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Istituzioni antico regime, Appunti di Storia Delle Istituzioni Politiche

Istituzioni antico regime. Sintetizzare in poche pagine ciò che furono le istituzioni politiche nell’Europa d’antico regime non è solo un esercizio impegnativo, ma anche un’operazione da affrontare con qualche cautela sul piano del metodo

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 27/08/2019

Martina.Virdis
Martina.Virdis 🇮🇹

5

(1)

11 documenti

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Scarica Istituzioni antico regime e più Appunti in PDF di Storia Delle Istituzioni Politiche solo su Docsity! 1. Le istituzioni politiche dell’antico regime 1. Di cosa parliamo. Sintetizzare in poche pagine ciò che furono le istituzioni politiche nell’Europa d’antico regime non è solo un esercizio impegnativo, ma anche un’operazione da affrontare con qualche cautela sul piano del metodo. Se ancor oggi, infatti, l’espressione “istituzioni politiche” evoca più un ambito d’esperienza che un oggetto definito (più un contenitore che un contenuto, e per giunta un contenitore dai limiti tanto fluidi quanto lo è tuttora la nozione di politica), per la gran parte dell’età moderna essa rimase addirittura estranea al vocabolario dell’epoca. Benché infatti quel vocabolario contemplasse sia ‘politica’ che ‘istituzioni’, a lungo esso non declinò congiuntamente i due termini: i cui significati erano in effetti, all’epoca, così distanti tra loro da non incoraggiare abbinamenti di sorta. ‘Istituzione’, intanto, era usata originariamente, in sede giuridica, molto più per intendere l’atto di istituire (l’istituzione di un erede, di una carica, di una fondazione etc.) che non la cosa istituita o l’ordinamento corrispondente; mentre l’aggettivo ‘politico’, a lungo relegato nell’ambito del solo lessico filosofico, si limitava ad esprimere la naturale vocazione degli uomini ad unirsi tra loro in qualsiasi specie di società stabile, coerentemente col suo originario significato greco (che i giuristi, peraltro, preferivano rendere col più familiare termine latino ‘civile’); e solo poco alla volta iniziò ad indicare anche ciò che pertiene più specificamente all’“arte di governare uno Stato o una Repubblica”(così, ma ormai a fine Seicento, il Dictionnaire de l’Académie, t.II, 271; più in generale, Sellin, 47-78). Il fatto è che nella cultura della prima età moderna non esisteva alcuna differenza qualitativa tra i vari generi di autorità che un soggetto poteva esercitare su un altro. Il potere del padre di famiglia sui servi e sui consanguinei e quello del principe sui sudditi erano percepiti come forme diverse di una stessa sostanza - emanazioni necessarie di un ordine fissato una volta per tutte dalla natura, che assegnava a ciascuno un suo posto nella grande gerarchia dell’essere. Ora, di ‘istituzioni’ si comincia a parlare diffusamente proprio quando si fa strada la sensazione che una parte almeno dei rapporti sociali non sia qualcosa di naturale e d’immutabile (di ‘dato’), ma piuttosto il prodotto di certe convenzioni umane e del vario svolgersi dell’esperienza collettiva. Sensazione che però fa tutt’uno con il primo incrinarsi dell’antico regime, il quale non a caso sarebbe stato battezzato ‘antico’ dai rivoluzionari del 1789 in quanto basato appunto su un’acritica fede nella naturalità di tutto il reale. Così, per esempio, il filosofo Jean Barbeyrac (1674-1744), trovandosi a tradurre dal latino in francese, nel 1706, l’opera del contrattualista tedesco Samuel Pufendorf (1632-1694), ricorse consapevolmente al vocabolo “institution” per rendere il passo in cui l’autore spiegava in termini già marcatamente ‘moderni’ la differente origine degli “enti morali” rispetto a quelli puramente “fisici”: così come gli esseri fisici sono originariamente prodotti dalla Creazione, non si riuscirebbe ad esprimere meglio il modo in cui si formano gli enti morali che attraverso il termine di Istituzione (Pufendorf-Barbeyrac, I, 4). Tale termine, aggiunse Barbeyrac in una nota, era quello che in francese si avvicinava più di ogni altro al latino “impositio”, usato appunto nel testo originale per marcare il carattere tutto volontaristico e artificiale proprio delle comunità umane. La crescente fortuna del vocabolo a partire da questi anni si salda dunque con questa nuova coscienza: che sono solo storia, abitudini e decisioni “politiche” a plasmare gli assetti della convivenza. Come scrive per tutti nel 1769 l’illuminista scozzese Adam Ferguson (1723-1816), in origine non vi è altro tra gli uomini che una “casuale subordinazione”, e sono proprio le “istituzioni positive” a confermare, rovesciare o modificare il fortuito assetto di potere da essa generato (Ferguson, 31). Attraverso le istituzioni politiche, i diritti sono preservati o invasi, gli uomini vengono posti nella condizione di eguali o di schiavi e padroni, i loro crimini autorizzati o repressi, e i loro costumi migliorati o corrotti (Ferguson,205). Siamo così ad un passo dalla concezione contemporanea della ‘politica’, come capacità di ridefinire continuamente, sulla base di libere scelte razionali, il profilo della convivenza; ma siamo anche fuori dalla civiltà che era esistita fino ad allora e di cui dobbiamo qui occuparci – una civiltà senza istituzioni e senza (o senza almeno questa) politica. Dovendo, allora, pianificare in qualche modo il nostro viaggio nel fluido mondo dei poteri premoderni, più che far perno sulla categoria ‘istituzioni politiche’ si è ritenuto preferibile adottare per guida un’altra nozione, quella di Stato, non solo più univoca, ma anche sicuramente presente fin dall’inizio del Cinquecento nel mondo mentale dei contemporanei, ancorché in forme diverse da quelle di oggi. Anche questa scelta, certo, comporta rischi di anacronismi e distorsioni: indotti in primo luogo dall’ancor diffusa tendenza a considerare lo Stato d’antico regime come una forma embrionale e preparatoria del vero Stato moderno, figlio di quella cultura individualista e meccanicista di cui si diceva un attimo fa, e che si sarebbe affermato compiutamente con la Rivoluzione francese e il XIX secolo. Lo sforzo sarà invece quello di valorizzare al massimo l’autonomia di questa più risalente forma di Stato: il cui specifico non consiste affatto nell’avviare da subito quel processo di espropriazione delle tante società ‘politiche’ presenti attorno ad esso, destinato a sfociare secoli dopo nella grande tabula rasa rivoluzionaria, quanto piuttosto nell’integrare quelle società entro un comune orizzonte di pace e di ordine (Fioravanti, 187-191). I primi successivi quattro paragrafi (2-5) sono appunto dedicati a cogliere i caratteri fondanti e comuni (le ‘invarianti’) dello Stato d’antico regime; nel sesto accenneremo ad alcune sue differenti tipologie; nell’ultimo infine diremo qualcosa sulla sua crisi. 2. Una costituzione plurale “Per Stato si intende un governo giusto che si esercita con potere sovrano su più famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune fra loro” (Bodin, I, 159). La celebre definizione che apre l’edizione francese dei Sei libri sullo Stato di Jean Bodin (1529-1596) costituisce una buona porta d’accesso al nostro breve itinerario. Come tutti sanno, la grande novità di queste righe è il riferimento al “potere sovrano” quale connotato tipico della organizzazione politica statale. Non è però su questo dato (di cui diremo più avanti) che vogliamo ora richiamare l’attenzione. A interessarci qui sono piuttosto gli altri due elementi del dispositivo bodiniano: il riferimento al “governo giusto” e prima ancora alle “famiglie” (“mesnages”) come fattore costitutivo dell’ordine politico. Attraverso questi richiami, Bodin si ascrive ancora senza incertezze a quella antica tradizione di pensiero che vedeva nello Stato la risultante (insieme storica e logica) della aggregazione progressiva di una moltitudine di comunità minori, e nel potere centrale l’autorità destinata a garantire la loro convivenza tramite l’amministrazione della giustizia. All’origine della società umana, sostiene Bodin (recuperando uno schema esplicativo della convivenza a carattere gradualistico, risalente alla filosofia antica e perciò oggi definito anche ‘modello aristotelico dell’ordine’: Bobbio, 512-518) sta la famiglia, anzi il “mesnage”, la “casa”, il nucleo politico primigenio governato dal padre. Spinte dalla ricerca di un ordine più stabile, più “case” si uniscono quindi in villaggi, questi a loro volta in città e così via fino a giungere, di grado in grado, alla comunità più vasta di tutte che è appunto lo Stato. L’entrata in scena di quest’ultimo, d’altra parte, non minaccia in alcun modo l’esistenza dei corpi minori che, in quanto anteriori ad esso, mantengono intatto il loro diritto all’autogoverno (“la differenza tra la famiglia e i collegi, e fra questi e lo Stato, è come quella del tutto rispetto alle parti: poiché la comunità di più capi di famiglia, o di un villaggio, di una città, di una contrada, può sussistere senza lo Stato altrettanto bene che la famiglia senza collegio”(Bodin, II, 245). Né è ragionevole immaginare che lo Stato possa mai nutrire un qualche interesse a “fare a meno di corpi e collegi”, giacché questi costituiscono il luogo topico di quella “amicizia e benevolenza reciproca” tra i sudditi a cui esso stesso necessariamente si appoggia con tutto il suo peso. “Domandarsi, quindi, - conclude il nostro autore - se le comunità e i collegi siano parti essenziali dello Stato, equivale a chiedersi se lo Stato possa reggersi senza amicizia, quell’amicizia senza di cui neppure il mondo può sussistere” (Bodin, II, 279). Eccoci dunque proiettati in un mondo istituzionale abissalmente lontano dal nostro; a suo modo molto evoluto, certo, eppure costruito tutto come una specie di federazione di ‘amicizie’ particolari Seyssel, 12), i monarchi d’età moderna continuano ad essere rappresentati anzitutto come dei giudici, in asse con quella lunga tradizione medievale che aveva ricondotto tutte le funzioni pubbliche al paradigma dello ius dicere. Per i giuristi del Due-Trecento, in effetti, non era neppure concepibile che esistesse un potere di comando (“imperium”) svincolato ed autonomo rispetto alla “iurisdictio”, cioè alla potestà di proclamare ed applicare una norma giuridica preesistente. Tanto l’esercizio dell’autorità legislativa (“iuris condendi potestas”) quanto varie altre potestà tipicamente politico-costituzionali (come convocare un parlamento generale, costituire un privilegio, concedere in uso a qualcuno i beni della corona e simili) erano costruite come altrettanti momenti di un’unica funzione, sempre consistente nel dichiarare un diritto già dato (Hespanha, ??? ). “Iurisdictio et potestas idem sunt”, aveva scritto Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), sottolineando come anche nei momenti in cui il principe appariva più libero nell’esercizio dei propri poteri egli non faceva altro che specificare e riaffermare un qualche precetto iscritto nell’ordine naturale del mondo. Tre secoli dopo, nel pieno del regno di Luigi XIV, Jean Domat (1625-1696) sottoscriveva ancora la sostanza di questa presentazione osservando che “fra i diritti del sovrano, il primo è quello della amministrazione della giustizia, che deve essere il fondamento dell’ordine pubblico… E questa amministrazione racchiude il diritto di fare le leggi e i regolamenti necessari per il bene pubblico e di farli osservare ed eseguire”(Domat, 10). Affermazioni del genere non erano (o comunque non solo) il residuo di una vecchia retorica. Nella vita quotidiana di ogni Stato d’antico regime l’attività giudicante aveva ancora un peso preminente rispetto ad altri modi di esercizio dell’autorità. La stessa direzione vettoriale, per così dire, dei processi di potere seguiva un andamento inverso rispetto a ciò che sarebbe accaduto successivamente nello Stato contemporaneo. Il centro non era tanto il luogo in cui si assumevano autonomamente decisioni destinate ad essere poi trasferite in periferia tramite una qualche filiera esecutiva, ma piuttosto la sede a cui i sudditi si rivolgevano per comporre i loro conflitti o per chiedere conferme ed estensioni dei loro privilegi. Il principe stesso, per quanto da gran tempo avesse cessato di amministrare la giustizia in prima persona, nella pratica era assai più un produttore di rescritti (cioè di atti particolari e concreti emanati a richiesta dei sudditi) che non di leggi. La sua funzione consisteva in primo luogo nell’impartire quel genere di giustizia superiore costituito dalla ‘grazia’, a cui si ricorreva quando i rimedi offerti dal diritto positivo erano esauriti. Ora, una tale configurazione del potere era densa di ricadute sul piano istituzionale. Dalla tendenziale osmosi fra l’autorità di comandare e quella di giudicare, in particolare, discendeva del tutto naturalmente che anche gli atti di livello costituzionale fossero sottoposti a certi vincoli di natura ‘processuale’, quali quello del contraddittorio necessario o ancora come la celebre regola (da quest’ultimo derivata) “quod omnes tangit, ab omnibus audiri et approbari debet”, che imponeva al principe di citare al proprio cospetto tutti i potenziali interessati prima di assumere qualsiasi decisione di carattere generale che potesse incidere in qualche modo i loro diritti. Se il potere consisteva in effetti nel dire-il-diritto più che nel crearlo ex novo, era naturale che vi dovesse essere una qualche sede nella quale verificare preventivamente la conformità tra il diritto che si andava a dichiarare e quello originario. Ed appunto su una necessità di questo tipo riposava in gran parte la ragion d’essere di quelle istituzioni rappresentative a base cetuale che vediamo operare a fianco dei monarchi in quasi tutta l’Europa tardo-medievale e proto-moderna - istituzioni la cui presenza ha caratterizzato in modo così ubiquo e profondo la fase d’avvio della esperienza statuale europea da spingere molti storici a definire appunto come ‘Stato per ceti’ la forma politica propria di questi secoli. 4. Rappresentanze territoriali e ‘Stato per ceti’. Se c’è, in effetti, un tratto comune a molti Stati d’antico regime, quantomeno nella prima parte del loro sviluppo, esso è dato dal fatto che il principe non esercita la pienezza dei suoi poteri se non tramite il concorso di apposite assemblee, tendenzialmente rappresentative di tutto quanto il territorio dello Stato. ‘Assise’, ‘Etats’ e ‘Stati’ nell’area franco-italiana; ‘Cortes’ in quella iberica; ‘Landtagen’ nei principati tedeschi; ‘Parliaments’ nelle isole britanniche – diverse per denominazioni, per forme organizzative interne e per rilievo istituzionale, queste strutture nascono però tutte in un arco temporale che va dal XII al XIV secolo col duplice fine a. di rendere pienamente opponibili, come sopra si diceva, le decisioni generali dei sovrani ai loro destinatari nonché b. di abilitare i primi ad assumere certi atti, esulanti dalla loro normale potestà, tramite l’espressione di un formale consenso integrativo da parte dei sudditi. Benché la differenza, invero, tra queste due modalità di partecipazione all’esercizio del potere – ad audiendum nell’un caso, ad tractandum nell’altro - fosse tutt’altro che netta nella pratica, almeno in linea di principio si riconosceva però che, fin dove il monarca esercitava la propria giurisdizione, le assemblee intervenivano soprattutto ad assistere e a constatare, mentre quando egli pretendeva qualcosa per sé era necessario un assenso diverso, a carattere più costitutivo che intellettuale. “Può ben essere che nella giustizia voi siate sovrano e che la giurisdizione spetti a voi - notava per tutti, rivolgendosi al re di Francia, un dignitario del secondo Quattrocento -, ma per quanto riguarda la proprietà voi avete la vostra proprietà e ogni privato la sua”(cit. in De Benedictis, 108); sì che solo una precisa manifestazione di volontà da parte del popolo della terra poteva legittimare l’introduzione di quelle nuove imposte a cui il principe-giustiziere non aveva, in origine almeno, alcun diritto. Nate, insomma, per completare in un modo o nell’altro la personalità del re, le istituzioni di cui parliamo erano spesso presentate come l’unico contesto all’interno del quale l’autorità monarchica poteva raggiungere la sua piena efficacia. “Dai nostri giudici siamo informati che mai nella nostra regale condizione siamo posti così in alto come durante i lavori del Parlamento, ove noi come capo e voi come membra siamo congiunti ed uniti in un unico corpo politico”, recita un celebre discorso parlamentare di Enrico VIII d’Inghilterra del 1543 (http:// en.wikiquote.org). E alcuni anni dopo il giurista Thomas Smith (1513-1577), in un non meno celebre passo, evocava in questo modo la figura del King in Parliament come corpo complesso del regno: Il supremo ed assoluto potere del reame d’Inghilterra risiede nel Parlamento. Infatti come in guerra là dove si trovano il re, la nobiltà, i gentiluomini e i soldati, là vi è la forza e la potenza d’Inghilterra; così in pace e in sede di consultazione i baroni per la nobiltà e la parte più elevata della nazione; e i cavalieri, gli scudieri e i gentiluomini e i comuni per la parte più bassa, si riuniscono e discutono ciò che è buono e necessario per la comunità, e dopo maturo esame entrambe le Camere lo approvano e poi il re stesso, in presenza di esse, consente e avalla… Ciò che è fatto in base a questo consenso è chiamato definitivo, stabile e sanctum. Il Parlamento abroga le leggi, fa le nuove, regola le cose passate e future, modifica i diritti e le proprietà dei privati, legittima i bastardi, stabilisce le forme di religione…, detta le norme di successione della Corona, introduce i sussidi per la medesima, le tasse pro capite e ogni genere d’imposta, concede amnistie ed indulti, riabilita nella persona e nel nome le persone in quanto Suprema Corte, condanna od assolve coloro che il re ha sottoposto a quel giudizio… Tutto ciò il Parlamento d’Inghilterra lo può fare … giacché si reputa che ogni inglese sia in esso presente, tanto di persona quanto per procura o mandato, di qualsivoglia stato, grado o dignità o qualità che egli sia, dal monarca alla più infima persona d’Inghilterra (Smith, 78). Testimonianze del genere, colte mettendo a fuoco il nucleo politico centrale dello Stato, ci offrono fotogrammi di esso evidentemente molto diversi da quelli da cui abbiamo preso le mosse poco fa, soffermandoci sul mondo dei corpi e delle periferie. Osservato da tale nuova angolazione, lo Stato non appare più come un variegato collage di territori e di corporazioni, ma come un’entità organica, capace di manifestare una propria volontà tramite un sistema istituzionale volto a coadiuvare il principe nella continua ricerca del diritto ‘giusto e buono’. Lo sviluppo di questa seconda immagine è essenzialmente legato alla pratica delle consultazioni generali di cui ci stiamo occupando. Proprio in occasione di queste consultazioni, infatti, i sudditi dei monarchi medievali, pur continuando ad ascriversi ad una moltitudine di ordinamenti particolari, scoprirono poco a poco di appartenere a gruppi sociali trasversalmente presenti in ogni parte del regno e svilupparono perciò una organizzazione istituzionale diretta a difendere in modo coordinato i comuni interessi nei confronti tanto del principe quanto degli altri strati concorrenti. Sono appunto questi gruppi che in sede storiografica prendono il nome di ‘ceti’ (‘Stände’, ‘ordres’, ‘ranks’): intendendo con ciò una serie di categorie sociali definite non in base alla rispettiva funzione economica (come sarà per le ‘classi’ dello Stato liberale), ma in ragione della titolarità degli stessi diritti e privilegi, cioè di una comune identità giuridica. E ‘Stato per ceti’ viene definita la forma politica caratterizzata dalla necessaria compartecipazione di queste rappresentanze all’esercizio del potere centrale, nel quadro di una tipica gestione ‘dualistica’ della sovranità; gestione, a sua volta, il cui sigillo era costituito dalle varie pattuizioni costituzionali che i ceti imponevano sovente al monarca di sottoscrivere in riconoscimento dei loro privilegi complessivi (la Magna Charta non è che il più celebre documento di questo tipo, molti altri esistendone in parecchie esperienze europee). Non è qui possibile impegnarci in un’analisi su scala europea delle rappresentanze di ceto. Essenziale è comunque, per chi affronta l’esame di questi organismi, resistere alla tentazione sempre risorgente (magari in modo inconsapevole) di assimilarli a dei ‘parlamenti’ di tipo moderno. Per quanto sia magari scontato, quindi, è bene ricordare che le rappresentanze cetuali non erano chiamate ad esprimere interessi generali, ma squisitamente corporativi (ogni ceto si riuniva e deliberava separatamente dagli altri, consultando solo i bisogni dei propri membri); che proprio per questo esse non avevano il diritto di autoconvocarsi, ma si riunivano solo su iniziativa del principe, come unico interprete delle esigenze di tutto il territorio (tecnicamente, non esisteva neppure ‘il’ Parlamento o gli stati in generale, ma solo quel parlamento e quegli stati, costituiti di volta in volta da un atto di volontà regia); che quando i deputati cetuali erano designati tramite un voto, il loro mandato era di regola vincolato alle indicazioni dello specifico corpo locale che li aveva nominati, secondo una concezione tipicamente procuratoria della rappresentanza; e insomma che esse non sono anticipazioni imperfette di una politica contemporanea giocata tutta sul primato della volontà, bensì strumenti atti a tutelare le originarie ‘libertà’ dei singoli corpi territoriali nel quadro di una gestione dello Stato a perdurante carattere giurisdizionale. Molto complesso è il tema della struttura delle rappresentanze di ceto. Basti ricordare che, nella configurazione prevalentemente assunta alla fine del medioevo, esse contemplavano una componente nobiliare, una cittadina ed una ecclesiastica, ciascuna delle quali contribuiva con un voto unitario (per stato) alla formazione della volontà complessiva dell’organo deliberante. Accanto, però, a questa morfologia cosiddetta ‘tricuriale’, riscontrabile per lo più nell’area francese, tedesca, iberica e nell’Italia meridionale, esisteva anche un modello bicamerale tipico del mondo anglosassone (Inghilterra, Scozia, Irlanda) e diffuso tanto negli Stati del nord Europa (Danimarca, Svezia, Norvegia) quanto in quelli ad est del fiume Elba, come l’Ungheria o la Polonia. Le ragioni che stanno dietro a questa varia geografia istituzionale non sono ancor oggi ben chiare (si veda, per tutti, Hintze, 83-104) ; e del resto la stessa differenza tra i due modelli non va assunta in modo rigido, dandosi vari casi di assemblee cetuali che hanno modificato nel corso tempo la loro configurazione. Quel che si può dire è che il modello a due soli ‘bracci’ tende in genere a rafforzare il peso politico delle assemblee cetuali rispetto al principe, concentrando in una camera ereditaria la nobiltà di primo rango e favorendo nell’altra camera l’osmosi tra rappresentanti delle città e della piccola nobiltà rurale (così appunto nel parlamento inglese). Si aggiunga poi che la presenza delle rappresentanze cetuali non connotava, molto spesso, il solo livello di vertice dell’ordinamento statale, ma ben prima l’organizzazione delle periferie, dove anzi le organizzazioni di ceto erano sempre molto più forti e radicate. In Francia, così, al di sotto degli stati generali del Regno, esistevano degli stati locali a carattere regionale (états provinciaux, di regola derivanti da altrettante assemblee di primo livello rappresentative di ordinamenti un tempo del tutto autonomi, come per es. nel caso bretone sopra richiamato); nell’Impero tedesco la stessa struttura a due piani si riscontrava nel rapporto tra Diete dei singoli principati (Landtagen) e Dieta generale dell’Impero (Reichstag); mentre gli stati locali di ciascuna delle sette Province Unite dei Paesi Bassi, all’indomani della conquista dell’indipendenza dalla Spagna (1581) iniziarono a riunirsi periodicamente in forma unitaria come Stati Generali di tutta l’unione pur continuando ad amministrare separatamente i loro diversi interessi nella veste di stati provinciali. La diffusione di questo tipo di strutture stimolò la coeva cultura giuspolitica a cercare di esprimere il loro ruolo costituzionale tramite il riferimento a figure teoriche di carattere generale. La più fortunata di queste stilizzazioni fu certamente quella del cosiddetto governo o Stato ‘misto’, le cui origini si trovano in autori classici come Aristotele, Polibio e Cicerone. Era ad essi, in effetti, che risaliva l’idea di frenare il fatale ciclo degenerativo caratteristico delle tre forme ‘pure’ di governo Com’è ovvio, si tratta di un catalogo rudimentale, che dovrebbe essere ora precisato attraverso un’analisi delle tante variabili che connotano le singole esperienze europee nel corso del loro sviluppo. Mancando lo spazio per un lavoro del genere, ci limiteremo qui a considerare l’elemento differenziale di maggior peso tra il nostro schema e la realtà effettiva di molti ordinamenti tra Cinque e Seicento: quello, cioè, relativo al diverso atteggiarsi della forma di governo. Se in effetti all’inizio dell’età moderna il governo apicale dello Stato appare ancora quasi ovunque basato su quella condivisione dell’autorità normativa tra principe e rappresentanze cetuali di cui si è detto al paragrafo 4, coll’andar del tempo questo equilibrio tende sempre più a rompersi a favore del monarca. Chiusa ormai quella prima fase di consolidamento delle istituzioni statali nel corso della quale i principi stessi avevano cercato il sostegno dei ceti per creare un primo nucleo di diritti riconosciuti di supremazia territoriale, la pratica delle consultazioni segna il passo. Prima o poi, in particolare, quasi tutte le assemblee cetuali finiscono per riconoscere al monarca il diritto di pretendere un’imposta militare permanente svincolata da un loro consenso specifico; e questo passaggio, dettato dalla necessità di rafforzare lo Stato sul piano della sicurezza e dei rapporti esterni, segna una modificazione profonda negli equilibri di vertice, che vedono ora il sovrano disporre di una forza armata ordinaria di cui può servirsi per imporre la propria autorità anche all’interno del suo spazio politico. La fine dell’unità religiosa dell’Occidente fa il resto, rendendo molto più problematica la formazione del consenso all’interno di quelle rappresentanze cetuali che fin dall’origine, col loro carattere spiccatamente corporativo, non avevano certo brillato né per efficienza né per sensibilità all’interesse generale. Di qui, il diradarsi e spesso il definitivo interrompersi delle convocazioni di questi organismi (come in Francia, dove dopo il 1484 gli Stati generali, non più convocati per un periodo di ben 76 anni, si riuniscono ancora per sole cinque volte tra il 1560 e il 1614 e vengono quindi disattivati del tutto fino al 1789) oppure il loro sopravvivere in forme dimidiate e fortemente indebolite (come nel caso delle Cortes di Castiglia, che dal 1538 si riducono ad una ossequiente assemblea di soli rappresentanti delle città, avendo nobili e clero barattato il loro diritto di partecipazione politica con una perpetua immunità dalla tassazione regia). E’ in questo clima, segnato da una crescente sfiducia nei confronti della partecipazione sociale all’esercizio del potere, che si fa strada il nuovo concetto del potere “sovrano”, inteso come quello che, per definizione, pertiene in via esclusiva ad un unico soggetto. Chi è sovrano, insomma – scrive Bodin nella sua pagina forse più nota – non deve essere in alcun modo soggetto al comando altrui, e deve poter dare la legge ai sudditi, e cancellare o annullare le parole inutili in essa per sostituirne altre, cosa che non può fare chi è soggetto alle leggi o a persone che esercitino potere su di lui (Bodin, 358). Lo scatto è decisivo, nel suo archiviare quella lunga tradizione del governo misto che indicava invece nella necessaria condivisione del potere supremo la condizione della sua legittimità. Bisogna tuttavia ben guardarsi dallo scorgere in espressioni del genere una anticipazione della sovranità ottocentesca, come pure dal leggere in modo sbrigativo il fenomeno della decadenza dei parlamenti corporativi. La comparsa sulla scena della sovranità-esclusività, infatti, non significa certo ancora il riconoscimento di un’autorità affrancata dalle “leggi di Dio e di natura”, né tantomeno il confondersi della “monarchia regia” o “legittima” (per citare ancora Bodin) con quella “dispotica” o “tirannica” (Bodin, 567-570). L’immagine del re resta quella di chi è chiamato a esplicitare un diritto già dato, benché egli ne sia ora l’unico interprete; il potere continua a incontrare precisi limiti giuridici, consegnati a “leggi fondamentali” di natura consuetudinaria che vietano per esempio al monarca di disporre della Corona o di alienare il territorio dello Stato, leggi la cui tutela è affidata ai corpi giudiziari; mentre stati e parlamenti non sono affatto derubricati dal quadro dell’ordinamento, ma continuano a svolgervi le funzioni che i teorici della sovranità ritengono essere state loro proprie fin dall’origine – cioè di manifestare al principe i bisogni del popolo e di esprimere il consenso all’imposta. Certo: man mano che ci si inoltra nel XVII secolo, il numero delle assemblee cetuali effettivamente funzionanti decresce paurosamente, finché la regola diventa quella di sovrani che governano ormai da soli i loro popoli (così in Germania dove, mentre il sostanziale sfaldarsi dell’Impero a seguito della pace di Vestfalia provoca, nel 1663, la trasformazione del Reichstag in una dieta perpetua rappresentativa dei soli principi tedeschi e non più dei loro popoli, le singole rappresentanze dei territori – dalla Baviera al Brandeburgo, dal Baden-Durlach all’Holstein al Palatinato renano - si spengono poco a poco nella più parte del paese; così a Napoli, dove il Parlamento del regno viene riunito per l’ultima volta nel 1642; così in Danimarca, dove nel 1660 un colpo di Stato monarchico pone definitivamente fine alla vita del Rigsråd , ecc.). Anche tacendo il fatto, però, che ancora in pieno Settecento restano varie regioni continentali – dall’Aragona all’Ungheria, dalla Polonia alla Svezia, dalla Sicilia al Württenberg - in cui le rappresentanze cetuali continuano a manifestare una discreta vitalità, fino ad assumere, a tratti, un ruolo prevalente nella conduzione della vita politica, nessun governo ‘assoluto’ arrivò mai a concepire l’idea, avanti la fine del XVIII secolo, di scalfire i fondamenti costituzionali dello Stato di corpi. Per meglio dire: quella libertà che molti monarchi europei si sono ora conquistati al vertice dello Stato, appare drasticamente ridimensionata quando si osservi il panorama politico non più dalla loggia del principe, ma da qualsiasi periferia geografica o istituzionale del paese. A questo livello, si scopre immediatamente che la forza dei corpi intermedi, misurata in capacità di autogoverno quotidiano e di resistenza passiva alle sollecitazioni del centro, è ancora intatta e che tale rimarrà fintanto che tutto il sistema amministrativo statale continuerà a appoggiarsi sulla ricerca della continua collaborazione dell’universo comunitario. Abituato fin dal medioevo a guardare a quest’ultimo come al terminale inevitabile della propria stessa amministrazione, lo Stato ritrova continuamente, a un livello per così dire di base, quello stesso dualismo che sembra aver superato sul piano del grande “theatre de l’histoire”. Chi mai, infatti, è chiamato in concreto a raccogliere le sue tasse, a mantenere le sue strade, a fornirgli i suoi soldati o ad assicurare il suo ordine pubblico se non tutto quel sostrato di comunità intermedie che forma il tessuto connettivo dello stesso organismo statale? Ben più complici che rivali, poteri centrali e ceti periferici sono legati da un patto di sangue, che solo il passaggio da una gestione giudiziaria dello Stato ad un’altra di carattere decisamente esecutivo potrà sciogliere davvero. Prima di questo momento – che inizierà a profilarsi, ripetiamo, solo nel secondo Settecento - le modificazioni della forma di governo incidono poco su quella che possiamo chiamare la forma di Stato degli ordinamenti protomoderni. In realtà, il piano su cui valutare il rendimento effettivo dello Stato assoluto non è tanto quello dell’accentramento, della occupazione burocratica delle periferie o della eversione dei corpi, quanto lo sviluppo di ciò che la storiografia tedesca ha definito ‘disciplinamento sociale’ (Schulze). Né capace di, né interessato a trasformare la sostanza istituzionale del sistema a cui presiede, il sovrano della piena età moderna ha però compreso, rispetto ai suoi predecessori, la necessità d’impegnarsi a fondo in un continuo sforzo regolativo di tutti gli aspetti della vita collettiva, sforzo che ormai fa tutt’uno col suo antico dovere “di conservazione e difesa del popolo” (per usare le parole di Luigi XIV nel suo Testamento politico). Soprattutto dopo la Riforma e le guerre di religione, è ormai chiaro che la funzione di governo non può più risolversi soltanto nella semplice mediazione dei conflitti, ma che occorre incidere sulle abitudini e sulle mentalità dei sudditi, pur nel rispetto del sistema di appartenenze tradizionali. Richiamare ciascuno, allora, all’osservanza dei propri doveri naturali e al rispetto dei limiti imposti da una ordinata convivenza diventa, subito dopo l’amministrazione della giustizia, il secondo compito fondamentale dello Stato - un compito che il linguaggio istituzionale esprime ora attraverso un termine emblematico dell’assolutismo maturo, quello di ‘police’, ‘policey’, ‘politia’ o ‘polizia’. L’idea veicolata da questo vocabolo è che la società di corpi, troppo complessa e insieme troppo debole per essere abbandonata a se stessa, va ora preservata attraverso una minuta, instancabile attività regolamentare, in cui si esprime al meglio il nuovo senso di superiorità che lo Stato viene maturando tra Cinque e Seicento. “Non crudelitas, sed disciplina”, ammoniva nel 1591 un consigliere di Enrico IV di Francia in un discorso pronunciato alla fine delle guerre tra cattolici e ugonotti (cit. in Oestreich, 184). Lasciare intatta la fisionomia dei soggetti preesistenti, imbrigliandone però l’esistenza in una rete sempre più fitta di prescrizioni, di ordinanze e di sanzioni, che rendano quotidianamente effettivi gli obblighi già iscritti nello statuto di ognuno di essi – questo il valore aggiunto più autentico di uno Stato assoluto la cui affermazione va di pari passo con la presa d’atto del carattere sempre più ‘indisciplinato’ ed entropico del sociale (Oestreich, 182-183; Schiera). Detto tutto questo, vi è almeno un importante paese europeo nell’ambito del quale non solo questo progetto di disciplinamento dall’alto viene bloccato sul nascere, ma dove il polo cetuale si aggiudica una tale vittoria sul principe da gettare le basi di ciò che più tardi prenderà il nome di ‘governo costituzionale’. In Inghilterra, in effetti, il confronto politico tra monarca e parlamento, avviato silenziosamente nel corso del Cinquecento e scoppiato in modo sempre più aperto e violento negli anni Trenta-Quaranta del secolo successivo, produce come esito ultimo una trionfale riaffermazione del governo misto, le cui linee vengono solennemente confermate nel Bill of Rights del 1688 – il documento, cioè, in cui, in asse con la tradizione della Magna Charta, si ribadisce la perdurante natura pattizia della costituzione statale, basata su un preciso accordo di governo tra Casa regnante e società rappresentata. A lungo considerata come una singolare eccezione nel quadro di un’Europa in cui ormai i governi monocratici appaiono senza confronto come i più efficienti ed evoluti, anche la forma di governo inglese, a ben guardare, non è però più esattamente conforme allo schema originario del “mixed government”. Chi apra, per esempio, quel vero e proprio breviario del primo liberalismo inglese costituito dai Two Treatises on Government , pubblicato da John Locke nel 1690, si accorge subito di come vi si offra una lettura della costituzione non più centrata sul principio medievale della condivisione del potere tra principe e ceti. In luogo del vecchio King in Parliament vi sono ora due soggetti ben distinti - un Parlamento indicato come unico titolare del potere legislativo, ed un monarca a cui è invece riservata la sola funzione esecutiva e ‘federativa’ (cioè la rappresentanza dello Stato sul piano internazionale). Non c’è dubbio, secondo Locke, che l’unico potere supremo sia il legislativo, ora nelle mani del “popolo”; mentre il re, cui è assegnato un ruolo concettualmente subordinato, viene ancora chiamato “sovrano” non perché lo sia più veramente, ma in quanto egli è “l’immagine, il simbolo o la rappresentazione del corpo politico”(Locke, 343). Dal governo misto siamo in sostanza passati a un governo bilanciato, dalla condivisione del potere alla separazione dei poteri: secondo un equilibrio che a suo modo riflette la stessa torsione verificatasi sul continente e che s’inquadra in una generale tendenza al superamento della lunga stagione della legge-contratto. 7. Verso la crisi Un generale incrinarsi, dunque, degli assetti bipolari di potere propri della prima età moderna, senza che però ciò si riverberi in modo sensibile sulle strutture profonde dell’organizzazione istituzionale, le quali restano quelle di una società corporativa che non deriva dallo Stato la propria giuridica esistenza: questo, in sostanza, il bilancio con cui si chiude il XVII secolo e che ci conferma la necessità di considerare l’antico regime come un ambito d’esperienza strettamente unitario. A marcare l’avvento del ‘moderno’, in effetti, non sono né la nuova nozione di sovranità né le trasformazioni in genere registrabili ai ranghi superiori degli ordinamenti. La vera discontinuità va cercata piuttosto nella nuova luce sotto la quale la società di ordini inizia a presentarsi agli occhi di molti europei durante il corso del Settecento. Quella società, lo si è detto fin dall’inizio, era stata percepita da sempre come un prodotto della natura. Per quanto complicate o bizzarre potessero essere le sue stratificazioni, esse venivano considerate alla stregua di manifestazioni necessarie e indisponibili di un ordine immutabile, che assegnava a ciascuno un proprio posto nel mondo e marcava quindi una diseguaglianza strutturale tra i soggetti. Già nel corso del Seicento, però, una ricerca filosofica influenzata dalla grande rivoluzione scientifica galileiana aveva iniziato a far propria una concezione ben diversa della natura, riducendone radicalmente l’ambito di riferimento ai soli elementi di ordine fisico-biologico suscettibili di uno studio sperimentale. A partire da Hobbes, si comincia a pensare allora che molti aspetti della vita sociale non siano affatto naturali, ma dipendano da una pluralità di fattori qualificabili tutti come ‘artificiali’, quali il caso, le scelte soggettive, le abitudini, la storia o la volontà sovrana. Si tratta di quel nuovo orizzonte mentale a cui si faceva riferimento all’inizio di questo saggio, al cui interno comincia a condensarsi, tra le tante novità, anche la stessa nozione odierna di ‘istituzione’. Beninteso: la progressiva adesione a una visione del mondo di questo tipo non comporta affatto una delegittimazione immediata o automatica della società di corpi, che resta al contrario fino alla fine del Settecento (e per molti ben oltre) un quadro di riferimento sottratto ad ogni critica. Poco alla volta, però, fasce sempre più ampie dei ceti acculturati accettano il fatto che gran parte dell’ordine vigente, pur avendo una certa fisionomia, ne potrebbe avere anche una del tutto diversa. Già alla fine del Seicento, ad esempio, il
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