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ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO, Sintesi del corso di Istituzioni di Diritto Romano

Istituzioni di diritto romano, prima sezione autore: Brutti

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 23/03/2021

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Scarica ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO e più Sintesi del corso in PDF di Istituzioni di Diritto Romano solo su Docsity! Il diritto privato nell’antica Roma di Massimo Brutti Premessa 1. La formazione del diritto Noi tutti perseguiamo lo stesso fine: la pace. Ed è proprio la pace la prima idea per spiegare la funzione del diritto; tutti i mezzi di prevenzione e risoluzione mirano a realizzarla. Provvisoriamente possiamo definire il diritto come “ordinamento per la promozione della pace”. Esso delimita rigorosamente l’impiego della forza, che consegna -secondo modalità certe e controllate- all’organizzazione politica ed ai suoi poteri. La pace non è un dato originario ma è una conquista ed ovviamente, nella società, non tutti hanno gli stessi obblighi e gli stessi soddisfacimenti ma l’interesse dei potenti ha bisogno di svolgersi in un ambiente nel quali i meno abbienti accettino questo assetto. Divieti, comandi, disposizioni che regolano la vita collettiva garantiscono la pace soltanto se non sono troppo unilaterali e di parte. Ecco il motivo per il quale il diritto non può trasformarsi nell’arbitrio di chi comanda senza tradire la propria funzione. L’idea moderna di uguaglianza davanti alla legge nasce da questa necessità: la pace offre spazio e strumenti ai più deboli per cambiare la loro condizione. Ma quali informazioni può trasmettere un’informazione così generale? Il diritto consiste in un ordine dei comportamenti e si articola in norme e regole vincolanti. Esse possono essere espresse in documenti normativi oppure applicate nella prassi e desumibili da questa. L’ordine giuridico, così definibile, è costituito dalla comunità organizzata. Siccome il “diritto” è una nozione a contenuti variabili, le sue strutture comprendono schemi, visioni ed intenti legati ogni volta alle contingenze, agli interessi, alle strategie di potere che ne sono espressione ed ai rapporti sociali, il cui carattere proprio è di essere in movimento. Perciò useremo spesso invece di “diritto” l’espressione “esperienza giuridica” che descrive meglio le trasformazioni. “Regola” e “norma” indicano per noi direttive riferite ai comportamenti ed ai rapporti tra gli individui. In origine, le due parole appartengono al linguaggio dell’architettura e della fabbricazione degli edifici: indicavano il regolo e la squadra e poi, con uno spostamento di concetti, la linea dritta. Oltre a questo significato regula è anche un’enunciazione, che concentra in sé stessa e racconta una determinata disciplina giuridica, mentre norma non ricorre mai nel linguaggio giuridico romano. In questo libro verrà utilizzata come sinonimo di “direttiva” o di “dover essere”. Il carattere distintivo delle regulae romana è di essere l’espressione sintetica di formulazioni che sono elaborate in giurisprudenza. Il materiale usato per la sintesi è materiale scientifico (proveniente dalla scienza del diritto- scientia iuris- ovviamente scienza pratica volta ad organizzare il vivere in società). La regula è una costruzione di secondo grado, che i giuristi elaborano a partire dalle proprie trattazioni e dalle soluzioni ai problemi controversi, formulate nell’ambito delle loro opere; non si tratta di prescrizioni provenienti da un’autonomia (nulla di simile alle leggi). Il diritto privato della Roma antica è in larghissima parte un prodotto della scientia iuris (interpretatio). Essa incorpora norme prodotte dai costumi tradizionali, disposizioni denominate leges, altri precetti simili o enunciati normativi derivanti dall’attività giurisdizionale. Le regulae concorrono a semplificare la complessità di questo materiale. Il diritto romano è un diritto giurisprudenziale, formato per opera di tanti intellettuali esperti che hanno raccolto tutti i dati normativi disponibili, a partire dalla consuetudine, e li hanno usati per determinare la soluzione di tanti casi controversi. Queste soluzioni hanno una forza vincolante sui generis, di cui vedremo il fondamento e i limiti, legata al prestigio ed alla persuasività dei giuristi. Nel linguaggio attuale “norma” e “regola” indicano enunciati prescrittivi, che coincidono con le disposizioni di legge, oppure sono da questa ricavati. La parola diritto ha origini medievali. Directum è il participio passato di dirigere: indica la condizione che l’azione prescrittiva imprime sul comportamento verso il quale si indirizza. Directum è tutto ciò che si compie in obbedienza ai comandi. In alcune fonti medievali è sinonimo di legge. È implicita l’idea di una fonte ordinatrice (potere politico). Oggi con la parola “diritto” indichiamo l’esperienza che i romani denominarono ius, dove sono centrali sia il ruolo dei comportamenti sociali che si dispongono spontaneamente secondo un ordine, sia quello degli esperti che li interpretano e li definiscono. 2. Il concetto di ius. Mores, ius civile, leges. Il termine ius, comunemente usato dai romani per indicare la disciplina delle relazioni interindividuali non esprime nessun dualismo tra potere regolante e comportamenti regolari. Esso è l’organizzazione giuridica, rappresentata secondo uno schema onnicomprensivo ed autosufficiente. Etimologia di IUS: ▪ Le ricerche glottologiche del 900 ricollegano ius ad una radice indoeuropea (yaus, yaos, yaoz) e avrebbe in sé un’idea originaria di salute e di purezza e si ritroverebbe in antiche formule rituali indiane. ▪ Ius in rapporto con ioves, imparentato con l’antico Iovis, appellativo della divinità, che sarà poi chiamata Juppiter: ordine giuridico in rapporto con antiche nozioni religiose. ▪ Ius legato a iungo, poco attendibile, che esprimerebbe l’idea di unità; la stessa che è nelle parole coniugium e coniuges. L’elemento che accomuna queste tre ipotesi è che all’origine non vi fosse l’idea di prescrizione autoritativa. Nemmeno l’ipotesi del collegamento con la religione non implica l’idea di una volontà trascendente, capace di rivelarsi attraverso comandi generali ed estratti ad es. le XII tavole. Al centro del concetto di ius c’è la consuetudine. E’ nei mores (costumi praticati e tramandati) della comunità la radice del diritto. Il fatto che l’ordine non sia creato da un’autorità ma dalla tradizione è un tratto distintivo. Il concetto di consuetudine riferito al diritto privato dipende ovviamente da quanto è radicata nel tempo e dal trascorrere del tempo. Se mi rifaccio alla consuetudine è come se io stessi obbedendo ad una norma che però non è dettata da un soggetto sovraordinato ma dalla prassi. Se però la consuetudine non viene rispettata, su richiesta dell’interessato, l’organizzazione della civitas interviene ad assicurare un risultato utile; tutto ciò si compie tramite una successione di atti: “processo”. Le varie autorità e i giudici seguono le direttive della iurisprudentia. La risoluzione della controversia contribuisce a rafforzare la consuetudine. Pomponio distingue scientia interpretandi da actiones: entrambe finalizzate a superare i contrasti nella concreta dinamica dei rapporti governati dai mores. Fino al III sec. a.C. erano affidati ai sacerdoti-giuristi mentre dopo si crea un organico di esperti separati dalla sacralità. In età regia si conosceva un processo con spiccati tratti religiosi e che si svolgeva davanti al rex. In età repubblicana, fino al IV sec. a.C. vengono portati (i processi) davanti alla magistratura consolare e poi davanti ad un’autorità nuova; vi è una bipartizione: prima si svolge la fase in iure guidata dal dal III secolo. Sono formule che diventeranno comuni alle prassi giudiziarie dei due pretori. Secondo la raffigurazione teorica di Gaio ius gentium-diritto che appartiene a tutti costituito dalla naturalis ratio: “quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit ”-“Il diritto delle genti è costituito da ciò che la ragione naturale ha stabilito nei rapporti fra tutti gli uomini”. Egli cioè spiega che il popolo romano usa in parte il diritto che gli è proprio e in parte il diritto che è comune a tutti gli uomini. 4. Lo ius praetorium e l’editto Attraverso la giurisdizione dei pretori- con il processo formulare- si forma un diritto distinto dallo ius civile costituito da decisioni che riguardano le liti tra i privati. Il magistrato non si limita a istituire il processo ma introduce anche nuovi schemi di tutela giudiziaria. Le scelte pretorie nascono da giudizi di valore su casi concreti. Essendo che vengono fatte (le formule) su casi concreti si ha che l’editto è un documento normativo, con il quale si realizza un’autoregolamentazione della discrezionalità relativa allo ius dicere. E’ un programma che, all’inizio dell’anno di carica, il magistrato enuncia e pubblica in forma scritta su tavole di legno affisse nel foto e che contiene un elenco delle formule giudiziarie di ius civile, saldamente accolte a tutela dei mores. Contemporaneamente, l’editto indica i mezzi di tutela giudiziaria che il praetor concederà in base alle proprie scelte, al di fuori dello ius civile, per rimuovere situazioni di iniquità (Cicerone parla di “legge annuale” per sottolineare il carattere vincolante di ogni enunciato dell’editto). Pomponio ne illustra meglio la funzione: “Nel medesimo periodo anche i magistrati rendevano diritto (iura reddebant) e pubblicavano editti affinché i cittadini sapessero quale diritto ciascun magistrato avrebbe pronunziato su qualsiasi argomento e quindi potessero premunirsi. Questi editti dei pretori costituiscono lo ius honorarium (da honor- carica del pretore). La stessa vicenda si riproduce anche con i governatori delle province che avevano la iurisdictio nei territori a essi affidati. Gli edili curuli sono magistrati che esercitano il controllo sul mercato degli animali e degli schiavi e che quindi scrivono in editto per la tutela degli affari in questo campo. Ogni anno nell’editto vi è una parte sempre uguale ma durante il mandato il magistrato può decidere innovazioni che possono essere inserite come nuove clausole nell’editto. Edictum indica quindi sia il testo intero che la singola clausola. Il pretore può anche denegare actionem: di fronte alla richiesta di un singolo, che intende far valere le proprie ragioni in base ad un’actio indicata nell’edictum, il magistrato può valutare che sia più equo, in relazione alla fattispecie trattata, non dare tutela. Il pretore può anche modificare e adattare i modelli di azione previsti in seguito ad una valutazione dei fatti: può dare in concreto un’azione, fingendo che una certa circostanza non si sia verificata (actio fictia) oppure allargare l’ambito della tutela prefissata (actio utilis) poiché percorrendo i vari casi gli sembra equo ricorrere ad operazioni di aggiustamento processuale. Questa attività è detta decretale ( da decretum- singola decisione). Nel 67 a.C. in pieno sviluppo dello ius honorarium, un plebiscito promosso dal tribuno Cornelio interviene contro gli abusi della discrezionalità dei giudizi cioè viene prescritto che i pretori esercitino la iurisdictio in base ai propri editti; non si prevedeva una sanzione ma ka formativa appare netta e può costituire il fondamento del ricorso al veto da parte dei tribuni (mediante l’intercessio) contro singoli provvedimenti pretori; ma la discrezionalità continua ad essere vitale. Dopo la fine della repubblica, mentre si rafforza il regime autoritario del principato, l’editto tende a cristalizzarsi. Adriano poi affida a Salvio Giuliano il compito di redigere una versione unica e definitiva dell’editto che viene compiuta nel 130 d.C. Qualche decennio dopo Papiniano proporrà una versione fedele ed esaustiva. E’ fondamentale che la genesi dello ius praetorium sia connessa funzionalmente al diritto della tradizione: allo ius civile. Ciò mostra una vocazione della giurisprudenza ad unificare prodotti giuridici diversi: mores, decisioni giudiziarie ed editti. 5. Le costituzioni imperiali L’attività normativa degli imperatori assumerà un carattere unitario e troverà il proprio fondamento nel potere di fatto del princeps, quel potere che si costituisce per la prima volta dopo la vittoria politica di Ottaviano (Augustus). Ciò che dà un’impronta decisiva alla formazione del nuovo ordine politico è l’auctoritas- potere riconosciuto nei fatti, accompagnato dalla forza delle armi, che punta alla trasmissibilità ed è quindi istituzionalizzante oltre la vita del primo imperatore. La continuazione storica del principato è l’effetto di una trasmissione della forza. Capo dell’amministrazione civile e finanziaria dell’Impero, supremo regolatore della politica, il princeps contribuirà a plasmare l’ordinamento sia con la costituzioni (valore vincolante) - constitutionem principum, sia attraverso l’esercizio sempre più vasto della giurisdizione civile e penale. 28-27 a.C. Augusto: “Nel mio sesto e settimo consolato, dopo che ebbi distinto che guerre civili, possedendo per universale consenso il controllo di tutti i miei poteri, trasmisi la res publica dalla mia podestà alla libera volontà del Senato e del popolo romano […]Per questa mia benemerenza, con decreto del senato ebbi l’appellativo di Augusto […] Da allora in poi fui superiore a tutti in autorità, sebbene non avessi maggior potere di tutti gli altri che furono miei colleghi nella magistratura”. 23 a.C. sulla base di una deliberazione del Senato Augusto ottiene la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius et infinitum- due importanti cariche, di cui la seconda con un raggio di azione esteso oltre i consueti limiti territoriali: non esterno a Roma, ma comprendente anche lo spazio proprio dell’urbs. Principali tipi di statuizione a cui ricorre il princeps: o Edicta: provvedimenti di portata generale rivolti ad una o più province o municipi. Inizia con parole che dichiarano il nome e l’autorità dell’imperatore e prosegue con quanto l’imperatore vuole annunciare. Ricorrono più o meno sempre le stesse espressioni tipiche dell’invito e le innovazioni nel diritto privato sono molto limitate. E’ probabile che l’editto continui ad avere valore anche dopo la morte dell’imperatore. o Mandata: disposizioni di varia natura, contenenti spesso innovazioni giuridiche. Sono indirizzati ai funzionari dell’amministrazione pubblica. Capita di trovare nelle norme stabilite dai mandata il contrasto ad alcuni possibili casi di conflitto di interessi (es: divieto ai governatori di sposare donne che risiedono nella provincia da loro amministrata). Spesso continuano a rimanere in vigore anche dopo la morte del principe. o Rescripta: pareri richiesti all’imperatore da privati (subscriptiones), da funzionari e magistrati (epistulae), su problemi giuridici controversi, nati dalla pratica. Hanno un valore vincolante per il giudice che li richiede solo quando i fatti esposti corrispondono al vero. Se a proporre il quesito è un privato, in genere una delle parti della causa, si parla di libelli, preces e supplicationes, ai quali l’imperatore risponde con subscriptiones (ridatte in calce alle stesse domande). Nel corso del tempo i rescripta, che nascono con un’efficacia limitata ai casi singoli, assumono una portata più generale. o Decreta: sentenze pronunciate dal princeps, in seguito alla trattazione di controversie nelle quali egli interviene come giudicante. Non hanno un valore universalmente vincolante ma godono di grande autorità. La iurisprudentia muove dagli schemi consuetudinari e svolge una funzione unificante, sia in relazione alle specifiche discipline cui i giuristi danno il nome di ius gentium e di ius praetorium, sia condizionando e assorbendo, nelle proprie costruzioni e nella risoluzione dei casi, quanto viene disposto dagli imperatori. 6. Giuristi e soluzioni normative Questo continuo operare della scienza giuridica con il passato non sarebbe possibile senza la solidarietà degli archetipi propri della civitas. Anche nel III sec. d.C. i giuristi si ritenevano parte di una tradizione cominciata in età repubblicana. Lo ius civile nasceva dall’opera dei pontefici, sacerdoti detentori sia del sapere religioso che di quello giuridico e poi viene preso in mano da esperti laici (prudentes); nella loro opera entra presto anche lo ius praetorium e successivamente quello nato dalla normazione imperiale. Il lavoro dei giuristi romani richiama alla pratica ed alle sue particolarità: la pratica vissuta e immaginata. Contemporaneamente però producono teoria: fabbricano un complesso articolato di categorie, che dureranno a lungo fino a influenzare il diritto attuale. Il discorso giuridico nasce da situazioni controverse. Il giurista indica ogni volta quale è la soluzione, quali sono gli schemi da applicare. Interpretazione e creazione dello ius si intrecciano. Per collegare le soluzioni normative ai problemi e per spiegarle, la giurisprudenza adopera una serie di astrazioni come Gaio nelle “Istitutiones” – obiettivo didattico; ma se si rivolge a giuristi esperti lo spazio dato ai casi concreti è molto più ampio. Il presupposto dei casi di cui il giurista si occupa è che l’interesse non venga soddisfatto ma contrastato. Ogni contrasto dà luogo ad un responso. Il giurista analizza la situazione controversa e decide, indicando lo schema giuridico o il mezzo di tutela, che il singolo indirizzato può usare. Il responso può essere indirizzato anche al pretore per indicargli quale formula sia più adeguata alla situazione; potrà scegliere un processo formulare della tradizione, ricorrere a forme innovative già recepite nell’editto oppure inventarne di nuove. Responsum (parere dei giuristi) = consilium (aiuto per risolvere un problema) Con il consilium il richiedente è spinto verso un certo comportamento che in campo giuridico si risolve nell’epperire e nel considerare fondato l’uno o altro mezzo di tutela giudiziaria. Gaio parlerà anche di sententiae et opiniones oppure anche placuit. Le soluzioni formulate dai giuristi per i casi controversi saranno nominati in seguito “soluzioni normative” (mantengono un ancoraggio ai casi ed hanno struttura problematica non sistematica) - quando si ripetono e sono condivise- costituiscono “orientamenti normativi” i quali fondano la disciplina giuridica. 7. Lo ius controversum L’attività giurisprudenziale è attraversata ed è costituita da un’incessante dialettica delle opinioni perciò sono frequenti i contrasti: il pluralismo è un dato che ci appare onnipresente e costitutivo nelle scelte dei giuristi. Per raffigurare questa ricorrente varietà delle soluzioni normative viene, solitamente, impiegata la nozione di ius controversum. A.Schwarz, 1951: “Parliamo di diritto controverso quando all’interno di un ordinamento vigente, in dall’ordinamento. Questi atti possono essere normalmente materiali o possono consistere in dichiarazioni di volontà. Si hanno invece effetti difformi dal valore che regge l’atto nel caso di comportamenti dannosi, dai quali sorge l’obbligo di una riparazione pecuniaria. Al di fuori degli atti, la volontà può assumere altrimenti un rilievo giuridico (es: matrimonio). La categoria “atto giuridico” comprende la volontà individuale che guida il comportamento di una persona nei rapporti con altri ed il nesso tra comportamento ed effetti giuridici, diverso a seconda dei contesti. Talvolta gli stessi giuristi romani parlano di agere e di actus , riferendosi a dichiarazioni o manifestazioni del volere, cui si assegna una specifica rilevanza nella valutazione di singole fattispecie e nei relativi responsi. Tra 700 e 900 la rappresentazione del rapporto individuo-Stato, come rapporto tra due soggetti titolari di volontà normative, genera la figura del negozio giuridico. Secondo questa immagine, destinata a influenzare la legislazione, il singolo regola i propri interessi attraverso una dichiarazione di volontà e lo Stato la fa propria. Nella teoria negoziale si tende a configurare secondo schemi costanti il rapporto tra intenzione del singolo e scopo fissato dalle norme statali. O prevale la volontà individuale e l’ordinamento attribuisce al negozio solo gli effetti derivanti da un accertamento dell’animus delle parti (immagine che si impose fino a metà 800) oppure prevale la norma statale: il valore dell’individuo produce conseguenze solo in quanto la sua dichiarazione corrisponda a ciò che vuole ed espressamente stabilisce la norma dello stato. Le dichiarazioni fi volontà si realizzano attraverso parole pronunziate o scritte: verba che esprimono le intenzioni delle parti. Possono contenere clausole che incidono sugli effetti giuridici che possono essere: o Condizione: gli effetti si subordinano ad un avvenimento futuro ed incerto. Questa clausola può stabilire che si sospenda l’efficacia dell’atto o che cessi al verificarsi dell’avvenimento ipotizzato (condizione sospensiva o risolutiva). o Termine: fissa un tempo o prevede un fatto che si verificherà e da ciò fa discendere il sorgere o la cessazione degli effetti attribuiti all’atto giuridico. o Modo: imporre al destinatario dell’atto un contegno da cui deriverà il prodursi degli effetti. Il loro impiego è precluso in una serie ti atti solenni la cui efficacia è immediata, non condizionabile né rinviabile (es: mancipatio). Sul ripetersi dei casi, sull’emergere di forme consuetudinarie che si stabilizzano, sull’inquadramento che i giuristi apprestano per una serie di fattispecie simili, ricorrenti e trattate allo stesso modo, si costruisce la tipizzazione (astrazione tratta dalla fattispecie). I giuristi si interessano ai tipi quando tentano enunciati generali o rappresentazioni di sintesi; li identificano attraverso denominazioni. Per le situazioni atipiche è necessario che la valutazione sia formulata ex novo. Nell’esperienza del processo formulare, le situazioni concrete vengono ricollegate a modelli di azioni giudiziarie, ciascuno dei quali implica un sommario riferimento ai fatti controversi. Si è solito dire, a questo proposito, che le situazioni sono “tipizzate”. 9. Ius respondendi ex auctoritate principis. La narrazione di Pamponio. Esaminiamo, a proposito dei rapporti tra giuristi ed imperatori, il meccanismo dello ius respondendi ex auctoritate principis: indica il potere riconosciuto giuridicamente (ius) per effetto di autorizzazione imperiale concessa caso per caso, di dare pubblicamente responsi, con un effetto cogente nella pratica. Esso presuppone la prassi dello ius controversum pur introducendo un criterio di prevalenza nei contrasti tra i diversi autori e incide ben poco sul pluralismo interno alla giurisprudenza. Le tensioni politiche del primo secolo sono anche lo sfondo su cui operano le grandi scholae o sectae nelle quali si raccolgono i giuristi (sabiani o proculiani). Esse funzionano come strutture associative, sia pure leggere, atte a conservare tradizioni intellettuali, ad assicurare un collegamento tra i prudentes- che così non rimangono isolati di fronte al potere imperiale-, a sviluppare la discussione teorica e con essa, in sostanza, lo ius controversum. Prima il responso che poteva essere utilizzato in una lite privata non aveva una forma ufficiale; era inviato direttamente al giudice, o portato a processo da una delle parti o dal pretore che aveva consultato il giurista, Non vi erano responsa signata (muniti del sigillo) perché non avevano bisogno di attestare con sicurezza la loro provenienza. Con Augusto si avvia la riforma. I responsa di alcuni prudentes da lui stesso diventano dirimenti in ogni lite. Pomponio attribuisce ad un rescritto di Adriano un’affermazione innovativa: le richieste degli interessati, volte ad ottenere lo ius respondendi, non dovevano essere prese in considerazione né determinare una decisione. La scelta doveva essere unilaterale. Secondo il parere dell’imperatore era necessario che quegli aspiranti si preparassero, esercitando la iurisprudentia e cimentandosi con i problemi della pratica; solo così lo ius respondendi poteva essere conquistato: con il riconoscimento del valore intellettuale del giurista. Dunque, la cesura fondamentale è avvenuta con la costituzione augustea e precisamente con l’irrompere dell’auctoritas: figura emergente di una nuova organizzazione, capace di spostare tutti gli equilibri e modificare profondamente il regime politico. E’ l’autorità dei giuristi che viene accresciuta per opera dell’imperatore. Il princeps conferisce un peso preponderante alle scelte normative degli autori da lui selezionati, che hanno la sua stima e la sua protezione. Non orienta quelle scelte ma le sostiene e le rafforza a scatola chiusa. Assistiamo alla formazione artificiale di una élite. Lo ius respondendi non dura a lungo. A metà del II sec. d.C. gli imperatori di fatto se ne liberano, disponendo ormai di strumenti più efficaci per la integrazione politica ed il graduale assoggettamento della giurisprudenza. 10. L’incoerenza di Gaio. Ordine descrittivo e storia Il testo di Gaio assegna un rilievo molto maggiore allo ius respondendi. Il discorso è tutto al presente e non narra la genesi del meccanismo di promozione dei giuristi ma piuttosto l’investitura con la quale l’imperatore dà più forza normativa ai responsi di alcuni autori siano inclusi nel catalogo dei modi di produzione del diritto. Il giurista cerca di comporre una mappa esaustiva. “I diritti del popolo romano derivano dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dalle costituzioni dei principi, dagli editti di coloro che hanno il potere di emanarli, dai responsi dei giuristi […] La legge è ciò che il popolo ordina e dispone. Il plebiscito è ciò che il popolo ordina e dispone. La plebe differisce dal popolo […] un tempo perciò i patrizi affermavano di non essere tenuti a rispettare dei plebisciti, poiché essi venivano emananti senza il loro assenso; ma in seguito fu emanata la lex Hortensis, la quale stabilì che tutto il popolo dovesse osservare i plebisciti: in tal modo essi furono equiparati alla legge. Il senatoconsulto è ciò che il senato ordina e dispone […] La costituzione del principe è ciò che l’imperatore dispone mediante un decreto, un editto o una lettera. […] Hanno il potere di emanare diritti i magistrati del popolo romano; ma il diritto più vasto è contenuto negli editti dei due pretori […] I responsi dei giuristi sono le decisioni e le opinioni di coloro a cui è stato concesso il potere di creare diritto. Ciò che essi decidono ottiene valore di legge, se tutti si trovano in accordo sulla medesima decisione; se invece sono in disaccordo, è lecito al giudice seguire la decisione che preferisce; il che è stabilito in un rescritto del divo Adriano.” Vi è un’insistenza sulla normazione. La lex si indirizza al popolo che l’ha prodotta. La sua definizione dei responsi è molto ristretta e usa il termine permissum est (a cui è stato concesso); il permissum est imperiale segna un confine e solo i responsi che stanno al suo interno vengono considerati come fattori di produzione normativa. Fuori dal permissum dovrebbe rimanere fuori l’attività di consulenza dei giuristi, che non crea immediatamente diritto e che non è definibile come iura concedere (formulazione del giurista di un risponso che è a priori vincolante e quindi destinato a essere seguito dal giudice). L’equiparazione di questo tipo di responsa alle leges si ferma quando due o più di essi siano, in rapporto allo stesso caso, contrastanti (si vero dissentiunt). Il giudice riacquista la propria libertà solo in caso di dissensio tra le due opinioni, entrambe assistite dallo ius respondendi: torniamo allora in una situazione di pieno ius controversum e la scelta può andare anche al di fuori dei pareri che vicendevolmente si elidono. La politica imperiale ha- secondo lo schema teorico gaiano- un forte impatto sull’attività dei giuristi. Il permissum serve a separare l’una dall’altra le due giurisprudenze, quella le cui opinioni sono promosse a rango di legge e un’altra più libera, mettendo al sicuro con la prima un insieme di soluzioni normative univoche e non derogabili. Così, è proprio e soltanto lo ius controversum a venire rimosso ed escluso dallo iura popoli romani de dal mondo di certezze che Gaio vuole accreditare. Un universo dominato dall’idea di comando. Tuttavia se andiamo avanti a leggere le “Istitutiones” ci accorgiamo che nel corso dell’opera lo ius controversum riemerge; tutto ciò dimostrano un’incoerenza di fondo. Nella teoria generale dei metodi di produzione Gaio privilegia il collegamento tra responsi ed autorità imperiale: lo iura condere è solo dei giuristi patentati. Mentre nelle “Istitutiones” si allontana dal modello teorico per essere didatticamente utile. 11. La posizione dei giuristi nel principato. Il potere normativo degli imperatori apre un nuovo terreno alla creazione giuridica; inoltre lo ius respondendi ex auctoritate principis non cambia il modo di lavorare della giurisprudenza né riesce a porsi come fattore di superamento dello ius controversum. Il declino dello ius respondendi deve essere stato evidente fin dagli inizi del II sec. d.C. e proprio Adriano, respingendo le richieste dei viri praetorii crea le condizioni istituzionali di una nuova giurisprudenza e lo fa attraverso il consilium principis, che dirige l’esercizio della giurisdizione imperiale e ne fissa i principi, sia favorendo il sistematico ingresso dei maggiori giuristi della sua epoca nelle sfere più alte dell’amministrazione dell’impero. Il giurista più importante del consilium di Adriano è Salvio Giuliano. L’ingresso nel concilium principis non è per lui un coronamento ma un onore acquisito presto e al quale ne seguono altri; non gli venne mai concesso lo ius respondendi. E’ anche da sottolineare l’assenza nelle opere dei giuristi di quell’epoca di riferimenti specifici allo ius respondendi. Il principato porta con sé innovazioni nello ius privatum (es: leges di Augusto e la decisione di rendere azionabili i fedecommessi sia pure nella forma peculiare di una iudicium extra ordinem. L’élite promossa attraverso il permissum imperiale non esprime indizi di politica del diritto suggeriti o influenzati dal principe. Più complesso è il discorso per i giuristi che faranno parte del consilium principis. Durante l’ultima fase imperiale vi è una trasformazione del processo e dell’ordinamento giudiziario e la progressiva osmosi tra normazione imperiale e giurisprudenza. A partire da Adriano si allarga Il termine “subiectus” ha nel linguaggio dei romani un significato opposto a quello del “soggetto” moderno. Subiectus deriva da subicere- indica la condizione di chi è sottomesso mentre l’idea moderna implica uguaglianza, autonomia e sovranità sulle cose. . Il soggetto del diritto non è soltanto astrazione. Il pensiero giuridico traduce la nozione economia del mercato. Gli antichi concetti del diritto romano vengono ripresi entro questa storia. Lo sviluppo del capitale commerciale determina una crescente assuzione di rilevanza delle volontà nelle operazioni di scambio tra liberi, ma non giunge mai ad eguagliare giuridicamente tutte le persone. Con l’intervento degli Stati nell’economia il diritto soggettivo non è più concepito come qualcosa di trascendente rispetto alle norme . Intorno all’800 la sua posizione cambia non essendo più fondamento primo ma deriva dal diritto oggettivo. Si determina quindi un capovolgimento teorico, una subordinazione dell’individuo alle norme ma anche una continuità strutturale del suo potere. L’excursus fin qui tracciato dimostra che il diritto soggettivo è un prodotto storico, passato attraverso l’individualismo e le prospettive statualistiche. Nelle fonti del diritto romano non troviamo nessuno dei presupposti teorici e ideali del “diritto soggettivo”. I giuristi muovono sempre dall’idea di ius come disciplina e delineano diversi schemi rappresentativi di poteri giuridicamente regolati. Sia il rituale della mancipatio che la legis actio sacramento in rem che la rei vendicatio del processo formulare nelle loro forme solenni contengono la citazione “in base al diritto dei Quiriti”. Il dato giuridico dell’appartenenza quindi si identifica con la cosa. Invece dal II sec. a.C è più netta la tendenza a separare la cosa dal potere che su di essa si esercita. Due sono i presupposti storici: sviluppo già nel III sec. di una tutela autonoma del possesso attraverso la pratica degli interdetti e l’affermarsi di poteri parziali sui beni tali da limitare l’esercizio dei poteri rientranti nel meum esse (proprietà). Durante il II sec. a.C. si pone al centro della controversia non più la res ma il potere giuridico del dominus sulla res. Entro questo mutamento di prospettiva, il termine ius, tra i suoi vari impeghi, viene usato anche ad indicare il potere del proprietario, oppure i poteri parziali corrispondenti alla servitù o all’usufrutto. Per quanto riguarda direttamente l’appartenenza, abbiamo già detto che il meum esse si identifica con la res. E’ questo lo schema più antico, che con l’autonomizzarsi del possesso con la servitù, con l’usufrutto, cede il passo a visioni più articolate. Lo stesso Gaio considera il dominum un tutt’uno con l’oggetto. Tuttavia, la separazione dei poteri parziali, I sec. a.C., non può non aver contribuito al formarsi di un’idea astratta di dominium. Il primo testo che indica in modo inequivoco la scissione tra il potere e la cosa si riferisce al possesso ed è di Elio Gallo: “[…] è l’uso di un ager o di un edificio, non è il fundus o l’ager; infatti la possessio non è compresa tra le cose che si possono toccare.” Da ora in poi si sviluppa l’idea di potere sulla cosa. La coesistenza di visioni diverse è espressa in un frammento di Giavoleno: il termine proprietas viene interpretato come equivalente alla porzione di terra che spetta al dominus (sia nel senso ager che come potere), con un significato diverso alla parola possessio che invece indica l’uso della cosa, indipendentemente dall’appartenenza. Un passo avanti rispetto alla identificazione tra dominium e res non appare superata nelle Institutiones di Gaio dove egli menziona uno ius compreso nel meus esse ed imputato a chi è dominius. In stretta correlazione con l’autonoma considerazione del possesso e con gli usi linguistici relativi alla iura in re aliena , si configura la categoria dello ius dominii., talvolta riferita direttamente alla proprietà, talvolta al possesso ininterrotto che prepara l’usucapione ed è destinato a diventare dominium. Ci accorgiamo che l’uso dello ius non solo come segmento di disciplina giuridica attinente ad una determinata situazione, ma come potere intorno ad essa, è frequente anche in altri settori. Da varie fonti emerge lo ius ad potestas a riprova dell’emergere del potere. Sempre in rapporto a singole fattispecie e senza ambizioni di tipo sistematico. Si può dire che nel concetto di ius- disciplina sia emersa l’idea di potere in seguito a due spinte convergenti: modifica del regime strutturale delle cose e spostamento semantico: dalla normazione alla posizione normata, dal contenitore al contenuto. Concludendo: 1. Nelle descrizioni moderne e contemporanee dell’ordine giuridico prevalgono le visioni imperativistiche: diritto soggettivo concepito come produzione statuale e si risolve in un complesso di prescrizioni autoritative; mentre queste non sono l’elemento dominante dell’antica iurisprudentia. 2. La libertà e la proprietà, tra 600 e 800, sono irriducibili all’orizzonte delle prescrizioni e trascendenti rispetto all’organizzazione giuridica: schemi sconosciuti al diritto romano. 3. Le ideologie statualistiche dalla metà dell’800 in avanti capovolgono il rapporto: senza l’affermazione e la garanzia del diritto soggettivo, non è pensabile un ordine giuridico dei rapporti privati. È una eredità durevole. 4. Il fatto che ius sia inteso come potere nel linguaggio giuridico romano è il risultato di una metonimia. Ius = disciplina ; significa il giusto e l’ingiusto in ogni situazione. Ma poiché questa determinazione consiste nell’attribuzione di un potere si spiega perché proprio sul potere del singolo si sposti la denominazione di ius. 5. Metonimia è un carattere di fondo perché nella dimensione casistica che regge il pensiero giuridico romano, valutare quale sia la giustizia nel caso concreto significa anche dichiarare di volta in volta un potere. 16. La tradizione romanistica. Antico e moderno. Quando le fonti parlano di ius dominii sappiamo che indica ad un tempo la disciplina di una fattispecie ed il potere individuabile all’interno di essa: distinto e intrasmissibile. Il diritto elaborato dai giuristi romani è il punto di partenza e la base delle culture giuridiche che hanno formato i diritti europei. L’antico ius è divenuto oggetti di molte interpretazioni, operanti ciascuna nel proprio tempo, fino a noi. In realtà c’è un collegamento storico fra i testi antichi e i prodotti normativi dell’età moderna, riguardante il diritto privato: esso è dato dalla tradizione romanistica che ancora ci condiziona. Il concetto di tradizione romanistica descrive un processo diacrono molto articolato e comprendente tutte le culture giuridiche dell’Europa occidentale che hanno assunto il diritto romano come oggetto di rielaborazione. • XI-XII sec. d.C., Bologna, riscoperta della compilazione giustinianea e conseguente assunzione dei suoi testi. L’utilizzazione delle fonti romani è dapprima fedele; costruisce astrazioni nuove e le sovrappone alla lettura del Corpus Iuris. • 1140, tradizione giuridica della Chiesa consolidata nel “Decretum” si affianca alla scienza civilistica del Glossatori. I contenuti della compilazione giustinianea sono circondati e riformulati da una serie di proposizioni interpretativi (glosse) che risolvono le antinomie e costruiscono astrazioni su singoli enunciati giuridici. Questo metodo delle glosse dura fino al XIII sec. • Tra XIII e XV sec. - si sviluppa il commentum che rifonde in sé parti più o meno ampie del Corpus Iuris. • XVI sec. – lungo periodo di graduale emancipazione del principio di autorità. I testi del Corpus Iuris vengono interpretati e vissuti più liberamente. Gli umanisti distinguono il diritto giustinianeo dal diritto dei giuristi. Puntano a liberare le antichità romane dalle manipolazioni e dalle rielaborazioni. Essi mettono in luce l’adattamento dei testi giurisprudenziali all’epoca dell’impero bizantino. Triboniano è visto dagli umanisti come uomo simbolo di un’operazione attualizzatrice, che ha recepito e trasformato nel VI sec. d.C. il diritto dell’antica Roma: una collezione che aspira alla completezza: a regolare l’intero universo dei rapporti privati. In polemica con questa monumentale costruzione, Francois Hotman-1567-“Antitribonien” dove egli dice che gli eruditi di ogni epoca hanno riconosciuto e tenuto ferma una regola: le leggi devono essere costruite e adattate alle forme dell’organizzazione politica e non viceversa. È in questo nesso la principale ragione di diversità tra il diritto romano e quello bizantino. L’autore propone nuove silloge di norme: un embrione di legislazione unitaria per il diritto francese da comporre sulla base dello Corpus Iuris e tuttavia in un’ottica nuova con l’aiuto degli interpreti. Una regolamentazione non volta al passato ma aderente all’esperienza concreta, tenendo d’occhio la pratica. Già 1600 ani prima Cicerone aveva tentato di unificare e disporre secondo un ordine logico l’insieme dello ius civile. L’”Antitriboniano” contiene gli elementi che l’umanesimo introdurrà nel pensiero giuridico europeo. Le istanze polemiche proprie di una parte della “scuola culta” francese vengono presto accantonate. Negli stessi anni, Hugues Doneau, offre alla dottrina un modello molto più complesso: da un lato sottolinea il carattere esemplare dei principi antichi e dall’altro si propone a riorganizzarli volendoli sistemare secondo un ordine per insegnarlo correttamente e per poterlo applicare alla pratica. L’idea che il sistema giuridico sia più importante del singolo comando e che l’autorità politica non possa mutare a proprio piacimento il diritto se non sotto la guida della stessa dottrina, è un forte sostegno per la tradizione romanistica. La scienza continua ad avere come oggetto il diritto romano e a proiettarlo nella prassi giuridica degli Stati nazionali che stanno nascendo. Si finisce per superare la tesi di Hotman (diritto dipendente dalle forme politiche- relatività) mentre si affaccia invece nell’impianto di Doneau l’idea di una resistenza della tradizione rispetto alla politica. Il suo progetto ha prodotto una lezione metodologica rielaborando e integrando le Institutiones. Savigny, 1800, Germania- fa leva sulla ricezione del diritto romano in Germania per sostenere che quei principi di derivazione romana sono oramai un tutt’uno con la coscienza popolare tedesca. Non è difficile vedere le convergenze tra la recezione di Corpus Iuris nell’area tedesca e la lunga vita che hanno avuto gli schemi di origine romana in Francia (es: codice napoleonico- su cui si basa la Costituzione italiana del 1865). Dagli inizi del 900 si fa sentire in Europa l’influenza del nuovo Codice tedesco e della lettura pandettistica. Questa continuità della tradizione romana svela il limite della connessione teorica tra diritto e storia; connessione debole perché il diritto rimane pensato come oggetto di sapere che cresce su sé stesso e sulla propria memoria; perciò la ricerca storica non prende le distanze dal passato. Le dottrine che parlano, soprattutto nell’800, di diritto romano odierno in realtà si riferiscono a fenomeni giuridici la cui individualità è nella concretezza dell’elaborazione attuale. “spirito vitale” oppure entità individuale compiuta e non scindibile. Lo spirito è costitutivo della persona: è ciò che la tiene insieme e la fa ragionare. 20. La rilevanza giuridica del concepimento Il concepimento che sia stato seguito dalla nascita assume rilevanza giuridica in una serie di fattispecie: 1)in relazione al tempo di fecondazione può stabilirsi la condizione giuridica del nato in relazione alla familia o alla civitas; 2)la posizione del nato nell’ambito dei rapporti ereditari viene definita a partire dal momento del concepimento. Chi nasce da due persone in matrimonio acquista la situazione dei genitori. Se la nascita è al di fuori del matrimonio allora sarà la qualificazione della madre al tempo del parto che determinerà lo stato giuridico del figlio. Per favorire la libertas: il nato è libero se la schiava che lo ha partorito era libera al tempo del concepimento oppure se lo è stata per un lasso di tempo durante la gestazione. Nel matrimonio tra peregrino e romana e viceversa, purché il peregrino abbia il connubium il figlio assume la cittadinanza che aveva il padre al momento del concepimento. Se il connubium manca allora il figlio sarà peregrino. Il figlio nato dopo la morte del padre e che sia stato concepito nell’ambito matrimoniale, in mancanza di testamento, è erede del padre. Se non vi è nascita, se non vi è generato un figlio vivo o con sembianze umane, nulla avviene, nessun effetto giuridico si produce. Gaio, nel trattare la facoltà riconosciuta al testatore di disegnare nel proprio testamento uno o più tutori per i figli sottomessi alla sua potestà, estende la regola anche ai figli già concepiti e che siano nati dopo la morte del padre. Tutto ha valore solo se vi è una nascita, altrimenti nessun effetto giuridico si produce. La successione può essere sospesa in attesa della nascita ma se il concepito non nasce in nulla può giovare ad un terzo e l’ordine della successione ricomincia dall’inizio come se quella potenzialità di un nuovo essere umano non fosse mai esistita. La tutela tra concepimento e nascita si assicura garantendo le aspettative legate alla gestazione e poi alla stessa sicurezza di questa. Se vi è una successione aperte si interrompe fino alla (eventuale) nascita. Anche quando non vi è l’urgenza della trasmissione dei beni, essendo il loro titolare in vita, resta il fatto che l’attesa di una nuova persona è rilevante in quanto idonea a modificare l’ordine della prevedibile successione. Per far sì che la posizione di colui che nascerà non sia pregiudicata è stato istituito un curator ventris che cura il sostentamento della madre e quindi la salute del feto in gestazione non solo per consentire che al nato vada l’eredità ma anche per un motivo più generale: chi viene al mondo “non nasce per il padre di cui si dice che sia il figlio, ma per la res publica.” La figura del curatore esiste già in epoca repubblicana e interviene per conservare i beni, per amministrarli e trattare le questioni che riguardano crediti e debiti facenti capo all’eredità, in attesa che la gravidanza abbia il suo compimento e che il nato subentri nei rapporti pendenti. 21. L’aborto Se l’aborto si verifica per cause naturali è irrilevante per la vita sociale e giuridica. Se invece è artificialmente provocata, se è il risultato di una specifica attività della donna, se la realizzano all’insaputa di lei, entrano in gioco qualificazioni giuridiche e sanzioni. Tutte le fonti di cui disponiamo sono fonti maschili e a questo si deve la mancanza di una considerazione del dolore della donna e pochissimo spazio per tutelarla e tutelare la sua integrità. Sulle figure femminili si concentrano molti giudizi morali negativi riguardanti l’interruzione volontaria della gravidanza. I casi giudiziari trattati sono soprattutto della nobiltas perché l’interruzione della gravidanza della donna in stato servile ha un rilievo per la giurisprudenza solo in quanto modifica in negativo la situazione patrimoniale del dominus. In gran parte le regole del diritto romano sull’aborto si rilevano dirette a tutelare gli interessi dell’uomo. Il presupposto essenziale (come emerge dal racconto dell’oratore Cicerone, pag.112) per punire l’aborto è che esso sia stato voluto e realizzato dalla donna contro la volontà del marito. Se il marito fosse stato d’accordo questo non avrebbe avuto alcun rilievo penale. Agli inizi del III sec. d.C. si torna a punire l’aborto. Settimio Severo e Caracalle fissano una norma che prevede un processo penale secondo le formule della cognitiones extra ordinem quando l’aborto- sebbene sia intervenuto successivamente al divorzio- sia contro la volontà e l’interesse del padre. La pena è l’esilio per un tempo stabilito dal giudice. Tertulliano: “Impedire la nascita è un omicidio precose […] Uomo è anche colui che sarà e ogni frutto è già nel proprio seme”. Anche Agostino condanna a pari dell’aborto i “veleni” contraccettivi. Le soluzioni giuridiche influenzate dal cristianesimo appaiono più complesse e varie. Digesto, frammento di Ulpiano dove i compilatori sopprimono ogni richiamo alla lesione dell’interesse del marito costruendo una norma generale, per cui la donna è l’unica responsabile e perciò l’unica che va punita. Sulla posizione del marito nemmeno una parola. La scelta dell’aborto è vista da Giustiniano sullo stesso piano di atti offensivi contro il marito. 22. Identificazione degli individui. Il nome e il censo Fino al III sec. d.C. ai cittadini romani vengono di regola assegnati tre nomi. ▪ Prenomen: es: Marco; di solito abbreviato o menzionato attraverso la consonante iniziale. Esso viene attribuito con la nascita. ▪ Nomen: indica tutte le persone liberi appartenenti alla stessa gens, vale a dire riconducibili ad uno capostipite comune. Questi sono i gentiles, ai quali si aggiungono le donne, gli schiavi manomessi e i clienti che fanno capo alla stessa gens. ▪ Cognomen: appellativo scelto in quanto spesso ricorrente nella famiglia di appartenenza o in quanto specificatamente legato alla persona cui si riferisce (es: nasone) Le donne portano il nome gentilizio del padre. Gli schiavi manomessi conservano il proprio nome, trasformandolo in cognomen ed unendolo al nomen gentis di colui che li ha affiancati. Census; registrazione con cadenza quinquennale dei cittadini, dei loro beni e degli altri alieni iuris sottoposti al pater familias. Addetti all’organizzazione sono i censores che esercitano il regimen morum: attività di direzione dei costumi, che si concretizza nell’inserire, in caso di cattive abitudini o di atti riprovevoli, una nota negativa accanto al nome del registrato, tale da comportare l’ignominia o l’infamia della persona segnalata, producendo conseguenze giuridiche di tipo discriminatorio. Durante il periodo repubblicano il census viene regolarmene organizzato a Roma e nelle province ma si esaurisce alla fine del primo secolo d.C. Vi è inoltre un sistema di registrazione dei neonati. 23. La morte Le regole del diritto ereditario stabiliscono un ordine di successione (vi può anche essere testamento). Se più individui imparentati tra loro muoiono a seguito dello stesso incidente, secondo l’ordinamento espresso dai giuristi, non si determina una successione tra coloro che sono morti assieme, anche nei casi in cui essi non siano morti simultaneamente (accertamento vago ed insicuro). I compilatori giustinianei invece nell’ipotesi in cui muoiano genitori e figli, si finge che i figli impuberi abbiano perso la vita prima dei genitori e i figli puberi dopo. Dopo la morte del marito la vedova è tenuta a lutto e non può contrarre matrimonio per 10 mesi. L’obbligo di lutto vale anche per gli ascendenti e i discendenti, per i cognati e gli agnati del defunto pena la sanzione sociale dell’infamia. 24. La capitis deminutio L’argomento della capitis deminutio (diminuzione dei diritti) è contiguo al tema della morte. L’individuo cessa di appartenere ad una determinata comunità: o perché si estingue fisicamente o perché cambia status. L’individuo perde una parte delle sue potenzialità. La considerazione teorica che ha dato luogo allo schema linguistico incentrato sulla deminutio muoveva dalla comunità. È questa infatti che risulta diminuita da uno dei suoi membri. La capitis deminutio può essere di tre tipi: 1. Capitis deminutio maxima con la quale si perde la libertà, quindi automaticamente la cittadinanza e non si è più membri della familia. Può avvenire perché si è stati esclusi dal novero dei liberi registrati nel census; oppure nel caso in cui un libero maggiore di vent’anni si sia fatto vendere come schiavo da un venditore fittizio per ingannare il compratore e dividersi il prezzo col proprio complice; oppure ancora quando una donna libera abbia una relazione con uno schiavo altrui nonostante il divieto del padrone. 2. Capitatio deminutio minor o media: si perde la cittadinanza conservando la libertà ad esempio per una pena per cui il condannato viene cacciato da Roma e costretto a vivere lontano. 3. Capitatis deminutio minima: quando si esce da una familia, eventualmente per entrare in un'altra, restando comunque libero e cittadino. In tutte e tre le fattispecie l’esito è uguale: si cancella l’esistenza del singolo nell’ambito della comunità di volta in volta indicata. L’ipotesi più drastica è quella del libero che diventa schiavo: si azzerano le sue relazioni giuridiche e viene riqualificato come oggetto che diviene patrimonio familiare del dominus, sul quale si riversano anche i beni di cui eventualmente disponeva il nuovo schiavo. Capitolo 2. La distinzione tra liberi e schiavi 25. La summa divisio “Gli uomini sono liberi o schiavi”. Queste parole di Gaio riassumono un’immagine della società e mettono in evidenza una discriminazione che riguarda la distribuzione ineguale di poteri tra i destinatari delle ricchezze e chi le produce. Vi è un assunto fondamentale: se la produzione si attua impiegando un insieme di strumenti e tecniche allora non vi è strumento più efficace della persona umana; e il modo per far funzionare tutto meglio è sottoporre tutta l’esistenza della persona sotto il comando assoluto di un padrone. Già Aristotele ricordava l’esistenza di filosofi contro la schiavitù. L’insegnamento stoico è: “nessun uomo è schiavo per natura”. In alcuni tratti del pensiero romano l’idea di ingiustizia accompagna la riduzione delle persone a cose. Ma la realtà pratica è lontana da questa idea. Il modo di vivere degli schiavi non è omogeneo: più ostica e difficile è la vita per gli addetti al dei flussi di schiavi dall’esterno e della crescente incidenza della riproduzione e dell’allevamento che implicano dunque una maggiore integrazione: l’imperatore interviene a proteggere i servi maltrattati e ad offrire loro qualche garanzia. Gaio: “Ma nel nostro tempo non è lecito né ai cittadini romani né ad altri uomini sotto l’impero infierire in maniera eccessiva e senza motivo sui propri schiavi […] infatti Antonino in una costituzione ha stabilito che ci uccide senza motivo il proprio schiavo è responsabile al pari di chi uccide uno schiavo altrui. […] punisce anche un’eccessiva durezza dei proprietari […] ordinò che i padroni fossero costretti a vendere gli schiavi se si fosse accertato che la crudeltà dei padroni era intollerabile.” Lo schiavo può rifugiarsi presso un tempio o presso la statua di un imperatore. Questo atto prelude nella prassi ad un intervento magistratuale extra ordinem. Si giungerà alla vendita, sulla base di un accertamento giudiziario, nel quale i servi vengono ascoltati ed espongono al magistrato le proprie ragioni. Il fatto che essi intervengano al proprio nome è una novità. Attivano una tutela, mettendosi sotto la protezione dell’apparato imperiale. Un senatoconsulto chiuderà poi il cerchio, stabilendo che il farsi scudo in modo presuntuoso e infondato delle immagini del principe debba essere a sua volta punito. È probabile che vi sia stata una resistenza del senato di fronte a questa procedura ma essa è stata accolta e troverà, qualche decennio dopo, sistemazione nell’epistula generalis, che Settimio Severo rivolge al praefectus urbi Fabio Gilone. La nozione di ius ha ancora un’essenziale funzione strategica. Indica il potere del proprietario di cui va tutelata l’integrità. Eppure, l’uso di questo potere può essere scorretto e perciò rifiutato dall’ordinamento. Antonino afferma che l’intervento autoritario contro la crudeltà di un padrone non è- secondo lui- in contraddizione con la tutela della proprietà, poiché il fatto che le iniuriae e le violenze dei singoli siano represse ed impedite corrisponde all’interesse dei proprietari. Uno sfruttamento moderato ed umano del lavoro giova alla produzione e ad un rapporto non conflittuale con il popolo degli schiavi. P.s metafora dello spettro, pag.137 Le manumissioni Lo schiavo può passare dallo stato servile alla libertas o per decisione del padrone o in seguito a situazioni che comportino l’acquista da parte sua della libertà, indipendentemente dal volere del padrone o contro di esso. La manumissio è l’atto giuridico con il quale il dominus rinuncia al proprio potere sullo schiavo e quindi lo rende libero, La liberazione esplica tutti i suoi effetti, se l’atto del dominus si compie secondo le modalità determinate: • Disposizione testamentaria; già praticata al tempo delle XII tavole: il testatore dichiara libero lo schiavo e la disposizione si attua nel momento in cui il patrimonio ereditario è acquistato dal suo successore; oltre che liberare lo schiavo può nominarlo erede. In questo caso non vi è aditio (accettazione): la successione è automatica. Questa manumissione può essere subordinata al realizzarsi di una condizione fissata dal testatore e finché essa non si verifichi, lo schiavo è qualificato come statuliber: materialmente e giuridicamente in stato servile, ma con la speranza di essere affrancato. Il testatore può anche seguire una via indiretta e ciò affidarla ad esempio ad un’erede (avviene tramite fidecommesso). In questa ipotesi vi è una duplice dichiarazione di volontà: alla fine chi dichiara la volontà di liberare lo schiavo è l’erede o il legatario; così, essendo divenuto titolare della potestas sul servo, l’erede o il legatario viene ad occupare la posizione di patronus nei confronti del manomesso, ora che è diventano libertas. • Manumissio vindicta: forma rituale che si svolge con un processo fittizio, e simbolico, davanti ad un magistrato. Non siamo davanti ad una forma di accertamento ma ad un atto costitutivo, che crea una situazione giuridica nuova. L’adsertor (ausiliario del magistrato) tocca lo schiavo con una piccola verga e dichiara solennemente che lo schiavo è libero. Il dominus da parte sua non fa nulla per resistere a questa dichiarazione e cede i poteri che aveva esercitato fino a quel momento. Le solennità processuali verranno meno e rimarrà solo la dichiarazione davanti al magistrato. • Manumissio in ecclesia: l’atto della liberazione si svolgerà davanti ad un’autorità ecclesiastica, che avrà una funzione simile a quella del magistrato laico; verrà redatto un documento a fini probatori. • Manumissio censu: in sede di registrazione quinquennale si inserisce nelle liste del censo il nome dello schiavo, attribuendogli anche un nomen gentis del pater e qualificandolo come uomo libero. Questa forma opererà fino alla fine del sistema del censo. • Manumissio inter amico: la concessione della libertà viene affermata e resa nota in una cerchia di persone legate al dominus da relazioni di reciproca cooperazione e potere. Il coinvolgimento di amici implica un controllo sulla decisione del dominus. Non può essere solo lui a liberare lo schiavo ma gli amici intervengono in caso non approvassero. In base all’affermazione del dominus lo schiavo assume libertà di fatto; cessa l’appartenenza ma la sua posizione, in rapporto sia al titolare della potestas sia all’organizzazione familiare, resta potenzialmente subordinata. La libertà di fatto è revocabile dal dominus o dal suo erede. La revoca vale per lo ius civile, ma può essere resa inoperante. Augusto, con la lex Fufia Caninia – 2 a.C., stabilisce che le manumissioni testamentarie siano disposte normativamente, che non superino determinate quantità a seconda del numero complessivo dei componenti della familia e che comunque, uno stesso dominus, non possa manomettere più di cento servi. Ogni violazione rende nullo l’affrancamento. Lex Aelia Sentia- 4 d.C., esclude dalla cittadinanza gli schiavi che abbiano avuto comportamenti turpi ed essi divengono peregrini dedicitii: è vietato loro di soggiornare a Roma e sono soggetti solo allo ius gentium. Inoltre le liberazioni di schiavi più giovani di 30 anni, o da parte di padroni minori di 20, debbano essere approvate dal magistrato preposto al concepimento della manumissio vindicta e che questi debba essere assistito per la decisione da un consilium. Lex Iunia (Iunia Norbana)- 19 d.C., gli affrancati si vedono riconosciuta la libertà civile e tuttavia restano fuori dalla cittadinanza romana; vengono denominati Latini Iuniariii: hanno il commercium ma non il connubium. Sono abilitati a concludere mancipationes con i romani (atti solenni di trasferimento dell’appartenenza riguardanti cose di particolare rilevanza sociale); non possono fare testamento o avere eredi e alla loro morte i beni che hanno amministrato tornano al dominus o al suo erede. • Manumissio adhibitione: lo scritto dichiara l’intenzione di affrancare il servo. • Manumissio convivii adhibitiones: consiste nel trattare lo schiavo come libero, nell’assegnarli una posizione sociale nuova; anche qui di fatto il padrone realizza l’assunzione del servo tra i liberi, facendolo partecipare alla propria mensa. Vi sono i casi però dove l’acquisizione della libertà si ha per colpa di un comportamento inumano da parte del dominus verso lo schiavo: “Al servo che il padrone ha abbandonato in una condizione di grave infermità spetta la libertas, in base ad un editto del divino imperatore Claudio”. La perdita di potere del dominus vale come sanzione. Vi è anche il caso in cui lo schiavo sia stato venduto con l’accordo che il compratore dovesse manometterlo entro una certa data e che invece tale clausola non sia stata adempiuta. Infine ma manumissione può essere stabilita come premio per lo schiavo, quando egli abbia denunciato ed abbia permesso di scoprire l’uccisore del proprio padrone. 28. Il postliminium I liberi possono perdere la propria condizione di libertà e divenire servi. Tra le altre forme vi è la riduzione in schiavitù dei prigionieri (captivi). Gli stranieri sconfitti e catturati vengono destinati al lavoro servile; anche in tempo di pace può verificarsi questa situazione in caso vengano asserviti dai Romani gli appartenenti ad altre comunità che non abbiano rapporti di amicizia con Roma. Vi è una identità sotto il profilo funzionale tra lo schema della capitis deminutio (cambio di status) e l’imprigionamento del romano (rapporto tra due organizzazioni giuridiche separate ed autonome), che determina con la perdita della libertà la sua uscita dalla civitas. Viene meno l’appartenenza alla comunità. La captivitas entro una comunità straniera produce effetti nell’ordinamento romano e si può parlare di capitis deminutio maxima ma se il civis che è stato catturato fugge e torna sul territorio romano intento a restarci, egli riacquisisce la libertà nella condizione antecedente alla prigionia. Analogamente succede al contrario. Queste due ipotesi di reintegrazione sono ricondotte al centro del postliminium, che si applica a tutte le forme di asservimento da parte di una comunità straniera, in guerra e in pace. Il postiliminio è legato al fenomeno di migrazione. Il cittadino abbandonava la propria comunità, perdeva la posizione che aveva in essa e la recuperava con il ritorno. Nell’esperienza del principato il postiliminio si definisce rimedio a carattere restitutivo, che interviene a rimuovere gli effetti giuridici determinati dalla cattura e dall’assoggettamento del cittadino entro una comunità non amica. Capitolo 3. Altre forme di disuguaglianza I liberi Dopo essere stato liberato, colui che era schiavo assume il nome di libertus. È cittadino romano ma si distingue dagli ingenuus poiché non può ricoprire cariche pubbliche se non dopo il consolidamento del principato. Egli è comunque tenuto ad una serie di comportamenti e prestazioni in favore del suo ex padrone (ora diventato patronus). Obsequiem, honor, reverentia; sono i termini che indicano una perdurante soggezione del liberto. Il vincolo che lo lega al patrono assume poi un valore sociale e religioso; oppure si trasforma nella costituzione delle obligationes. Il patrono ed i suoi discendenti succedono al liberto se egli non ha lasciato eredi alla successione in base al legame né eredi testamentari. Il rapporto di patronato si trasmette ai figli del patrono, ma non a quelli del liberto nati dopo l’affrancamento. Il giuramento prestato dallo schiavo prima della manumissione è fonte di doveri. Non dà luogo ad una specifica tutela giuridica, ed è solitamente rafforzato da una promessa, con la quale il manomesso, appena divenuto libero si obbliga a compiere opere utili per il patrono. Possono essere di due generi: servizi che hanno un valore economico (operae fabriles) per le quali è impiegato il verso solvere e che indica l’adempimento di un’obbligazione ed insieme il pagamento di una somma di danaro che deve essere tale da non dover occupare tutto il tempo visto che si deve anche mantenere. L’altra possibilità è un dovere generico di rispetto e tutela a favore dei suoi figli; atto giuridico a vantaggio della persona solitamente assistita dal tutor). La tutela viene esercitata con funzione di protezione ma è un potere sulla persona tutelata ed una forma di amministrazione dei suoi beni; viene anche detta potestas o manus. La morte del pater, nella familia proprio iure, conduce allo scioglimento del gruppo famigliare. I filii familias divengono sui iuris, ma alcuni di essi conservano una posizione di minorità, a cui la tutela dà soccorso. Altra cosa è la cura, che si dà quando c’è un patrimonio da amministrare, facendo capo ad una persona priva delle facoltà mentali o fisiche oppure delle condizioni di equilibrio psicologico essenziali ad un’amministrazione ragionevole. Alla tutela degli impuberi si arriva per via: ▪ Testamentaria: quando il paterfamilias nomina nel testamento il tutore del proprio figlio, prevedendo che questi alla sua morti diventi sui iuris pur essendo ancora impubere. Nel periodo della giurisprudenza anche la madre, un parente prossimo, il patrono, il padre naturale o un estraneo hanno il potere di nominare il tutore. In questi casi però il magistrato deve confermare tale scelta dopo un’inchiesta (ex inquisitione). Il tutore testamentario è volontario che quindi può essere rifiutata dal “tutore”. ▪ Legittima: quando non c’è testamento o esso è stato invalidato. Risale alle XII tavole dove è stabilito che la tutela venga esercitato dall’agnato (consanguineo da parte di padre) più prossimo e se ve ne sono di più allora devono esercitarla tutti insieme (appassionatamente). Al tutore legittimo è concessa la facoltà di trasferire l’esercizio della tutela ad un altro, il quale diventa tutor cessicius attraverso la forma della in iure cessio. Ma con l’eventuale morte o capitis deminutio del tutore cessicius la tutela torna al tutore legittimo. ▪ Dativa: per mancanza di tutori testamentari o legittimi è il pretore, con l’assistenza della maggioranza dei tribuni della plebe, a effettuare la nomina (tutor Atilianus). La sua istituzione segna il passaggio dalla tutela concepita come potestas a quella concepita come munus (incarico) con scopo di difesa per gli interessi dell’incapace. Più tardi, con Claudio, il compito passa ai consoli; con Marco Aurelio e Lucio Vero passa invece a una speciale figura del magistrato: praetor tutelaris. Il tutore dativo non ha il potere di rifiutare l’incarico né di trasferirlo ma ha la facoltà di indicare qualcuno che ritiene più adatto di lui svolgere l’incarico (potioris nominatio). Per dimostrare la propria inidoneità ha a propria disposizione una serie di excusationes (es: età > 70 anni). La tutela è un istituto a termine: cessa quando il pupillo muore o raggiunge la pubertà ecc. Ma la tutela sulle donne è perpetua: semplicemente passa da tutela impuberam alla tutela mulierum. Essa è concepita diversamente da quella degli impuberi perché il tutore non ha mai la gestione del complesso dei beni e delle relazioni giuridiche facenti capo alla donna sui iuris, ma si limita ad assisterla negli atti che potrebbero determinare perdite patrimoniali. Infatti il tutore stesso considera questo incarico come ingrato e proprio per questo viene concessa ai tutori testamentari e legittimi la possibilità di consegnare l’incarico ad altri, con l’in iure cessio tutelae alla presenza di un magistrato. Già nell’epoca della giurisprudenza a volte il marito lascia in testamento alla moglie, che ha in manu, il permesso di scegliersi da sola il tutore (tutor optivus). Può lasciarle un’optio angusta (potrà scegliersi il tutore una o due volte) oppure le potrà lasciare un’optio plena (potrà scegliersi il tutore tutte le volte che vuole); altrimenti il marito può nominare un tutore nel testamento. Con la lex Iulia et Papia Augusto concede che le donne ingenue con 3 figli siano liberate del tutto del peso della tutela mentre per le liberte al 4 figlio. Più tardi questo verrà dato come privilegio. L’imperatore Claudio abolisce la tutela degli agnati. Nel principato lo spazio della tutela appare sempre più ristretto e nel IV sec. d.C. scompare. Al tutore viene affidata, secondo l’età del pupillo, o la gestione diretta del suo patrimonio (negotia gerere- per gli infans qui fari non potest- non sa ancora parlare) o l’intervento nella gestione dei suoi affari per integrarne la capacità legale (auctoritatem interponere- capace di esprimersi e di intendere; se esso compie degli atti senza l’assistenza tutoria vale il principio che sono validi solo se sono positivi per lui). Contri gli abusi e le malversazioni presto si interviene a limitare l’irresponsabilità tutoria. I decemviri stabiliscono che la frode del tutore è un crimen di carattere pubblico e che chiunque può portarlo in giudizio. Le XII tavole sostituiscono l’accusatio tutoris ( Procedimento penale di azione popolare offerto come rimedio dalle XII Tavole per la rimozione del tutore testamentario che avesse agito con dolo in danno del pupillus. L’esercizio dell’(—) da parte di un qualsiasi cittadino, in qualità di defénsor pupílli (difensore del pupillo), comportava la nomina, da parte del magistrato, di un nuovo tutore e l’infamia a carico del precedente. In mancanza di dolo, e in presenza di sola inettitudine o negligenza del tutore, poteva essere esercitata la postulàtio suspècti tutòris, che comportava egualmente la rimozione del tutore, ma non era infamante. In epoca giustinianea, l’(—) non si distinse più dalla semplice rimozione, ferma restando la sanzione dell’infamia per i soli casi di dolo, e poté essere promossa contro qualsiasi tutore.) con l’actio rationibus distrahendis (Azione prevista dalla legge delle XII Tavole ed esercitabile dal pupillus nei confronti del tutor legitimus , una volta cessata la tutela. L’azione mirava ad ottenere un rendiconto della gestione del patrimonio pupillare separato rispetto al rendiconto del patrimonio appartenente al tutore: se fosse risultato che il tutor aveva distratto in suo favore cespiti patrimoniali e proventi di gestione appartenenti al pupillus. Egli era condannato in duplum, cioè al pagamento del doppio del valore dei beni di cui si era impadronito. L’ (—) rientrava, pertanto, tra le actiònes pœnales. In dottrina si ritiene che, nel periodo classico, il regime dell’(—) divenne generalmente applicabile a tutti i tipi di tutori. La fattispecie che determinava l’esercizio dell’(—) risultava essere, in sostanza, una particolare configurazione di furtum ). Anche il tutore dispone di una difesa, il iudicium contrarium, con cui può avere il rimborso delle spese sostenute ed essere esonerato dalle obbligazioni contratte durante la gestione della tutela e a causa di essa, I due iudicia non si applicano alla tutela mulierum. La cura è un antico schema processuale che designa le attività di amministrazione e protezione (origine nelle XII tavole). Serve a tutelare il patrimonio di coloro che non sono in grado di provvedere da soli ai propri interessi. I curatores possono essere legitimi, istituiti secondo la legge delle XII tavole, e honorarii, nominati dal magistrato. Le XII tavole prevedono un curatore sia per i pazzi (furiosi-difettano le facoltà mentali) che per i prodighi (difettano l’equilibrio necessario a disporre in modo sensato dei propri beni- dissipano il patrimonio). In seguito la nomina del curatore è affidata al magistrato. Un curatore viene dato dal pretore anche ai sordi e ai muti, in quanto persone considerate incapaci di compiere atti giuridicamente rilevanti. Nel 191 a.C. la lex Plaetoria dispone di una pena di tipo pubblico oltre che una pena pecuniaria privata a carico di chi inganni un giovane sui iuris uscito dalla tutela ma minore di 25 anni. La stessa legge propone che il minore abbia a disposizione un mezzo giudiziario per rescindere l’accordo fatto su basi ingannevoli; questi può difendersi utilmente con un’exceptio legis Plaetoriae contro qualsiasi azione che si fondi su atti nei quali egli è stato aggirato. L’editto prevede a favore del minor una restitutio in integrum. Il pretore svolge una causae cognitio e decide di porre nel nulla l’atto , facendo tornare indietro il rapporto giuridico e ricollocando le parti nella situazione anteriore. La restitutio interverrà anche quando la scelta del contraente più debole ed inesperto sia stata compiuta erroneamente e senza riflessione. 33. I clientes Gli inurbati, le persone senza averi che cercano ed ottengono la protezione di un cittadino imminente sono detti clientes. Colui che presta aiuto è detto patronus. Nella repubblica questo rapporto di dipendenza è legato alla fides: sostegno reciproco. Durante il principato si crea una cerchia di persone che rendono ossequio all’uno o all’altro potente. Il loro omaggio rafforza la sua fama e il suo potere. Così si forma la comunità di clienti fideli ad un solo patronus, legato alla sua familia e partecipi alla vita domestica. La protezione dei clienti si esplica anzitutto nel rapporto con le autorità istituzionali. Il patronus li assiste nei processi e i clienti offrono attività lavorative. I seguaci sono importanti per il cursus honorum; se i clientes sono numerosi ciò significa prestigio e dà misura di quanto conti il patronus. La disuguaglianza sociale ed economica è all’origine della clientela; quelli che non hanno una condizione più stabile avvicinano i più ricchi e li corteggiano. Poco dopo il sorgere del Sole i clienti si presentano a casa del patronus con l’abito festivo (essi percepiscono in questo modo il compenso quotidiano: 25 assi p 6 sesterzi oppure un modesto contributo in generi alimentari). Il patrono può anche concedere doni di maggior valore, come l’uso di un alloggio e in tal caso il rapporto si fa più stretto. 34. Potentiores e humiliores Potentes o potentiores indica una posizione di supremazia sociale che dà luogo ad una serie di vantaggi anche giuridici. Chi è più potente di solito ha un’influenza sui giudici e prevale nei processi. Nella tarda repubblica questo è un dato costante e normale. Durante il principato si fa invece strada il conflitto tra l’apparato imperiale e i ceti proprietari più forti. I principes assumono, intorno al II sec. d.C. un orientamento paternalistico a tutela degli humiliores- un patrocinio nei casi di maggiore disparità. “Se poi qualcuno dica di non trovare un avvocato a causa della potenza dell’avversario parimenti bisognerà nominargli un avvocato”. 35. L’infamia Una condizione sociale e giuridica di svantaggio colpisce coloro che hanno perduto la publica existimatio, diventando bersaglio di una riprovazione generalmente condivisa. XII tavole: all’improbus interstabilisque (colui che, chiamato a testimoniare, si rifiuti di farlo) venga negata la capacità non solo di essere testimone ma anche di ricevere testimonianze a suo favore (e siccome all’epoca dei decemviri le operazioni di scambio si svolgevano tutte attraverso atti nei quali era dominante la forma orale, di fatto veniva escluso dal commercio). Più tardi si parlerà di infamia o ignominia. Gli infames sono stigmatizzati dai censores durante il censimento con una nota apposta; essi vengono esclusi dagli uffici e dal Senato. In un periodo ancora successivo, agli esponenti di alcuni mestieri considerati turpi (Es: gladiatori) si vieta di sostituire o affiancare nella fase in iure del processo, quando si avanzano, quando si avanzano le richieste al magistrato (postulare pro aliis). Nell’edictum del pretore si aggiungono coloro che hanno commesso atti riprovevoli (es: militari esclusi dall’esercito); inoltre, coloro che abbiano sposato una vedova prima che sia passato un anno dalla morte del primo marito (tempus lugendi) e i patres familias che abbiano dato il loro consenso; i bigami e quelli che si fidanzano con più persone contemporaneamente. Il pretore limita la capacità di compiere atti giuridicamente rilevanti. Si aggiunge poi anche il tutore che abbia sposato la propria pupilla. La dichiarazione di infamia è comminata come pena accessoria di alcuni crimina. esercitare la potestas, ricadono tutti sotto lo stesso potere dell’adrogator: i figli divengono nipoti ecc. La fusione di due famiglie ha un rilievo religioso e perciò i sacerdoti svolgono un ruolo di accertamento sulle condizioni e sulle opportunità della decisione. Inoltre le fonti attestano un coinvolgimento della più antica assemblea popolare romana (comitia curiata) ma è un aspetto che con il tempo cambia. Progressivamente l’assemblea popolare acconsente alle dichiarazioni dei patres, interrogati da un componente del collegio sacerdotale dei pontefici. Poi, nella tarda repubblica, l’assemblea sparisce e l’adrogatio si compie davanti a 30 litori. “Si considera l’età di chi vuole arrogare […] se non vi sia una manovra per impadronirsi dei beni di colui che viene arrogato, inoltre, si ordina un giuramento (“Vogliate e ordinate che Lucio Valerio divenga secondo il diritto e la legge figlio di Lucio Tizio, come se fosse nato da quel padre e da una madre della famiglia di lui, sicché questi abbia nei suoi confronti un potere di vita e di morte (vitae necisque potestas), come un pater verso il filius. Queste cose, così come le ho dette, a voi Romani le chiedo.”) da pronunciare all’atto dell’arrogazione. […] si usa il termine adrogatio perché questo genere di passaggio in una famiglia avviene attraverso una richiesta (rogatio) rivolta al popolo.” A rivolgere la richiesta è quindi un terzo. Sebbene Aulo Gellio metta tutto insieme il giuramento è stato una novità ed è servito a compensare con un’assunzione di responsabilità del pater l’offuscarsi del ruolo dell’assemblea. Nelle Istituzioni di Gaio è ancora un terzo a formulare le domande. Ma già mentre lui scrive è invalso un controllo diretto del princeps sulle adrogationes. Viene introdotta tramite una costituzione imperiale (Epistola di Antonino Pio) l’adrogatio dell’impubere e poi quella della donna sui iuris. L’adrogatus subisce una capitis deminutio minima. Diventa filius. I crediti dell’adrogato vengono acquistati in blocco dall’adrogator. I debiti da delitto si trasmettono al nuovo pater, che può consegnare il nuovo adrogatus alla vittima evitando così l’azione. 41. L’adrogatio come atto complesso. L’estinzione della potestas. L’adoptio (in senso stretto) è l’atto complesso con cui il figlio di una famiglia altrui viene incluso nella propria: il pater allarga così la propria potestas e ciò avviene imperio magistratus (con l’intervento di un magistrato giusdicente. Di solito a Roma è il pretore). Il filius viene venduto 3 volte ad un acquirente fiduciario. Sono 3 vendite fittizie, attuate con la forma della mancipatio. 1. Prima vendita: filius diventa persona in mancipatio dell’acquirente (condizione quasi servile). Così il pater pur conservando la potestas perde il potere di disporre del proprio filius. Gli resta una potestà affievolita. A questo punto l’acquirente fiduciario fa uscire il figlio dal mancipium con una manumissio vindicta restituendolo al padre che riacquista la piena potestà. 2. Seconda vendita: l’acquirente per la seconda volta lo manomette. 3. Terza vendita: la potestas del padre è completamente estinta. Emancipazione è conclusa, se l’acquirente fiduciario manomette per l’ultima volta il filius oppure se lo remancipa al pater che lo emancipa definitivamente. Ma l’ultimo passaggio può essere diverso e fare in modi che porti al passaggio sotto il potere di un nuovo pater. L’acquirente fiduciario può uscire dal rapporto con una remancipatio del filius a favore del pater cedente. Se questi non lo manomette e quindi non conclude la mancipatio si può procedere all’adoptio. L’elemento essenziale della fase conclusiva è costituita da una iure in cessio, un processo simulato davanti al magistrato giusdicente, nel quale il padre adottivo afferma solennemente che l’adottato è un suo filius mentre colui che lo ha in mancipatio mantiene un contegno del tutto passivo, lasciando che si realizzi la nuova potestas. Il magistrato da parte sua conferma l’esito dell’atto, forse con una pronunzia: addicere. I crediti e i debiti imputati al fillius se rientrano nell’amministrazione del peculium castrense restano intatti. Le obbligazioni da delitto seguono la medesima sorte dell’adrogatus. I crediti acquistati per il pater precedente si trasmettono a quello nuovo. Le obbligazioni, se risultano fra quelle rese azionabili- a determinate condizioni- dal pretore verso il pater, continuano ad essere tutelate nei suoi confronti. 42. La conventio in manum La conventio in manum è l’aggregazione di una donna ad una familia. La conventio nasce dall’usus. Dopo un anno di matrimonio il marito acquista la manus sulla moglie. Il perseverare dei coniugi nel rapporto matrimoniale produce la manus: fa uscire la donna dalla potestas del proprio pater per sottometterla al marito e, se questi è filius, al padre di lui. La manus è un potere autonomo rispetto al rapporto matrimoniale. Non bastano le nozze e far uscire la moglie dalla potestas del proprio pater. Una volta avvenuta la conventio in manum, se si scioglie il matrimonio per il divorzio, la donna rimane comunque sottoposta alla manus dell’ex-marito e continua a far parte della famiglia di lui. Se una donna non avesse voluto essere sottoposta alla manus del marito ella si sarebbe dovuta assentare per tre notti ogni anno (quotannis trinoctio abesset) e così ogni anno avrebbe interrotto l’uso. Con il trinoctio abesset non si determina lo scioglimento del matrimonio. Per sciogliere il matrimonio serve che la convivenza cessi e venga meno la voglia di tenere in vita il matrimonio. Stanco al racconto di Gaio l’usus viene progressivamente meno durante gli anni dell’Impero. Dopo l’usus le fonti ricordano la confarreatio- rito sacrificale dedicato a Giove Farreo, nel quale veniva offerto e consumato del pane di farro, alla presenza di dieci testimoni, con l’intervento delle autorità religiose come il pontifex maximus e il flamen Dialis; anche questo scomparso con il principato. Di sicuro però era un atto completamente distaccabile dal matrimonium. Il rapporto matrimoniale è esclusivamente costituito dal volere dei coniugi. Quando il volere cessa, anche solo da parte di uno dei due, il legame si scioglie. Quindi, un atto iniziale formalizzato, un rito per quanto solenne non può dare luogo a nozze, che richiedono una volontà continuativa. Può invece generare la conventio in manum. In terzo luogo, si giunge all’ingresso della donna nella comunità famigliare mediante la coemptio (principato). È un atto giuridico, con la struttura di una mancipatio, compiuto alla presenza di cinque testimoni cives Romani e del libripens (che tiene la bilancia). Nell’atto solenne questi dovrebbero misurare il corrispettivo simbolico della finta vendita, con cui la donna viene acquistata (in sostanza assiste al trasferimento da una condizione giuridica all’altra). L’espressione in manu mancipioque riferita ad alcune fonti è riferita alla donna che è in mancipio- coinvolta nell’atto mancipatorio ma essa è anche in manu- sottoposta ad un potere che quel medesimo atto ha costruito. Il mancipio accipiens è colui che prende nella propria manus la donna. Mancipio dans è il precedente pater familias oppure la donna stessa precedentemente sui iuris. Nell’ultimo caso è necessario l’intervento del tutore. L’atto prende il nome di coemptio matrimonii causa quando si compie nell’ambito di un rapporto matrimoniale. La coemptio può anche avere una finalità diversa: assoggettamento temporaneo della manus ad un’altra persona, con la quale si compie l’atto; Lo scopo è quello di restituire alla donna la condizione sui iuris, attraverso la remancipatio affinché ella possa liberarsi del suo tutore per poi sceglierne un altro. Potestas indica un’appartenenza già acquisita: in potestas esse. Questa espressione riguarda ciascuno degli individui compresi nel gruppo. Subito dopo, l’asse del discorso cambia. Non è più descritta come condizione statica (esse) ma un movimento: in manum convenire. Convenire- giungere vicino a una persona e in manum esprime la destinazione. Le persone in mancipio sono quelle cui si assegna una condizione simile allo status servile ma vi è un effetto diversa nella coemptio: realizza la conventio in manum della donna. 43. Sul modello di struttura della familia e sulle sue funzioni Si chiama pater familias colui che ha il dominio nella casa; anche nel caso in cui egli non abbia figli. Quando esso muore tutti gli uomini liberi che furono a lui soggetti cominciano ad avere ciascuno la propria famiglia; ciascuno subentra nel nome del pater familias (vale per i filii; la figlia diviene sui iuris ma non ha famiglia propria). Tra figli e figlie, alla morte del pater, può stabilirsi una comunione dei beni: un’appartenenza congiunta- consortium ercto non cito. Ciascuno ha un potere indiviso, pieno e identico nell’insieme. Ognuno può gestire i beni purché non vi sia un veto da parte di un altro. L’actio familiae erciscundae, che si svolge dapprima con le legis actiones, serve ad ottenere la divisione. L’antico consortium sparisce in tarda repubblica e viene sostituito da un’idea di comproprietà, che può crearsi volontariamente, entro la quale si distinguono quote ideali. Vi saranno più persone e ciascuno potrà alienare la sua quota. Il consortium antico non dà diritto di primogenitura, che sostituisca automaticamente il nuovo pater a quello defunto e che tenga ferma l’unità della famiglia. Il testamento non è diventato strumento di trasmissione della patria potestas. Familia indica anche il complesso di beni che fanno capo al gruppo, che sono usati e amministrati da componenti del gruppo e di cui è giuridicamente titolare il patres. Infine familia è l’insieme degli schiavi che fanno parte del patrimonio del gruppo e rientrano nella sua organizzazione. Secondo un rito antico il figlio appena nato è posto davanti al pater; questi lo innalza nelle proprie braccia e ciò significa che il figlio è accolto (tollere liberum) altrimenti egli non lo alza e a quel punto decide l’esposto, ovvero l’abbandono. • Il pater è titolare dei beni amministrati dal figlio, ad eccezione di quelli conquistati nella carriera militare. • Il pater può vendere il figlio a una persona libera di un’altra famiglia, con l’effetto di collocarlo in mancipio. • Il pater può dare in pegno il figlio e può, attraverso una locatio operarum, mettere il suo lavoro a disposizione di un’altra famiglia. • Il pater può cedere il figlio alla persona offesa il figlio che abbia commesso un delitto. Tali azioni sono actiones noxales (noxa- ciò che nuoce). • Il pater ha la massima estensione della patria potestas: ius vitae et necis (potere di vita e di morte) che essa implica nei confronti dei sottoposti. (fino al IV sec. d.C.). Secondo le riguarda il potere del pater egli prospetta l’analogia con la res publica, per sostenere che quel potere deve essere esercitato con moderazione. 47. La normazione augustea sui costumi famigliari Con l’affermarsi del potere di Augusto la repubblica tramonta e l’intera organizzazione del populus Romanus viene investita da un rivolgimento autoritario. Traspare dalla sua opera di governo un obiettivo, che riguarda il rapporto tra politica e vita: cambiare le forme istituzionali per far tornare indietro la società verso un tempo antico idealizzato. La sua politica è un esempio di imposizione di regole morali, che riguardano la vita intima di donne e uomini liberi. Tutto ciò è definibile come inquadramento autoritario delle esistenze. Non è questo autoritarismo a creare un periodo di pace ma piuttosto l’ordine dei rapporti privati nasce dal lavoro della giurisprudenza che nonostante lo ius respondendi ex auctoritate, edifica una duratura disciplina intorno alla volontà delle persone libere. 18 a.C. – Lex Iulia de maritandis ordinibus- stabilisce l’obbligo dei cittadini romani di sposarsi e di generare figli, sanzionando coloro che non obbediscono. Scelta accolta molto bene in Senato. (a causa del maggior numero di uomini essi potevano sposare le liberte; non i senatori) 16 a.C. – Lex Iulia de adulteriis coercendis- vengono punite le relazioni extra coniugali di donne sposate. Anche l’amante della moglie è punito; è oggetto di repressione il lenocinium: favoreggiamento della prostituzione delle mogli. Sono represse le relazioni che coinvolgono donne non sposate (stupra). L’accusa nei confronti della donna è riservata al marito e subordinatamente al pater. Dopo 60 gg, se il procedimento non si è aperto, potrà essere sostenuta da qualsiasi cittadino (delator), entro il termine di 4 mesi, che decorre dal divorzio. L’accusa da parte del delator può avere luogo anche senza il divorzio, purché vi sia già una condanna del marito per lenocinio. Questa lex prevede anche che il marito ed il pater possano uccidere l’amante; mentre solo il pater può uccidere la figlia. L’uccisione è consentita solo se gli amanti sono stati colti in fragrante in casa del pater o del marito. Quest’ultimo- se è filius- non può uccidere la donna, mentre può mettere a morte l’adultero di bassa condizione sociale. La svolta consiste nel qualificare l’adulterium come un crimen entro l’ordinamento generale, senza affidarne più la repressione al pater. Le pene sono il confino (relegatio) e la confisca dei beni. 9 d.C. – Lex Papia Poppaea – nega totalmente ai caelibes (in età matrimoniale ma non coniugati; uomini 25-60 anni e donne 20-50 anni) la capacità di ricevere beni in base ad un testamento; toglie agli orbi (sposati senza figli) la metà di quanto è stato disposto dal testamento. Ai beni non acquisiti viene applicata la caduca: rivendicati da qualsiasi cittadino per conto dell’aerarium populi Romani o per conto del fiscus attraverso le forme processuali delle cognitiones extra ordinem. Tacito: trae spunto da questa esperienza per sottolineare quanto la proliferazione delle leggi sia fonte di corruzione: usare il diritto a favore di una persona determinata o contro di essa è effettivamente un fattore di degenerazione, anche per la cultura dei romani. Nonostante tutto però la politica legislativa di Augusto produce frutti durante tutto il principato. Capitolo 6. Il matrimonio e le unioni di fatto. 48. Definizioni del matrimonio. Le iustae nuptiae si realizzano quando un uomo e una donna uniscono le loro vite, con la volontà reciproca di essere marito e moglie. Ciascuno dei due coniugi deve avere il connubium dell’altro (facoltà di contrarre matrimonio senza impedimenti). Se i coniugi sono filii familias è necessario il consenso dei rispettivi patres. La base del rapporto è vivere insieme. L’unione sessuale è l’espressione di una scelta profonda. Vi sono anche riferimenti allo ius divinium; giustificato da specifici elementi rituali, che hanno un rilievo nel matrimonio. (Messalina, (ex) moglie di Claudio, poi andata con Silla- pag. 205/206) Secondo il diritto privato romano le nuove nozze implicano necessariamente lo scioglimento delle precedenti. Non vi è bisogno di cause speciali per divorziare. Basta la manifestazione della volontà di uno soltanto dei coniugi. 49. Gli sponsalia Con sponsalia si indicano durante l’età repubblicana le reciproche promesse relative ad un futuro matrimonio. Gli sponsali sono la proposta e la promessa (mentio et repromissio) di nozze future. Nel principato invece indica un rapporto che dura nel tempo, che può giungere fino alle nozze e che deriva dalla volontà di dar vita ad un matrimonio. In origine la forma è quella della sponsio, nella quale l’impegno solenne è assunto da due parti simmetricamente. È un rituale giuridico al quale potevano ricorrere solo i cittadini romani. Ulpiano la ritiene però superata. “Gli sponsali sono così denominati da spondendo (ciò che è da promettere mediante sponsio): infatti fu proprio del costume antico farsi promettere e promettere i futuri mogli. Le reciproche dichiarazioni di volontà non intercorrono di solito tra l’uomo e la donna ma tra i rispettivi patres oppure tra il maschio e il pater della donna. Nel caso della donna sui iuris si suppone che ella si impegni sotto l’assistenza del tutore. L’inadempimento formale della promessa da parte di ciascuno comporta sanzioni nel confronto del promettente che però non si concilia quindi con la libertà del volere sui cui si fondano le nozze. Infatti progressivamente viene meno la configurazione degli sponsalia come atti produttivi di obbligazioni. Con il principato la forma della sponsio sembra essere definitivamente abbandonata. Vi è solo ilo consenso che dà luogo agli sponsalia come un rapporto che precede il formarsi del matrimonio e che può interrompersi, con un ripudio o con una rinuncia, rimanendo senza seguito. Lo schema dell’incontro è simile a quello delle nuptiae. Giuliano: “Gli sponsali, come le nozze, avvengono attraverso il consenso dei contraenti e quindi, come nelle nozze, è necessario che la fillia familias acconsenta; anzi, se il padre non è d’accordo, deve dirlo espressamente, altrimenti è la volontà della figlia quella che conta.” L’equiparazione degli sponsali alle nozze fa supporre che si configuri un rapporto analogo a quello matrimoniale; che si protrae nel tempo finché dura la volontà che lo costituisce. Le enunciazioni di Giuliano sono nette ma non vengono recepite: nella giurisprudenza severiana prevale un’idea opposta al rilievo del volere della figlia. Secondo Ulpiano, si presume che gli sponsalia il consenso tacito della figlia purché non vi siano particolari ragioni di repugnanza da opporre alla scelta compiuta dal pater. Secondo Paolo, il filius può impedire che gli sponsalia a suo nome, soltanto con un esplicito dissenso. Rimane centrale il rapporto tra le due organizzazioni famigliari anche perché l’impegno riguarda spesso coppie di giovanissimi. La tendenza ad accostare gli sponsalia al matrimonio è evidente: essi diventano l’anticipazione di un possibile rapporto nuziale. Gli sponsalia implicano una volontà che si protrae nel tempo, al pari del rapporto nuziale. Se il vincolo non nasce rimangono degli effetti giuridici: o Ciascuno degli sponsi e i parenti dell’altro un rapporto di quasi adfinitas (come se in luogo degli sponsalia vi fosse già un matrimonio). o Non si può essere costretti a rendere testimonianza contro il padre della sponsa o contro lo sponsus della figlia. o Lo sponsus può esercitare l’actio iniuriarum in difesa della sponsa come se l’offesa fosse diretta contro di lui. La sanzione è l’infamia. Le donazioni sono ammesse prima del matrimonio. Ma vi è uno stretto divieto sulle donazioni tra coniugi. Se le nozze non si compiono, lo sponsus non può chiedere la restituzione dei doni offerti alla donna a meno che il dono non sia stato condizionato alle nozze e queste non fossero poi avvenute. 50. La volontà, elemento costitutivo del matrimonio e del divorzio. I riti nuziale hanno la funzione di manifestare nella sfera sociale la formazione del rapporto coniugale e l’incontro della volontà che ne è il fondamento. Ma non sono costitutivi; soltanto attestazioni esterne. La giurisprudenza mette in primo piano la volontà, l’animus, il consenso dei coniugi, l’affectio maritalis. L’assenza di forme obbligate e il primato della volontà libera emergono da un frammento di Gaio: “[…] anche senza la scrittura, vale ciò che si è voluto, purché abbia un mezzo di prova: così anche le nozze valgono, sebbene non vi siano attestazioni scritte in essa.” La nozione centrale è il patto- che nel matrimonio è l’incontro amoroso; certo, l’esteriorizzazione è indispensabile quindi contano molto la convivenza e i modi in cui l’unione viene rappresentata socialmente dai suoi stessi protagonisti. Ma le prove del rapporto sono libere. Quintiliano: “[…] a nulla servirà infatti aver redatto le tabulae, se risulterà che non vi è stata l’intenzione di costruire un matrimonio.” La donazione tra coniugi non è ammessa quindi per decidere se essa possa essere operante bisogna stabilire se vi è un rapporto matrimoniale. Scevola afferma che non basta la deductio in domum né la redazione del documento dotale per individuare il tempo della nuptiae. Solo rapporto nuziale, fondandolo sempre di più sulla sfera dei sentimenti, sulla vita della coppia. L’organizzazione famigliare resta sullo sfondo mentre la cultura dominante sviluppa un modello di “individuo coniugale”: definizione del ruolo del maschio entro la familias, concepito sempre di più in relazione alla propria compagna ed al legame che con lei viene stabilito. Il modello implica un rispetto nuovo dell’animus e delle scelte che la donna compie, anche se ovviamente la posizione maschile rimane prevalente. Le pulsioni della vita sessuale emergono come elementi del matrimonio (I-II sec. d.C.). I segni che mostrano il primato giuridico delle volontà e delle autonome determinazioni individuali coinvolgono anche la sfera psicologica, il sentire del singolo, a cui ora si attribuisce una più immediata rilevanza sociale. Plinio il giovane; il suo rapporto con la moglie è innanzitutto amoroso. Pur essendo frequenti, come racconta lo stesso Plinio, poiché i rapporti tra organizzazioni famigliari influenzano le nuptiae, sono poi le volontà dei coniugi a reggere la vita matrimoniale. Contano quindi i sentimenti reciproci. Ma ovviamente tutto ciò non elimina le disparità. Plinio esprime un atteggiamento protettivo nei confronti della sua donna ma in un momento difficile (quando ella ha un aborto spontaneo) questo suo atteggiamento protettivo ed amoroso è limitato da un distacco che corrisponde allo stereotipo della superiorità maschile. (Vicende di Calpurnia pag.223 e 224). 53. La dote Dote (dos)- insieme dei beni che vengono dati al marito, grazie al matrimonio, dalla moglie quando è sui iuris, o da altri, allo scopo di soddisfare le esigenze economiche e sostenere le spese della vita nuziale. I beni sono presso il marito ed appartengono a lui ma la donna conserva nei loro confronti un’aspettativa, che dà luogo, quando il matrimonio cessi, all’esercizio di un’azione giudiziaria per averli indietro. La legislazione augustea (con la Lex Iulia de adulteriis) riconosce all’uxor di opporsi all’alienazione del fondo dotale. D’altro canto il marito è obbligato alle spese necessarie per rimediare al deterioramento delle cose. L’assegnazione dotale può passare attraverso un’obbligatio verbis: obbligazione a cedere i beni, generata da un atto solenne, i cui effetti giuridici si producono per la pronuncia di parole tassativamente prefissate. L’atto più antico è unilaterale e si chiama dotis dictio- dichiarazione con la quale la donna prima delle nozze si impegna con il proprio sposo a cedergli i beni dotali; oppure l’obbligazione è assunta dal padre, o da un debitore della donna che sposta così i propri debiti a favore del marito. Altri possono promettere dote al marito ma devono ricorrere alla stipulatio: pronunzia bilaterale di parole solenni (promettente e marito). La dote può anche essere costituita con il trasferimento diretto dei beni: datio dotis, realizzata mediante mancipatio, in iure cessio oppure traditio: producono conseguenze volute e quindi sono efficaci, soltanto se vi è il matrimonio e finché esiste. La dote prende vita dal matrimonio e quindi non può esserne un elemento costitutivo. Lo scioglimento del rapporto nuziale rimette comunque in discussione la titolarità dei beni, LE obbligazioni verbis contractae, così come l’appartenenza al marito vengono meno, nel momento in cui cade la finalità stessa della dote. Per ottenere la restituzione dei beni dapprima si ricorre ad una stipulatio (conclusa all’atto dell’assegnazione), poi, in età tardo-repubblicana nasce l’actio rei uxoriae, esperibile dalla donna (se è sui iuris) oppure dal pater di lei. Inoltre, quando siano stati posti in essere atti ad effetti reali e sia avvenuta la cessione, il cedente, una volta finito il matrimonio, può anche esercitare una rea vindicatio (Azione a tutela della proprietà, esperibile dal proprietario contro chi possedesse illegittimamente la cosa, al fine di ottenerne la restituzione.), oltre l’actio rei uxoriae. 520 d.C. Severino Boezio: “[…] La dote, nonostante sia tra i beni del marito dopo il matrimonio, rimane nella sfera giuridica della donna (in iuxoris iure) e dopo il divorzio può essere chiesta in giudizio come cosa propria della moglie (velut rex uxoria pet potest). 54. Il concubinato. Il concubinato è l’unione di fatto tra un uomo ed una donna che non hanno la volontà di essere marito e moglie. All’origine di questa scelta spesso vi è la disparità sociale. Può accadere anche che l’uomo e la donna non contraggano nozze legittime e che quindi manchino il connubium. Oppure essi non vogliono incorrere in un divieto. Per loro resta solo l’unione di fatto. Il concubinato è un’unione lecita, accettata socialmente e giuridicamente. Sono perciò ben fissati i limiti che lo distinguono dallo stuprum. Stuprum- relazioni sessuali al di fuori del matrimonio con donne non sposate. Regolato per la prima volta dalla legge augustea de adulteriis, il crimen stupri è punito con la confisca di metà patrimonio e la relegatio in insulam. Adulterium- relazioni sessuali al di fuori del matrimonio con donne sposate. Non vi è stuprum quando il rapporto sia con una libera propria o altrui, con un’attrice, con una condannata in giudizi pubblici, con una prostituta, con una donna obscuro loco nata (povera, senza famiglia alle spalle) e quindi anche con una donna ingenua (nata libera ma socialmente libera). Tutte queste forme di concubinato sono lecite e destinate a diffondersi. Due tipi di rapporto compresi nella nozione di concubinato: 1. Relazioni extraconiugali del marito (con le donne per le quali sia escluso lo stuprum), che possono protrarsi nel tempo e sono comunque lecite. 2. Unioni che tendono a porsi come analoghe ed alternative al matrimonio. In questo caso siamo di fronte ad una scelta che coinvolge l’intera vita della coppia. In un frammento di Paolo è chiaro che: da una parte viene espresso un giudizio morale negativo ispirato alla centralità del matrimonio come prima societas tra i coniugi, che fonda la famiglia; ma dall’altra parte c’è l’accettazione di una forma di vita diffusa ed è inevitabile che questo secondo punto di vista porti a sottolineare la somiglianza tra matrimonio e unione di fatto. Presso gli antichi veniva chiamata ‘pelex’ colei che viveva con un uomo pur non essendo sua moglie; ora elle viene chiamata amica e concubina. Granio Flacco scrive che ora viene chiamata ‘pellex’ colei che mescola il suo corpo con uno che moglie. La medesima parola ‘pellex’, che sembra avere un significato dispregiativo, può essere usata non solo per i rapporti extraconiugali, ma anche per indicare una posizione simile a quella di moglie: quindi entro un rapporto esclusivo. Vi è quindi un riferimento ai due generi di unione. L’analogia con il matrimonio presuppone come elemento comune la volontà. Paolo dice che a fondamento del concubinato vi è una determinazione soggettiva: l’animus con il quale l’uomo considera la propria compagna. In un altro testo, dopo essersi spinto a dire che il concubinato non può coesistere con il matrimonio spiega che la concubina si distingue dalla moglie solo perché alla base del rapporto vi è una scelta diversa. Il concubinato implica anche il rispetto socialmente esibito tra uomo e donna (una obiettivazione sociale simile a quella dell’honor matrimoniis) tanto da creare a volte confusione. I dubbi relativi allo stuprum si risolvono dando prova dell’esistenza del rapporto matrimoniale (affectio maritalis e honor matrimonii) oppure dei presupposti per il concubinato. Le attestazioni sono rese dall’uomo, sebbene, come nel matrimonio, le due volontà che reggono la convivenza siano formalmente uguali. Ma, soprattutto in caso di inferiorità della donna, è l’uomo che decide quale debba essere la natura del rapporto, dichiarando l’affectio maritalis oppure dando le prove affinché l’unione sia considerata un concubinato. Sotto il profilo giuridico, il consenso reciproco non genera conseguenze ai fini della filiazione. I figli sono considerati spurii e seguono la condizione della donna. Non risulta neppure rilevante nel concubinato il momento di origine, che invece è puntualmente individuato nel matrimonio. Il problema delle donazioni non si pone per il concubinato. Vi è una piena libertà di regolare rapporti economici interni alla coppia ed eventualmente quelle con i figli. Niente divieti. Non vi è invece nessuna diversità tra concubina e moglie per quanto riguarda l’aspetto economico: entrambe vengono mantenute e hanno il sostegno dell’uomo nella domus. 55. Il contubernium Il contubernium è l’unione di fatto tra un uomo ed una donna entrambi schiavi, oppure tra una persona libera ed una in condizione servile. (cum e taberna: vivere sotto la stessa tenda). Contubernium servi: l’abitazione usata dalla coppia è di solito riferita al maschio, anche se giuridicamente egli non ha nulla, perché i beni che egli usa sono quelli del dominus. In eodem contubernio perseverare- (affinità con il matrimonio) - è la volontà continuativa a fondare l’unione di fatto. Contubernium sequi (ancora affinità con il matrimonio) - “Seguire il contuberium di uno schiavo altrui significa che la donna entra nella dimora del compagno. Si esteriorizza così il rapporto. Materialmente è simile alla deductio in domum. Il rapporto nasce dal volere; il verbo che denota il manifestarsi continuativo del volere è contrahere. Il contubernium ha una fattispecie nella quale la donna libera può, se ricorrono determinate circostanze, subire una capitis deminutio maxima, che ella è evidentemente pronta ad accettare per seguire il servus al quale si è unita. Le coppie miste segnalano casi ed occasioni di avvicinamento tra la vita libera e quella servile. La più frequente è la convivenza tra un libero ed una schiava. Nel caso opposto invece, si ha il paradosso di una donna che ha più potere sul piano giuridico, ma che è anche disposta a perderlo. limitare la capacità di associazione tornerà spesso per interessi delle classi dirigenti. Una minore indulgenza si avrà verso i gruppi costituiti da gente minuta (tenuiores), con poche risorse e senza la partecipazione di personalità in grado di suscitare qualsiasi movimento di tipo politico o eversivo. Con una Lex Iulia voluta da Augusto viene affidato al Senato il compito di approvare e legittimare l’esistenza e l’attività delle associazioni. 59. Disposizioni testamentarie a favore dei municipi e delle città. Municipium- designa unitariamente la comunità locale inclusa entro il circuito pubblico. Municipes- individua la pluralità dei componenti, visti come singoli, interni all’organizzazione. “Né i municipi né coloro che fanno parte di un municipio possono essere istituiti eredi, poiché si tratta di un corpo incerto nella sua composizione, e non possono accettare tutti l’eredità né intraprenderne la gestione.”. Vengono però richiamate due soluzioni introdotte da senatoconsulti: 1) Il primo senatoconsulto stabilisce che il municipium possa essere istituito erede dai suoi liberti. 2) Un secondo senatoconsulto prevede che attraverso un fedecommesso, un intero patrimonio ereditario possa essere destinato ad un municipium. In questa seconda parte è dato anche per scontato che qualcuno, in nome del municipio, compia l’atto di accettazione dell’hereditas. In questo assetto normativo il fedecommesso assume la medesima forza della istituzione dell’erede. Un altro testo di Ulpiano ci riporta all’impero di Nerva che per primo riconosce alle civitates di ogni genere il potere di ricevere legati. È chiaro che l’unità collettiva diventa il centro di riferimento di una relazione creata da un atto di ultima volontà. 96-98 d.C. e riconfermata tra il 117 e il 138 d.C. Vi è un lavoro giurisprudenziale in via di sviluppo che ha come punto di arrivo riferire alle entità collettive l’autonoma titolarità di aspettative ed obblighi. 60. Legati ed eredità ai collegia. Marciano, in un frammento delle sue Institutiones, stabilisce che i collegi illeciti sono quelli di volta in volta non autorizzati dagli imperatori; che fra questi vi sono anzitutto quelli costituiti da militari, che ai tenuiores è permesso riunirsi mensilmente e conferire una quota per il sostegno comune; che una finalità religiosa può essere illecita e che non è consentito di appartenere a più di un collegio. Su questa base i collegi autorizzati vengono gradualmente assunti come centri di riferimento di relazioni giuridiche. Ancora un senatoconsulti (di Marco Aurelio) disciplina il legato a favore di un collegium. Se l’associazione è autorizzata, il legato a suo favore spetta a essa e a nessun altro. Se non è autorizzata allora è priva di rilevanza autonoma; dunque il legato può andare solo ai singoli. Un altro intervento di Marco Aurelio conferma che il collegium è titolare di relazioni nella sua unità e può compiere atti giuridicamente rilevanti. Ma ciò significa che l’eredità di costoro, in quanto liberti per i quali il collegio stesso è patrono, non può che andare a quest’ultimo, se manca il testamento. Per quanto riguarda l’eredità testamentaria, il medesimo meccanismo del fedecommesso onnicomprensivo risulta essere applicato anche ai collegia. 61. L’autonomia patrimoniale perfetta. Alcune clausole dell’editto regolano la tutela giudiziaria mediante la quale i municipia, le civitates e i collegia fanno valere le relazioni giuridiche di cui sono titolari, sostengono in giudizio per proprie cause o resistono ad azioni esercitate nei loro confronti. I testi relativi a queste azioni sono riuniti in un titolo del “Digesto” “Quanto al fatto che si agisca in mone di una qualsiasi universitas o contro di essa”. Universitas- è una parola che ricorre più volte nelle fonti per indicare varie situazioni “unificate”. Indica il “tutto” e lo indica in termini sufficientemente astratti, per poterlo considerare sganciato dagli elementi che lo compongono. È a questo “tutto” che l’actor deve fare riferimento; è questo il centro di interessi di cui l’extraneus assume la difesa. È questo “tutto” il titolare dei crediti che si trasmettono e dei debiti che si estinguono. Qui universitas è usato per estendere il discorso anche ai collegia. Ulpiano: “[…] La condemnatio dell’actor non si traduce in pagamenti da parte dei singoli ed opererà piuttosto a carico delle universitas, incidendo sulle ricchezze che le sono proprie. Così anche la vittoria nella lite sarà a favore dell’organizzazione nella sua unità. L’autonomia patrimoniale perfetta non è determinata, come in tempi odierni, dall’esigenza di proteggere i singoli dal rischio, ma nasce piuttosto dalla volontà di stabilizzare le entità collettive concettualizzate con la nozione di universitas o con nozioni affini, garantendo una loro sfera sicura di azione sul terreno privatistico. 62. L’hereditas prima dell’additio Chi risulta erede, e non era sotto la potestas del pater al momento della sua morte, acquista il complesso dei beni ereditari solo attraverso un atto di accettazione: additio hereditas. Se il termine per il compimento di questo atto non è stabilito dal testamento, tocca al pretore fissarlo. Nella fase intermedia tra la chiamata all’eredità e l’accettazione si crea una situazione di inerzia: i beni “giacciono” e il patrimonio viene conservato nella situazione in cui era quando il titolare è venuto a mancare. Secondo Labeone, durante questo periodo i beni non hanno padrone. Nello stesso senso si pronunziano anche Gaio e Giavoleno. A questi beni si riferisce anche la disciplina dell’usucapio pro herede alla quale si riferisce Gaio nonostante già abbastanza superata ai suoi tempi “[…] avviene che acquisti per capione colui che sa di possedere una cosa altrui, ad es. se qualcuno possieda una cosa ereditaria, del cui possesso non si è ancora impadronito l’erede; a lui infatti è consentito l’acquisto, purché la cosa sia suscettibile di usucapione; questa specie di possesso e di usucapione si chiama pro herede; il tempo richiesto è di un anno per ciascun bene (anche immobile). Nella fase che precede l’aditio hereditas, la giurisprudenza considera l’eredità come un insieme suscettibile di incrementi e di perdite, ma anche come titolare di acquisti effettuati dallo schiavo ereditario. Egli non ha padrone eppure i giuristi riconoscono che i suoi atti possono comportare una modificazione di relazioni giuridiche imputabili all’hereditas ma solo attraverso una finzione intellettuale. Cassio e poi altri giuristi fingeranno che gli acquisti da parte dei servus siano compiuti a favore del prossimo erede: che quindi esso sia il titolare delle relazioni facenti capo al complesso dei beni giacente. Un titolare che può davvero dirsi tale solo dopo l’aditio. Pomponio, sviluppando il pensiero di Cassio, affronta il caso di una stipulazione sottoposta ad una condicio (destinata ad essere efficace solo se si verifica un fatto futuro e incerto). La condizione si realizza dopo la morte del promittente e prima dell’aditio da parte del suo erede. Il complesso dei beni e delle relazioni denominato hereditas diviene temporaneamente centro di riferimento autonomo, sostituendosi all’erede. Da Giuliano in poi questa prospettiva si capovolge e diventa il defunto. 63. Le vicende giuridiche del peculium. Peculium- complesso di beni affidato allo schiavo. Marciano: “Il peculio nasce, cresce, diminuisce e muore (simile all’uomo); se il servo acquisti anche cose che il padrone non aveva necessità di fornirgli, ciò è peculio, mentre invece se gli furono date tuniche o altro di simile che il padrone gli deve necessariamente fornire, allora non è peculio.” Il servo non può essere considerato giuridicamente titolare del peculium, che formalmente è compreso nella sfera giuridica del dominus. Tuttavia, di fatto assistiamo al costituirsi di crediti e debiti, in conseguenza di atti compiuti dal servo. I crediti possono essere fatti valere in giudizio dal dominus e per i debiti egli sarà responsabile verso i creditori che hanno trattato con il suo sottoposto, entro i limiti del peculium, ma anche al di là di esso, per quanto ha personalmente ricavato dall’operazione. La separazione del peculium serve a limitare il rischio legato all’attività economica, nel caso in cui più domini promuovano un’attività imprenditoriale, ricorrendo per il suo esercizio ad un servo di proprietà comune. Essi affidano al servus communis un complesso di beni da amministrare o di danaro da investire e la loro responsabilità è circoscritta entro i confini del peculium. Chi non ha partecipato al peculium, oppure ha revocato la sua parte, risponde dei beni con i propri beni personali. I giuristi parlano di più peculia o di uno solo. Resta ferma anche in questo caso la possibilità di un’actio de in rem verso (l'azione processuale introdotta dal pretore in aiuto a colui che, contrattando con persona incapace (servo o figlio di famiglia), avesse subito un danno; a sua tutela il pretore gli consentiva di agire in solido contro il pater familias, da cui dipendeva l'incapace, nella misura dell'arricchimento da questi conseguito. Tale istituto è recepito nel diritto vigente con il principio che un pagamento fatto a un incapace, di per sé improduttivo di effetti, libera tuttavia il debitore, se questi prova che la somma pagata era rivolta al vantaggio dell'incapace), ulteriore a quella del peculio, sebbene limitata all’arricchimento personale dei proprietari. L’actio de in rem verso concorre con l’actio de peculio (era esperibile nei confronti di un pater familias o dòminus nei casi in cui il filius o il servus- dotati di peculium- avessero concluso un negozio giuridico senza il consenso del pater o del dominus, relativamente alla somma effettivamente andata a profitto di questi ultimi. In particolare, il pater ed il dominus dovevano restituire per intero il profitto ricevuto e, se non avevano ricevuto alcun profitto, erano ritenuti responsabili limitatamente al patrimonio peculiare: ciò imponeva al giudice di valutare in primo luogo se il patrimonio del pater o del dominus avesse ricevuto qualche incremento dall’affare, e solo in caso di esito negativo di tale valutazione, passare a considerare il peculio- cioè i beni del pater o dominus messi a disposizione del filius o servus per l’esercizio della propria attività. Nel valutare il peculio, occorreva preventivamente dedurre ciò che era dovuto al pater o al dominus.)
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