condotte disfunzionali e controproducenti per cercare di ristorarsi o ammazzare il tempo. Ci sono molti tipi di lavoro che si caratterizzano per la ripetitività delle mansioni e dei compiti specifici: che succede alla fine della giornata? Non solo si è stanchi, ma ci si può sentire sazi del lavoro che si fa, quasi nauseati: le nostre energie sono state più o meno rapidamente saturate e non ci sentiamo di fare altro. A questo proposito si parla di SATURAZIONE o SAZIETÀ LAVORATIVA (mental satiation). Essa può intendersi come una variante tipica della fatica mentale che fu studiata già negli anni Trenta come espressione della perdita di valore (e di attrattività) del lavoro che si fa. La saturazione lavorativa è una conseguenza abbastanza veloce di un lavoro ripetitivo, monotono e con scarse valenze affettive che si esprime con vissuti emotivi di apatia, irritabilità e avversione per i compiti. Seppure tale condizione non sia particolarmente studiata si ipotizza che entrino in gioco due tipi di processi: § Il primo di natura motivazionale (perdita della motivazione intrinseca ad agire), § Il secondo di natura volitiva (mancanza di volontà ad agire) con sentimenti di avversione per i compiti e irritabilità. LINEE DI PREVENZIONE DELLA FATICA MENTALE: Sia le prospettive di correzione sia, soprattutto le possibilità di prevenzione del rischio di eccessiva fatica si collegano a una valida progettazione (o riprogettazione) del lavoro. Ciò anche per rendere meno rilevante il ruolo dei fattori personali che pure intervengono nel differenziare le risposte individuali al carico lavorativo. In tal senso le linee di intervento riguardano: § Il design dei posti e della struttura dei compiti (precondizioni di apprendimento, varietà dei compiti, autonomia, significatività, presenza di feedback ecc.); § Il miglioramento della compatibilità tra richieste lavorative e capacità cognitive e competenze della persona (ad esempio, riduzione delle ambiguità dei segnali, delle esigenze di memorizzazione e di richiamo ecc.); § Il miglioramento del coordinamento tra attività; § Il miglioramento nella distribuzione delle pause durante la giornata lavorativa (ad esempio, aumento delle pause brevi rispetto a quelle lunghe che hanno un minore effetto compensatorio); 52 § La predisposizione di programmi per migliorare il rilassamento e facilitare l’efficacia del riposo e del sonno quando il lavoratore è a casa (ad esempio, interventi sulla flessibilità degli orari di lavoro). CORPORATE SUSTAINABILITY – SUSTAINABLE HUMAN RESOURCE MANAGEMENT Il concetto di SOSTENIBILITÀ AZIENDALE è legato al concetto più ampio di sviluppo sostenibile, che è stato definito come "lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni". Il rapporto tra sostenibilità e gestione delle risorse umane viene indicato come un approccio innovativo ed emergente e un rilevante gap da colmare. L'intersezione tra sostenibilità e gestione delle risorse umane si basa su due presupposti: il ruolo della gestione delle risorse umane nella promozione della sostenibilità organizzativa e la sostenibilità delle processi di gestione delle risorse. In questo senso, le ricerche esistenti hanno avuto obiettivi diversi e si basano su ipotesi diverse sul ruolo delle risorse umane nella sostenibilità. La gestione sostenibile delle risorse umane è definita da approcci metodologici e strumentali i cui obiettivi sono il reclutamento, la formazione, il mantenimento e l’occupazione dei dipendenti orientati al lungo termine, socialmente responsabili ed economicamente efficienti. L'aumento dell'occupabilità, la garanzia di un armonioso equilibrio tra lavoro e vita privata e il rafforzamento della responsabilità individuale assumono un ruolo importante nel concetto di gestione sostenibile delle risorse umane. La strategia HR sostenibile può essere definita come la gestione delle risorse umane per soddisfare i bisogni ottimali dell'azienda e della comunità del presente senza compromettere la capacità di soddisfare i bisogni del futuro. BENESSERE E STRESS Nei contesti lavorativi, focalizzati su prestazioni, scadenze e consegne, è importante considerare anche la dimensione psicologica, e spostare l’attenzione su concetti come benessere psicologico e la salute mentale e rischi psicosociali, aspetti che possono incidere sull’esperienza lavorativa delle persone e sulle organizzazioni. La promozione del benessere psicologico è uno delle azioni centrali che istituzioni - come l’Unione Europea - stanno portando avanti per favorire la creazioni di ambienti lavorativi psicologicamente sicuri attraverso interventi e strategie mirati e in questo, modo garantire che i lavoratori non solo possano «stare bene» col loro lavoro, ma anche esserne ispirati, trarne crescita, sviluppo e realizzazione. Il concetto di benessere organizzativo è, negli ultimi anni, considerato centrale nello studio e negli interventi legati alla salute dei lavoratori. In passato la salute era considerata l’assenza di malattie e le azioni erano orientate a prevenire l’impatto negativo del lavoro sulla salute mentale delle persone. Attualmente l’attenzione è rivolta a identificare, rafforzare e promuovere le risorse personali e sociali che i lavoratori hanno a disposizione per realizzare il loro potenziale e favorire la motivazione, la soddisfazione e le prestazioni, con ricadute positive anche sulle organizzazioni. Il concetto di benessere organizzativo è, dunque, definito come la qualità generale dell’esperienza lavorativa delle persone. Il concetto di benessere organizzativo può essere legato a diversi aspetti, tanto che ci si può riferire a esso come a un ombrello concettuale. Molte variabili che possono «riflettere» lo stare bene nel proprio lavoro, da un punto di vista psicologico (motivazione, engagement, soddisfazione lavorativa, affettività positiva, felicità) e sociale (relazioni costruttive e supportive, che possono arricchire l’individuo). Un ambiente di lavoro stressante può avere un impatto negativo sulla salute delle persone e delle aziende. I disturbi da stress possono essere di natura: • Psicologica (disturbi del sonno, alterazione dell’umore, riduzione delle capacità attentive e di concentrazione, ansia, depressione), • Fisica (problemi cardio vascolari, diabete, disturbi gastrointestinali) • Sociali (riduzione della qualità delle relazioni interpersonali). Uno scarso livello di benessere psicologico può avere ripercussioni anche sulle aziende (assenteismo, turnover, prestazioni, maggior rischio di infortuni). Lo stress può quindi impattare negativamente sulle persone, le organizzazioni e la società. In linea con le indicazioni europee è stato siglato nel 2004 un importante accordo tra sindacati dei lavoratori e associazioni di categoria dei datori di lavoro (Framework agreement on work-related stress) sul tema dello stress, della sua valutazione e degli interventi migliorativi che sono alla base delle normative dei singoli paesi (per l’Italia tale accordo è stato recepito integralmente nel decreto legislativo 81/2008. 55 e organizzativa (instabile o bloccata), le connessioni tra contesti lavorativi ed extralavorativi e la «job insecurity» (percezioni di incertezza occupazionale e di precarietà connesse alla diffusione di forme contrattuali atipiche). Kaslowsky propone un’interessante modalità di classificazione che differenzia per livello (dell’individuo, delle altre persone o della struttura e del funzionamento organizzativo in generale) i vari stressors lavorativi: STRESSORS INDIVIDUALI dei quali fanno parte tre tipi di fattori di stress: • Gli STRESSORS SOGGETTIVAMENTE PERCEPITI: Essi riguardano: a) la percezione di una situazione stressante senza tener conto di una eventuale corrispondenza punto a punto con specifici attributi oggettivi della situazione stessa; b) la percezione di inadeguatezza dei compensi monetari (come elemento fondamentale dello scambio lavorativo); c) la percezione di ostilità dell’ambiente. • Gli STRESSORS connessi a CARATTERISTICHE OGGETTIVE DELL’OCCUPAZIONE. Sono messe in risalto percezioni di caratteristiche riscontrabili anche oggettivamente. Ci si riferisce: alle modalità di impiego, al tipo di occupazione, al tempo impiegato per recarsi al lavoro, ai frequenti viaggi per ragioni di lavoro e a due speciali life events tipici dell’esperienza lavorativa: il cambiamento di lavoro e il pensionamento. • I JOB STRESSORS in senso stretto. Si concentra su ciò che è più vicino allo spazio psicologico della persona e viene percepito come capace di influenzare le sue condotte lavorative. STRESSORS DI GRUPPO E ORGANIZZATIVI: Non vanno trascurate sia le influenze dirette sia quelle indirette che partono dal contesto sociale e culturale più ampio, dall’organizzazione, dal gruppo di lavoro fino al singolo individuo. Cox, Griffiths e Rial-Gonzales, ad esempio, sottolineano che spesso lavorare in una organizzazione può essere percepito dal lavoratore come una costrizione e una minaccia ai propri progetti e alla propria identità personale e sociale. Ciò sembra verificarsi quando l’organizzazione è percepita in termini negativi rispetto ad esempio alla presenza di procedure arbitrarie e poco trasparenti o a inadeguati stili di direzione. In altri termini, l’organizzazione ha anche questa influenza indiretta sullo stress che si aggiunge a quella diretta, esercitata attraverso i compiti e i ruoli assegnati. Al riguardo, sono stati di frequente dimostrati effetti negativi del clima relazionale e di rapporti interpersonali scadenti; anche lo scarso sostegno sociale è collegabile a maggiori livelli di ansia, esaurimento emotivo, tensione e scarsa soddisfazione, cioè a chiari sintomi di strain Sono poi da ricordare i cambiamenti tecnologici. Essi diventano fonte di stress soprattutto quando non sono progettati e attuati con cura; in questi casi risultano evidenti le percezioni di minaccia e le preoccupazioni dei lavoratori per la loro scarsa conoscenza ed esperienza nel gestire tecnologie complesse. Al riguardo, si sta sviluppando l’attenzione per il cosiddetto technostress, inteso come particolare processo di stress connesso a fattori tecnologici che coinvolge in prevalenza operatori di area informatica o, comunque, che usano sistematicamente le nuove tecnologie della comunicazione. Sono infine da considerare gli effetti sui lavoratori derivanti dalla instabilità lavorativa crescente (licenziamenti effettivi e minaccia di disoccupazione, cambiamenti forzati del posto di lavoro) collegata, ad esempio, a politiche di downsizing e di merging o di razionalizzazione attuate rapidamente, spesso senza alcun coinvolgimento dei lavoratori stessi. STRESSORS EXTRAORGANIZZATIVI: Gran parte dei moderni studi sullo stress lavorativo si sforzano di mettere in evidenza le interazioni tra vari tipi di stressors allo scopo di riconoscere le loro numerose combinazioni che, in un momento dato, possono rappresentare la condizione necessaria, se non sufficiente, per attivare un processo di stress. Vengono considerate tre principali categorie di stressors non sempre direttamente legate alla specifica mansione o al ruolo lavorativo § Valori e aspettative. Essi divengono fonte di stress soprattutto quando assumono un significato conflittuale per la persona o sono impossibili da conseguire per la presenza di ostacoli e impedimenti nel normale ambiente di vita lavorativa ed extralavorativa; § Ambiente fisico e sociale. Si tratta di un vasto insieme di possibili stressors che riguardano sia l’ambiente fisico sia quello sociale e sono misurabili anche oggettivamente per stabilire la loro natura ed entità. La semplice esposizione a tali stimoli ambientali non determina necessariamente reazioni negative di stress. È necessario infatti che lo stimolo superi una certa soglia oltre la quale, appunto, si ha la probabilità di attivare anche il processo di stress in aggiunta agli effetti fisici diretti. 56 § Anche la densità sociale (numero di persone per unità di spazio) e l’esperienza soggettiva di affollamento risultano associate a effetti di stress. Sono state individuate forti interferenze sull’attività cognitiva e sulle relazioni interpersonali e percezioni di irritazione e discomfort che risultano più evidenti quando si accumulano nel corso del tempo. § Fattori legati alla casa e alla famiglia e, in generale, alla vita quotidiana. Negli ultimi decenni si è indirizzata l’attenzione sia su tipi di life events particolarmente impegnativi e di vasta portata (come, ad esempio, la separazione da una persona cara, un divorzio o un lutto) sia su eventi di più ristrette dimensioni, ma ritenuti stressanti in quanto cumulabili nel corso del tempo o capaci di ampliare gli effetti dei diversi tipi di stressors. Tra i grandi eventi critici potrebbe essere inserita anche l’esperienza di disoccupazione, soprattutto quando si presenta in maniera imprevista, improvvisa e crea le condizioni per mettere in crisi i progetti di vita e le aspettative della persona stessa. Questo tipo di transizione psicosociale è stata ampiamente studiata come una assai probabile fonte di tensione in grado di produrre strain a livello individuale, gravi conseguenze negative in ambito familiare e notevoli costi organizzativi e sociali per la comunità. Il processo di stress da perdita del lavoro risulta modulato da fattori quali il sostegno sociale, lo status socioeconomico, il grado di apertura del mercato del lavoro e i livelli locali di disoccupazione, le immagini e gli atteggiamenti sociali più o meno negativi verso i disoccupati, le politiche di welfare, il ruolo familiare ricoperto, le differenze socioanagrafiche e individuali. Anche il contesto extraorganizzativo viene considerato come possibile fonte stressante per il tipo di interazione con quello lavorativo. In altre parole, le tensioni di un ambiente di vita possono rifluire sull’altro creando situazioni di incompatibilità o di conflitto più o meno esplicito: il tempo consumato in un ambito rischia di essere sottratto dall’altro; le situazioni di tensione percepite e subite in un ambito possono influire o riversarsi nell’altro ambito (è il cosiddetto spill-over effect); comportamenti ammissibili in un ambito possono rivelarsi inadeguati e contraddittori nell’altro ambito. Stanchezza, contrarietà o conflitti accumulati nel tempo possono produrre interferenze cognitive nella qualità e quantità delle prestazioni in ciascuno dei due ambiti attivando percezioni di inadeguatezza, sovraccarico, disagio psicologico. FATTORI DI MODERAZIONE DELLA RELAZIONE STRESSORS – ESITI DI STRESS: L’impatto degli stressors sulle persone è moderato da numerose variabili, che riguardano sia la dotazione di risorse psicosociali della persona sia le caratteristiche del contesto. In particolare, possiamo suddividere i fattori di moderazione in tre categorie: v FATTORI INDIVIDUALI: Le differenti risorse individuali possono far variare la percezione di minacciosità o di gravità degli eventi stessi rispetto al proprio self, come pure far valutare diversamente le proprie capacità di far fronte agli eventi e di percepire possibilità di controllo e regolazione, nonché di vedere negli altri una fonte di sostegno sociale. Anche il locus of control svolge una notevole influenza: le persone orientate internamente (che credono nel potere personale di controllare e influenzare gli eventi) dimostrano di reggere meglio situazioni ambigue rispetto a quelle orientate esternamente (le quali ritengono di non avere influenza sugli eventi e li vedono dominati dal potere di altri). Nella stessa direzione positiva del locus interno operano la self-efficacy (vista come percezione di padronanza della situazione e di competenza nell’influenzare l’ambiente esterno e nel perseguire comunque gli scopi desiderati) e l’ottimismo disposizionale. In questo caso, si tratta di una tendenza ad attendersi risultati favorevoli nel futuro, che svolge una funzione di autoregolazione stimolando la scelta di strategie attive per far fronte alle difficoltà attuali e migliorare il controllo della situazione. Kobasa ha definito la personalità coraggiosa, audace o vigorosa («hardy personality») come caratterizzata da convinzione nel controllo, nell’impegno e nella sfida: i manager con tale personalità reggono meglio le situazioni di tensione e adottano strategie più appropriate e risolutive che non i colleghi con bassa fiducia in questi orientamenti di condotta. La personalità di tipo A riguarda persone connotate da competitività estrema, agonismo per il successo (con obiettivi auto-selezionati e di solito mal definiti), aggressività repressa con sforzo, fretta, impazienza, attività incessante, ipervigilanza, alterazioni del tono di voce, tensione nella muscolatura facciale, sentimento di urgenza del tempo e di sfida delle responsabilità. Questo tipo di persona, che in genere mostra performance assai elevate, tende però a subire più gravi conseguenze dello stress (anche se le verifiche empiriche su questa tipologia non hanno portato a risultati definitivi). 57 Un altro fattore di stress cui si fa costante riferimento – la situazione ambigua (role ambiguity) – è modulato dalle differenze individuali nel grado di tolleranza emozionale dell’incertezza e nella capacità mentale di assumere iniziative strategiche per ridurla e risolverla (anche mediante l’opportuno coinvolgimento e sostegno di altre persone significative). In sintesi, pur non essendoci risultati definitivi sul ruolo dei fattori di personalità, essi tuttavia vanno esplorati con attenzione per cercare di comprendere quali elementi contribuiscano a rendere alcune persone più vulnerabili di altre alle condizioni stressanti. v FATTORI LEGATI AL LAVORO E ALL’ORGANIZZAZIONE. Ha ricevuto una notevole attenzione il grado di controllo che la persona può esercitare sul lavoro. In particolare, la percezione di poter influenzare il ritmo di lavoro o i suoi tempi e le sue procedure, cioè di poter esercitare un buon livello di discrezionalità (connessa, ad esempio, con le competenze possedute o il tipo di ruolo esercitato) nei modi di rispondere alle richieste, attenua di fatto la condizione stressogena e i suoi effetti. Lo stesso dicasi per fattori di tipo organizzativo come il clima psicosociale (aperto, equo, non eccessivamente competitivo ecc.) e soprattutto il sostegno sociale. Vi sono evidenze empiriche circa il fatto che il sostegno dei colleghi e dei superiori, soprattutto di tipo pratico (ad esempio, dare informazioni corrette) e affettivo (rinforzi e incoraggiamenti emozionali), attenua il livello di pressione delle richieste lavorative e il rischio di stress. Poter disporre di sostegni sociali adeguati sia sul lavoro che in ambito extralavorativo può essere inteso come una variabile che influenza direttamente le cause di stress (effetto preventivo), le misure di rimedio (effetto curativo) e che modera l’azione del fattore di stress (effetto tampone o buffering effect). Soddisfacenti relazioni con i superiori, i colleghi, i familiari, gli amici, i vicini di casa influenzano positivamente l’andamento delle reazioni affettive e delle strategie attive di risposta alla situazione stressante con riscontri positivi anche sui parametri fisiologici normalmente usati nelle analisi sullo stress. LE CONSEGUENZE DELLO STRESS La relazione di causa-effetto tra fattori di stress ed esiti non è automatica, dato che sono in gioco numerosi fattori personali e situazionali che possono moderare gli effetti di stress. In ogni caso, possiamo dividere gli esiti in categorie: Ø ESITI PSICOFISICI: Seppure le indagini di tipo fisiologico sullo stress siano meno frequenti nei contesti di lavoro, continuano a essere verificate variazioni del battito cardiaco, aumenti della pressione sanguigna, crescita del colesterolo e variazioni delle catecolamine e di altri ormoni. Già Selye aveva segnalato diverse malattie indicative di strain: malattie cardiovascolari e bronchiali, le disfunzioni gastrointestinali, il diabete, i disturbi neuropsichici. Di particolare rilievo sono le forme di stress acuto e le loro conseguenze immediate e nel medio periodo. Tra le forme più gravi la sindrome o disturbo post-traumatico da stress connesso a eventi critici importanti (traumi da incidenti anche sul lavoro, catastrofi e situazioni di emergenza ecc.) che possono interessare non solo le vittime, ma anche testimoni dell’evento, parenti e personale di soccorso. Ø ESITI PSICOLOGICI E DI DISAGIO PSICHICO. Utilizzando soprattutto misure di tipo self-report si sono riscontrati effetti sul funzionamento cognitivo con riduzione dell’attenzione e concentrazione sui compiti, disturbi nelle funzioni mnestiche, perdita del sonno per l’eccesso di preoccupazioni, percezione di trovarsi sotto tensione continua e di non potersi riposare. Sono poi state messe in luce le connotazioni emozionali negative della situazione di minaccia di sovraccarico e di stress o quelle derivanti dall’insignificanza del lavoro, dalla mancanza di progetti, dalla scarsità di stimoli ad agire, dall’insoddisfazione, dalla mancanza di riconoscimenti, dalla perdita del consenso da parte dei superiori. Ø ESITI COMPORTAMENTALI SUL LAVORO. Possiamo raccogliere in questa categoria condotte disfunzionali come: • Rotture e interruzione dei comportamenti di ruolo (come errori nella sequenza delle azioni); • Aumento dei comportamenti di ritirata come ritardi e assenteismo; • Sviluppo di reazioni aggressive, verbali e fisiche; • Squilibri nella vita non lavorativa (ad esempio, interferenze e conflitti in famiglia); • Crescita di condotte auto-lesive (ad esempio, uso di tabacco, alcol, psicofarmaci ecc.). 60 Al di là dei termini usati, si possono schematizzare le seguenti caratteristiche principali del fenomeno che risultano sostanzialmente condivise: § Si tratta di condotte intenzionali o volontarie indirizzate da singoli individui o da gruppi contro gli interessi e gli obiettivi legittimi di un’organizzazione; § Si caratterizzano per avere, in dosaggi diversi, sia una componente reattiva (o impulsiva, emozionale) sia una componente più strumentale o proattiva; § Sono attivate dai lavoratori verso la produzione (ad esempio, lavori fatti non rispettando gli standard, rallentamenti produttivi, ritardi, insubordinazioni) o verso la proprietà dell’organizzazione e i suoi assets (ad esempio, furti, appropriazioni indebite, vandalismi o sabotaggi) o anche verso il capitale umano ovvero le altre persone; § Assumono connotazioni differenti a seconda che si esprimano come azioni illegali (contro le norme formali), immorali (violano codici etici condivisi) o devianti (non rispettano standard comportamentali, regole sociali o procedure organizzative). Le caratteristiche della volontarietà e della legittimità degli interessi ci permettono di fare due importanti precisazioni. La prima si riferisce al fatto che, se i comportamenti controproducenti sono intenzionalmente pianificati, tutto ciò che determina conseguenze negative sulla produttività e sulle persone, ma si verifica accidentalmente, non rientra in questa categoria (si pensi agli effetti degli errori umani, di cattive istruzioni lavorative, di rotture delle macchine o guasti ecc.). La seconda riguarda la legittimità degli interessi organizzativi (che naturalmente non possono essere dati per scontati). Come giustamente osservano Balducci e Fraccaroli non tutte le condotte che minacciano l’armonia della vita organizzativa sono classificabili come comportamenti contro-produttivi. Il rifiuto di fare straordinari oltre una certa soglia o a svolgere mansioni dequalificanti non annoverate nel contratto stipulato, la resistenza all’introduzione di nuove tecnologie che possono compromettere la salute non possono essere considerate condotte controproducenti poiché non sono messe in atto, prioritariamente, per intaccare legittimi interessi organizzativi, bensì per tutelare diritti dei lavoratori potenzialmente lesi dalle scelte aziendali. FINALITÀ DEI COMPORTAMENTI CONTROPRODUCENTI: Vardi e Weitz, seguendo il modello di Fishbein e Ajzen dell’azione ragionata approfondiscono il significato dell’intenzione di attuare condotte controproducenti. In pratica, perché una persona ha l’intenzione di svolgere tali comportamenti? 1) Primo, perché ha sviluppato un atteggiamento favorevole verso quel tipo di comportamenti e giudica che le loro conseguenze siano positive per sé. 2) Secondo, perché la «norma soggettiva» della persona tollera quel certo comportamento (ovvero l’individuo percepisce che le regole e le norme assunte come riferimento personale possano tollerare anche condotte controproducenti). Sono state identificate da Vardi e Weitz tre tipi di intenzioni di base. § Condotte intenzionali finalizzate a trarre benefici per sé stessi e indirizzate verso l’interno dell’organizzazione (vittimizzando altre persone ad esempio con molestie sessuali o l’organizzazione stessa, ad esempio, con furti o manomissioni delle informazioni). § Condotte intenzionali che procurano vantaggi per l’organizzazione e indirizzate verso l’esterno dell’organizzazione (ad esempio, turbare il mercato tramite tangenti, falsificare documenti per gare di appalto, caricare sovrapprezzi per i clienti ecc.). § Condotte intenzionali con finalità distruttive e indirizzate verso l’interno o l’esterno dell’organizzazione (ad esempio, vandalismi o aggressività e comportamenti illeciti verso clienti o pazienti). Gli stessi autori propongono un modello interpretativo che collega i possibili antecedenti dell’intenzione con le diverse manifestazioni comportamentali controproducenti. Nella parte sinistra della figura sono indicati fattori che caratterizzano ogni esperienza lavorativa (classificati per livello: individuale, del posto di lavoro, di gruppo e di organizzazione) e che possono divenire antecedenti delle condotte contro-produttive. v A livello individuale sono stati considerati per esempio l’inadeguato sviluppo morale della persona o la sua tendenza al disimpegno morale, come avviene con l’attribuzione ad altri delle responsabilità di un qualche evento negativo a cui si è partecipato o con la disattivazione del proprio self-control morale ridefinendo una situazione in modo da giustificare le proprie condotte incoerenti con gli 61 standard etici; anche la bassa stima di sé, le scarse motivazioni alla riuscita, il locus of control esterno, l’irascibilità, l’impulsività e l’instabilità emotiva e la scarsa socievolezza sono collegabili a risposte devianti. v A livello del posto di lavoro sono viste come critiche le condizioni di lavoro costrittive che possono frustrare l’impegno delle persone e la presenza di occasioni di poter sfruttare a proprio vantaggio mezzi e strumenti di lavoro. Da notare poi il ruolo di compiti illegittimi assegnati al lavoratore che possono attivare risposte emotive negative o rappresentare eventi frustranti ai quali seguono intenzioni di risposta controproduttiva. v A livello del gruppo, sono state considerate, ad esempio: l’esistenza di norme interne troppo tolleranti, le deviazioni, l’eccessiva coesione e le dinamiche di gruppo che favoriscono il contagio di atteggiamenti favorevoli a deviare dalle regole o difetti del funzionamento del gruppo come: il «social loafing» (apatia e disimpegno di qualche membro che approfitta della tolleranza degli altri per contribuire poco al lavoro collettivo) anche nella sua forma più recente di «cyber-loafing» (utilizzo del tempo di lavoro per mandare e-mail o navigare sul web per fini privati e a scapito del lavoro comune); il «groupthink» (conformismo di gruppo, con scarsa discussione critica interna ed eccessiva dipendenza dal leader). v A livello di organizzazione ci si riferisce, in particolare, alla scarsa chiarezza degli obiettivi da raggiungere e al loro grado di incoerenza e conflittualità. Sono poi ritenuti decisivi: i sistemi di controllo adottati dal management (troppo oppressivi e con irrazionali forme di punizione oppure troppo lassisti), le condotte incoerenti e non etiche dei dirigenti, la diffusione di un «clima di sfiducia» sostenuto da forme di non equità di trattamento e di ingiustizia percepita nelle relazioni, nelle procedure organizzative e nelle modalità di distribuzione delle risorse. Sulla parte destra della figura compaiono le possibili condotte finali presentate tenendo conto della loro natura e del bersaglio finale delle azioni controproducenti. WORKAHOLISM ⁠Con il termine WORKAHOLISM si descrive una condotta di lavoro atipica con effetti controproducenti per la persona, che si esprime con un eccessivo impegno, sforzo e coinvolgimento della persona stessa nelle attività inerenti il proprio ruolo lavorativo. Siamo di fronte a una sorta di «dipendenza dal lavoro» che emerge, in prevalenza, tra persone che ricoprono posizioni di responsabilità manageriale o professionisti e lavoratori autonomi che, operando senza chiari vincoli temporali, tendono a non stabilire chiari confini tra lavoro e non lavoro e si mantengono concentrati oltre misura per raggiungere risultati ritenuti importanti. In alcuni casi questa condizione di eccessivo lavoro rappresenta un modo per evitare altre responsabilità personali e sociali (ad esempio, familiari) accentuando invece il desiderio di ricevere riconoscimenti da colleghi e superiori per il forte impegno e i risultati lavorativi ottenuti. Il workaholist mostra un alto coinvolgimento anche emotivo con il lavoro, una forte spinta motivazionale interna e un non molto elevato piacere di lavorare. Il «workaholism» risulta comunque un fenomeno molto articolato che si è tentato di esplorare individuando differenti connotazioni che, secondo alcuni autori, costituirebbero tipi diversi di workaholist: 1) La prima è data dalla compulsività ovvero sottolinea un modo di vivere la relazione con il proprio lavoro che risponde a un bisogno interno, quasi incontrollabile, di arrivare a un risultato; 2) La seconda esprime il continuo incremento degli sforzi e il perfezionismo della condotta lavorativa che derivano dal bisogno di un meticoloso controllo della situazione; 62 3) La terza riguarda una tensione competitiva per la riuscita professionale e il rafforzamento della propria identità di carriera. In generale, le persone che vivono questa condizione mostrano: § Un alto coinvolgimento anche emotivo con il lavoro, § Una forte spinta motivazionale interna § Un non molto elevato piacere di lavorare. Nelle ricerche empiriche queste tre dimensioni risultano strettamente correlate sia con altre caratteristiche personali (ad esempio, il perfezionismo) sia con il tipo di contesto lavorativo. A questo proposito occorre infatti integrare una prospettiva solo individuale nello studio del workaholism considerando i numerosi fattori di contesto che lo facilitano come ad esempio: un eccesso di domande lavorative che richiedono forti investimenti personali, un sistema di incentivi basato solo sulla produttività, una cultura organizzativa che esalta troppo il successo individuale e un’acritica identificazione con gli scopi aziendali.⁠ In ogni caso nella condizione di workaholism è presente una sottovalutazione dei rischi sia psicofisici sia di isolamento affettivo e sociale che possono portare, nel medio o lungo periodo, a impatti negativi sul benessere, la soddisfazione di vita, le relazioni interpersonali e la vita sociale. Ad esempio: § Si sono trovati stretti legami tra workaholism e stress: alti valori nella dimensione motivazionale corrispondono a bassi livelli di benessere emotivo; mentre alti livelli del piacere di lavorare comportano una minore presenza di stress. § Anche i legami tra workaholism e stati emotivi di carattere negativo (ad esempio, pessimismo e scoraggiamento) sono stati di recente verificati in un campione di lavoratori comprendente anche libero-professionisti, imprenditori e manager. § Meno nette sono le relazioni con problemi di salute anche se ciò può derivare dal fatto che le persone coinvolte potrebbero sottostimare i loro piccoli problemi di salute essendo quasi sempre focalizzate sul lavoro che fanno. Tale strategia di sottovalutazione rischia però di essere disfunzionale accrescendo la probabilità di subire danni futuri. § Più frequenti i risultati di ricerca che associano il workaholism a personalità di tipo A (eccessivo attivismo, senso di urgenza delle scadenze ecc.), a tratti di perfezionismo, con forte preoccupazione di controllo della situazione e a rigidità comportamentale. Il workaholism non va confuso con L’ENGAGEMENT, ovvero con l’entusiasmo per il lavoro dal momento che, in questo ultimo caso, la persona si sente molto coinvolta nel suo lavoro, ma ricava da esso anche una forte soddisfazione, non si sente pressata a continuare senza limiti il lavoro che sta facendo e, soprattutto, mantiene un equilibrato distacco del lavoro dalle altre sfere di vita. Snir e Harpaz trovano invece una connessione molto forte tra workaholism e significati attribuiti al lavoro. Nel confronto con gli altri lavoratori, i workaholics considerano il lavoro molto più centrale per la propria vita, valorizzano le motivazioni intrinseche e danno un minore peso alle relazioni interpersonali; pertanto si sentono continuamente spinti a coinvolgersi personalmente nel loro lavoro. Le organizzazioni dovrebbero farsi carico anche del problema dell’eccesso di lavoro, osservando con cura coloro che lavorano troppo sia per le possibili conseguenze personali in termini di malessere e disagi psicosociali sia perché l’eventuale percezione di squilibrio tra costi e ricavi nello scambio lavorativo potrebbe, a lungo andare, provocare incrinature nel contratto psicologico attuale e provocare anche ulteriori risposte di tipo disfunzionale. AGGRESSIVITÀ E VIOLENZA NEI LUOGHI DI LAVORO Con il termine AGGRESSIVITÀ LAVORATIVA si intende il comportamento di individui, dentro e fuori da un’organizzazione, che è diretto a danneggiare uno o più lavoratori e che si svolge in ambito lavorativo. Spesso i termini aggressività e violenza lavorativa vengono usati come sinonimi, anche se in realtà sono concettualmente distinguibili: la violenza è infatti una forma specifica di aggressività tesa a ledere fisicamente (o a minacciare di ledere) una persona mentre, in generale, l’aggressività può non comportare condotte violente. Perché è importante occuparsi di questi fenomeni? § Tali fenomeni esprimono, in primo luogo, un peggioramento della qualità dei contesti organizzativi e delle logiche di funzionamento tradizionale. 65 al suo isolamento ed espulsione dal contesto socioproduttivo. Possiamo parlare di mobbing solo nei casi in cui si è vittima di almeno una azione per una volta a settimana e per un periodo minimo di sei mesi. La reiterazione e la frequenza trasformano un’azione non particolarmente distruttiva, in un processo che può avere esiti seri per la persona coinvolta direttamente, per coloro che le sono vicini e per l’organizzazione nella quale essa lavora. Secondo Einarsen e colleghi una definizione essenziale di mobbing comprende: a) Le azioni di attacco, offesa, esclusione di qualcuno intaccando progressivamente i suoi compiti lavorativi normali; b) La presenza di tale interazione conflittuale anomala fatta in modo ripetuto e regolare per un certo periodo di tempo; c) La presenza di un’asimmetria di posizione (la vittima, come bersaglio degli atti negativi, ha spesso una posizione sociale inferiore). La letteratura sul mobbing si è molto ampliata in questi ultimi anni e ha identificato alcuni elementi di base per delineare in maniera abbastanza precisa questo fenomeno: v CONDOTTE DI MOBBING: per quanto i comportamenti in gioco nel mobbing abbiano oggettivamente una natura negativa, molto dipende dalla percezione della vittima che sente tali atti negativi ripetuti come ostili e intimidatori verso di sé. Da notare che molti di tali atti negativi si stanno diffondendo anche attraverso mezzi elettronici: si parla di cyberbulling, concretizzato via email o social network, con contenuti imbarazzanti, resi pubblici in modo incontrollato e che perseguitano la persona nel suo spazio di vita personale e non solo sul lavoro. Leymann propone cinque classi di condotte che intaccano: § La reputazione della vittima; § Le sue possibilità di comunicare con i colleghi; § Le relazioni sociali in generale; § La qualità dell’occupazione e delle mansioni; § La salute e il benessere. v FREQUENZA E DURATA: tra i criteri di definizione del mobbing sono stati indicati la frequenza e la durata degli atti negativi. Si considerano episodi negativi che ricorrono settimanalmente per un periodo di circa sei mesi. v ASIMMETRIA DI POTERE: chi subisce il mobbing sono in una condizione asimmetrica di potere. v TIPOLOGIE DI MOBBING: le tipologie di mobbing sono: § Mobbing verticale o bossing: quando gli atti negativi sono svolti da un superiore che intenderebbe in questo modo spingere il subordinato ad andarsene. Da notare che in questa situazione sono spesso coinvolti più o meno passivamente i colleghi (side-mobbers) che talvolta assecondano il superiore per paura di conseguenze o per semplice quieto vivere; § Mobbing orizzontale si riferisce alla situazione in cui sono dei colleghi che svolgono attivi negativi ripetuti verso un lavoratore che non desiderano inserire appieno nel loro contesto sociale o vogliono espellerlo; § Mobbing strategico si ha quando gli atti negativi di prevaricazione sono finalizzati a espellere un lavoratore, sapendo già come sostituirlo (questo fenomeno riguarda anche posizioni di dirigenza, soprattutto con contratti temporanei). § Mobbing relazionale di tipo emozionale quando l’atto di prevaricazione è legato ad aspetti della personalità della vittima. I comportamenti di mobbing sono quindi caratterizzati da comportamenti vessatori, aggressioni reali o percepite, protratte nel tempo, esercitate con una certa frequenza, che tendono ad aumentare di intensità nel tempo e sono associate alla percezione dell’impossibilità di difendersi e alla differenza di potere fra le parti. 66 Il mobbing NON È: • Una malattia; • Una singola azione; • Una molestia o una violenza sessuale (nel corso del processo di mobbing possono essere messe in atto molestie a sfondo sessuale, fino ad una vera e propria aggressione fisica). • In contesti extralavorativi (es bullismo e nonnismo) • Una situazione conflittuale sporadica, senza uno specifico progetto (il mobbing scaturisce dall’escalation di un conflitto non efficacemente gestito e risolto). • Stress (spesso il mobbing è il risultato di una situazione stressante). • Demansionamento. ANTECEDENTI E CONSEGUENZE: Il mobbing è un fenomeno multideterminato che chiama in causa diversi fattori: § Fattori organizzativi: oltre a numerosi stressors ambientali inerenti il ruolo lavorativo, viene considerato lo stile di leadership lassista che faciliterebbe il mobbing orizzontale. § Fattori sociali: si considerano quelli relativi a relazioni intra-gruppo mal gestite: l’ostilità tra i membri di un gruppo di lavoro, l’invidia sociale, le pressioni e le dinamiche di gruppo orientate a identificare un «capro espiatorio» possono rivelarsi fattori di mobbing; § Fattori individuali si segnala sia il ruolo di ridotte competenze professionali, sociali e di sensibilità e intelligenza emotiva sia l’importanza di fattori disposizionali di personalità come l’ansia, una ridotta coscienziosità e alta introversione. Ambienti di lavoro nei quali ci sono maggiori probabilità di episodi di mobbing: o Nel gruppo di lavoro si ha una forte omologazione all’autorità e una chiusura/resistenza verso la diversità sociale. o Il clima dell’organizzazione è povero di sostegno sociale e c’è un alto livello di frustrazione. o Mancanza di autonomia e delega, scarsa motivazione, sicurezza, formazione e gratificazione. o La direzione è professionalmente debole, con scarse capacità relazionali, di comunicazione e diagnosi. o I conflitti non sono riconosciuti ed affrontati per tempo. o I capi si sentono minacciati dai collaboratori. o Il gruppo dirigente ritiene di poterlo utilizzare come mezzo di governo (ad es.processi di downsizing). o Mancanza di politiche e valori chiari e condivisi. Ambienti di lavoro nei quali ci sono minori probabilità di episodi di mobbing: • La comunicazione efficace renderà possibile prevenire il fenomeno • Apertura culturale e sociale e una cultura etica del rispetto. • Condivisione di valori etici e obiettivi comuni. • Trasparenza nei comportamenti aziendali e sistemi gestionali coerenti. • Dirigenza efficiente e responsabile, con forte leadership. • Modelli decisionali basati sulla delega e sulla responsabilizzazione. • Forte attenzione alle persone e al clima aziendale. Le due principali CONSEGUENZE DEL MOBBING riguardano invece: 1) Il DETERIORAMENTO DEL BENESSERE E IL DISADATTAMENTO AMBIENTALE della persona con possibili alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico, alterazioni comportamentali, forme di disagio psicologico grave e con possibile comparsa di alcuni sindromi di natura psichiatrica. • Disturbi psicosomatici: cefalea, tachicardia, gastroenteralgie, dolori osteoarticolari, mialgie, disturbi dell’equilibrio 67 • Segnali emozionali: ansia, tensione, disturbi del sonno, dell’umore • Segnali comportamentali: anoressia, bulimia, farmacodipendenza • DSM VI: Disturbo dell’Adattamento (DA); Disturbo Acuto da Stress (DAS); Disturbo Post- Traumatico da Stress (PTSD) 2) Il PEGGIORAMENTO DELLE RELAZIONI (non solo) LAVORATIVE: clima aziendale sfavorevole, abbassamento degli standard di efficacia e efficienza nelle prestazioni, calo del commitment e abbassamento della fiducia organizzativa. • Difficile recupero dell’inserimento occupazionale • Coinvolgimento del nucleo familiare • Coinvolgimento del tessuto della vita di relazione. A livello aziendale ci possono essere delle conseguenze in termini di ore lavorative perse, scadimento della qualità del lavoro, della produttività e a livello della collettività e ci può essere un aumento dei pre- pensionamenti, delle invalidità civili e della spesa sanitaria. Le PERSONE PIÙ A RISCHIO di mobbing sono: § Lavoratori con elevato coinvolgimento nell’attività svolta, o con capacità innovative e creative § Soggetti con ridotte capacità lavorative o portatori di handicap collocati obbligatoriamente nel posto di lavoro, ma osteggiati dal datore di lavoro, dal preposto dai nuovi compagni di lavoro. § I “diversi” sotto vari punti di vista e tratti socio culturali (provenienza geografica, religione, abitudini di vita, preferenze sessuali). I FATTORI che aumentano la probabilità di mobbing sono: o Cultura organizzativa che tollera il mobbing e non lo riconosce come problema o Cambiamenti repentini nell’organizzazione o Insicurezza del posto di lavoro o Scarsa qualità del rapporto tra personale e direzione e basso livello di soddisfazione rispetto la leadership o Scarsa qualità del rapporto tra colleghi o Livelli elevati di richieste professionali o Politica del personale e valori comuni insufficienti o Aumento del livello di stress legato al lavoro o Conflitto di ruolo. In SINTESI, il mobbing: Ø Nasce da relazioni interpersonali disfunzionali Ø Mette in evidenza i limiti del contesto organizzativo e i suoi rischi per la persona. Ø Si configura, spesso, come un fenomeno che esce dai confini del disagio psicologico per delinearsi come un reato perseguibile in base al codice penale e risarcibile in quanto fonte di danno biologico. Ø Un’accurata diagnosi dei fattori antecedenti sopra ricordati dovrebbe sostenere gli interventi di carattere preventivo accanto a quelli di protezione sindacale e giuridica dei singoli lavoratori. I RITARDI SUL LAVORO I RITARDI SUL LAVORO sono condotte contro-produttive indirizzate sulla produzione che hanno implicazioni economiche evidenti derivanti sia dal minor tempo lavorato, sia da inefficienza degli uffici o del gruppo di lavoro. Inoltre, la situazione del ritardo ha anche degli aspetti psicologici in quanto si tratta di una condotta incivile e irrispettosa degli altri. Il ritardo è stato studiato in stretto collegamento con altri comportamenti anomali (ad esempio, l’assenteismo o il turnover) rappresentandolo come espressione dell’insoddisfazione lavorativa, delle scarse motivazioni al lavoro, della frustrazione o della percezione di non equità sul lavoro che spingerebbero alla ricerca di una forma di adattamento anche non convenzionale e al limite delle regole condivise. Ci sono differenti forme di ritardo: • Ritardo cronico: crescente frequenza e durata; • Ritardo stabile periodico: stabile durata e frequenza; • Ritardo casuale: senza uno specifico pattern di durata e frequenza.
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