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Isaac Asimov - Breve storia della chimica, Sintesi del corso di Chimica

Riassunto di 40 pagine del volume "Breve storia della chimica" di Isaac Asimov Scienze della Formazione primaria (ciclo unico) - Università degli Studi di Roma Tre

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 30/01/2018

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Scarica Isaac Asimov - Breve storia della chimica e più Sintesi del corso in PDF di Chimica solo su Docsity! I. Asimov Breve storia della chimica introduzione alle idee della chimica CAPITOLO 1 – GLI ANTICHI Fuoco e pietra Gli uomini primitivi si servivano della natura accettandola per quel che era, senza modificarla (ad esempio, usando il femore di un grosso animale come bastone). Col passare del tempo, impararono ad utilizzare i materiali in altri modi, adattandoli ai loro scopi (ad esempio, fissando le pietre a manici di legno per creare un’arma); ma la pietra restava pietra e il legno restava legno. La modificazione della materia era visibile, ad esempio, quando un fulmine incendiava un bosco, trasformando il legno in cenere. Questo genere di trasformazioni costituisce l’oggetto di studio della chimica e vengono dette trasformazioni chimiche. Una volta che l’uomo imparò a controllare il fuoco, egli diventò chimico di professione. Imparò a cuocere il cibo o a cuocere l’argilla per produrre oggetti. Le prime sostanze usate dall’uomo erano quelle presenti nell’ambiente: legno, ossa, pelli e pietre. Dato ce la pietra era la sostanza più durevole, quest’età viene definita età della pietra. Verso l’8000 a.C., in Medio Oriente furono introdotte due nuove pratiche: l’allevamento del bestiame e l’agricoltura. La fonte di alimenti era più stabile e abbondante e la popolazione aumentò. Fu in questo periodo che iniziò la “civiltà”, poiché l’uomo divenne sedentario. Nella nuova età della pietra o neolitico, la pietra veniva levigata; questi progressi si diffusero a partire dal Medio Oriente. I metalli I primi metalli venivano trovati sotto forma di pepite. In primo luogo, essi vennero utilizzati come ornamento, a causa della loro lucentezza. Successivamente si scoprì la malleabilità del rame o dell’oro, ovvero la possibilità di batterli fino a ridurli in lamine sottili. Ciò li rendeva più adatti alla costruzione di utensili rispetto alla pietra. In seguito (verso il 4000 a.C.) si scoprì che era possibile ottenere il rame partendo dalla pietra. Nel 3000 a.C. era stata scoperta una lega (ovvero una miscela di metalli) particolarmente dura tra rame e stagno, che prende il nome di bronzo. Nel 2000 a.C. il bronzo veniva utilizzato per la fabbricazione di armi e armature. L’avvenimento più famoso della cosiddetta età del bronzo fu la guerra di Troia, combattuta da soldati con armature, scudi e lance di bronzo. Il fabbro a quei tempi era un uomo potente, e aveva anche un posto tra gli dei (Efesto, il fabbro divino della mitologia greca). Gli uomini dell’età del bronzo conoscevano un metallo ancora più duro, il ferro, ma era troppo raro. Per fondere il minerale del ferro occorreva un calore più intenso che per la fusione del rame, e il fuoco di legna non bastava. Il segreto della fusione del ferro fu scoperto nell’Asia Minore orientale: gli Ittiti furono i primi ad utilizzarlo per produrre utensili su vasta scala. Nella sua forma pure (ferro dolce) il ferro non è molto resistente. Esso può assorbire dal carbone di legna una quantità di carbonio sufficiente a formare uno strato superficiale della lega di ferro e carbonio, detta acciaio. Sorse così l’età del ferro. Il primo esercito dotato di armi di ferro di buona qualità fu quello degli Assiri, che riuscirono a edificare, prima del 900 a.C., un potente impero. Gli Egiziani erano esperti non soltanto in metallurgia, ma anche nella produzione di pigmenti minerali e nell’estrazione di succhi e infusi dal mondo vegetale. La parola khemeia (da Kham, che è la terra) indica “l’arte egiziana”, ed è l’antenata della nostra “chimica”. Gli “elementi” dei Greci Verso il 600 a.C. gli studiosi greci si preoccupavano del “perché” dei vari fenomeni, perciò furono tra i primi a studiare la cosiddetta chimica teorica, che ebbe origine con Talete (640-546 a.C.). Secondo Talete (di Mileto, Ionia) l’acqua era l’elemento di base che costituiva tutte le sostanze. Secondo lui, la Terra era un disco piatto, sormontato da un emisfero di cielo e galleggiante su un oceano infinito di acqua. Nel secolo successivo, il pensiero astronomico arrivò alla conclusione che il cielo non era un emisfero, ma una sfera completa. La Terra, sferica anch’essa, era sospesa al centro della sfera cava del cielo. I Greci non credevano che esistesse il vuoto assoluto, quindi supponevano che lo spazio contenesse aria. Anassimene (di Mileto) affermò, intorno al 570 a.C., che l’elemento dell’universo era l’aria. Verso il centro dell’universo, l’aria veniva compressa, trasformandosi in sostanze più dense, come l’acqua e la terra. Eraclito di Efeso (ca. 540 – ca. 475 a.C.) riteneva che l’elemento di base fosse il fuoco, sempre mutevole e in movimento. Pitagora di Samo (ca. 582 – ca. 497 a.C.) si trasferì nell’Italia meridionale, fondando un’importante scuola di pensiero. Il seguace di Pitagora, Empedocle (ca. 490 – ca. 430 a.C.) elaborò la dottrina dei quattro elementi, secondo la quale alla base della costituzione dell’universo vi erano fuoco, acqua, terra e aria. Questa dottrina fu accettata anche da Aristotele, il quale considerava gli elementi come combinazioni di due coppie di caratteri opposti: caldo e freddo, asciutto e bagnato. Un carattere non poteva combinarsi con il proprio opposto ed erano possibili quattro combinazioni: - Caldo e asciutto: fuoco; - Caldo e bagnato: aria; - Freddo e asciutto: terra; - Freddo e bagnato: acqua. Aristotele riteneva che il firmamento fosse composto da un quinto elemento, l’etere, che possedeva proprietà diverse dagli elementi terrestri. Esso era, inoltre, perfetto, eterno e incorruttibile, a differenza degli altri quattro. Quando parliamo, tutt’oggi, della “quintessenza” ci riferiamo proprio al quinto elemento di cui parla Aristotele. Gli “atomi” dei Greci Un’altra questione che sorse tra i filosofi greci fu quella della divisibilità della materia. Il filosofo ionico Leucippo (ca. 450 a.C.) affermò che dividendo qualsiasi pezzo di materia più volte, a lungo andare si sarebbe ottenuto un frammento di dimensioni minime, che non poteva essere diviso ulteriormente. Democrito di Abdera (ca. 470 – ca. 380 a.C.), suo discepolo, chiamò atomos (ovvero “indivisibili”) le particelle minime della materia. La dottrina che prende avvio da questa teoria è l’atomismo. Secondo Democrito, gli atomi di ciascun elemento erano diversi per forma e dimensione. Le varie sostanze erano quindi composte di miscugli di atomi di vari elementi. Democrito non aveva però gli strumenti per dimostrare la validità delle sue teorie, ed esse rimasero impopolari. Epicuro (ca. 342 – 270 a.C.) accolse l’atomismo e fu seguito da molti, tra cui il poeta Lucrezio. La fine dell’alchimia Il medico tedesco Georg Bauer (1494 – 1555), conosciuto come Agricola (“contadino”) studiò il rapporto tra la mineralogia e le medicine. Il suo libro De Re Metallica (“Sulla metallurgia”) del 1556, contiene un sommario di tutte le informazioni pratiche ottenibili dai minatori di quell’epoca. Con quest’opera nasce la scienza della mineralogia. Il medico svizzero Theophrastus Bombastus von Hohenheim (1493 – 1541) è conosciuto come Paracelso, ovvero “migliore di Celso” (Celso era stato uno scrittore romano di testi di medicina). Secondo lui, la ragione principale dell’alchimia non consisteva nella scoperta di tecniche per la trasmutazione, ma nella preparazione di medicine con le quali curare le malattie. Paracelso cercò insistentemente la pietra filosofale e affermò di averla trovata. Scoprì inoltre lo zinco metallico. Nel 1597 l’alchimista tedesco Andreas Libau (ca. 1540 – 1616), conosciuto come Libavio, pubblicò Alchemia. L’opera era un sommario delle realizzazioni medioevali nel campo dell’alchimia. Libavio descrisse la preparazione dell’acido cloridrico, del tetracloruro di stagno, del solfato di ammonio e dell’acqua regia (che si chiamava così poiché era in grado di intaccare l’oro). Libavio era convinto che la trasmutazione fosse possibile, e che la scoperta di metodi per produrre l’oro fosse un obiettivo importante dello studio della chimica. Un testo del 1604 intitolato Il carro trionfale dell’antimonio e attribuito al monaco Basilio Valentino, trattava dell’utilizzazione dell’oro nella medicina. Il chimico tedesco Johann Rudolf Glauber (1694 – 1668) scoprì un metodo per produrre acido cloridrico grazie all’azione dell’acido solforico sul sale comune. Ottenne il solfato di sodio, che ancora oggi prende il nome di “sale di Grauber”. Durante il diciassettesimo secolo, l’alchimia perse gradualmente la propria importanza, finché nel diciottesimo secolo si trasformò in quella che oggi chiameremmo chimica. CAPITOLO 3 – TRANSIZIONE La misura Nonostante i progressi, la chimica restò indietro rispetto ad altre branche della scienza. Con Newton (1642 – 1727) si arrivò al culmine della rivoluzione scientifica. L’Europa occidentale aveva ormai superato tutti i popoli dell’antichità. Persisteva la ricerca di ricette che permettessero di produrre oro per trasmutazione, perfino da parte dello steso Newton. Tuttavia alcuni progressi erano stati fatti. Il medico fiammingo Jan Baptista van Helmont (1577 – 1644) fece crescere un albero sperando di scoprire l’origine dei tessuti viventi che crescevano insieme all’albero. Van Helmont fu il primo chimico a prendere in esame i vapori prodotti nei suoi esperimenti per studiarli. Scoprì che somigliavano all’aria nell’aspetto fisico, ma non in tutte le loro proprietà. Secondo lo studioso, queste sostanze aeriformi, avevano qualcosa in comune con il “caos” dei Greci, ovvero con la materia originaria che era servita per la creazione dell’universo. Questi vapori vennero definiti gas da van Helmont. Egli chiamò gas silvestre quello ottenuto dalla combustione del legno (ovvero l’anidride carbonica). Fu lo studio dei gas a prestarsi per primo alle tecniche di misurazione accurata, aprendo la strada alla chimica moderna. La legge di Boyle Il fisico Evangelista Torricelli (1608 – 1647) dimostrò nel 1643 che l’aria esercitava una pressione e mostrò che l’aria era in grado di sostenere una colonna di mercurio alta 760 millimetri. In questo modo inventò il barometro. I gas divennero meno misteriosi: la differenza principale dei gas rispetto a liquidi e solidi era la densità molto inferiore. Il fisico tedesco Otto von Guericke (1602 – 1686) inventò una pompa pneumatica che permetteva di estrarre l’aria da un recipiente in modo che la pressione esterna non fosse più equilibrata dalla pressione interna. Egli preparò due semisfere di metallo che combaciavano lungo un bordo cosparso di grasso. Una volta unite le semisfere ed estratta l’aria contenuta all’interno, la pressione dell’aria esterna manteneva a contatto le due semisfere. A ciascuna di esse vennero legate delle pariglie di cavalli, costretti ad esercitare il massimo sforzo in direzioni opposte, senza riuscire a separarle. Permettendo all’aria di penetrare di nuovo all’interno della sfera, le due parti si separarono invece spontaneamente. Il chimico irlandese Robert Boyle (1626 – 1691) progettò un altro modello di pompa pneumatica, che funzionava ancora meglio di quella di Guericke. Si apprestò ad affrontare l’esperimento opposto, quello della compressione, ovvero della riduzione dell’aria nel volume più piccolo possibile. Boyle scoprì che il volume di un campione d’aria variava con la pressione, secondo una legge di proporzionalità inversa. Egli versò del mercurio in un tubo molto lungo e richiuse un campione d’aria nell’estremità più corta, chiusa e munita di valvola. Versando ancora mercurio nell’estremità più lunga, e aperta, del tubo, Boyle era in grado di aumentare la pressione esercitata sull’aria racchiusa nell’estremità più corta. Duplicando la pressione, il volume dell’aria si riduceva a metà; triplicando la pressione, il volume si riduceva ad un terzo. Riducendo la pressione, d’altra parte, il volume si espandeva. Questo rapporto, pubblicato per la prima volta nel 1622, è noto ancora come legge di Boyle. Boyle non specificò che per mantenere la legge valida, la temperatura deve restare costante; ciò venne specificato dal fisico francese Edme Mariotte (1630 – 1684), che nel 1680 scoprì indipendentemente la legge di Boyle. Infatti nell’Europa continentale, quest’ultima viene spesso definita legge di Mariotte. La scoperta della compressione dell’aria, portò all’attenzione le teorie sull’atomismo. Mentre risulta difficile provare che i liquidi e i solidi sono composti di atomi, la compressione dell’aria non sarebbe stata altro che l’eliminazione degli spazi vuoti dal volume del campione e il conseguente avvicinamento degli atomi. Accettando questa concezione dei gas, risulta più facile convincersi che anche liquidi e solidi sono composti da atomi, ma il concetto di atomo continuò ad essere nebuloso. La nuova concezione degli elementi Con l’opera di Boyle The Sceptical Chymist (1661), la scienza fu denominata chimica e gli scienziati che se ne occupavano furono chiamati chimici. Gli elementi erano le sostanze primitive che componevano l’universo. Era quindi necessario mettere alla prova questi elementi, per stabilire se fossero davvero semplici. Se una sostanza poteva essere scissa in sostanze più semplici, non si trattava di un elemento. Se due sostanze erano entrambe elementi, potevano essere combinate insieme formando una terza sostanza detta composto. Una qualsiasi sostanza aveva diritto alla qualifica di elemento solo in via provvisoria, poiché non si poteva escludere la possibilità che un giorno sarebbe stata divisa in sostanze ancora più semplici. Solo con l’avvento del ventesimo secolo si rese possibile una definizione permanente della natura degli elementi. Boyle riteneva, così come gli alchimisti, che i metalli non fossero elementi. Nel 1689 Boyle esortò il governo britannico a revocare la legge contro la produzione alchimistica dell’oro, poiché riteneva che, trasformando in oro un metallo vile, i chimici avrebbero contribuito a dimostrare la teoria atomica della materia. I metalli si rivelarono veri e propri elementi; nove sostanze riconosciute attualmente come elementi erano già note agli antichi: i sette metalli (oro, argento, rame, ferro, stagno, piombo e mercurio) e due metalloidi (carbonio e zolfo). Inoltre quattro sostanze individuate al giorno d’oggi come elementi erano note agli alchimisti medioevali: arsenico, antimonio, bismuto e zinco. Nel 1680 Boyle riuscì a ricavare il fosforo dall’urina, ma era stato preceduto anni prima dal chimico tedesco Hennig Brand (? – ca. 1692). Brand è definito come “l’ultimo degli alchimisti” perché effettuò questa scoperta durante la sua ricerca della pietra filosofale. Il flogisto Verso il 1700 l’ingegnere inglese Thomas Savery (ca. 1650 – 1715) costruì una macchina a vapore, che utilizzava vapore ad alta pressione ed era per questo un congegno pericoloso. Thomas Newcomen (1663 – 1729) realizzò in collaborazione con Savery una macchina in grado di funzionare con vapore a bassa pressione. Questo meccanismo fu migliorato e reso efficiente dall’ingegnere scozzese James Watt (1736 – 1819). La conseguenza di ciò fu che, per la prima volta, l’uomo aveva a disposizione una fonte di energia alla quale poteva attingere in ogni momento e in ogni luogo, semplicemente facendo bollire dell’acqua su un fuoco di legna o di carbone. Questo fattore contrassegnò l’inizio della “rivoluzione industriale”. Ciò indusse i chimici a riprendere in esame la natura del fuoco e della combustione. Nel 1669 il chimico tedesco Johann Joachim Becher (1635 – 1682) immaginò che i solidi fossero composti di tre tipi di “terra”, chiamando uno di essi col nome di “terra pinguis” (“terra grassa”), e lo identificò con il principio della infiammabilità. Il chimico tedesco Georg Ernest Stahl (1660 – 1734) chiamò il principio di infiammabilità con il nome di flogisto (dal greco “incendiare”), elaborando una teoria capace di spiegare il fenomeno della combustione. Secondo Stahl, le sostanze combustibili erano ricche di flogisto e il processo di combustione determinava la cessione di flogisto all’aria. Ciò che restava dopo la combustione era privo di flogisto, e quindi non poteva più bruciare. La formazione della ruggine era un fenomeno analogo alla combustione del legno (i metalli contenevano flogisto, mentre le rispettive ruggini no). Anche la trasformazione in metalli dei minerali rocciosi poteva essere spiegata con questa teoria: il minerale roccioso, povero di flogisto, viene riscaldato insieme al carbone di legna, che è molto ricco di flogisto; il flogisto passa dal carbone di legna al minerale, quindi il carbone si trasforma in cenere priva di flogisto, mentre il minerale di trasforma in metallo ricco di flogisto. Il medico olandese Hermann Boerhaave (1668 – 1738) sostenne che la comune combustione e la formazione di ruggine non potevano essere aspetti diversi dello stesso fenomeno. Nonostante questa opposizione, la teoria flogistica conquistò nuovi aderenti durante tutto il diciottesimo secolo. CAPITOLO 4 - I GAS Anidride carbonica e azoto Il chimico inglese Stephen Hales (1677 – 1761) introdusse il metodo della raccolta dei gas al di sopra dell’acqua. Era possibile convogliare i vapori ottenuti in seguito ad una reazione chimica, per mezzo di un tubo, fino ad un vaso pieno d’acqua, capovolto in un recipiente contenente acqua. Il gas gorgogliava verso l’alto all’interno del vaso, spostando l’acqua e costringendola ad uscire dall’estremità inferiore, aperta. Alla fine Hales otteneva un vaso pieno del gas o dei vari gas prodotti dalla reazione. Il chimico scozzese Joseph Black (1728 – 1799) fece riscaldare ad alta temperatura un minerale calcareo, il carbonato di calcio. Quest’ultimo si decompose, emettendo un gas e lasciando, come residuo, della calce (ossido di calcio). Il gas prodotto poteva essere combinato di nuovo con La combustione Lavoisier, dopo essere entrato in contatto con la scoperta di Priestley dell’aria deflogisticata, elaborò la propria teoria (1775). Secondo lui, l’aria non è una sostanza semplice, ma una miscela di due gas nel rapporto di 1 a 4. Un quinto dell’aria era costituito dall’aria deflogisticata e soltanto questa parte dell’aria si combinava con le varie sostanze durante la combustione e la formazione della ruggine, passava dal minerale al carbone di legna ed era essenziale per la vita. Lavoisier chiamò questa sostanza ossigeno (dal greco “produttore di acido). Gli altri quattro quinti dell’aria costituivano un gas completamente diverso, che Lavoisier chiamò azoto (dal greco “senza vita”). Lavoisier riteneva che la vita fosse alimentata da un processo simile alla combustione: noi respiriamo aria ricca di ossigeno e povera di anidride carbonica, mentre espiriamo aria meno ricca di ossigeno e più ricca di anidride carbonica. Insieme a Pierre Simon de Laplace (1749 – 1827), Lavoisier cercò di misurare l’ossigeno consumato dagli animali e l’anidr5ide carbonica da essi emessa. I risultati furono sconcertanti, perché una parte dell’ossigeno inalato non compariva nell’anidride carbonica esalata. Nel 1783 Cavendish, bruciando il suo gas infiammabile, scoprì che i vapori generati dalla combustione si condensavano formando un liquido che si rivelò essere acqua. Ciò dimostrava che l’acqua non era una sostanza semplice, ma il prodotto della combinazione di due gas. Lavoisier, venutone a conoscenza, chiamò idrogeno (“generatore di acqua”) il gas di Cavendish e fece notare che l’idrogeno bruciava combinandosi con l’ossigeno, e che quindi l’acqua era composta di idrogeno e ossigeno. Riteneva inoltre che i generi alimentari e i tessuti animali fossero composti sia da carbonio sia da idrogeno in quanto, quando si respirava l’aria, l’ossigeno si consumava non solo perché formava anidride carbonica insieme al carbonio, ma anche perché, insieme all’idrogeno, generava acqua. Questo spiegava la sparizione di una porzione di ossigeno nei primi esperimenti sulla respirazione. Lavoisier elaborò un sistema di nomenclatura chimica, insieme a Louis Bernard Guyton de Morveau (1737 – 1816), Claude Louis Berthollet (1748 – 1822) e Antoine François de Fourcroy (1755 – 1809). Nel 1789 Lavoisier pubblicò il suo Trattato elementare di chimica considerato il primo testo moderno di chimica. Il chimico tedesco Martin Heinrich Klaproth (1743 – 1817) fu uno dei primi a convertirsi alle nuove dottrine. La sua adesione fu importante poiché in Germania tutti tendevano a seguire la teoria del flogisto di Stahl, per ragioni patriottiche. Lavoisier morì durante gli anni del Terrore, quando venne ingiustamente ghigliottinato. Il matematico Joseph Lagrange disse “è bastato un momento per tagliare quella testa, e forse non basterà un secolo per generarne un’altra pari alla sua”. Lavoisier è universalmente ricordato come padre della chimica moderna. CAPITOLO 5 – GLI ATOMI La legge di Proust Principali proprietà degli acidi: - Hanno la tendenza ad essere chimicamente attivi; - Reagiscono con i metalli come zinco, stagno e ferro dissolvendoli e generando idrogeno; - Il loro sapore è acido; - Fanno cambiare colore in un certo modo a determinate tinture. Principali proprietà delle basi (che sono opposte agli acidi): - Hanno la tendenza ad essere chimicamente attive; - Hanno sapore amaro; - Operano sulle tinture cambiamenti di colore opposti a quelli determinati dagli acidi. Se si mescolano acidi e basi nelle proporzioni adatte, si ottiene una miscela con proprietà che non sono né acide né basiche. La miscela sarà un sale in soluzione. Il chimico tedesco Jeremias Benjamin Richter (1762 – 1807) misurò le quantità esatte dei diversi acidi che servivano per neutralizzare una data quantità di una determinata base, e viceversa. Richter scoprì che occorrevano quantità fisse e definite. Esisteva un peso equivalente: un peso fisso di una data sostanza reagiva con un peso fisso di un’altra sostanza chimica. Berthollet (uno dei collaboratori di Lavoisier) riteneva che se un composto consisteva degli elementi x e y, esso avrebbe contenuto una quantità di x superiore alla media, se fosse stato preparato con una dose eccessiva di x. A quest’opinione, si opponeva Proust (1754 – 1826) il quale dimostrò, nel 1799, che il carbonato di rame, ad esempio, conteneva proporzioni definite, in peso, di rame, carbonio e ossigeno, in qualunque modo fosse stato preparato o isolato (5,3 parti di rame, 4 parti di ossigeno e 1 di carbonio). Proust elaborò la legge delle proporzioni definite, detta anche legge di Proust: in tutti i composti gli elementi erano contenuti in determinate proporzioni definite e non in altre combinazioni, indipendentemente dalle condizioni in cui i composti stessi venivano prodotti. Se la materia era costituita da atomi, la legge di Proust era una conseguenza logica (poiché per variare le proporzioni definite di un composto che consiste di x e y, un atomo di y dovrebbe essere in grado di unirsi a poco più o poco meno di un atomo di x ma, dato che gli atomi sono concepiti come parti invisibili della materia, ciò non sarebbe possibile). La teoria di Dalton Il chimico inglese John Dalton (1766 – 1844) osservò che due elementi erano in grado di combinarsi secondo più di una serie di proporzioni; in tal caso, però, essi rivelavano una notevole variazione nelle proporzioni secondo cui si combinavano, e per ogni variazione si formava un composto differente. Ad esempio, 3 parti in peso di carbonio unite a 8 parti in peso di ossigeno, formano anidride carbonica; 3 parti di carbonio e 4 parti di ossigeno, formano l’ossido di carbonio. Questa è la legge delle proporzioni multiple (1803). Questa legge si accorda bene con le concezioni atomistiche. Infatti, nel 1803 Dalton presentò la sua nuova versione della teoria atomica, mantenendo il nome “atomo”, per il debito nei confronti di Democrito. La tesi di Dalton venne universalmente accettata. La teoria atomica diede il colpo di grazia alle convinzioni sulla possibilità di trasmutare una sostanza in un’altra secondo i princìpi dell’alchimia: dato che gli atomi erano indivisibili e immutabili, non si poteva sperare di riuscire a trasformare un atomo di piombo in un atomo d’oro. L’osservazione diretta degli atomi era da escludere, ma era possibile ottenere informazioni sul peso relativo degli atomi per mezzo di misurazioni indirette. Dalton preparò la prima tavola dei pesi atomici, che risultò essere in buona parte sbagliata, poiché Dalton riteneva che, in generale, le molecole fossero formate dall’accoppiamento di un solo atomo di un elemento con un solo atomo di un altro elemento. La contraddizione fu messa in luce, in particolare, nel caso dell’acqua. Per la prima volta l’energia elettrica invase il mondo della chimica. Le prime nozioni sull’elettricità risalgono agli antichi Greci, i quali scoprirono che. strofinando l’ambra, essa acquistava la capacità di attrarre gli oggetti leggeri. Il fisico inglese William Gilbert (1540 – 1603) dimostrò che ciò accadeva anche con altre sostanze, che vennero chiamate “elettriche”. Il chimico francese Charles François de Cisternay du Fay (1698 – 1739) scoprì che esistevano due cariche elettriche: una che si poteva provocare nel vetro (“elettricità vetrosa”) e una che si poteva generare nell’ambra (“elettricità resinosa”); due sostanze dotate di cariche diverse si attraevano, mentre due sostanze dotate della stessa carica si respingevano. Benjamin Franklin (1706 – 1790) avanzò l’ipotesi che esistesse un unico fluido elettrico. Le sostanze che contenevano una quantità di fluido elettrico superiore al normale, avevano un certo tipo di carica; quelle che contenevano una quantità di fluido inferiore al normale, possedevano l’altro tipo di carica. Franklin affermò che il vetro conteneva una quantità di fluido elettrico superiore alla norma: il vetro era quindi dotato di carica positiva, mentre la resina era dotata di carica negativa. Il fisico Alessandro Volta (1745 – 1827) scoprì che due metalli (separati da soluzioni capaci di condurre cariche elettriche) potevano venire disposti in modo tale che si generassero nuove cariche a mano a mano che le cariche vecchie venivano allontanate per mezzo di un filo conduttore. Aveva inventato la prima pila elettrica, e generato una corrente elettrica. Queste esperienze mostrarono il legame tra le reazioni chimiche e l’elettricità. I chimici inglesi William Nicholson (1753 – 1815) e Anthony Carlisle (1768 – 1840) fecero passare nell’acqua una corrente elettrica e si accorsero che, in corrispondenza delle piastrine di metallo conduttore che avevano immerso nell’acqua, cominciavano ad apparire delle bollicine di gas. Su una delle piastrine si formava idrogeno, sull’altra ossigeno. Questa decomposizione dell’acqua nei suoi due componenti, idrogeno e ossigeno, prende il nome di elettrolisi, ed era l’esperimento opposto a quello di Cavendish, che aveva combinato idrogeno e ossigeno per formare acqua. Racchiudendo idrogeno e ossigeno in contenitori separati, si scoprì che il primo era il doppio dell’altro. Si poteva quindi suppore che ogni molecola di acqua contenesse due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Era pur sempre vero che 1 parte in peso di idrogeno si combinava con 8 parti di ossigeno. Quindi un atomo di ossigeno era otto volto più pesante di due atomi di idrogeno insieme, quindi sedici volte più pesante di un solo atomo di idrogeno (il peso atomico dell’ossigeno è quindi 16 e non 8). L’ipotesi di Avogadro Il chimico francese Joseph Louis Gay-Lussac (1778 – 1850), rovesciando l’esperimento descritto, scoprì che 2 volumi di idrogeno si combinavano con 1 volume di ossigeno, creando l’acqua. Gay- Lussac scoprì che i gas si combinavano insieme sempre secondo rapporti di piccoli numeri interi, ed enunciò, nel 1808, la legge dei volumi di combinazione. Se una molecola d’acqua era costituita da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, la molecola dell’ammoniaca non era costituita da un atomo di azoto unito ad uno di idrogeno, bensì da un atomo di azoto con tre atomi di idrogeno. Il peso atomico dell’azoto non era quasi 5, come si credeva prima, ma 14. Le particelle dei diversi gas, composte sia di singoli atomi sia di combinazioni di atomi, sono distribuite ad intervalli uguali. In questo caso, numeri uguali di particelle di gas (ad una data temperatura) occuperebbero volumi uguali, qualunque fosse il gas. Il primo a far notare questo presupposto, fu il chimico italiano Amedeo Avogadro (1776 – 1856), che enunciò nel 1811 la cosiddetta ipotesi di Avogadro. Il chimico francese Pierre Louis Dulong (1785 – 1838) e il fisico francese Alexis Thérése Petit (1791 – 1820) scoprirono che il calore specifico degli elementi (cioè l’aumento di temperatura determinato dall’assorbimento di una quantità fissa di calore) sembrava variare in ragione inversamente proporzionale al peso atomico. Se il peso atomico dell’elemento x era il doppio di y, la temperatura di x aumentava soltanto della metà della temperatura di y, quando entrambi gli elementi assorbivano la stessa quantità di calore. Questa legge si dice legge del calore atomico (metodo che funzionava per la maggior parte degli elementi solidi). Il chimico tedesco Eilhardt Mitscherlich (1794 – 1863) scoprì che i composti aventi composizione simile tendevano a cristallizzarsi insieme, come se le molecole dell’uno si mescolassero alle molecole, di forma affine dell’altro. Da questa legge dell’isomorfismo (“della stessa forma”) derivava che, se due composti formavano cristalli insieme e si conosceva solo la struttura di uno di essi si poteva ritenere che la struttura dell’altro fosse simile. Pesi e simboli Il chimico svedese Jöns Jakob Berzelius, insieme a Dalton, fu uno dei principali artefici della teoria atomica. Verso il 1807 si dedicò alla determinazione dell’esatta costituzione elementare di diversi composti, grazie alla quale cancellò ogni dubbio sulla teoria atomica. Nel 1820 il chimico francese Henri Braconnot ottenne dalla gelatina proteica un composto semplice, la glicocolla o glicina, un acido organico contenente azoto, che fa parte di un gruppo di sostanze dette aminoacidi. Amidi e proteine hanno molecole giganti, formate da lunghe catene di elementi di glucosio e di elementi di aminoacidi. I chimici non potevano realizzare in laboratorio queste catene. Nel caso dei grassi la situazione era diversa. Il chimico francese Michel Eugène Chevreul (1786 – 1889) riuscì ad isolare gli acidi grassi, bruciando del sapone con dell'acido. In seguito dimostrò che, quando i grassi si trasformano in sapone, liberano la glicerina. Si scoprì che i grassi erano composti soltanto da quattro elementi: uno di glicerina più tre di acidi grassi. Berthelot riuscì a produrre una molecola di tristearina (costituita da un elemento di glicerina unito a tre elementi di acido stearico) facendo riscaldare la glicerina con l'acido stearico. Era il prodotto naturale più complesso sintetizzato fino a quel momento. Successivamente riuscì a creare delle sostanze molto simili ai grassi comuni, ma non identiche a qualunque grasso si conoscesse in natura. Questa sintesi dimostrò che il chimico era in grado di realizzare composti simili ai composti organici in tutte le loro proprietà, ma diversi da qualsiasi composto organico effettivamente prodotto da tessuti viventi. La differenza principale tra composti organici e composti inorganici era che questi ultimi possedevano molecole piccole, costituite da un numero di atomi che andava da due a otto. Le sostanze organiche più semplici possedevano molecole di dodici atomi o più; spesso arrivavano a diverse dozzine. Le sostanze come l'amido e le proteine possedevano molecole giganti, i cui atomi erano migliaia e perfino centinaia di migliaia. Le sostanze inorganiche erano quindi più difficili da scindere. Le sostanze organiche contenevano sempre il carbonio e, quasi sempre, anche l'idrogeno. Il chimico tedesco Friedrich August Kekulé von Stradonitz (1829 – 1886) , definì la chimica organica come la chimica dei composti del carbonio. Isomeri e radicali Le formule che indicano soltanto il numero di ciascun tipo di atomo presente nella molecola, sono definite formule empiriche. Sembrava naturale ritenere che ogni composto dovesse possedere una propria formula empirica diversa dalle altre, e che non esistessero composti con la stessa formula empirica. Lavoisier aveva cercato di determinare le rispettive proporzioni del carbonio e dell'idrogeno presenti nei composti organici, bruciandoli e pesando l'acqua e l'anidride carbonica ottenute. I suoi risultati non si erano rivelati molto precisi. Gay-Lussac e un suo collega, il chimico francese Louis Jacques Thénard (1777 – 1857), mescolarono la sostanza organica con un agente ossidante, come il clorato di potassio. Generarono ossigeno, il quale provocava una più rapida e completa combustione dell sostanza organica. Raccogliendo l'acqua e l'anidride carbonica, riuscirono a stabilire le proporzioni relative del carbonio e dell'idrogeno presenti nel composto d'origine. Una volta determinate le proporzioni del carbonio e dell'idrogeno, era possibile calcolare la formula empirica dei composti organici che erano composti (oltre che da questi due elementi) solo da ossigeno. Gay-Lussac calcolò le formule empiriche di alcuni degli zuccheri semplici. Il chimico tedesco Justus von Liebig (1803 – 1873) perfezionò il procedimento, ottenendo formule empiriche abbastanza attendibili. Il chimico francese Jean Baptiste André Dumas (1800 – 1884), modificò di nuovo processo e fu in grado di raccogliere, tra i prodotti della combustione, anche l'azoto. Nel 1824 Liebig studiava un gruppo di composti, i fulminati, mentre Wöhler studiava un altro gruppo di composti, i cianati. Entrambi inviarono relazioni sul proprio lavoro ad una rivista diretta di Gay-Lussac. Quest'ultimo osservò che le formule empiriche assegnate a questi composti erano identiche, mentre le proprietà descritte erano totalmente differenti. Egli interpellò Berzelius, il quale si mostrò scettico, nonostante avesse egli stesso scoperto due composti organici (acido racemico e acido tartarico) che avevano proprietà diverse ma sembravano avere la stessa formula empirica. Berzelius suggerì di chiamare questi composti isomeri. Nelle molecole inorganiche, che erano piccolissime, gli atomi potevano disporsi in un unico modo. Mentre nelle più complesse molecole organiche, erano possibili diverse disposizioni, e quindi potevano esistere isomeri (stessa formula, diversa disposizione): – Cianato d'argento → AgOCN – Fulminato d'argento → AgNCO Gay-Lussac e Thénard dimostrarono che l'acido cianidrico (HCN) si trattava di un acido, nonostante non contenesse ossigeno. Inoltre il gruppo CN (radicale cianogeno) poteva essere spostato da un composto all'altro, senza essere prima scisso in carbonio e azoto. Questi gruppi di due o più atomi che rimangono uniti mentre vengono spostati da una molecola all'altra, vengono chiamati radicali. Wöhler e Liebig scoprirono un radicale ancora più complesso, il gruppo benzoile (C7H5O). CAPITOLO 7 – LA STRUTTURA MOLECOLARE La teoria dei tipi Berzelius riteneva che la forza che tiene uniti gli atomi nelle molecole inorganiche e nei radicali organici era di natura elettrica. Ciascuna molecola doveva quindi contenere una parte positiva e una negativa. Per dimostrare che ciò fosse vero per le molecole organiche, Berzelius affermò che i radicali consistevano di carbonio e idrogeno, con il carbonio negativo e l'idrogeno positivo, e che fosse impossibile sostituire un elemento positivo con uno negativo senza alterare completamente le proprietà di un determinato composto. Auguste Laurent (1807 – 1853) riuscì a sostituire diversi atomi di idrogeno della molecola dell'alcool etilico con altrettanti atomi di cloro. Questo esperimento diede il colpo di grazia a Berzelius, perché il cloro era considerato negativo e l'idrogeno positivo, eppure si poteva sostituire il secondo con il primo senza che le caratteristiche del composto subissero alterazioni sostanziali. Laurent venne sconfessato da Dumas, suo maestro, poiché egli era un seguace di Berzelius. Laurent accumulò prove per dimostrare che i radicali non erano intoccabili e indistruttibili come sostenuto da Berzelius. Con la morte di quest'ultimo, la teoria di Laurent acquistò popolarità. Egli sostenne che le molecole organiche possedevano un nucleo al quale si potevano unire vari radicali. Le molecole organiche si potevano riunire in famiglie o tipi (si parla di teoria dei tipi). Tutte le sostanze appartenenti ad uno stesso tipo avevano nuclei identici, ai quali potevano unirsi radicali simili appartenenti ad una determinata serie. Il chimico inglese Alexander William Williamson (1824 – 1904) dimostrò che anche la famiglia dei composti organici detti eteri si poteva costruire sulla base del “tipo acqua”. In questo caso si sostituivano con radicali organici entrambi gli atomi di idrogeno dell'acqua. In precedenza, il chimico francese Charles Adolphe Wurtz (1817 – 1884) aveva studiato un gruppo di composti legati all'ammoniaca, detti amine. Dimostrò che essi appartenevano a un tipo caratterizzato da un nucleo di azoto. Nell'ammoniaca l'atomo di azoto era unito a tre atomi di idrogeno. Nelle amine, uno o più di questi atomi di idrogeno erano sostituiti da radicali organici. Il chimico russo Friedrich Konrad Beilstein (1838 – 1906) pubblicò un ricco elenco di composti organici, utilizzando la teoria dei tipi di Laurent per classificare questi composti secondo un ordine razionale. La valenza Alcuni chimici meditarono sul fatto che l'atomo di ossigeno si univa sempre ad altri due atomi o radicali, e l'atomo di azoto si univa sempre a tre atomi o radicali. Il chimico inglese Edward Frankland (1825 – 1899) fu il primo ad interessarsi ai composti organo- metallici, costituiti da gruppi organici uniti ad atomi di metallo. Ciascun atomo di metallo si univa solo ad un determinato numero di gruppi organici, e questo numero variava da metallo a metallo. Frankland propose la teoria della valenza, cioè l'affermazione che ciascun atomo possiede un potere di combinazione fisso. Gli atomi di idrogeno, sodio, cloro, argento, bromo e potassio possono combinarsi solo con un altro atomo, perché hanno valenza 1. Gli atomi di ossigeno, calcio, zolfo, magnesio e bario possono unirsi al massimo con due atomi differenti, perché hanno valenza 2. Azoto, fosforo, alluminio e oro hanno valenza 3. Il concetto di valenza chiarì la differenza tra peso atomico e peso equivalente dei vari elementi. In generale, il peso equivalente di un atomo è uguale al suo peso atomico diviso per la valenza. La seconda legge dell'elettrolisi di Faraday afferma che il peso dei vari metalli librati da una determinata quantità di corrente elettrica è proporzionale ai pesi equivalenti dei metalli stessi. La quantità di corrente elettrica capace di liberare un determinato peso di un metallo monovalente, sarà quindi in grado di liberare soltanto la metà dello stesso peso di un metallo bivalente, che abbia più o meno lo stesso peso atomico. Per trasportare un atomo monovalente, occorre un “atomo di elettricità”, mentre per trasportare un atomo bivalente ne sono necessari due. Le formule di struttura Kekulé cominciò a supporre che la valenza del carbonio fosse uguale a 4 e si mise a calcolare la struttura delle molecole e dei radicali organici più semplici. Il chimico scozzese Archibald Scott Couper (1831 – 1892) propose di rappresentare con dei trattini le forse che determinano la combinazione tra loro dei diversi atomi. Questa forma di rappresentazione permetteva di chiarire il motivo per cui le molecole organiche erano tanto più grandi e complesse di quelle inorganiche. Secondo Kekulé, gli atomi di carbonio si potevano unire fra loro per mezzo di uno o più dei loro quattro legami di valenza, formando lunghe catene. Nessun altro genere di atomo sembrava possedere in maniera altrettanto spiccata questa capacità dell'atomo di carbonio. I tre idrocarburi più semplici (metano: CH4, etano: C2H6, propano: C3H8) si potevano rappresentare assegnando quattro legami a ciascun atomo di carbonio e un legame a ciascun atomo di idrogeno: Questa serie può essere allungata unendo insieme atomi di carbonio. Aggiungendo ossigeno (solo due legami) e azoto (tre) sarebbe possibile rappresentare le molecole di alcool etilico (C2H6O) e di metilamina (CH5N). Queste formule di struttura diventano più flessibili ammettendo l'esistenza di due legami (legame doppio: = ) o di tre legami (legame triplo: ≡ ) tra atomi adiacenti. Si potrebbe rappresentare, quindi, l'etilene (C2H4), l'acetilene (C2H2), il cianuro di metile (C2H3N), l'acetone (C3H6O) e l'acido acetico (C2H4O2). Il nuovo sistema di rappresentazione fu appoggiato soprattutto dal chimico russo Alexander Mikhailovič Butlerov (1828 – 1886), il quale illustrò come l'uso delle formule di struttura potesse spiegare l'esistenza degli isomeri. Ad esempio, l'alcool etilico e l'etere dimetilico, hanno la stessa formula empirica (C2H6O), ma diversa formula di struttura. Butlerov si occupò di uno speciale tipo di isomerismo, detto tautomerismo, in cui determinate sostanze di presentavano sempre sotto forma di miscugli di due composti. Se si riusciva a isolare uno di questi composti nella sua forma più pura, esso si trasformava immediatamente, in parte, Newland chiamò legge degli ottavi la sua scoperta, ma non fu appoggiato dagli altri chimici, che pensavano si trattasse soltanto di una coincidenza. Due anni prima, il geologo francese Alexandre Emile Beguyer de Chancourtois (1820 – 1886) aveva disposto gli elementi in ordine di peso atomico crescente, tracciando un diagramma degli elementi stessi su un grafico cilindrico. Anche in questo caso, gli elementi simili si disponevano in colonne verticali. Questo grafico non fu pubblicato e anche quest'opera passò inosservata. Il chimico tedesco Julius Lothar Meyer (1830 – 1895) prese in considerazione il volume occupato da determinati pesi fissi dei diversi elementi. In queste condizioni ciascun peso conteneva lo stesso numero di atomi del proprio elemento. Il rapporto tra i volumi dei diversi elementi, quindi, era uguale al rapporto tra i volumi dei singoli atomi dei diversi elementi. Si poteva parlare di volumi atomici. Tracciando un grafico dei volumi atomici degli elementi in funzione dei pesi atomici, si otteneva una serie di onde che formavano vertici appuntiti in corrispondenza dei metalli alcalini (sodio, potassio, rubidio e cesio). La distanza tra due vertici consecutivi corrispondeva ad un periodo della tavola degli elementi. Il primo periodo era costituito solo dall'idrogeno; il secondo e il terzo erano formati da sette elementi ciascuno (rispecchiando la legge delle ottave di Newlands); gli ultimi periodi erano più lunghi (mostrando l'errore di Newlands: la legge delle ottave non può valere per tutta la tavola). Un anno prima che Meyer pubblicasse la sua teoria, però, il chimico russo Dimitrij Ivanovič Mendeléev (1834 – 1907) aveva scoperto a sua volta la variazione in lunghezza dei periodi degli elementi, passando a dimostrarne le conseguenze in modo sensazionale. Mendeléev notò che la valenza aumentava e diminuiva dando luogo a periodi: l'idrogeno; due periodi di sette elementi; periodi contenenti più di sette elementi. Mendeléev usò questi dati per costruire non un grafico come avevano fatto Meyer e Beguyer de Chancourtois, ma una tavola come quella di Newlands. Mendeléev pubblicò la sua tavola periodica degli elementi nel 1869. Per rispettare l'esigenza che tutti gli elementi di una colonna avessero la stessa valenza, in alcuni casi Mendeléev fu costretto a mettere un elemento di peso atomico leggermente maggiore davanti a un elemento di peso atomico leggermente inferiore. Scoprì anche che era necessario lasciare nella tavola degli spazi vuoti, immaginando che essi corrispondessero ad elementi non ancora scoperti. Mendeléev riuscì a scoprire anche molte proprietà degli elementi mancanti, basando il suo ragionamento sulle proprietà degli elementi che si trovavano sopra e sotto gli spazi vuoti. Si colmano i vuoti Nel 1814, l'ottico tedesco Joseph von Fraunhofer (1787 – 1826), fabbricando i suoi prismi, scoprì che la luce che passava attraverso essi formava uno spettro di colore attraversato da una serie di righe scure. Contò circa seicento righe di questo genere, prendendo nota della loro posizione. Il fisico Gustav Robert Kirchhoff (1824 – 1887) e il chimico Robert Wilhelm Bunsen (1811 – 1899) riuscirono a trarre informazioni sensazionali da queste righe. Ciò avvenne grazie al becco Bunsen, un congegno costituito da un cannello nel quale avviene la combustione di una miscela di gas e aria, che produce una fiamma molto calda e poco luminosa. Quando Kirchhoff collocava diversi cristalli nella fiamma, questa cominciava ad emanare luce di colori particolari. Facendola passare attraverso un prisma, questa luce si separava formando linee brillanti. Kirchhoff dimostrò che ogni elementi produceva uno spettro diverso dagli altri, che lo rendeva identificabile. L'apparecchio usato per analizzare gli elementi in base a questa proprietà fu chiamato spettroscopio. Lo spettroscopio fu usato per dimostrare che il sole era composto di elementi identici a quelli terrestri, inoltre permise di individuare nuovi elementi. Bunsen e Kirchhoff scoprirono il cesio e il rubidio. Il chimico francese Paul Emile Lecoq de Boisbaudran (1838 – 1912) scoprì il gallio (un elemento le cui proprietà erano state già studiate da Mendeléev). Altri due elementi previsti da Mendeléev furono scoperti in seguito: il chimico svedese Lars Fredrick Nilson (1840 – 1899) scoprì lo scandio; il chimico tedesco Clemens Alexander Winkler (1838 – 1904) scoprì il germano. Da quel momento in poi non era più possibile dubitare della validità e dell'utilità della tavola periodica. Nuovi gruppi di elementi Il chimico finlandese Johan Gradolin (1760 – 1852) aveva scoperto un nuovo ossido metallico che prese il nome di terra rara, o ittrite. Cinquanta anni dopo, da essa fu isolato un elemento, l'ittrio. Il chimico svedese Carl Gustav Mosander (1797 – 1858) scoprì ben quattro elementi appartenenti alle terre rare: il lantanio, l'erbio, il terbio e il didimio. Il chimico austriaco Carl Auer, barone von Welsbach (1858 – 1929), scoprì che il didimio era in realtà un miscuglio di due elementi, che chiamò praseodimio e neodimio. Entro il 1907 erano stati scoperti in tutto quattordici elementi appartenenti al gruppo delle terre rare: si erano aggiunti il disprosio, l'olmio, il tulio e il lutezio. Le terre rare avevano proprietà chimiche simili e valenza pari a 3. Sarebbero dovute rientrare tutte in una stessa colonna della tavola periodica, ma una disposizione del genere sembrava impossibile perché nessuna colonna era abbastanza lunga da contenere quattordici elementi. Inoltre i pesi atomici delle terre rare erano separati da intervalli molto brevi, perciò si sarebbero dovute collocare tutte in una stessa riga orizzontale, cioè nello stesso periodo. La mancanza di una spiegazione gettò ombra su tutta la tavola periodica. Il fisico inglese John William Strutt, Lord Rayleigh (1842 – 1919) si dedicò a calcolare i pesi atomici dell'ossigeno, dell'idrogeno e dell'azoto. Nel caso dell'azoto scoprì che il peso atomico variava a seconda dell'origine del gas. Il chimico scozzese William Ramsay (1852 – 1916), interessatosi al problema, ricordò che Cavendish aveva cercato di combinare l'azoto dell'aria con l'ossigeno, scoprendo che rimaneva un'ultima bolla di gas che non si combinava con l'ossigeno. Poteva darsi che l'azoto estratto dall'aria contenesse un altro gas leggermente più pesante dell'azoto, che facesse apparire un po' più pesante l'azoto dell'aria. Ramsay ripeté l'esperimento di Cavendish e scoprì uno nuovo gas, che chiamò argo. Questo elemento (con peso atomico 40) avrebbe dovuto occupare un posto vicino allo zolfo, al cloro, al potassio e al calcio. L'argo aveva, però, valenza pari a 0 (perché non si combinava con nessun altro elemento) e venne quindi collocato tra cloro (valenza 1) e potassio (valenza 1), in modo da formare la seguente successione: zolfo (2), cloro (1), argo (0), potassio (1), calcio (2). Ramsay iniziò a cercare altri gas con valenza pari a 0, che appartenessero alla famiglia dei gas inerti, i quali si sarebbero collocati tra la colonna degli alogeni e quella dei metalli alcalini (entrambe con valenza 1). Venne scoperto l'elio (il più leggero dei gas inerti e l'elemento, dopo l'idrogeno, con peso atomico più basso), il neon, il cripto e lo xeno. A partire dal 1910, il chimico francese Georges Claude (1870 – 1960) dimostrò che una corrente elettrica costretta a passare attraverso gas come il neon, genera una luce morbida e colorata. Prima del 1950 le lampadine a filamento incandescente dei centri dello spettacolo vennero sostituite da luci al neon (dei tubi pieni di questo gas potevano essere piegati per formare lettere dell'alfabeto, parole o disegni). CAPITOLO 9 – LA CHIMICA FISICA Il calore All'inizio del diciannovesimo secolo, i fisici più famosi come James Prescott Joule (1818 – 1889), Julius Robrt von Mayer (1814 – 1878) e Hermann Ludwig Ferdinnd von Helmholtz (1821 – 1894) si occupavano dello studio del flusso del calore, ovvero della termodinamica. Entro il quinto decennio del secolo, dimostrarono che, in tutte le trasformazioni subite dal calore e dalle altre forme di energia, non si verificava né creazione, né distruzione di energia. Questo principio prese il nome di legge della conservazione dell'energia, o primo principio della termodinamica. I fisici Nicolas Léonard Sadi Carnot (1796 – 1832), Lord Kelvin 1824 – 1907) e Rudolf Julius Emanuel Clausius (1822 – 1888) dimostrarono che il calore abbandonato a se stesso passava spontaneamente dai punti con temperatura maggiore a quelli con temperatura inferiore. Il calore svolgeva un lavoro solo quando esisteva un flusso di calore del genere, in corrispondenza di una differenza di temperatura. Questo principio poteva essere applicato a qualsiasi forma di energia. Clausius inventò il termine entropia per indicare il rapporto tra la quantità di calore contenuta in un sistema isolato e la sua temperatura assoluta. In qualsiasi trasformazione spontanea di energia, l'entropia del sistema avrebbe registrato un aumento (secondo principio della termodinamica). Nel 1840 il chimico russo-svizzero Germain Henri Hess (1802 – 1850) dimostrò che la quantità di calore generata nella trasformazione di una sostanza in un'altra era sempre la stessa, indipendentemente dal procedimento chimico seguito nella trasformazione e dal numero delle fasi di essa. Grazie alla cosiddetta legge di Hess, Hess viene considerato il fondatore della termochimica (chimica del calore). Negli anni sessanta Berthelot escogitò un procedimento per compiere reazioni chimiche in un ambiente chiuso circondato da acqua a temperatura nota. Dall'aumento della temperatura dell'acqua circostante alla fine della reazione si poteva misurare la quantità di calore sviluppata dalla reazione stessa (attraverso il calorimetro). Berthelot pensava che le reazioni che emettono calore fossero spontanee, e che quelle che assorbono calore non lo fossero. Ad esempio, quando l'idrogeno si combina con l'ossigeno formando l'acqua, la reazione emette calore (reazione spontanea); quando l'acqua si decompone in idrogeno e ossigeno, la reazione richiede energia, che può essere fornita sotto forma di calore o di elettricità (reazione non spontanea). La generalizzazione di Berthelot è sbagliata per due motivi: 1) Non tutte le reazioni spontanee emettono calore, poiché alcune lo assorbono; 2) Esistono reazioni reversibili, nelle quali le sostanze A e B sono in grado di reagire spontaneamente trasformandosi nelle sostanze C e D, mentre C e D sono in grado di trasformarsi di nuovo, altrettanto spontaneamente, in A e B. Le reazioni reversibili furono studiate nel 1850 da Williamson. Secondo lui, entrambe le reazioni si svolgevano in continuazione, ma i loro effetti si neutralizzavano a vicenda, dando l'illusione della quiete. Questa condizione venne definita di equilibrio dinamico. L'opera di Williamson segnò l'inizio dello studio della cinetica, ovvero lo studio della velocità delle reazioni chimiche. La termochimica I chimici norvegesi Cato Maximilian Guldberg (1836 – 1902) e Peter Waage (1833 – 1900) ritenevano che la direzione in cui avveniva una determinata reazione dipendeva dalla concentrazione delle sostanze partecipanti alla reazione (ovvero dalla quantità della massa di una data sostanza contenuta in un determinato volume della miscela partecipante alla reazione). A e B sono in grado di reagire formando C e D; C e D reagiscono formando A e B. Questa doppia reazione si può rappresentare così: A + B ↔ C + D. Questa situazione raggiunge l'equilibrio in condizioni tali che A, B, C e D sono tutti presenti nel sistema. Il punto di equilibrio dipende dalla velocità di reazione di A e B (velocità 1) rispetto alla velocità di reazione di C e D (velocità 2). – Punto di equilibrio “spostato a destra”: se la velocità 1 è molto maggiore della velocità 2, A e B reagiscono velocemente formando grandi quantità di C e D; al contrario C e D reagiscono lentamente e producono una quantità limitata di A e B. Quando la reazione raggiunge l'equilibrio nella miscela predominano C e D. – Punto di equilibrio “spostato a sinistra”: se la velocità 2 è molto maggiore della velocità 1, accade l'inverso. All'equilibrio, nella miscela dominano A e B. concordava con questa ipotesi. Ma nel caso degli elettroliti, come il sale comune (NaCl), l'abbassamento del punto di congelamento era due volte maggiore del previsto. Il numero delle particelle presenti era il doppio di quello delle molecole di sale. Facendo sciogliere del cloruro di bario (BaCl2), il numero delle particelle presenti risultava tre volte maggiore di quello delle molecole. La molecola di NaCl è costituita da due atomi, e la molecola di BaCl2 da tre. Arrhenius pensò che quando determinate molecole venivano disciolte in un solvente come l'acqua, queste molecole si dividessero nei singoli atomi che le componevano. Inoltre, dato che queste molecole, una volta scisse in atomi, conducevano la corrente elettrica, Arrhenius ritenne che le molecole non si decomponessero in atomi normali, ma in atomi dotati di carica elettrica. Arrhenius affermò che gli ioni di Faraday non erano altro che atomi (o gruppi di atomi) dotati di carica elettrica positiva o negativa (o erano “atomi di elettricità” oppure “trasportatori di atomi di elettricità”). Arrhenius usò la sua teoria della dissociazione ionica per spiegare molti fenomeni dell'elettrochimica. Arrhenius osservò che le molecole non reagivano necessariamente tra loro, urtandosi, a meno che non fossero dotate di un quantitativo minimo di energia, o energia di attivazione. Quando questa è bassa, le reazioni si svolgono rapidamente e senza difficoltà; quando è alta, può darsi che la reazione abbia luogo a velocità infinitamente piccola. In questo secondo caso, se si aumentasse la temperatura in modo da far ricevere l'energia necessaria ad un certo numero di molecole, la reaione avrebbe luogo all'improvviso e violentemente (come succede con l'esplosione provocata da un miscuglio di idrogeno e ossigeno, che si verifica non appena si raggiunge la temperatura di accensione). Ancora sui gas Alla metà del diciannovesimo secolo, il chimico franco-tedesco Henri Victor Regnault (1810 – 1878) eseguì delle misurazioni accurate sui volumi e sulle pressioni dei gas dimostrando che, soprattutto quando si aumentava la pressione o si riduceva la temperatura, i gas non seguivano esattamente la legge di Boyle (secondo la quale la pressione e il volume di una certa quantità di gas variavano in misura inversamente proporzionale). Il fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831 – 1879) e il fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844 – 1906) avevano enunciato la loro teoria cinetica dei gas, secondo la quale questi ultimi erano complessi di tantissime particelle animate da movimenti disordinati. Essi accettarono la teoria di Boyle, ma con due presupposti: 1) che non esistessero forse di attrazione tra le molecole dei gas; 2) che le molecole dei gas avessero dimensioni uguali a zero. I gas che seguono questi presupposti si dicono gas perfetti. Nessun gas reale è completamente “perfetto”, anche se l'idrogeno e l'elio si avvicinano alla perfezione. Il fisico olandese Johannes Diederik Van der Waals (1837 – 1923) elaborò un'equazione che collegava insieme la pressione, il volume e la temperatura dei gas. La migliore conoscenza delle proprietà dei gas aiutò a risolvere il problema della loro liquefazione. Faraday aveva liquefatto molti gas, ma non era riuscito ad ottenere risultati positivi con gas quali l'ossigeno, l'azoto, l'idrogeno, l'ossido di carbonio e il metano. Queste sostanze vennero dette “gas permanenti”. Intorno al 1870, il chimico irlandese Thomas Andrews (1813 – 1885) scoprì, sperimentando con l'anidride carbonica, che alla temperatura di 31° nessuna pressione, per quanto elevata, era sufficiente per liquefare un gas. Andrews avanzò l'ipotesi che per ciascun gas esistesse quella, cosiddetta, temperatura critica. Di conseguenza, i gas permanenti erano solo quelli con temperature critiche molto al di sotto dei valori che si raggiungevano in laboratorio. Joule e Thomson avevano scoperto che era possibile raffreddare i gas permettendo loro di espandersi. Se si fossero lasciati espandere dei gas, comprimendoli in condizioni tali da impedire loro di riacquistare calore, per poi lasciarli espandere di nuovo, e così via, si sarebbero ottenute temperature bassissime. Usando questo procedimento, il fisico francese Louis Paul Cailletet (1832 – 1913) e il chimico svizzero Raoul Pictet (1846 – 1929) riuscirono a liquefare gas come l'ossigeno, l'azoto e l'ossido di carbonio, ma l'idrogeno respingeva ogni tentativo. Il chimico scozzese James Dewar (1842 – 1923) affrontò il problema. Conservò una buona quantità di ossigeno liquido in un vaso di Dewar. Era un recipiente a pareti doppie, con in mezzo il vuoto. Il vuoto trasmette calore solo per irraggiamento, un fenomeno molto lento. Dewar rallentò ancora di più il processo ricoprendo di argento le pareti del vaso, in modo che il calore irradiato venisse riflesso, invece che assorbito (stesso meccanismo dei thermos). L'idrogeno poteva essere raffreddato immergendolo nell'ossigeno liquido conservato in questi recipienti, e Dewar riuscì nell'impresa. La liquefazione dell'idrogeno era avvenuta a 20 °K, solo venti gradi sopra lo zero assoluto. Il fisico olandese Heike Kamerlingh Onnes (1853 – 1926) superò questo record riuscendo a liquefare l'elio, in un bagno di idrogeno liquido, alla temperatura di 4 °K. CAPITOLO 10 – LA CHIMICA ORGANICA SINTETICA I coloranti Molti chimici nel diciannovesimo secolo cominciarono a costruire molecole organiche. In Gran Bretagna c'erano pochi chimici organici validi e fu fatto venire a Londra dalla Germania August Wilhelm von Hofmann (1818 – 1892), al quale venne assegnato come assistente uno studente adolescente, William Henry Perkin (1838 – 1907). Nel 1865, Perkin trattò l'anilina con il bicromato di potassio e si accorse di un bagliore purpureo. Aggiunse dell'alcool, che sciolse parte della poltiglia e divenne di un bel color porpora. Perkin aveva creato una tintura, che chiamò “porpora di anilina”. Questo colore venne chiamato “malva” e segnò la fondazione dell'industria dei coloranti artificiali. Perkin ideò un procedimento per aggiungere a una molecola due atomi di carbonio, che prese il nome di reazione di Perkin; il suo maestro, ideò un procedimento per rompere un anello di atomi contenente un atomo di azoto, che prese il nome di degradazione di Hofmann. Nel 1867 Baeyer avviò un programma di ricerche che portò alla sintesi dell'indaco. Questo portò al fallimento delle grandi piantagioni d'indaco dell'Estremo Oriente. L'anno dopo, un allievo di Baeyer, Karl Graebe (1841 – 1927), sintetizzò l'alizarina, un altro colorante naturale importante. I medicinali Il chimico tedesco Richard Willstätter (1872 – 1942) calcolò esattamente la struttura della clorofilla. Due chimici tedeschi, Heinrich Otto Wieland (1877 – 1957) e Adolf Windaus (1876 – 1959), calcolarono la struttura degli steroidi e composti affini. Un altro chimico tedesco, Otto Wallach (1847 – 1931), illustrò la struttura dei terpeni, importanti oli vegetali, mentre un altro ancora, Hans Fischer (1881 – 1945), studiò la struttura dell'eme, la sostanza colorante del sangue. Nel ventesimo secolo vennero studiati gli ormoni, le vitamine e gli alcaloidi, e in molti casi ne venne determinata la struttura molecolare. Negli anni '30, ad esempio, il chimico svizzero Paul Karrer (1889 – 1971) ha calcolato la struttura dei carotenoidi, importanti pigmenti strettamente associati alla vitamina A. Il chimico inglese Robert Robinson (1886 – 1975) ha individuato la struttura della morfina e di quella della stricnina. Il chimico americano Robert Burns Woodward (1917 – 1979) ha ottenuto la sintesi della stricnina, del chinino, del colesterolo, del cortisone, della reserpina, della clorofilla e dell'acromicina, un famoso antibiotico. Il chimico russo-americano Phoebus Aaron Theodore Levene (1869 – 1940) aveva dedotto le strutture dei nucleotidi, sostanze che servono da elementi costruttivi delle molecole giganti degli acidi nucleici. Il chimico scozzese Alexander Robertus Todd (1907 – 1997) sintetizzò i vari nucleotidi e composti affini tra gli anni '40 e gli anni '50. Alcune di queste sostanze, soprattutto gli alcaloidi, rientrano nella categoria generale dei medicinali. Una sostanza sintetica, l'arsfenamina, era stata usata dal batteriologo tedesco Paul Ehrlich (1854 – 1915) come agente terapeutico contro la sifilide. Questa applicazione è ritenuta alla base dello studio della chemioterapia, cioè la cura delle malattie per mezzo di sostanze chimiche specifiche. Il chimico tedesco Gerhard Domagk (1895 – 1964) scoprì che la sulfanilamide, un composto sintetico scoperto anni prima, poteva servire per combattere una serie di malattie infettive. Nel 1928, il batteriologo scozzese Alexander Fleming (1881 – 1955) scoprì la penicillina, il primo antibiotico (“contro la vita”, nel senso della vita microscopica). Negli anni '40 e '50 vennero isolati da varie muffe e messi in commercio diversi antibiotici, come la streptomicina e le tetracicline. Il materiale usato per le analisi delle sostanze organiche era scarso, e le analisi risultavano imprecisi o addirittura impossibili. Il chimico austriaco Fritz Pregl (1869 – 1930) riuscì a ridurre le dimensioni degli strumenti usati nelle analisi, elaborando la tecnica della microanalisi. I classici procedimenti di analisi richiedevano la misurazione del volume di una sostanza consumata nel corso di una reazione (analisi volumetrica), oppure la pesatura di una sostanza prodotta da una reazione (analisi gravimetrica). Le proteine Fino ad allora erano state studiate solo molecole giganti facili da scindere in “elementi costruttivi” piuttosto piccoli. Il chimico scozzese Thomas Graham (1805 – 1869) era interessato al fenomeno della diffusione, ovvero il modo in cui si mescolano tra loro le molecole di due sostanze che entrano in contatto. Graham riuscì a dimostrare che la velocità di diffusione dei gas era inversamente proporzionale alla radice quadrata del loro peso molecolare (legge di Graham). In seguitò studiò la diffusione delle sostanze in soluzione, scoprendo che le soluzioni di sostanze come il sale, lo zucchero o il solfato di rame erano in grado di passare attraverso una membrana di pergamena, mentre le soluzioni di sostanze come la gomma arabica, la colla e la gelatina non riuscivano a passare. Graham chiamò cristalloidi le sostanze che passavano facilmente, e colloidi quelle che non passavano. Lo studio delle molecole giganti entrò a far parte dello studio della chimica dei colloidi. Se da una parte una membrana di pergamena c'è acqua pura e dall'altra una soluzione colloidale, l'acqua entra nello scompartimento colloidale, ma la via d'uscita da esso è bloccata dalle molecole colloidali, perciò l'acqua entra più rapidamente di quanto non ne esca e ciò determina una pressione osmotica. Il botanico tedesco Wilhelm Pfeffer (1845 – 1920) dimostrò di poter misurare la pressione osmotica e di stabilire il peso molecolare delle molecole giganti della soluzione colloidale. Il chimico svedese Theodor Svedberg (1884 – 1971) realizzò, nel 1923, l'ultracentrifuga. Essa faceva girare le soluzioni colloidali, spingendo verso l'esterno le molecole giganti. Dalla velocità del moto verso l'esterno delle molecole giganti, si poteva calcolare il peso molecolare. Il chimico svedese Arne Wilhelm Kaurin Tiselius (1920 – 1971) perfezionò dei metodi per la separazione delle molecole giganti in base alla distribuzione della carica elettrica sulla superficie molecolare. Questa tecnica, detta elettroforesi, è importante per la separazione e la purificazione delle proteine. La molecola delle proteine è formata da una ventina di elementi costruttivi diversi ma imparentati, i vari aminoacidi. È per questo che le molecole delle proteine sono così versatili, ma così difficili da definire. Emil Fischer dimostrò che la parte aminica di uno aminoacido era legata alla parte acida di un altro, formando un legame peptidico. Bessemer, nel 1856, annunciò il suo forno convertitore, che permetteva di ottenere ferro più carbonio in quantità appena sufficiente per formare acciaio, senza passare per la fase costosa del ferro dolce. Il prezzo dell'acciaio calò, e l'età del ferro fu sostituita finalmente dall'età dell'acciaio. Il metallurgista inglese Robert Abbot Hadfield (1858 – 1940) brevettò nel 1882 l'acciaio al manganese, che segnò l'inizio del trionfo degli acciai speciali. Nel 1919 fu brevettato l'acciaio inossidabile (con cromo e nichelio), che non arrugginiva. Nel 1916 il metallurgista giapponese Kotaro Honda (1870 – 1954) scoprì che, aggiungendo cobalto all'acciaio al tungsteno, si otteneva una lega capace di fornire calamite più potenti di quelle di acciaio comune. Nel 1827, Wöhler isolò un campione impuro di alluminio, il metallo più comune. Nel 1855, il chimico francese Henri Etienne Sainte-Claire Deville (1818 – 1881) elaborò un metodo adeguato per la preparazione di alluminio ragionevolmente puro in quantità moderate. Era comunque più costoso dell'acciaio e veniva usato per ostentazione. Nel 1886, lo studente di chimica americano Charles Martin Hall (1863 – 1914) scoprì che l'ossido di alluminio era solubile in un minerale fuso detto criolite. Una volta disciolto l'ossido, per mezzo dell'elettrolisi si poteva ottenere lo stesso alluminio. Lo stesso anno, il metallurgista francese Paul Louis Toussaint Héroult (1863 – 1914) elaborò praticamente lo stesso metodo. Il procedimento Hall – Héroult ha messo l'alluminio alla portata di tutti, rendendolo adatto anche per impieghi più umili. L'alluminio ha il pregio di essere leggero (pesa un terzo dell'acciaio) ed è quindi utile nell'industria aeronautica, che usava anche grandi quantità di magnesio, metallo ancora più leggero. Azoto e fluoro L'azoto esiste in forma elementare, mentre quasi tutti gli organismi ne hanno bisogno soltanto sotto forma di composto. L'azoto però è quasi inerte e forma composti solo con difficoltà. Le esigenze dell'umanità in fatto di nitrati continuavano a crescere, rendendo insufficienti le fonti naturali. Il chimico tedesco Fritz Haber (1868 – 1934) studiò dei procedimenti per combinare con l'idrogeno l'azoto dell'atmosfera, formando ammoniaca. L'ammoniaca sarebbe poi stata facilmente trasformabile in nitrati. Entro il 1908 Haber era riuscito nel suo intento, sottoponendo l'idrogeno l'azoto ad alte pressioni e usando come catalizzatore del ferro. Il chimico tedesco Karl Bosch (1874 – 1940) aveva trasformato l'esperienza di Haber in procedimento industriale, e a metà della prima guerra mondiale produceva tutti i composti azotati di cui la Germania aveva bisogno. Succedeva l'opposto nel caso del fluoro, che esisteva solo sotto forma di composto e non era mai stato isolato (è l'elemento chimico più attivo in assoluto). Il chimico francese Ferdinand Frédéric Henri Moissan (1852 – 1907) decise di utilizzare il platino per costruire l'attrezzatura necessaria ad isolare il fluoro, poiché era l'unico elemento capace di resistergli. Raffreddò tutto a – 50 °C, per smorzare la fortissima attività del fluoro, e fece passare una corrente elettrica attraverso una soluzione di floruro di potassio in acido fluoridrico. Raggiunse l'obiettivo, isolando il fluoro. Moissan divenne famoso per aver prodotto dei diamanti, partendo dal carbone di legna, ma in realtà era stato vittima di un inganno. Anche l'inventore americano Edward Goodrich Acheson (1856 – 1931), cercò di produrre diamanti partendo da forme più comuni di carbonio. Non ci riuscì, ma ottenne una sostanza estremamente dura che chiamò carborundum. Si trattava di un composto di silicio e carbonio, molto abrasivo. I primi diamanti sintetici sono stati ottenuti nel 1955 grazie ai procedimenti messi a punto dal fisico americano Percy William Bridgman (1882 – 1961). La terra di nessuno tra chimica organica e inorganica Il chimico inglese Frederick Stanley Kipping (1863 – 1949), facendo ricerche sui composti organici contenenti silicio, riuscì a sintetizzare un buon numero di composti organici contenenti uno o più atomi di silicio e di ossigeno (gli elementi più diffusi sulla crosta terrestre). Questa attività non riguarda solo la chimica inorganica, perché ogni atomo di silicio ha valenza pari a quattro, ma di questi legami solo due vengono usati nella combinazione con l'ossigeno. Questo vuol dire che gli altri due possono unirsi ad una vasta gamma di gruppi organici. Questi siliconi organici/inorganici sono diventati importanti come grassi, fluidi idraulici, gomme sintetiche o idrorepellenti. La maggior parte dei composti organici è costituita dagli idrocarburi, ovvero composti fatti di carbonio e idrogeno. Esiste però una famiglia di fluorocarburi (e derivati), ovvero di composti organici fatti di carbonio e fluoro. Il chimico americano Thomas Midgley jr. (1889 – 1944) preparò il freon, un gas la cui molecola è formata da un atomo di carbonio al quale sono uniti due atomi di cloro e due di fluoro. Il freon viene usato come refrigerante, ed è inodore, non velenoso e non infiammabile. I polimeri di fluorocarburi sono sostanze cerose, che respingono l'acqua e i solventi e non permettono il passaggio di elettricità. Negli anni '60 è entrata nell'uso una sostanza plastica composta di fluorocarburi (il teflon), usato sotto forma di pellicola sottile per rivestire le padelle, che possono così essere usate per friggere senza grasso. Il chimico tedesco Alfred Stock (1876 – 1946) cominciò a studiare gli idruri di boro (composti di boro e idrogeno) e scoprì che si potevano costruire composti abbastanza complicati, analoghi per certi versi agli idrocarburi. Gli idruri di boro sono stati usati come additivi per i combustibili dei missili, per aumentare la spinta che aziona i veicoli a razzo negli strati superiori dell'atmosfera e nello spazio. CAPITOLO 12 – GLI ELETTRONI I raggi catodici Per tutto il diciannovesimo secolo si continuò a pensare che l'atomo fosse una particella indivisibile, senza struttura e senza caratteristiche. I passi avanti si devono alle ricerche sulla corrente elettrica. Se in un punto esiste una concentrazione di cariche elettriche positive e in un altro una concentrazione di cariche elettriche negative, tra i due punti si costituisce un potenziale elettrico, la cui forza fa passare da un punto di concentrazione all'altro una corrente di elettricità, che tende a livellare la concentrazione. La corrente attraversa più facilmente alcune sostanze, dette conduttori, come i metalli, mentre le sostanze dette isolanti hanno bisogno di un potenziale elettrico enorme per essere attraversate da correnti anche deboli. Gli scienziati del diciannovesimo secolo cercarono di far passare la corrente elettrica attraverso il vuoto, ma serviva un vuoto abbastanza spinto da permettere alla corrente di attraversalo senza troppe interferenze da parte della materia. Nel 1855, il vetraio tedesco Heinrich Geissler (1814 – 1879) escogitò un procedimento per la produzione del vuoto più spinto che si fosse mai ottenuto fino a quel momento. I tubi di Geissler, vennero usati dal fisico tedesco Julius Plücker (1801 – 1868), che fece sigillare due elettrodi in uno di questi tubi, stabilì tra loro un potenziale elettrico e riuscì a far passare una corrente. La corrente determinava degli effetti luminosi all'interno del tubo, che variavano a seconda dell'intensità del vuoto. Il fisico inglese William Crookes (1832 – 1919) aveva realizzato un tubo a vuoto ancora più perfezionato (tubo di Crookes), che permetteva di studiare meglio il passaggio della corrente elettrica nel vuoto. Crookes dimostrò che la corrente elettrica andava dal catodo all'anodo, dove colpiva il vetro circostante creando l'alone di luce. Nel 1876 il flusso fu chiamato raggi catodici dal fisico tedesco Eugen Goldstein (1850 – 1930). Era ragionevole supporre che i raggi catodici fossero una forma di luce e che fossero costituiti da onde oppure che fossero formati da particelle veloci le quali, a causa del loro minimo peso o della loro elevata velocità, non avrebbero risentito della gravità. Nel 1897, il fisico inglese Joseph John Thomson (1856 – 1940) riuscì a dimostrare la deviazione dei raggi catodici in un campo elettrico, dimostrando una volta per tutte che i raggi catodici erano flussi di particelle dotate di carica negativa. La misura della deviazione di una particella dei raggi catodici in un campo magnetico di forza data dipende dalla massa della particella e dalla grandezza della sua carica elettrica. Thomson fu in grado di misurare il rapporto tra massa e carica, anche se non poteva misurare separatamente né l'una né l'altra. Nel 1911, il fisico americano Robert Andrews Millikan (1868 – 1953) riuscì a misurare la carica elettrica minima che poteva essere trasportata da una particella. Se l particella dei raggi catodici avesse trasportato questa carica, la massa della particella stessa non avrebbe potuto superare 1/1837 della massa dell'atomo di idrogeno. Fu scoperta così la prima delle particelle subatomiche, che nel 1891 fu chiamata elettrone. L'effetto fotoelettrico Restava da stabilire se esistesse qualche rapporto tra l'elettrone e l'atomo. Venne presa in considerazione la teoria di Arrhenius secondo cui gli ioni sarebbero stati atomi o gruppi di atomi dotati di carica elettrica. Bisognava però dimostrare l'esistenza degli ioni a carica positiva. Nel 1888, il fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz (1857 – 1894) fece passare una scintilla elettrica attraverso l'aria compresa tra un elettrodo e l'altro. Hertz si accorse che, quando il catodo era investito da una luce ultravioletta, l'emissione della scintilla era più facile. Questo fenomeno, insieme ad altri fenomeni elettrici provocati dalla luce sui metalli, fu denominato in seguito effetto fotoelettrico. Il fisico tedesco Philipp Eduard Anton Lenard (1862 – 1947) dimostrò che l'effetto fotoelettrico era provocato dall'emissione di elettroni da parte del metallo. Ciò avveniva con diversi metalli, quindi si poteva supporre che gli atomi dei metalli contenessero elettroni. J. J. Thomson immaginò che l'atomo fosse una sfera solida di materia dotata di carica positiva, sulla quale fossero attaccati gli elettroni negativi. Nell'atomo allo stato normale la carica negativa degli elettroni avrebbe neutralizzato la carica positiva dell'atomo, mentre l'aggiunta di elettroni supplementari avrebbe dato all'atomo una carica negativa. Asportando alcuni degli elettroni originari, invece, l'atomo avrebbe avuto una carica positiva. Nel 186, Goldstein fece degli esperimenti in un tubo sotto vuoto con un catodo perforato. Quando verso l'anodo venivano emessi raggi catodici, degli altri raggi passavano attraverso i fori del catodo e si allontanavano nella direzione opposta. Dato che questi raggi viaggiavano nella direzione opposta ai raggi catodici a carica negativa, si pensò che fossero formati di particelle a carica positiva. Nel 1907 J. J. Thomson li chiamò raggi positivi (attualmente raggi canale). Tutti gli elettroni avevano la stessa massa, mentre le particelle dei raggi positivi avevano masse diverse, a seconda dei gas presenti nel tubo a vuoto. Inoltre la massa di queste particelle era paragonabile a quella dell'atomo (mentre quella degli elettroni era 1/1837 di quella dell'atomo). Il fisico neozelandese Ernest Rutherford (1871 – 1937) propose che la più piccola particella dei raggi canale (che aveva la stessa massa dell'atomo di idrogeno) venisse accettata come unità fondamentale di carica positiva e la chiamò protone. La radioattività Il fisico tedesco Wilhelm Konrad Röntgen (1845 – 1923) studiava le proprietà dei raggi catodici di rendere luminose determinate sostanze chimiche. Un giorno, per caso, si accorse che quando i raggi catodici erano in funzione, un foglio di carta rivestita di sostanze chimiche posto ad una discreta distanza dal tubo diventava luminoso. Notò che la radiazione illuminava il foglio anche quando esso si trovava in un'altra stanza, quindi passava attraverso i muri. Röntger chiamò questi raggi penetranti col nome di raggi X. A mano a mano che, negli atomi più pesanti, aumenta il numero degli elettroni, le cortecce cominciano a sovrapporsi. Gli atomi contrassegnati da numeri atomici consecutivi hanno elettroni supplementari in una delle cortecce interne, mentre in quella esterna il numero è costante. Il chimico tedesco Richard Abegg (1869 – 1910) aveva rivelato che la configurazione elettronica dei gas nobili doveva essere particolarmente stabile. In essi non vi era la tendenza né ad aumentare, né a diminuire il numero degli elettroni. Per questo, i gas stessi non prendevano parte a reazioni chimiche. Quindi, gli altri atomi avrebbero potuto cedere o accettare elettroni per arrivare ad avere la stessa configurazione dei gas nobili. Ad esempio, la disposizione degli undici elettroni del sodio è 2-8-1, mentre quella dei diciassette elettroni del cloro è 2-8-7. Se il sodio cede un elettrone e il cloro ne accetta uno, il sodio acquista la distribuzione 2-8 del neon, e il cloro consegue la configurazione 2-8-8 dell'argo. L'atomo di sodio diventa ione sodio (poiché cede una carica negativa, quindi diventa carico positivamente), al contrario l'atomo di cloro diventa ione cloro. Il sodio e il cloro hanno valenza 1, poiché il primo non può cedere più di un elettrone e il secondo non può accettare più di un elettrone. Il calcio (2-8-8-2) e l'ossigeno (2-6) tendono rispettivamente a cedere e ad acquistare 2 elettroni, quindi hanno valenza 2. La teoria di Abegg considerava solo i trasferimenti completi di elettroni (elettrovalenza). I chimici americani Gilbert Newton Lewis (1874 – 1946) e Irving Langmuir (1881 – 1957) proposero una spiegazione per la struttura della molecola del cloro, formata da due atomi di cloro strettamente uniti. Non c'è motivo per cui un atomo di cloro trasferisca un elettrone ad un altro atomo di cloro, e i due atomi non potevano aderire per semplice attrazione elettrostatica (cariche opposte che si attraggono). Secondo Lewis e Langmuir, ciascun atomo mette in comune un elettrone; i due elettroni del fondo comune sarebbero rimasti nella corteccia esterna di entrambi gli atomi, facendo parte di entrambi contemporaneamente. Ciascun atomo avrebbe avuto la configurazione 2-8-8, invece che 2-8-7. Ogni elettrone del fondo comune rappresenta, per l'atomo che lo fornisce, una valenza 1; questa valenza, che richiede la collaborazione di due atomi, si dice covalenza. Diventava impossibile usare le formule di Kekulé per rappresentare gran parte delle molecole organiche, quindi il trattino venne sostituito da una coppia di elettroni messi in comune. Negli anni '20, il chimico inglese Neil Vincent Sidgwick (1873 – 1952) riuscì a estendere ai composti inorganici il concetto di covalenza a coppie di elettroni. Nel 1923, il chimico danese Johannes Nicolaus Brønsted (1879 – 1947) introdusse una nuova concezione degli acidi e delle basi. L'acido venne definito “composto con tendenza a cedere un protone” e la base “composto con tendenza a combinarsi con un protone”. La risonanza Verso la fine degli anni 20, alcuni scienziati come il chimico inglese Christopher Ingold (1893 – 1970) cominciarono a cercare di interpretare le reazioni organiche in funzione di spostamenti di elettroni da un punto della molecola all'altro. La chimica fisica organica diventò una disciplina importante. Nel 1923 il fisico francese Louis Victor, principe de Broglie (1892 – 1987) aveva dimostrato che l'elettrone possedeva proprietà ondulatorie. Pauling elaborò dei metodi per tener conto della natura ondulatoria degli elettroni nel considerare le reazioni organiche. Dimostrò che il fondo comune di elettroni si poteva considerare come un fenomeno di interazione di onde. Le onde elettroniche si accoppiavano rinforzandosi, ed entrando in risonanza tra loro davano luogo a una situazione più stabile in caso di combinazione che in caso di separazione. Questa teoria della risonanza permise di stabilire la struttura del benzolo. Pauling dimostrò che se agli elettroni si attribuiva natura ondulatoria, non occorreva più immaginare che ciascun elettrone occupasse un punto determinato, ma si poteva pensare che esso si “spargesse” su un'estensione considerevole. La tendenza a “spargersi” aumentava se la molecola era perfettamente piatta e simmetrica come quella del benzolo, nella quale tutti i sei atomi di carbonio dell'anello del benzolo risultavano legati nello stesso modo. Questi legami si potevano rappresentare come una specie di media particolarmente stabile, o ibrido di risonanza, tra i due estremi. Grazie alla teoria di risonanza permetteva di supporre che l'atomo di carboni formasse legami di tipo leggermente differente con i propri vicini, a seconda dell'elettrone interessato. Si riuscì a dimostrare che i quattro elettroni interagivano formando quattro legami “medi” equivalenti e orientati verso i quattro vortici di un tetraedro. Il chimico russo-americano Moses Gomberg (1866 – 1947) cercava di produrre esafeniletano, un composto la cui molecola consiste di due atomi di carbonio ai quali sono uniti sei anelli di benzolo. Gomberg ottenne, invece, del trifenilmetile, una “semimolecola” composta da un atomo di carbonio unito a tre anelli di benzolo. Il quarto legame di valenza dell'atomo di carbonio era inutilizzato. Questo composto somigliava ad uno dei vecchi radicali, e fu chiamato radicale libero. Se la molecola è piatta e molto simmetrica, l'elettrone inutilizzato può “spargersi” su tutta l'estensione della molecola, così il radicale libero si stabilizza. Si scoprì che le reazioni organiche erano lente a causa della formazione di radicali liberi in determinate fasi, poiché la loro formazione era difficile e ostacolava la reazione. Il concetto di risonanza non si limitava alla chimica organica. Pauling ipotizzò che fosse possibile formare dei composti anche con i gas nobili, che sembravano così restii alla formazione di legami. Nel 1962 si ottenne il floruro di xeno (dal fluoro e il gas nobile xeno). Il periodo di dimezzamento Nel 1900 Crookes aveva scoperto la radioattività dei composti di uranio puro aumentava col passar del tempo. Nel 1902 Rutherford insieme al chimico inglese Frederick Soddy (1877 – 1956) ipotizzarono che la natura dell'uranio si trasformasse per l'emissione di una particella alfa. L'atomo di uranio si sarebbe trasformato in un nuovo tipo di atomo, con caratteristiche radioattive differenti, e capace di emettere radiazioni più forti di quelle dello stesso uranio. L'uranio era capostipite di una serie di elementi radioattivi, o serie radioattiva, che comprendeva il radio e il polonio e finiva in ultimo con il piombo, che non era radioattivo. Con l'uranio cominciava anche una seconda serie radioattiva, mentre una terza serie cominciava dal torio. Rutherford dimostrò che, trascorso un determinato periodo, caratteristico di ogni elemento, qualsiasi quantitativo di un dato elemento radioattivo si sarebbe disintegrato a metà. Questo tempo fu chiamato periodo di dimezzamento. Ad esempio il periodo di dimezzamento del radio è meno di 1'600 anni, quello dell'uranio è di 4'500'000 anni e quello del torio di 14'000'000'000. Questi periodi di tempo si determinano contando il numero delle particelle alfa prodotte da una data massa di uranio (o di torio), grazie a uno strumento chiamato contatore a scintillazione. Nel 1907, il chimico americano Bertram Borden Boltwood (1870 – 1927) suggerì di usare il contenuto in piombo dei minerali di uranio per misurare l'età della Terra. Se si supponeva che tutto il piombo presente nel minerale derivasse dalla disintegrazione dell'uranio, si sarebbe potuto calcolare il tempo necessario per la formazione del piombo preso in esame. Si riuscì a calcolare che la crosta solida della Terra deve avere avuto origine almeno quattro miliardi di anni fa. Soddy aveva descritto il modo in cui l'atomo si trasformava nell'emettere particelle subatomiche: 1) Se l'atomo perdeva una particella alfa, con carica uguale a +2, la carica complessiva del nucleo diminuiva di due unità. L'atomo si spostava a sinistra di due posti nella tavola periodica. 2) Se l'atomo perdeva una particella beta (elettrone con carica uguale a – 1), il nucleo acquistava una carica positiva in più e l'elemento si spostava a destra di un posto nella tavola periodica. 3) Se l'atomo perdeva un raggio di gamma (privo di carica), il contenuto di energia subiva una variazione, ma la struttura corpuscolare rimaneva inalterata; l'atomo restava lo stesso elemento. Gli isotopi Che cosa si doveva fare dei vari prodotti di disintegrazione dell'uranio e del torio? Ne erano stati scoperti a dozzine, ma nella tavola periodica cerano al massimo nove posti in cui sistemarli. Soddy suggerì che la stessa casella della tavola periodica avrebbe potuto essere occupata da atomi di diverso tipo. Ad esempio, la casella 90 avrebbe potuto ospitare diverse varietà di torio, la casella 82 diverse varietà di piombo, e così via. Soddy chiamò isotopi queste varietà di atomi che occupavano la stessa casella. Gli isotopi avevano lo stesso numero atomico e le stesse caratteristiche chimiche, ma diverso peso atomico e diverse proprietà radioattive. Nel 1912 J. J. Thomson aveva sottoposto all'azione di un campo magnetico dei fasci di ioni neon dotati di carica positiva. Il campo defletteva gli ioni neon e li faceva cadere su una lastra fotografica. Se tutti gli ioni fossero stati di massa identica, essi avrebbero subìto tutti la stessa deviazione, e sulla pellicola fotografica sarebbe apparsa una sola macchia. Invece furono individuate due macchie, e una era circa dieci volte più scura dell'altra. Altri elementi fornirono gli stessi risultati, e l'apparecchio fu chiamato spettrografo di massa. In base a questi risultati, sembrava che esistessero due tipi di atomi di neon, uno dei quali pesava più dell'altro. Il primo aveva un numero di massa pari a 20, il secondo pari a 22. Il peso atomico del neon era di circa 20,2 (poiché il neon-20 era dieci volte più comune del neon-22). Quindi, la massa dei singoli atomi era un multiplo intero di quella dell'atomo dell'idrogeno, mentre un dato elemento, composto di atomi di massa diversa, poteva avere un peso atomico risultante dalla media ponderata di questi numeri interi, quindi non necessariamente intero. I vari isotopi hanno lo stesso numero atomico, ma numeri di massa diversi, e nel nucleo hanno lo stesso numero di protoni, ma numeri differenti di neutroni. Il chimico canadese-americano Arthur Jeffrey Dempster (1886 – 1950) scoprì che l'uranio reperibile in natura era una mescolanza di due isotopi, anche se il suo peso atomico era molto vicino a un numero intero. Semplicemente, un isotopo era presente in proporzione molto maggiore rispetto all'altro. C'erano motivi teorici per sospettare che anche l'idrogeno fosse costituito da un paio di isotopi. Il chimico americano Harold Clayton Urey (1893 – 1981) fece evaporare lentamente quattro litri di idrogeno liquido e riuscì a individuare tracce inconfondibili dell'esistenza di un idrogeno 2, dal nucleo composto da un protone più un neutrone. All'idrogeno 2 fu imposto il nome particolare di deuterio. Il chimico americano William Francis Giauque (1895 – 1982) dimostrò che l'ossigeno era formato da tre isotopi. Il tipo più comune era l'ossigeno 16 (8 protoni più 8 neutroni), il resto era quasi tutto ossigeno 18 (8 protoni più 10 neutroni), con tracce di ossigeno 17 (8 protoni più 9 neutroni). I fisici si misero a determinare i pesi atomici sulla base dell'ossigeno 16 posto uguale a 16,0000, ottenendo una serie di valori (peso atomico fisico) uniformemente maggiori, di una quantità piccolissima, rispetto ai valori utilizzati e gradualmente perfezionati nel corso del diciannovesimo secolo (peso atomico chimico). Nel 1961, le organizzazioni internazionali dei chimici e dei fisici hanno deciso di adottare una scala dei pesi atomici basata sul carbonio 12 posto esattamente uguale a 12,0000. Questa scala coincide con i vecchi pesi atomici chimici, eppure è legata a un solo isotopo anziché alla media di un gruppo di isotopi. CAPITOLO 14 – LE REAZIONI NUCLEARI La nuova trasmutazione L'uomo poteva modificare a piacimento la struttura atomica delle molecole nelle reazioni chimiche ordinarie. Quindi, perché non modificare a volontà la disposizione dei protoni e dei neutroni del nucleo atomico nel corso di reazioni nucleari?
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