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istituzioni di diritto romano, Prove d'esame di Istituzioni di Diritto Romano

riassunti del libro e lezioni della professoressa.

Tipologia: Prove d'esame

2018/2019

Caricato il 12/11/2019

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martina-dimola-1 🇮🇹

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Scarica istituzioni di diritto romano e più Prove d'esame in PDF di Istituzioni di Diritto Romano solo su Docsity! DIRITTO ROMANO Introduzione ▲ Gli studiosi dividono i sistemi giuridici mondiali in due grandi famiglie: 1. gli ordinamenti di Civil law in uso nell’Europa continentale (che discendono direttamente dal diritto romano e dal Codice napoleonico). Di origine romana, si basa sul diritto scritto e sul ruolo determinante della legge, sia sotto il profilo legislativo- parlamentare che sotto l’aspetto della funzione giurisdizionale, in quanto i principi fondanti di questo sistema vengono codificati. Questo modello riconosce il ruolo preminente della legge nel guidare le decisioni della magistratura. Ha fatto si che si che si parlasse una lingua comune. 2. La Common law si basa sulle decisioni dei giudici. Il caso concreto è il punto di riferimento, e le sentenze hanno natura vincolante per quanto riguarda i futuri casi a venire: è il principio del cosiddetto stare decisis, secondo cui ciò che vincola il giudice sono i precedenti giudiziari in materia, ovvero le sentenze. • Nel IV secolo l’Impero Romano è diviso in: 1. IMPERO D’ORIENTEnel 330 Costantino inaugura come nuova capitale Costantinopoli (vecchia Bisanzio); nel 1453 viene occupata dalle truppe di Maometto II il Conquistatore. 2. IMPERO D’OCCIDENTEDiocleziano imperatore; la crisi economica basata sui prodotti della terra, impoverimento delle città e sviluppo del latifondo; nel 476 l’Impero crolla con la deposizione di Romolo Augusto. • Fino al 1100 Costantinopoli fu considerata come la “nuova Roma”; non era contaminata da pagani. Gli imperatori d’oriente vengono considerati come i legittimi eredi dell’impero romano classico, in quanto avevano come ideale quello di realizzare il sogno della monarchia universale e cristiana. • GIUSTINIANOnacque nel 482 d.C. fra le attuali Macedonia e Albania, dove si parlava latino; proveniva da una famiglia sconosciuta e di modeste condizioni. Seguì lo zio Giustino a Costantinopoli, il quale fece carriera tra i gradi dell’esercito fino a diventare imperatore nel 518. Lo zio gli diede un’ottima educazione e studiò filosofia e giurisprudenza; avvantaggiato dalla posizione dello zio, Giustiniano lavorò presto nella politica imperiale, dapprima risanando i rapporti con il papato romano e il Regno gotico in Italia, e successivamente rifiutando le tendenze monofisiste del deceduto imperatore Anastasio. • Nel 521 viene nominato console e in seguito comandante dell’esercito d’Oriente. Qualche anno dopo, nel 524-5 circa, sposa Teodora, attrice teatrale ed ex prostituta, che riuscì a sposare solo dopo l’abrogazione del divieto di matrimonio fra i membri della nobiltà e le attrici di teatro. Il rapporto con Teodora è molto forte, forte a tal punto che Giustiniano nella Prefazione della Costituzione afferma di averla cambiata per sua moglie, la quale era compartecipe della sua stessa forza. Entrambi sono considerati santi nella tradizione ortodossa per il loro impegno nell’edificazione di molte chiese. Pocopio scrive su Teodora e Giustiniano un libro intitolato La vita segreta, dove racconta che Teodora era figlia del guardiano degli orsi di Costantinopoli, e che nel circo in cui lavorava facevano molte manifestazioni politiche tra verdi e azzurri. Quando il padre di Teodora morì, lei diventò un’attrice mentre le sorelle diventarono etere (dame che accompagnavano le persone di un certo livello). Un giorno Teodora incontrò un vescovo monofisista e si convertì (credeva che Gesù avesse una sola natura). • Nel 527, in seguito alla morte dello zio, Giustiniano diventa imperatore e assume il titolo di Augusto. L’imperatore aveva in mente la realizzazione di tre chiari obiettivi: 1. Ritornare al Grande Impero Romano conquistando l’occidente. Riesce a conquistare l’Egitto, il Nord Africa, la Spagna e l’Italia, territori che però perderà negli anni successivi alla sua morte. 2. Inizialmente Giustiniano tentò di rendere la religione cattolica la religione universale dell’impero, ma visto che la moglie era monofisista opta per un accordo con i monofisisti stessi. Per convalidare tale accordo mancava la firma del papa, il quale si rifiutò categoricamente, così G. lo fece rapire e lo costrinse a firmare; tuttavia i successori del papa ignorarono tale accordo e i monofisisti continuarono per la loro strada. Xsx 3. Per Giustiniano la forza dell’impero risiedeva nelle armi e nelle leggi; il diritto applicato era quello dell’imperatore, il quale aveva il potere di emanare costituzioni imperiali chiamate LEGES, redate dai giuristi. Da questo punto di vista Giustiniano esce vincitore, in quanto riuscì a riordinare il patrimonio giuridico a lui precedente e contribuì a creare la tradizione giuridica occidentale. • Corpus Iuris Civilisdall’età medievale indica la grande compilazione giustinianea del diritto romano, ed è composto da quattro parti: 1. Il Digesto 2. Il Codice 3. Le Istituzioni 4. Le Novelle Tale denominazione gli venne data da Dionisio Gotofredo nel 1583. Giustiniano iniziò ad occuparsi del diritto con il Codex, la raccolta di costituzioni imperiali del 529, seguito dal Digesto o Pandette nel 533, scelta di frammenti tratti dalla produzione letteraria della giurisprudenza classica, e dalle Istituzioni, manuale di diritto per studenti. Al Corpus Iuris si aggiunse la seconda edizione del Codex del 534, e le Novelle nel 565 (anno di morte di G.), che costituiranno la successiva legislazione giustinianea. ▲ Il primo Codice nel 528 Giustiniano comunica al senato l’intenzione di pubblicare una raccolta ordinata di costituzioni imperiali, che garantisca agli operatori del diritto una base certa e imprescindibile nella ricerca di una norma da applicare ad un caso concreto. Con questo progetto Giustiniano vuole porre ordine alla previa situazione di disordine creata dalle raccolte preesistenti, e aggiornare il materiale da queste raccolte integrandovi le costituzioni successivamente pubblicate. La commissione incaricata della compilazione era composta da Giovanni (ex ministro della giustizia che in particolare si occupava della stesura delle costituzioni imperiali), da 6 funzionari o ex funzionari tra i quali Triboniano, da Teofilo (professore della facoltà giuridica a Costantinopoli e comes del Consistorium imperiale), da due togati (ovvero avvocati patrocinanti presso il tribunale supremo del prefetto del pretorio. Le leggi che compongono la raccolta dovevano essere certe e brevi (legis certae et brevi sermone conscriptae), e perciò i commissari erano autorizzati a modificare i testi legislativi eliminandone le praefationes, le ripetizioni e contraddizioni. Nel 529 il codice viene pubblicato accanto alla costituzione Summa rei publicae (dalle parole iniziali), ed entrò in vigore nove giorni dopo. ▲ I Digesta si tratta di una raccolta composta da 50 libri pubblicata nel 533 con la costituzione bilingue Tanta o Dédoken per volere di Giustiniano, il quale desiderava ordinare le opere dei giuristi classici, che costituivano diritto vigente utilizzabile in giudizio accanto alla legislazione del Codex. Sia questi testi giurisprudenziali che le costituzioni imperiali versavano in uno stato di totale confusione, così Giustiniano nel 530 diede l’avvio alla realizzazione di una raccolta ordinata di frammenti dei giuristi, e lo fece con la constitutio Deo auctore, indirizzata a Triboniano; la commissione era infatti presidiata da Triboniano, il quale doveva scegliere a sua discrezione gli altri membri, i membri in totale erano 17, Triboniano, Costantino, quattro professori del diritto (Teofilo e Cratino – di Costantinopoli -, Doroteo e Anatolio –di Berito) e undici avvocati. I commissari dovevano trarre dai libri degli antichi giuristi solo le parti più importanti che andassero a costituire il tempio della giustizia di tutto il diritto antico, per poi essere assimilate alle costituzioni imperiali come voce dello stesso imperatore; il materiale preso non doveva assolutamente essere commentato e nemmeno abbreviato, in quanto il significato doveva rimanere tale e quale all’originale e alla lettura doveva essere comprensibile. La raccolta si compone dunque di frammenti dotati di un’inscriptio che indicava l’autore e l’opera in questione, e fu utilizzata in giudizio in tutto l’impero d’oriente a partire dalla fine del 533. ▲ Le Institutionessi tratta di un’opera giuridica elementare pubblicata nel 533 con la Constitutio Imperatoriam indirizzata ai giovani bramosi di leges, divisa in 4 libri che descrive in maniera chiara e riassuntiva i primi rudimenti del diritto, comprendendo sia il diritto non più vigente che le costituzioni imperiali. Gli autori delle Istituzioni sono Triboniano, Teofilo di Costantinopoli e Doroteo di Berito, i quali hanno ricavato dei responsi dagli scritti istituzionali antichi e in particolare dalle Istituzioni di Gaio. Il manuale assume valore normativo, in quanto vi sono riferimenti ad istituti giuridici sconosciuti al diritto classico, i quali sono trattati in maniera completa. ▲ Il Codex repetitae praelectionisconseguentemente alle novità portate dalla pubblicazione delle Istituzioni e del Digesto, fu pubblicata una seconda edizione del Codice giustinianeo nel 534, dove vennero accorpate le nuove e le vecchie costituzioni. La commissione incaricata della revisione aveva il compito di riassumere e raccogliere le nuove costituzioni, emendate e divise in capitula e collocarle nei relativi titoli. Il Codice è diviso in dodici libri che sono a loro volta divisi in titoli dotati di un’apposita rubrica, e all’interno di questi titoli le costituzioni sono poste in ordine cronologico. Ogni costituzione è anticipata da un inscriptio, la quale specifica l’imperatore/ l’emanante e il destinatario, ed è seguita da una subscriptio che indica la data di promulgazione. che era prodotto autonomo di ogni civitas, e di ius gentium che, fondato sulla naturalis ratio, era al contempo ius naturale. • Ius gentiumdopo la Prima guerra punica, lo sviluppo del commercio di Roma pose ai romani il problema delle norme giuridiche da applicare nei rapporti con gli stranieri, e sorse così l’esigenza di creare una serie di norme applicabili sia ai cives che ai peregrini, così da regolarne i rapporti e da risolverne i conflitti. Da ciò nacque il ius gentium, che fu il risultato del confluire di elementi di diversa origine: principi giuridici comuni ai popoli del mediterraneo, le norme consuetudinarie che si instaurarono nei rapporti commerciali basate sui principi della obbligatorietà della buona fede e del rispetto della parola data; alcuni istituti giuridici prima riservati esclusivamente ai cives furono adattati in modo da essere applicati anche ai peregrini (es. la sponsio fu accostata alla stipulatio; sponsio= atto solenne riservato ai cittadini romani in cui la domanda e la risposta dovevano contenere il vero spondere, promettere; stipulatio=contratto perfezionato attraverso un’interrogazione orale rivolta dal futuro creditore al futuro debitore e attraverso una risposta impegnativa di quest’ultimo egualmente orale), e queste norme costituirono lentamente un sistema unitario di regole che si poneva in posizione distinta rispetto al ius civile. La trasformazione di questo insieme di regole consuetudinarie sorto nei mercati fu possibile con l’istituzione del praetor peregrinus nel 242 a.C. e con la diffusione di un nuovo tipo di processo, quello formulare, che era accessibile anche agli stranieri per risolvere le controversie tra i cives romani e i peregrini. Nel nuovo processo i rapporti giuridici sorti ottennero una protezione giurisdizionale, infatti il pretore peregrino congegnò un nuovo tipo di formula di azione, appunto per tutelare questi rapporti fondati sulla fides, in cui l’organo giudicante era istruito a giudicare seguendo i dettami della buona fede. • Ius honorariumè l’insieme delle regole che nascono in seguito all’applicazione dell’attività giurisdizionale dei pretori e degli altri magistrati romani titolari di iurisdictio attraverso la pubblicazione dei loro edicta. Siccome il magistrato non può creare ius civile, contribuisce alla migliore applicazione pratica del ius civile, colmandone le lacune, correggendolo e adattandolo alle nuove esigenze sociali. Papiniano, giurista del II sec. d.C., illustra in un frammento del Digesta la distinzione tra ius civile e ius honorarium, affermando che è ius civile tutto ciò che proviene dalle leggi e dall’auctoritas dei giuristi, ed è diritto pretorio tutto quello che essi hanno introdotto per migliorare lo ius civile, chiamato anche ius honorarium, denominato così in base all’honus, cioè alla carica, dei pretori. Per comprendere al meglio tale definizione bisogna analizzare i meccanismi essenziali del processo formulare romano. Il primo sistema processuale romano, quello delle legis actiones, era accessibile solo ai cives romani e prevedeva sei schemi fissi d’azione a seconda della pretesa fatta valere, a cui corrispondevano altrettanti formulari fissi che le parti e il magistrato dovevano pronunziare alla lettera. Le più antiche tra le legis actiones sono la legis actio per sacramentum in rem e la legis actio per manus iniectionem: 1. Era esercitata dal pater familias per far valere il suo potere ai sottoposti, dall’erede sui beni ereditari, dal dominus sulle cose in sua proprietà; il riferimento al sacramentum deriva dal fatto che la decisione della lite verteva sul giuramento di versare all’erario unna determinata somma se la propria pretesa non risultasse fondata, e il giudice avrebbe risolto la situazione dicendo quale fosse fra le due parti il sacramentum iniustum 2. La manus iniectio era l’azione esecutiva intentata contro il iudicatus, ovvero il condannato a pagare una somma di denaro da un precedente giudizio, contro il confessus, ovvero chi confessa in iure davanti al magistrato un debito di denaro previsti dalla legge; il sottoposto a manus iniectio veniva esentato dal procedimento se in iure (davanti a un magistrato), un terzo dopo la confessione del creditore si opponeva all’esercizio della manus iniectio dichiarandola ingiustificata, e questa opposizione costringeva il creditore ad agire nei confronti del vindex (terzo) per dimostrare la validità del processo da lui avviato, e agiva probabilmente con la legis actio per sacramentum in personam. Un’ultima legis actio esecutiva era la per pignoris capionem che attribuiva ai titolari di una pretesa avente carattere sacrale o pubblico un potere di pignoramento sui beni del debitore. Nel 242 a.C. accanto alla figura del praetor urbanus quella del praetor peregrinus, che era titolare di iurisdictio nelle controversie fra cittadini romani e stranieri; davanti a lui i processi venivano celebrati secondo un nuovo sistema per formulas idoneo a risolvere controversie incompatibili con le legis actiones. Questo processo sorse per fornire protezione giurisdizionale a rapporti nuovi che per la natura stessa del rapporto, non avrebbero avuto altrimenti tutela giuridica, ed è sorto probabilmente già prima dell’istituzione del pretore peregrino, nel tribunale del praetor urbanus, il quale ritenne opportuno sulla base del suo imperium incominciare a ius dicere anche a favore e contro gli stranieri ed elaborò i primi rudimento del processo formulare. Il nuovo processo fondava dunque sul solo imperium del magistrato, ed era definito per formulas in quanto nella sua prima fase il magistrato redigeva e consegnava alle parti un commento, la c.d. formula, in cui erano indicati gli elementi essenziali della controversia, invitando il giudice a condannare o assolvere il convenuto a seconda della fondatezza o infondatezza della pretesa dell’attore. Con la litis contestatio le parti si accordavano sul contenuto della formula e si impegnavano a sottostare alla decisione del giudice privato da loro scelto, il quale risolveva la lite nella seconda fase del processo in base alle prove, ma era comunque vincolato alle risultanze della formula. Le Institutiones di Gaio ci informano che intorno al 130 a.C. il processo per legis actiones e per formulas smisero di coesistere in seguito all’emanazione della lex Aebutia, con la quale il processo formulare venne usato per risolvere delle controversie previamente esclusive delle legis actiones. Non si conosce per certo il contenuto di questa legge, ma secondo un’opinione con a capo Wlassak la legge rese possibile agire per formulas anche tra i cittadini romani, i quali avrebbero potuto scegliere tra agire in maniera tradizionale, ovvero per legis actiones, oppure per formulas traducendo in termini nuovi il formulario fisso della legis actio. La soppressione definitiva delle legis actiones avvenne nel 17 a.C. con la lex Iulia iudiciorum privatorum di Augusto, che attribuì ai processi formulari dei requisiti precedentemente richiesti per le legis actiones gli effetti stessi di queste, mentre tutti gli altri processi, in quanto privi di tali requisiti, continuarono a fondarsi sull’imperium del pretore. A Roma i titolari di iurisdictio erano i pretori urbani (inter cives) e peregrino (inter cives et peregrinos e inter peregrinos), e gli edili curuli che si limitavano a risolvere le controversie sorte nei mercati, e nelle provincie il governatore provinciale. Ognuno di questi magistrati all’inizio della loro carica emanavano un editto, in cui illustravano il programma che essi erano intenzionati a svolgere durante appunto il loro anno di carica e si fondava sul suo imperium, e si chiamavano edicta perpetua; durante l’anno di carica il magistrato poteva comunque emanare editti, i c.d. edicta repentina, relativi ad un singolo caso non trattato in quello perpetuo. Verso il 130 d.C. l’imperatore Adriano diede l’incarico curuli, e grazie ai numerosi frammenti di opere giurisprudenziali che li commentavano presenti nei Digesta ne è stata possibile la ricostruzione dell’ordine delle materie e di gran parte del contenuto. Nell’editto del pretore venivano per prima inserite le formule elaborate sulla base delle legis actiones; si trattava di azioni civili a tutela di situazioni giuridiche fondate sullo ius civile, di cui il pretore si limitava ad inserire nell’editto le formule. Tali azioni potevano essere in rem, ovvero esercitabili da chi si affermasse titolare di diritto su una cosa (legittimato attivo) contro chiunque mettesse in atto un comportamento lesivo nei confronti di tale diritto (legittimato passivo), al fine di veder riconosciuto lo ius e la condanna giudiziale pecuniaria del comportamento lesivo, o in personam, cioè esercitabili contro una determinata persona titolare di un dovere giuridico civilistico (il c.d. oportere) a un certo comportamento nei confronti dell’attore. Un esempio di azione in rem è quella della petitio hereditatis esercitata da chi si affermava erede nei confronti del possessore dei beni ereditari al fine di essere riconosciuto appunto come erede e di ottenere o la restituzione volontaria dei bei del convenuto o la condanna pecuniaria dello stesso a una somma pari al valore dell’eredità. Vi è anche la formula della reivindicatio (formula con clausola restitutoria o arbitraria per la quale se il convenuto fosse stato ritenuto in torto, avrebbe potuto restituire la cosa senza pagare la pena pecuniaria; qualora non avesse restituito la cosa sarebbe stato condannato a pagare all’attore il valore della cosa) e della c.d. vindicatio usufructus, azione esercitata da chi si affermava titolare di un diritto reale di usufrutto nei confronti di chi gliene impedisse l’esercizio. La provenienza di queste tre formule si scorge sia nell’identità di struttura formulare che nell’affermazione, da parte dell’attore, di uno ius sulla cosa o sull’hereditas. Un esempio di azione formulare in personam abbiamo la condictio certae pecuniae, azione esercitata per far valere un diritto di credito per somma certa di denaro, sorto in seguito a stipulatio o a mutuo; quando sorgeva da un mutuo assumeva il nome di actio certae creditae pecuniae, ma la struttura formulare rimaneva uguale, ed è il risultato della trasposizione in termini idonei al nuovo sistema processuale introdotta dalla lex Silia nel III sec. a.C., in cui l’attore nella fase in iure del processo esordiva dicendo una frase che aveva al suo interno il verbo oportere, che qualifica tutte le formule civili in personam indicando la sussistenza a carico del convenuto di un obbligo civilistico. Accanto alle formule delle azioni civili nell’editto c’erano le formule dei c.d. iudicia bonae fidei, giudizi relativi a rapporti sorti nella pratica commerciale che avevano ottenuto protezione giuridica nel tribunale del pretore peregrino in sede di processo formulare; rientravano anche loro nella categoria delle azioni civili e il pretore si limitava a inserirne la formula nell’editto senza dare indicazioni in ordine alle modalità del loro esercizio. Esempi di iudicia bonae fidei sono l’actio venditi e l’actio locati che erano azioni esercitabili rispettivamente dal venditore e dal locatore, nei confronti del compratore e del conduttore per il soddisfacimento degli obblighi a questi spettanti in seguito alla stipulazione di un contratto di compravendita; dalla lettura delle due formule si nota che i testi sono quasi identici a parte per l’indicazione del rapporto contrattuale che costituisce il fondamento della pretesa, che però è in entrambi casi incerto, l’attore infatti pretende dal convenuto un comportamento che sia in toto conforme al principio della buona fede. Il giudice dunque dovrà condannare se rileverà nel comportamento del convenuto atti contrari al principio della buona fede. Da queste caratteristiche formulari traspare l’origine della relativa protezione giurisdizionale, avvenuta in seguito all’interesse del pretore peregrino di tutelare questi rapporti sorti nel commercio internazionale congegnando formule accomunate dal fatto che oggetto di oportere civilistico a carico del convenuto non era una prestazione certa. Il pretore in quanto titolare di un imperium giurisdizionale svolgeva la funzione di adiuvare, supplere, corrigere il ius civile e fondava così un sistema giuridico parallelo a quello del ius civile, il c.d. ius honorarium. La funzione integrativa della regolamentazione civilistica svolta dal pretore è evidente in azioni c.d. pretorie, ovvero azioni direttamente accordate dal pretore e inserite nell’editto a tutela di situazioni giuridiche sfornite di protezione in sede civile. Vi sono tre tipi di azioni pretorie: 1. in factum in cui il pretore imponeva al giudice di condannare il convenuto qualora si provasse che si provasse che un determinato fatto contenuto nella formula si fosse verificato. Con l’introduzione di quest’azione al giudice veniva imposto dal pretore, che riconosceva implicitamente il rapporto di deposito, di condannare il depositario in casa di mancata restituzione dolosa del bene depositato; inizialmente quest’azione non era un oportere (obbligo civilistico), ma conseguentemente al frequente utilizzo dell’actio depositi in factum venne introdotta nella formula di iudicia bonae fidei. 2. Ficticiae con cui il pretore estendeva rapporti sconosciuti al diritto civile la tutela di una situazione giuridica civilistica usando lo strumento della fictio, fingendo che un atto si fosse verificato così da tutelare l’azione civile. 3. Adiecticiae qualitatis che erano il frutto di una modificazione pretoria delle normali azioni contrattuali, dovuta al fatto che il contratto era stato stipulato con una persona priva di capacità giuridica e che non poteva stare in giudizio personalmente, quali filius familias o lo schiavo; la condanna veniva rivolta al pater familias o al dominus. Esse prevedevano una trasposizione di soggetti, in quanto nella formula era indicato un soggetto che non era il destinatario del provvedimento giuridico. Vi erano dei mezzi utilizzati dal pretore per far sì che una certa pretesa non fosse più ritenuta meritevole di tutela in sede civilistica, essi sono: 1. Denegatio actionis con cui il pretore si rifiutava la concessione di un’azione se essa era considerata iniqua. 2. Exceptiones erano clausole edittali inseribili nella formula, con cui il convenuto chiedeva al giudice di tener di un fatto la cui prova avrebbe bloccato la pretesa dell’attore così da essere assolto. Inoltre il pretore attraverso le cautiones o stipulationes praetoriae integrava o completava la normativa civilistica: in alcune situazioni il pretore sollecitava due soggetti interessati a concludere una stipulatio al fine di concedere un actio ex stipulatu, così da tutelare indirettamente una situazione giuridica che altrimenti non ne avrebbe. La stipulatio essendo un contratto prevedeva la volontà di entrambe le parti per concludere, il pretore però al rifiuto di contrarre poteva reagire con la c.d. missio in bona o in possessionem con cui uno o più beni di chi non collaborava venivano dati in possesso a colui a cui favore la promessa avrebbe dovuto essere prestata. La missio in possessionem veniva utilizzata anche in altri casi. Accanto alle formule delle azioni civili l’editto riportava i testi dei c.d. interdicta, ordini di fare o no emessi dal magistrato su richiesta delle parti. Gli interditti potevano essere restitutori, esibitori o proibitori: 1. Restitutori il pretore ordinava al convenuto di restituire un bene; 2. Esibitori il pretore ordinava di presentare in iure una persona o una cosa mobile; 3. Proibitori il pretore vietava comportamenti violenti, per lo più diretti contro il possesso altrui. Attraverso questi atti il pretore creò un sistema giuridico (ius honorarium) parallelo al ius civile, che da esso viene integrato, corretto e adeguato alle esigenze sociali che via via si manifestavano. • Iurisprudentiain un frammento compreso nel Digesto il giurista Pomponio presenta gli esponenti della giurisprudenza, dalle origini fino alla prima metà del II sec. d.C.. Dopo Publio Papirio, pontefice dei primi anni della Repubblica che avrebbe raccolto le leggi dei re, Appio Claudio, uno dei decemviri sostituzione delle tavolette lignee cerate e per usi spiccioli; solo con la diffusione dei codices la pergamena fu usata per scopi editoriali. Il fenomeno dell’uso di codices per la pubblicazione di opere letterarie si diffuse solo nel II sec. d.C., quando vi fu una concorrenza tra le due tecniche librarie, nonostante la nuova forma libraria non si estese subito alla letteratura tradizionale, la quale continuò ad essere copiata e letta su volumina, ma venne adottata per la nuova letteratura cristiana e venne destinata alla letteratura meno dotta e umile. Successivamente la forma del codex venne utilizzata anche per le opere della letteratura tradizionale e anche quelle giurisprudenziali, in quanto più maneggevole e più facilmente leggibile; ciò fu dovuto al fatto che la nuova tipologia libraria fu adottata per le raccolte di costituzioni imperiali: il cristianesimo aveva infatti istillato l’idea della sacralità del libro e della subordinazione del fedele ai suoi contenuti; in ambito giuridico invece, in quanto la legislazione era diventata compito esclusivo del princeps, l’uso del codex si legava ad una reverenza per i testi scritti che si accompagnava alla necessità di imporre l’osservanza assoluta del loro contenuto, dunque le nuove raccolte di costituzioni imperiali effettuate a livello privato o ufficiale vennero denominate codici. Anche le opere della giurisprudenza vennero sistemate su codices, e ciò comportò una selezione degli scritti, e vennero infatti copiati per lo più i grandi commentari ad edictum e ad Sabinum del III secolo, mentre la letteratura giurisprudenziale anteriore ai Severi fu conservata solamente nelle biblioteche. Con ciò cambiò l’ordinamento interno delle singole opere, dato che con la trascrizione in codices venne meno la corrispondenza fra il materiale scrittorio e il suo contenuto, cosa che c’era invece con i rotoli, in quanto un’opera di grandi dimensioni era contenuta in più rotoli e in essi era diviso il suo contenuto; proprio per questo gli editori cercarono una nuova unità interna all’opera in accordo con il nuovo sistema librario. Dal IV secolo in poi, di conseguenza, si diffusero le edizioni parziali di singole parti di un’opera con titoli a sé stanti e propria numerazione, o di edizioni (corpora) di più opere raccolte in un unico codex (per esempi è documentata l’esistenza di un’edizione parziale dei libri ad Sabinum di Ulpiano dagli Scholia Sinaitica, i quali si riferiscono ad un liber primus de tutelis di Ulpiano). La trascrizione delle opere giurisprudenziali tra il III e il IV secolo dipende anche da ragioni storiche, in particolare dalla constitutio Antoniniana del 212 d.C. e la conseguente applicazione generale del diritto romano, in seguito alla quale si accentuò la richiesta di testi di iura da parte degli avvocati e dei tribunali provinciali. A questa necessità si rispose con la riedizione delle opere esistenti, le quali furono adattate alle esigenze della pratica. Secondo il romanista tedesco Wieacker, in seguito alla rapida evoluzione del diritto e all’assenza di regole volte a preservare l’autenticità dei testi, la maggior parte delle interpolazioni pregiustinianee agli scritti della giurisprudenza classica ha avuto luogo tra la seconda metà del III secolo e la prima metà del IV. Gli interventi sui testi della giurisprudenza sono dovuti in parte all’opera dei maestri delle scuole postclassiche prevalentemente occidentali, e in parte dall’influenza del c.d. diritto volgare, inteso come adattamento e deformazione del diritto romano nella pratica, un diritto più popolare, ma meno tecnico rispetto al diritto classico. Il cambiare della tradizione testuale si attenuò quando il potere centrale incominciò ad occuparsi della salvaguardia dell’autenticità dei responsa prudentium. Prove di ciò sono CTh.1.4.1 e 2, dove l’imperatore esclude dalle fonti del diritto le note di Paolo e Ulpiano a Papiniano, confermando invece la validità e l’utilizzabilità in giudizio delle Pauli Sententiae, con l’intenzione di eliminare le continue discussioni giurisprudenziali. Ciò però non interruppe la corruzione dei testi classici, come le Pauli Sententiae che contengono testi ampiamente modificati che tuttavia per disposizione imperiale, acquistano validità normativa. Nonostante ciò secondo il Wieacker a partire dalla seconda metà del IV sec., la tradizione testuale della giurisprudenza classica divenne più stabile, infatti nelle scuole orientali si impedirono gli interventi sistematici sui testi classici, se non in funzione esplicativa e classificatoria, infatti gli Scholia Sinaitica dimostrano che la cultura giuridica romano-orientale tendeva più all’interpretazione che all’interpolazione dei testi antichi, in quanto l’introduzione della lingua greca nell’insegnamento rendeva più difficile l’alterazione dei testi scritti in latino, perché un copista non avrebbe rischiato di confondere la glossa scritta in greco con il testo, e dunque copiarla come parte integrante del discorso del giurista classico. Anche in occidente prevalse la tendenza a redigere opere di sintesi rispetto alla modifica delle opere antiche. Nel 426 d.C. la c.d. legge delle citazioni di Valentiniano III, tentò di mettere ordine nel sistema di recitatio in tribunale dei testi giurisprudenziali classici, disponendo che solo i giuristi Papiniano, Gaio, Ulpiano e Modestino potevano essere citati, per gli altri bisognava avere un espresso riconoscimento della loro autorità da parte di almeno uno dei giuristi predetti. Tale legge ridusse il numero delle opere giurisprudenziali usate in tribunale e quindi nuovamente edite; in questo periodo le opere di Paolo, Ulpiano, Gaio, Papiniano e Modestino si diffusero, mentre secondo l’interpretatio della legge delle citazioni le opere degli altri giuristi “in suis corporibus non inveniuntur”, ovvero non circolavano più. Quindi ad eccezione delle Istituzioni di Gaio, era inutilizzata la letteratura giuridica anteriore ai Severi. Il confronto tra la redazione giustinianea di un frammento giurisprudenziale classico e redazioni pregiustinianee consente di valutare le differenze tra le due tradizioni testuali e talvolta anche la presenza di eventuali interpolazioni pregiustinianee. Un esempio di ciò ci è fornito da un frammento tratto dal XVIII libro del commentario all’editto di Ulpiano, presente sia nel Digesto giustinianeo che nella Collatio: entrambi i frammenti parlano di un caso in cui uno schiavo del conduttore di una fattoria, addetto alla fornace della fattoria stessa, si era addormentato e la fattoria era bruciata; il dominus dello schiavo risponderà nei confronti del locatore per il danno prodotto in base al contratto di locazione in quanto ha scelto uno schiavo inaffidabile. Qui il testo passa improvvisamente ad esaminare il problema della responsabilità aquiliana, cioè da atto illecito extra-contrattuale, per il danno prodotto alla fattoria, nel caso in cui le persone addette alla fornace fossero due, dove uno aveva acceso correttamente il fuoco e l’altro era stato negligente nel custodirlo, e in questo caso i due addetti sono persone libere, non schiavi, e ciò si deduce in seguito, quando il giurista si chiede quale dei due custodi sia imputabile il fatto che ha provocato il danno e con quale azione si possa agire per ottenere un risarcimento. L’azione di legge Aquilia non è esperibile contro chi ha acceso il fuoco in quanto lo ha fatto diligentemente, ma non è neppure esperibile contro il custode disattento del fuoco, in quanto mancano alcuni requisiti per il suo esercizio (damnum corpore corpori, iniuria, culpa), in particolare il damnum corpore corpori (=danno prodotto col proprio corpo sul corpo del bene danneggiato) e il nesso di causalità tra il comportamento ed evento. Perciò l’azione civile di legge Aquilia non è esercitabile in quanto mancano i presupposti, e bisogna invece esercitare un’azione concessa dal pretore che consenta di sanzionare l’illecito anche se non rientra direttamente nella previsione legislativa. Probabilmente i compilatori del Digesto e quelli della Collatio hanno tratto il testo di Ulpiano da due manoscritti diversi separati da una tradizione di almeno due secoli, alla quale possono risalire parte delle differenze fra le due redazioni, anche se entrambe presentano una corruzione in comune: nella frase introdotta da ceterum si nota un brusco passaggio dalla responsabilità contrattuale (ex locato) a quella aquiliana e da quella per fatto od omissione del servus a quella per fatto proprio, il che dipende da una lacuna presente in entrambi i manoscritti, facendoci dedurre di essere di fronte ad un’interpolazione pre- giustinianea. • Metodo di compilazione del Digesto: Giustiniano nonostante abbia sempre affermato la difficoltà della compilazione del Digesto, non dà mai notizie esaurienti sulle modalità di compilazione. Questa attenzione sulle modalità di compilazione e l’organizzazione del lavoro della commissione presieduta da Triboniano, è dovuta al fatto che la nostra conoscenza della letteratura giurisprudenziale classica dipende quasi interamente dalla selezione fatta dai compilatori giustinianei. Lo studioso Friedrich Bluhme si concentrò proprio su questo tema e ne trasse una teoria basante su due osservazioni: 1. I frammenti che compongono i singoli titoli del Digesto si presentano di regola divisi in tre gruppi, che si uniscono in ordine vario nei titoli; 2. In ogni gruppo la sequenza dei testi tratti dalle diverse opere giurisprudenziali è costante. Quindi possiamo dire che i compilatori si divisero il lavoro in tre sottocommissioni, ciascuna delle quali esaminò un gruppo di opere da cui estrarre i frammenti da introdurre nei Digesta. Ogni gruppo di opere è chiamato “massa”, e ce ne sono appunto 3. La prima, c.d. sabiniana, raggruppa opere di diritto civile con prevalenza dei commentari ad Sabinum; la seconda, c.d. edittale, comprende soprattutto i commentari all’editto pretorio; la terza, c.d. papinianea, contiene per lo più opere casistiche, in particolare responsa e quaestiones. Infine c’è un piccolo gruppo di opere, c.d. Appendix, che raccoglie testi il cui spoglio incominciò in una fase avanzata dei lavori, ovvero quando i primi libri erano già stati completati, il che spiega perché fino al libro XXIII, i frammenti si trovino in coda ai titoli. Per esempio il titolo 41.1 (Sull’acquisto della proprietà delle cose), inizia con quaranta frammenti della massa sabiniana, ai quali ne seguono 18 della massa edittale, cinque della massa papinianea e sei dell’Appendix; invece il titolo 41.2 presenta un ordine diverso, il che ci mostra che il sistema non era rigido e ammetteva spostamenti fuori massa. Era anche possibile che all’interno dei frammenti della stessa massa inseriti in un titolo, l’ordine delle opere fosse deviato, in particolare capitava che ci i titoli si aprissero con dei frammenti che a scopo di introduzione deviavano l’ordine delle masse. Bluhme descrive il metodo seguito dalla commissione e lo divide in due momenti: 1. I compilatori, dopo aver diviso in tre parti tutti gli scritti che dovevano essere spogliati, si separarono in tre comitati differenti, ciascuno dei quali leggeva per fila gli scritti ad esso toccati in guisa, a parte per i libri con contenuti simili, i quali venivano spogliati contemporaneamente. I testi venivano confrontati con il Codice giustinianeo, e tutto ciò che si era estratto per le future Pandette veniva posto sotto una determinata rubrica (e si conservava ciò che era stato posto sotto la stessa rubrica?). 2. Dopo che ciascun comitato finì il lavoro, le tre raccolte di spogli composero le Pandette; ogni titolo aveva una raccolta base, che forniva i frammenti più numerosi ma soprattutto più lunghi, con la quale si confrontavano le altre due raccolte che erano più piccole; questo sistema fu adottato per evitare ripetizioni e contraddizioni. (controlla ultima parte sul libro che non l’hai capita). La scoperta delle masse di Bluhme destò un generale consenso, che fu infranto ottant’anni dopo da Franz Hofmann, il quale era convinto che la realizzazione di un’opera così grande in soli tre anni non era possibile, anche perché la situazione politica era molto difficile, in quanto nel 532 vi fu la ribellione di Nika, dove Nika era la parola d’ordine dei rivoltosi che si lamentavano dell’eccessivo carico fiscale e volevano destituire Giovanni di Cappadocia e Triboniano; questa ribellione degenerò poi in un movimento volto a spodestare Giustiniano a favore di Ipazio, un nipote di Anastasio. La tesi che Hoffman formulò fu denominata in seguito tesi del “Predigesto”, che fu accolta in particolar modo alla fine degli anni venti da autorevoli continuatori come De Francisci, Albertario, Collinet e Guarino, i quali ipotizzarono l’esistenza di compilazioni post-classiche pratiche costituite da catene di passi che avrebbero agevolato il lavoro dei compilatori. Si è formulata anche l’ipotesi Cenderelli del rinvenimento in età giustinianea di una schedatura di iura già divisi per masse, risalente al primo progetto codificatorio di Teodosio II. L’idea dei Predigesti è basata sul solo dato della velocità di redazione dei Digesta, in quanto non vi sono compilazioni simili preesistenti; questa teoria fu negata da studiosi che si sono occupati ex professo del tema, e il principale argomento contrario sta nella regolarità con cui nei titoli del Digesto si succedono i frammenti delle masse. Negli anni ’70 il romanista inglese Honoré ha ipotizzato che ciascuna delle tre sottocommissioni fosse composta da due commissari stabili (sei in tutto, 4 antecessores, Triboniano e il comes sacrarum largitionum Costantino), che si sarebbero divisi lo spoglio del materiale della propria massa e che ad essi venissero accostati undici avvocati della commissione; indici di tale divisione sarebbero riscontrabili sia nella qualità dell’escerpimento che nella struttura delle masse. La ricostruzione di Honoré fu confutata nel 1985 da Douglas J. Osler, il quale attestò la configurabilità di suddivisioni alternative a quella proposta. Mantovani fornì delle utili precisazioni sulle direttive seguite dai compilatori nell’organizzazione della lettura dei testi, e ci informa che le prime opere ad essere consultate furono quelle di contenuto generale che consentivano la realizzazione della struttura fondamentale della compilazione; in seguito è probabile che i compilatori si siano dedicati alla lettura delle opere specialistiche. • Le interpolazioni giustinianee: Le interpolazioni giustinianee sono tutte le alterazioni dei testi giurisprudenziali classici compiute dai compilatori giustinianei sia per adattare il contenuto dei frammenti escerpiti alla realtà giuridica del VI sec. d.C., che per eliminare dai testi contraddizioni, frasi o parole superflue. Infatti, nella costituzione Tanta Giustiniano spiega che nei Digesta i compilatori hanno scritto il nome dell’autore di ogni legge, e hanno modificato tali leggi solo per adattarle alla loro realtà, e nel caso in cui ce ne fossero state alcune simili avrebbero scelto la migliore. Chiaramente tutti coloro che utilizzavano il corpus iuris civilis come diritto vigente applicabile in via sussidiaria quando le altre fotni giuridiche non disponessero, erano indifferenti ad una ricerca delle interpolazioni giustinianee che contribuisse a distinguere il diritto classico da quello del VI secolo. Ciò presuppone un approccio storico ai testi della compilazione inaugurato dagli umanisti nel XV secolo, i quali erano in contrasto con il metodo astorico di coloro che applicavano il Corpus iuris come legge per il presente; tale approccio fu ripreso negli studi dei primi del ‘900 in seguito alla cessazione del vigore del diritto romano come diritto comune e all’avvento delle codificazioni nazionali. Fra il 1910 e il 1935 questo metodo critico è stato esasperato e talora assunto come unico metodo di studio delle fonti giustinianee; in particolare in questo periodo si diffuse la tendenza ad appiattire la multiforme realtà descritta dai giuristi e il ius controversum da loro impersonato che si supponeva uniforme e costante nel tempo. L’Index interpolationum del Digesto, pubblicato fra il 1929 e il 1935 è composta da tre volumi più un supplemento, segue la partizione in libri, titoli, frammenti e paragrafi del Digesto, dove il sospetto di interpolazione o glossa è indicato con segni convenzionali e segnala inoltre la ricostruzione del testo eventualmente proposta, il nome dell’autore della critica e il titolo dell’opera in cui egli ha formulato il 2. I simboli tipicamente greci usati per segnalare l’omissione di un passo nel testo e l’inserzione corrispondente sul margine; 3. L’uso del segno > sul margine sinistro del testo per indicare una citazione testuale; 4. La divisione sillabica secondo l’uso greco. Lowe però non concorda con il Mommsen la datazione, infatti secondo lui il codice è stato copiato subito dopo il 16 dicembre 533, anno di promulgazione del Digesto, mentre Mommsen diceva che la Fiorentina distava dall’archetipo qualche generazione di codici. Più recentemente si è dimostrato che il manoscritto non è cronologicamente collocabile oltre il 577, visto la corrispondenza fra la sua fascicolazione e le partes in cui erano divisi i Digesta, secondo un curriculum di studi rispettati fino a quell’anno. Cavallo e Magistrale postulano tuttavia l’esigenza di rivedere la tesi del Lowe nella parte in cui riferisce alla sola Costantinopoli i prodotti librari in onciale B-R, in quanto il fatto che questa forma scrittoria sia stata tipizzata a Costantinopoli non significa per forza che i caratteri grafici e codicologici rilevati siano rimasti circoscritti in un unico ambito, ma la produzione di manoscritti in onciale B-R si estende all’Egitto, alla Palestina e ad altre regioni dell’oriente greco e in particolare all’Italia bizantina. Secondo gli autori, visto che una parte delle Pandette mostra un’educazione grafica di segno occidentale, allora almeno uno dei due correttori era latino, ed è probabile che la Fiorentina si trovasse già in Italia dalla tarda antichità, l’origine del codice è forse rinvenibile in qualche centro dell’Italia bizantina del VI secolo. Dieter Nörr suggerì un’ulteriore ipotesi che la Fiorentina fosse un non ancora perfezionato esemplare dei Digesta appartenete temporalmente alla fase della loro redazione, ovvero che i compilatori l’avrebbero redatta nel corso dei lavori. Nei manoscritti della tradizione “vulgata” le inscriptiones dei frammenti sono riportate integralmente soltanto nei codici più antichi, infatti mancano anche le costituzioni giustinianee introduttive alle diverse parti del Corpus iuris e l’indice dei titoli. I termini greci sono ben presto sostituiti da una traduzione latina. La divisione in paragrafi non è ancora definita alla fine del XII secolo, il Mor infatti ha ipotizzato che tale divisione sia stata rivista e sistemata da Azone. Le edizioni a stampa del Digesto con il corredo delle glosse diffuse nelle università e fra i pratici del diritto comune sono basate sui manoscritti della Vulgata. Il Digesto vi è diviso in tre volumi coi titoli rispettivamente di Digestum Vetus (dal libro 1 al 24 titolo 2), Digestum Infortiatum (dal libro 24 titolo 3 alle parole tres partes del frammento 35.2.82), Tres Partes (fino al libro 38) e Digestum Novum (dal libro 39 al libro 50). Alcuni studiosi del XVI secolo erano convinti che la Vulgata derivasse direttamente o indirettamente dal manoscritto fiorentino e che quindi le varianti rispetto alla Fiorentina e quelle fra i manoscritti della Vulgata fossero dovute ad errori dei copisti; altri invece sostenevano che la Vulgata derivasse da un manoscritto diverso dalla Fiorentina; altri ancora suggerivano l’ipotesi intermedia che soltanto alcune parti della Vulgata derivassero dalla Fiorentina (Tres Partes e Digestum Novum). Rispetto alla Fiorentina la Vulgata presenta spesso lezioni migliori o aggiunte, e per di più nei manoscritti della Vulgata l’ordine di successione degli ultimi frammenti del Digesto ricalca quello della Fiorentina. Nel secolo scorso il Savigny ipotizzava che i glossatori bolognesi possedessero più manoscritti originali del Digesto diversi dalla Fiorentina, e che la Vulgata costituisse dunque una tradizione manoscritta ottenuta dai glossatori correggendo la Fiorentina con questa littera vetus, che diventerà il testo ufficiale della scuola con la Glossa Magna di Accursio. Il Mommsen fa invece derivare i codici della Vulgata da un testimone perduto, da lui chiamato Codex Secundus, un manoscritto completo e diviso in tre parti che, nell’XI secolo, sarebbe stato copiato dalla Fiorentina, arricchito con glosse e richiami delle Istituzioni e corretto sulla base di un codice diverso dalla Fiorentina. Questa derivanza spinse il Mommsen a tralasciare nella sua edizione critica del Digesto, gran parte dei manoscritti bolognesi, fondandosi essenzialmente sulla Littera Floretina e sui codici più antichi della Vulgata, il che costituisce una grave manchevolezza dell’edizione a tutt’oggi utilizzata, anche per l’incertezza delle premesse su cui tale scelta editoriale si basa (S derivante da F). Secondo il Kantorowicz le numerose emendazioni del Codex Secundus da cui trasse origine la tradizione medievale del Digesto risalirebbero ad Irenrio, e ciò significava un’equivalenza fra scoperta del Digesto e rinascita bolognese. Questa conclusione fu rifiutata dal Mor, il quale invece faceva derivare S da un archetipo della fine dell’VIII secolo da essa dipendente, corretto sulla base di questa ben prima dell’età irneriana, e di conseguenza retrodatava la conoscenza del Digesto ad un periodo precedente a quello della Scuola di Bologna. Secondo invece il Pescani, la littera Florentina e il codice da cui trasse origine la littera Bononiensis risalirebbero a un comune archetipo, da cui sarebbero stati copiati sotto dettatura nel VI-VII secolo. Studi recenti fondati su una nuova ricognizione dei manoscritti hanno indotto il Radding a retrodatare l’inizio della circolazione del Digesto al terzo quarto del XI secolo, nell’ambito della scuola longobardistica di Pavia, dove i giuristi avrebbero corretto la Fiorentina introducendovi quelle emendazioni riscontrabili nei manoscritti della Vulgata; a tale attività sarebbe riferibile la riscoperta del Digesto. Si può dunque affermare che il problema della ricostruzione del testo originale e perduto del Digesto è molto arduo, e che lo scopo dell’edizione critica è la ricostruzione del testo pervenutoci attraverso la tradizione manoscritta. • Le Institutiones di Giustiniano e i metodi di insegnamento del diritto dall’età tardo-repubblicana a quella giustinianea: La constitutio giustinianea Omnem di riforma dell’insegnamento del diritto del 533, precisa che le Istituzioni rappresentano il manuale introduttivo del nuovo corso di studi giuridici, necessario per affrontare la successiva trattazione classica; rappresentano inoltre il risultato di una lunga evoluzione della didattica giuridica iniziata in età repubblicana, e furono per secoli un imprescindibile modello per la formazione del giurista, e dunque anche sotto il profilo didattico il Corpus iuris rappresenta un modello centrale nella storia giuridica europea. In origine l’educazione dei giovani romani aristocratici si svolgeva all’interno della famiglia, fino a sette attraverso la madre, in seguito attraverso il padre, il quale comunicava al bambino gli ideali di vita e le regole della convivenza sociale fondate sul mos mairoum e i costumi degli antenati. Dai 7 ai 16 anni il ragazzo, vestito con la toga listata di porpora (praetextatus), veniva iniziato alla vita adulta seguendo il padre in tutte le occasioni sociali e religiose e perfino al senato; a 16 anni indossava la toga virile, prima di cominciare il servizio militare (tirocinium militiae), il giovane veniva affidato a un cittadino eminente per fare esperienza politica (tirocinium fori); se il tirocinium fori durava un anno ed era seguito da un periodo di addestramento militare, ma i giovani aristocratici romani continuavano a seguire nel foro il personaggio a cui si erano affidati. Ciò che si voleva infondere nella coscienza dei ragazzi era un sistema rigido di valori morali, fatto di sacrificio, rinuncia, di dedizione totale della persona alla comunità e allo Stato. Nel III-II secolo a.C. la parte filoellenica del ceto senatorio favorì la formazione a Roma di scuole di tipo ellenistico rette da privati e aperte al pubblico, si trattava della scuola primaria del litterator o ludi magister, che insegnava a bambini e bambine dai sette agli undici anni a scrivere, leggere e far conto. La Lex metalli Vipascensis, un’epigrafe trovata a Lisbona nel 1876, stabilisce l’immunità fiscale per i maestri ivi impegnati, dimostrando il favore imperiale verso la diffusione dell’educazione elementare. Al contrario, la scuola secondaria del grammaticus, che impartiva ad allievi fra i dodici e quindici anni l’insegnamento della grammatica e della letteratura in preparazione alla retorica, derivava essenzialmente dalla lingua utilizzata nelle lezioni, dapprima solo il greco, poi dalla fine del I secolo a.C., greco e latino. Il testo veniva introdotto dal maestro (praelictio), letto ad alta voce dagli allievi (lectio), spiegato negli aspetti grammaticali e contenutistici dal grammaticus (enarratio), e infine giudicato dal punto di vista estetico (iudicium). La scuola secondaria era seguita, a partire dai sedici anni e soltanto per gli uomini, dall’educazione retorica, inizio obbligato per ogni attività politica, giudiziaria e amministrativa; il giovane qui imparava l’arte della declamazione, nella duplice forma delle suasoriae (retorica deliberativa su fittizie questioni di coscienza), e delle controverisae (difese o requisitorie fittizie), salvo poi specializzarsi all’estero nelle più famose scuole di retorica. L’insegnamento retorico fu in origine impartito in greco, così da mantenere il carattere elitario di un’istruzione che apriva le porte del successo politico ed elettorale. L’oligarchia senatoria intendeva probabilmente bloccare sul nascere qualunque tentativo di estendere l’insegnamento retorico a giovani meno abbienti che non avessero studiato, sin dalla fanciullezza, il greco. Scuole di retorica in latino furono aperte con Cesare e nell’impero. L’insegnamento del diritto costituisce una manifestazione peculiare ed originale della cultura latina. Fin dall’età ciceroniana, i giovani che intendessero specializzarsi in questa branca del sapere usavano seguire un giurista affermato e dotato di autorità presso il popolo, per ascoltarne i responsi e chiedere precisazioni. Un passo del Liber singularis Enchiridii di Pomponio evidenzia che la storia della giurisprudenza è una storia di generazioni di iuris periti fortemente legate l’una all’altra anche per la valenza didattica che l’attività pratica respondente del maestro assumeva nei confronti degli auditores, i quali vivevano in comunanza di vita con il maestro. Con la generazione di Cicerone l’utilizzo della tecnica diairetica o divisoria tipica della dialettica aristotelica anche nella formulazione dei responsi dei giuristi, non poté che riflettersi sull’insegnamento, strettamente collegato all’attività pratica respondente. Ma dagli scritti di Cicerone, il quale aveva pubblicato un’opera De iuri civili in artem redigendo (necessità di redigere il diritto civile ordinatamente secondo una tecnica), si sa che era diffusa nei ceti colti romani l’esigenza di accompagnare il tradizionale insegnamento pratico (respondentes audire) con un insegnamento sistematico (instituere). Ciò appare in un passo del De oratore in cui Cicerone auspica, nel diritto come in ogni scienza, l’impiego di categorie sistematiche; per Cicerone infatti è l’organizzazione ciò che caratterizza un’ars; l’organizzazione di cui parla è fondata sull’assunzione di criteri ordinatori tratti da un’altra disciplina filosofica. Nel dialogo ciceroniano, che si finge ottenuto nel 91 a.C., parla l’oratore Lucio Licinio Crasso che inizialmente si rivolge al giurista Scevola mentre alla fine a tutte le persone che conoscono il diritto, il quale afferma che gli antichi non volevano che la scienza del diritto fosse divulgata, e che dopo che furono rese pubbliche le norme di diritto e Flavio ebbe esposto per la prima volta le formule giuridiche, non ci fu nessuno che sapesse ordinare quella materia in un sistema, dopo averla distribuita nei suoi generi. Egli dice che per riordinare questa materia, fu applicato dall’esterno un altro metodo che i filosofi (Aristotele), considerano di loro esclusiva pertinenza, col compito di collegare insieme una materia dispersa e separata e stringerla in un determinato sistema. Per lui lo scopo del diritto civile era il rispetto di quell’equità che è basata sulle leggi e sulle tradizioni. Inoltre per riordinare la materia è necessario distinguere i generi e ridurli a un numero stabilito, dove il genere è ciò che comprende due o più specie simili tra loro per una certa comunanza di caratteri, ma diverse per determinate qualità; le specie sono quelle suddivisioni che sono sottoposte ai generi dai quali derivano. Conclude infine dicendo che se mai si riuscirà a distribuire nei suoi pochi generi il diritto civile, a dividere i generi e a illustrare con la definizione il carattere proprio di ciascuna divisione si avrà una perfetta scienza del diritto civile. Anche Giulio Cesare, secondo Svetonio, aveva progettato di ridurre ad una certa misura il ius civile e raccogliere in pochissimi libri, del sovrabbondante numero di leggi, quelle migliori e necessarie. Nonostante non si sappia se tale organizzazione sistematica delle categorie giuridiche sia stata effettuata a breve termine, è certo che almeno nelle Istituzioni di Gaio il diritto civile viene spiegato in maniera semplice e chiara, utilizzando classificazioni sistematiche, infatti abbiamo la ripartizione gaiana della materia giuridica in personae (diritto delle persone e della famiglia), res (diritti reali, obbligazioni, successioni) e actiones (processo), che in età postclassica e giustinianea diventerà schema privilegiato delle trattazioni istituzionali. Per il II secolo d.C. infatti, è attestata da Gellio la presenza di centri d’insegnamento del diritto organizzati e specializzati che svolgevano contemporaneamente attività respondente, in cui forse l’insegnamento veniva impartito sia attraverso preliminari trattazioni istituzionali, sia attraverso l’ascolto delle consulenze e l’esegesi degli scritti giurisprudenziali precedenti dotati di maggiore autorità. Data la mancanza di sistemi volti a preservare l’autenticità dei testi, non si può escludere che trattazioni giurisprudenziali didattiche appuntate dagli allievi siano poi circolate come opere originali del maestro, e sono infatti numerose le attestazioni di “edizioni pirata” che, senza che lo scrittore sapesse nulla, venivano gettate sul mercato da privati o da editori poco coscienziosi. Nonostante non si sappia se queste scuole di diritto fossero finanziate dalla cassa imperiale, è tuttavia probabile nel senso che erano giuristi dotati di ius publice respondendi o comunque graditi all’imperatore. Il fatto che gli imperatori perseguirono in genere una politica di sostegno della scuola e dell’istruzione, fece sì che l’istruzione scolastica assicurasse la continuità del bagaglio culturale della tradizione. Tutto questo si realizzò attraverso la tradizionale tripartizione degli studi in scuola primaria del litterator, secondaria del grammaticus e superiore del rethor. La prova del radicamento del sistema di istruzione tradizionale si ricava dalla posizione dei cristiani che, almeno dal III secolo d.C., frequentarono le stesse scuole dei pagani fino ad arrivare ad insegnarvi. La progressiva cristianizzazione delle classi colte e l’incremento dell’analisi biblica e delle dispute teologiche rivelarono l’esigenza di conoscere i canoni retorici della pedagogia tradizionale, al fine di servirsene per comunicare con la stessa efficacia i nuovi valori del cristianesimo; ciò inoltre avrebbe protetto la letteratura classica dal rischio di una perdita definitiva. Tale atteggiamento imperiale di protezione della scuola e dell’istruzione derivò dall’esigenza di garantire la copertura dei posti dell’apparato burocratico dello stato. Nel IV secolo d.C. il recupero dell’autorità imperiale dopo un lungo periodo di instabilità si manifestò, sul fronte scolastico, sia con l’incremento dei privilegi concessi a insegnanti e studenti, si con la fioritura in varie località dell’impero di scuole, soprattutto di retorica e filosofia. Alla progressiva divisione della pars orientis e occidentis dell’impero, si accompagnò una sempre più marcata scissione dell’unità culturale greco-latina, infatti in di Gaio Ottaviano, pronipote diciannovenne, erede e figlio adottivo di Cesare (chiamato secondo l’uso Gaio Giulio Cesare Ottaviano), il quale inizialmente si accaparrò il favore del popolo eseguendo a proprie spese le disposizioni testamentarie di Cesare a favore del popolo, e successivamente si schierò in un primo tempo dalla parte del senato contro Antonio. A Modena Ottaviano, nel 44-43 a.C., con propri contingenti arruolati privatamente, difese dall’attacco di Antonio il congiurato Decimo Bruto, il quale si rifiutava di abbandonare la provincia di Gallia Cisalpina ottenuta da Cesare, nonostante la legge sulla redistribuzione del governo provinciale fatta approvare da Antonio durante il consolato, che conferiva ad Antonio stesso la Gallia Cisalpina e Transalpina. Approfittando del vuoto di potere causato dalla morte dei consoli nel conflitto e la fuga di Antonio nella Gallia Narbonese, Ottaviano assunse il comando dell’intero esercito e marciò su Roma, dove si fece eleggere cunsul suffectus. In questo periodo Ottaviano concluse con Antonio e Lepido (alleato di Antonio), nel 43 a.C., il c.d. SECONDO TRIUMVIRATO, a cui conferì legittimazione costituzionale per 5 anni, attribuendo ai partecipanti il titolo di tresviri rei publicae constituendae, con la funzione, cioè, di riordinare lo Stato. Fra i tresviri vi fu la tripartizione dell’impero, dove ad Antonio andò l’oriente, a Lepido l’Africa e ad Ottaviano l’occidente; successivamente Lepido fu deposto, dando inizio allo sconto definitivo per il potere fra Antonio e Ottaviano; nel 32 a.C. Ottaviano chiese a tutte le popolazioni dell’aria territoriale a lui sottoposta un giuramento di fedeltà (coniuratio Italiae et provinciarum) a sostegno della sua lotta contro Antonio, dimostrando così di cercare un affidamento diretto da parte del popolo. Lo scontro tra Antonio e Ottaviano si concluse a favore di quest’ultimo nel 31 a.C. con la battaglia navale di Azio; dopo aver celebrato a Roma il trionfo, Ottaviano fece una serie di atti costituzionali emessi a partire del 30 a.C. In particolare, in una celebre seduta senatoria del 27 a.C., Ottaviano fece mostra di rinunciare ad ogni potere, restituendo l’amministrazione dello stato agli organi di governo repubblicani, il che al contrario indusse il senato a conferirgli il titolo di Augusto e un imperium decennale su tutte le province non ancora pacificate. In un riepilogo autobiografico dell’attività politica di Augusto, le Res gestae, Augusto stesso dà rilievo alla propria rinuncia al potere e ai titoli onorifici conferiti dal senato, tacendo però del suo imperium sulle provinciae non pacatae; Augusto dice che durante il sesto e il settimo consolato trasferì la res publica dalla sua potestà a quella del senato e del popolo romano, e che proprio per questo suo merito venne denominato Augusto per senatoconsulto. I poteri imperiali vennero ridefiniti nel 23 a.C., quando Augusto ottenne dal senato la tribunicia potestas nella sfera civile e l’imperium proconsulare maius et infinitum nella sfera militare. La tribunicia potestas comportava lo ius intercessionis (diritto di porre il veto contro atti di assemblee e magistrati), lo ius coercitionis (usare la forza per ridurre all’obbedienza), lo ius agendi cum plebe e cum senatu (diritto di adunare e presiedere le assemblee della plebe e il senato), la sacrosanctitas (inviolabilità); la tribunicia potestas conferì ad Augusto il potere di coordinare le funzioni del senato, delle magistrature e del tribunato della plebe, così da comporre il tradizionale dualismo tra potere aristocratico e potere tribunizio. L’imperium proconsulare gli attribuì il potere di coordinare le prerogative e le funzioni dei governatori provinciali con le attribuzioni degli organi centrali della civitas romana. I titoli di Princeps, Imperator e di Augustus rivelano bene il carattere dell’ideologia imperiale augustea: princeps indica un generico primato su tutti gli altri organi costituzionali che si fondava sull’auctoritas riconosciuta ad Ottaviano; Imperator in età repubblicana era il titolo onorifico assunto dal generale per acclamazione dei soldati, Ottaviano ottenne dal senato la sua conferma a vita e perciò portò questo appellativo come prenome, con il quale voleva sottolineare la sua aura di comandante sempre vittorioso e glorioso. Il titolo di Augustus venne da lui assunto come cognome accanto al nomen Caesar, e metteva in rilievo la felicità costante delle azioni promosse dal principe. I poteri costituzionali conferiti ad Augusto dal senato furono trasmessi integralmente ai successori attraverso l’approvazione senatoria e popolare della c.d. lex de imperio. Nella somma di poteri conferitigli dalla lex de imperio, i giuristi, tra cui Gaio ed Ulpiano, individuano il fondamento della potestà normativa dell’imperatore, la lex de imperio come fondamento del vigore legislativo della costituzione imperiale; Gaio definisce la constitutio principis come ciò che l’imperatore ha stabilito con decreto, editto o epistola, e che essa ha valore di legge, richiamando evidentemente la lex de imperio come fondamento del vigore legislativo della costituzione imperiale. Ulpiano dà invece un’analoga spiegazione, affermando che ciò che il principe ha deciso ha valore di legge perché il popolo gli trasferisce tutto il suo imperium e la sua potestas con la lex de imperio. Gaio e Ulpiano considerano quindi unitariamente i singoli tipi di costituzioni imperiali come atti normativi dotati di valore legislativo, unitarietà che costituisce il risultato della riflessione dei giuristi di una generazione matura e integrata al nuovo sistema imperiale. All’inizio del principato invece è probabile che i singoli tipi di costituzioni avessero autonomo fondamento giuridico sulla base delle caratteristiche peculiari di ciascuna. Edicta e mandata erano costituzioni imperiali a carattere generale, mentre i decreta, le epistule e i rescripta sono costituzioni imperiali a carattere particolare. 1. Edictain origine erano fondati sullo ius edicendi (facoltà dei magistrati romani di comunicare ufficialmente al popolo notizie inerenti al proprio ufficio), di cui il principe era titolare in base all’imperium proconsulare maius et infinitum, ed erano disposizioni generali di diverso contenuto e destinatari, infatti raramente introducevano innovazioni privatistiche forse proprio a causa dell’incertezza dei loro effetti. Fino all’equiparazione nel II secolo di tutte le costituzioni (particolari e generali) alle leggi con conseguente inclusione fra le fonti civilistiche, gli edicta potevano in teoria influire in ambito privatistico soltanto creando un sistema parallelo l diritto civile che se ne accostasse non modificandolo all’interno, ma per via indiretta. Ciò si realizzò in primo luogo attraverso la formazione del c.d. ius extraordinarium in cui rientravano quegli istituti che venivano riconosciuti e giurisdizionalmente protetti dal solo imperatore nel nuovo sistema processuale della cognitio extra ordinem; per esempio i fedecommessi (preghiere del de cuius, inserite nel testamento e compatibili anche con la successione legittima, rivolte all’erede di compiere una certa attività), prive di tutela giurisdizionale nel processo formulare a favore del beneficiario, ma riconosciute dall’imperatore attraverso l’istituzione di una magistratura apposita, il praetor fideicommissarius che giudicasse direttamente. Inoltre la normativa edittale privatistica dell’imperatore poteva trovare riconoscimento indiretto attraverso l’editto del pretore. Infine gli edicta potevano disciplinare l’organizzazione amministrativa e finanziaria dello stato, ambito privilegiato dei mandata che costituiscono il secondo tipo di costituzioni imperiali a carattere generale. 2. Mandataistruzioni imperiali rivolte sia ai funzionari di cui i princeps progressivamente si servirono per l’esplicazione dei propri compiti istituzionali, sia ai governatori (proconsules) delle province senatorie. Il loro contenuto era destinato a fissare funzioni e compiti inerenti alle singole cariche, il quale si fissò nel tempo in corpora mandatorum che indicavano ai funzionari entrati in servizio le competenze del relativo ufficio. Esempio di tale tipo di “prontuario” ci è giunto attraverso la c.d. Gnomon dell’Idioslogos, documentazione papirologica egiziana che conserva il corpus dei mandati imperiali rivolti al procurator idioslogi egiziano, preposto all’amministrazione del patrimonio privato dell’imperatore (res privata principis). Qui è attestato che i mandati furono fonte di innovazioni nel campo del diritto privato anche nel I secolo d.C.. 3. Decretasentenze pronunciate dal princeps in qualità di giudice in un giudizio di qualsiasi tipo, pro tribunali (in una vera cognitio ufficiale) o de plano (al di fuori del tribunale, in via informale) di solito alla presenza del suo consilium. Tale potere dell’imperatore trovò probabilmente il suo fondamento giuridico in una legge del 30 a.C. che attribuiva ad Ottaviano il potere di “giudicare su richiesta di parte”. Successivamente, a partire dal 23 a.C., la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius et infinitum di Augusto legittimarono definitivamente il potere di giudizio dell’imperatore; i tribuni della plebe infatti, avevano nell’ambito dello ius agendi cum plebe, oltre al potere di convocare la plebe per l’elezione dei magistrati e la votazione delle leggi, anche quello di organizzare pubblici processi al fine di giudicare gli eventuali abusi di potere dei magistrati uscenti. Augusto cominciò a giudicare quindi su domanda di parte, in materia civile e criminale, e la nuova procedura venne chiamata cogniti principis per sottolineare la continuità tra cognitio imperiale e cognitio magistratuale del pretore. Si parla anche di cognitio extra ordinem per evidenziare l’aspetto dell’estraneità dei giudici della cognitio all’ordo iudiciorum privatorum del processo formulare. Inizialmente il princeps giudicava in primo e unico grado con o senza corredare la delega di un parere vincolante sulle questioni di diritto inerenti alla causa. Il giudizio di secondo grado divenne prerogativa istituzionale del princeps soltanto in seguito alla diffusione di cognitiones non imperiali, in cui la causa era celebrata e decisa extra ordinem da un magistrato. Il princeps si mise quindi a tutelare situazioni giuridiche nuove non protette in sede formulare, dove la cognitio extra ordinem servì ad affiancare ai rimedi ordinari rimedi nuovi, talvolta più comprensivi. Analogamente furono istituiti, ad esemoio, il praetor de liberalibus causis e il praetor tutelaris, competenti extra ordinem, rispettivamente nei processi di libertà (volti a dimostrare che un soggetto tenuto come schiavo era in realtà libero) e in quelli relativi alla tutela. Inoltre funzioni giudiziarie vennero col tempo istituzionalmente attribuite ai funzionari imperiali, costituendo un’organizzazione gerarchica per l’amministrazione della giustizia subordinata all’imperatore. Quando il decretum veniva emesso dall’imperatore, sia in primo grado che in appello, rientrava fra le costituzioni imperiali dotate di efficacia normativa. 4. Epistulae lettere; se c’è una lettera sempre sul caso concreto che viene mandata dall’imperatore vuol dire che c’è qualcuno che gli può mandare una lettera direttamente, si tratta quindi di persone con una posizione elevata, come i governatori provinciali, c’erano dei funzionari si occupavano delle epistulae. Erano risposte scritte del princeps su una determinata questione giuridica relativa a un caso concreto emesse in seguito a richiesta di magistrati o funzionari imperiali. Le epistulae venivano preparate dall’ufficio ab epistulis eredatte in forma indipendente. 5. Rescripta rescripto vuol dire scritto sotto, i privati avevano la possibilità di rivolgersi all’imperatori non direttamente, fuori dl palazzo reale c’era un zona adibita all’affissione di richieste probabilmente su papiro, tutte queste richieste venivano ritirate dal personale autorizzato e si formano dei funzionari specifici per questi compiti ( chiamati libelli, preces); sono richieste simili a quelle che prima si facevano ai giuristi nel foro, domande a un caso concreto che la persona non sa risolvere, chi fa la richiesta per avere un parere giuridico mette il suo modo di vedere le cose, quindi quando l’ufficio otteneva questa domanda poi dava la risposta e il giudice poi doveva valutare che i fatti fossero successi realmente. Quando si trattava di una questione già risolta in altri rescritti, poteva accadere che si trattasse di problemi mai esaminati e qui la questione arrivava al consiglium principis ma ci vorrà più tempo perché il consiglio era a Roma e se il caso era accaduto in altre città ci voleva molto prima che arrivasse, che è stabilizzato come organo costituzionale con Adriano ma c’era anche prima, il consiglio dava risposta giuridica e questa era costituzione imperiale. da adriano fino alla fine del 3 secolo abbiamo risposte abbastanza simili tra loro. I tre tipi di costituzioni a carattere particolare nella riflessione della giurisprudenza del II secolo vengono equiparate alle costituzioni generali come atti dotati di vigore legislativo e produttivi di diritto civile. Lo studioso di diritto romano Talamanca, afferma che le formule astratte dei giuristi tardo-classici non devono oscurare il modo in cui giuristi e imperatori guardavano all’efficacia normativa delle costituzioni a portata particolare al di là del caso scelto. Se ad esempio, il rescriptum o l’epistula imperiale incideva sul piano del ius honorarium, il principio giuridico nuovamente fissato veniva attuato attraverso gli interventi giurisdizionali dei magistrati titolati di iurisdictio, cioè per mezzo della concezione di azioni onorarie o di eccezioni. Ciò spiega perché è più opportuno dire che anche nel II secolo i decreta, le epistulae e i rescripta erano fonti del diritto in quanto il principio giuridico in essi enunciato, in ragione della particolare autorevolezza di chi lo aveva formulato (auctoritas), avrebbe di fatto prevalso rispetto ad altre possibili soluzioni giuridiche costituendo un precedente difficilmente disattendibile. Mentre i decreta imperiali risalgono all’età augustea, rescripta ed epistulae raggiunsero la loro massima espansione nel corso del II secolo d.C.; in particolare, fu Adriano a riorganizzare gli uffici della cancelleria imperiale affidandoli a funzionari di rango equestre istruiti nelle scuole di diritto. Tra questi uffici, vi erano quello c.d. a cognitionibus che istruiva il materiale necessario alla trattazione delle cause d’appello celebrate dinanzi all’imperatore, quello ab epistulis che curava la corrispondenza del princpes e preparava le epistulae, quello a libellis che rispondeva alle preces rivolte dai privati all’imperatore preparando i rescripta. Soltanto i casi che richiedevano maggiore approfondimento la questione veniva discussa e decisa nel consilium principis, alla presenza dell’imperatore; il consiglio fu istituito da giuristi in epoca adrinea, i quali assistevano l’imperatore sia nella redazione delle costituzioni che nei giudizi celebrati dinanzi a lui. La loro presenza nel consilium imperiale per la soluzione di casi concreti spiega la ragione della progressiva sostituzione dei rescrpita e delle epistulae ai responsi giurisprudenziali; infatti a partire dal II secolo i giuristi si dedicarono all’insegnamento o all’attività pratica realizzata nel quadro dell’organizzazione amministrativa imperiale. Nella seconda metà del III secolo d.C. le costituzioni imperiali diventano l’unica fonte di produttiva di nuovo diritto. Con Diocleziano e Costantino il tipo di costituzione prediletta dagli imperatori diviene l’edictum (o lex generalis), per il suo carattere astratto e generale); nel frattempo cadono in disuso i mandata, sostituiti da istruzioni ai funzionari impartite sotto forma di leges generales, e perdono d’importanza le costituzioni di carattere particolare (rescripta, epistulae, decreta). A partire dalla fine del III secolo d.C. ci furono tentativi di ordinare in una raccolta unitaria le costituzioni imperiali; per queste codificazioni l’utilizzo della forma libraria del codex, che in quell’epoca stava sostituendo il papiro, determinando l’uso di denominare codices tutte le raccolte di leges allora realizzate. La prima opera di questo genere fu il Codice c.d. Gregoriano, compilato
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