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Istituzioni di Diritto Romano - Dispensa - Diritto Romano - prof. Negri, Sintesi del corso di Diritto Romano

Dispensa per il corso di Diritto Romano del prof. Negri riguardante le Istituzioni di Diritto Romano 

Tipologia: Sintesi del corso

2011/2012

Caricato il 06/01/2012

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4.3

(4)

5 documenti

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Scarica Istituzioni di Diritto Romano - Dispensa - Diritto Romano - prof. Negri e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Romano solo su Docsity! ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO Prof. Giovanni Negri La prima considerazione che si può fare in merito al diritto romano è perché esso sia nato e si sia sviluppato a Roma ma, cosa ben più interessante, perché venga ancora oggi insegnato a più 2000 anni dalla sua scomparsa. Un primo motivo può ricercarsi nel fatto che fino a cinque generazioni fa di giuristi, l’unico strumento del giurista era il diritto romano che ha permesso di reggere gran parte dell’Europa attraverso queste norme (da notare che in Italia, dal 1856, non vi erano codici). In secondo luogo perché coloro che hanno proceduto a codificare le norme dei codici civili nei vari stati nazionali, erano stati formati secondo l’impianto romanistico quindi è più che plausibile riscontrare nei vari codici elementi di concordanza con il diritto romano. Si parla di nozioni tecniche, ovvero, non direttamente formulate dai giuristi romani ma da chi nel corso degli anni ha studiato il diritto romano e di diritto in senso oggettivo e in senso soggettivo nonché di capacità di agire e capacità giuridica. Per quanto riguarda la soggettività/oggettività del diritto, si prenda ad esempio un articolo del codice civile, il 42. In senso oggettivo tale articolo tutela la proprietà di un certo bene; dal punto di vista soggettivo, invece, l’articolo 42 sancisce la proprietà di un bene da parte di un soggetto. Ora, dal momento che il codice civile tutela il diritto di proprietà, si può chiaramente capire che tale norma esisteva già a priori ed è quindi un aspetto oggettivo. In sostanza però, la distinzione fra diritto in senso oggettivo ed in senso soggettivo, non è completamente netta. Io non potrei far valere un mio diritto soggettivo se questo non fosse oggettivamente contemplato in un codice. I giuristi romani non hanno mai esposto una chiara definizione di certi concetti generali, guardando piuttosto al problema pratico. Le fonti del diritto romano, ovvero il modo con cui il diritto viene prodotto (ma i romani non hanno mai usato questo termine; essi pensavano che il diritto fosse distinto in varie parti). I moderni distinguono fra fonti di produzione e cognizione. Nel codice civile italiano agli art. 1, 4 e 8, si ribadisce l’importanza della legge. I romani, che non hanno mai voluto possedere codificazioni scritte, si basavano sul manuale di Gaio. In seguito ci si riferiva al trattato di Giustiniano, al suo Codex iuris. Entrambi comprendevano poche ma essenziali norme. Gaio, sec. II d. C.: il diritto del popolo romano consta di leggi, senatoconsulti, plebisciti, responsi ed editti imperiali. Giustiniano, sec. VI d. C.: il diritto del popolo romano consta di leggi, plebisciti etc. è perfettamente identico alle istituzioni di Gaio. Il nostro sistema è molto più semplice di quello romano. Le leggi non si formulavano più da 2 secoli, i plebisciti da 4 (già al tempo di Gaio); vi erano solo più senatoconsulti, editti e responsi dei giuristi. Sotto Giustiniano più nemmeno questi, il diritto era amministrato monopolisticamente dall’imperatore. Nei nostri diritti non c’è più una concezione storica come in passato. Al tempo dei romani, invece, il diritto era visto come cronologica espressione della società: era un ordinamento stratificato nel tempo come quello italiano di oggi in cui convivono leggi anche molto antiche: la più vecchia riguarda l’estrazione del marmo nelle cave a Massa e Carrara, datata 1752, ve ne sono comunque più di 120 mila, quotidianamente prodotte e pubblicate. Nel nostro sistema è valorizzato il primato della legge, un sistema comunque omogeneo, al contrario di quello romano, eterogeneo, complesso e meno lineare. La legge al tempo dei romani era scarsamente una fonte del diritto; si preferivano piuttosto le sentenze dei giuristi benché queste nell’ ordine venissero dopo, alla fine dell’elenco di quelle fonti riportate nei codici giustinianeo e di Gaio. La spiegazione sta dietro ad una questione di logica: si usava ai tempi dei romani mettere al fondo di un elenco ciò che si voleva far risaltare di più, ciò a cui si dava maggior importanza; questo 1 perché si è portati a ricordare meglio le elencazioni che si trovano al fondo di una lista piuttosto che quelle enunciate in principio. LEGGE, ha un significato tecnico: norma generale ed astratta a cui tutti i cittadini devono sottostare; essa deriva da una legiferazione data da una democrazia indiretta. Ai tempi dei romani, invece, esistevano i comizi centuriati a cui tutto il popolo partecipava; queste votazioni si tenevano solo a Roma, non c’era in questo senso decentramento. La legge era una communis rei publicae sponsio. La legge per queste ragioni non è mai stata avvertita come imposizione dall’alto, ma un qualcosa che ci si dava come cittadini (praeceptum). Ora, la Roma capitale del mondo civilizzato contava oltre 700 mila abitanti con capacità di voto e per questo dal I secolo d. C. il senato abolì il diritto popolare di voto. La legge inoltre ha significato di legare, obbligare: etimologicamente deriva dal verbo latino lego. Questo spiega il fatto che allora, ma lo è tutt’oggi, le clausole contrattuali erano vere e proprie leggi fra le parti. Colui che emanava gli editti era il pretore: egli stava in tribunale a dirigere, organizzare il processo. Non applicava limitatamente il diritto civile, di cui peraltro era tutore, era anche garante e tutelava la veridicità della stipulatio, ovvero il contratto orale e formale dal momento che nulla era messo per iscritto. Esso si stipulava davanti a testimoni. Se non si rispondeva esattamente con il verbo usato nella domanda, la stipulatio era nulla. È dunque la forma che definisce la correttezza e non la modalità con la quale essa viene ottenuta. Se poi non viene estinto l’obbligo (che nasce dalla forma) si inizia il processo di condanna. Ad un certo punto della storia, non precisato, un pretore decise che era il momento di cambiare una usanza simile. Se l’impegno era stato estorto con la violenza da parte del creditore nei confronti del debitore, la legge (cioè il pretore) forniva all’estorto i mezzi per potersi difendere e, se effettivamente veniva provato il previsto abuso, il debitore poteva in questi casi essere assolto. Esisteva poi, ma per certi aspetti è ancora in voga in certe realtà, l’uso della consuetudine ovvero: ciò che è sempre stato fatto e si ritiene debba essere rispettato nonostante non si sappia perché lo si metta in pratica. Il responso dei giuristi costituiva la fonte di produzione del diritto privato di gran lunga la più produttiva. Le loro parole, il loro linguaggio dava contributo interpretativo alla legge da applicarsi in uso concreto. Loro applicavano il diritto: non può neppure essere pensato (il diritto) se non ci fossero stati dei giuristi che lo avessero interpretato quotidianamente nel modo più opportuno. Tutte le sentenze dei giudici nei tribunali sono giurisprudenza; i giuristi sono l’insieme della giurisprudenza e ciò che loro sentenziavano era dottrina. Veniamo ora a trattare delle persone, del loro diritto. Gaio e Giustiniano suddividono l’ordinamento giuridico romano in 3 grandi branchie: delle persone, delle cose e delle azioni. Oggi, anche il nostro ordinamento, che fa specie nella Costituzione (e trova riscontro anche nel Codice civile, oltre che dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), tutela come inviolabili i diritti di tutti gli uomini, la loro dignità sociale, la loro libertà e, dal momento della nascita, la loro personalità giuridica. La capacità di agire (intendere e volere) è nozione diversa ovvero di capacità di compiere atti giuridici, averne la facoltà (volere ed esserne consapevoli); essa si ottiene, nell’ordinamento italiano, all’età di 18 anni ma si tratta di una concezione presuntiva stabilita dal legislatore; alla base c’è un sostrato naturalistico, è la natura stessa che definisce quando una persona abbia raggiunto la maturità intellettuale, oltre che quella fisica. In buona sostanza, è la natura che determina l’attribuzione della capacità giuridica. Gaio, II sec. d. C.: sulla condizione degli uomini, la divisione è questa: tutti gli uomini o sono liberi o sono schiavi. Giustiniano, VI sec. d. C.: sulla condizione degli uomini, la divisione fondamentale è questa: tutti gli uomini o sono liberi o sono schiavi. 2 Era possibile, al tempo dei romani, che un qualsiasi soggetto passasse da uno status ad un altro a causa di una capitis deminutio. Si perdeva lo status civitatis, ad esempio, se si accoglieva la proposta di andare a vivere in una colonia. Questo accadeva quando lo stato romano decideva di espandere i suoi confini economici – militari - giuridici all’interno dell’impero per dar vita ad una nuova colonia. Questo poteva significare effettivamente la possibilità di arricchirsi e far carriera ma al contempo si perdevano i diritti che venivano tutelati dall’essere cittadini romani per il motivo che si usciva dalla giurisdizione di Roma. Poteva poi anche accadere che un soggetto perdesse la patria potestas quando, pur appartenendo ad un nucleo famigliare, decidesse di far parte di una nuova famiglia su esplicita richiesta di colui che si proponeva di adottarlo formalmente; l’adozione consisteva in questo, di fatto: trasferirsi da una famiglia all’altra rilevando gli effetti giuridici della famiglia adottiva, o meglio, subire la potestas del pater familias adottivo. L’adozione, al tempo dei romani, poteva essere applicata anche a soggetti adulti e non esclusivamente pupilli orfani. Una sorta di adozione poteva consistere nella adrogatio: con essa il pater familias adrogans, assumeva la potestà di un altro pater familias che perdeva, in seguito a questa operazione, il suo stato sui iuris. I vari figli adottivi e quelli legittimi si trovavano sul medesimo piano giuridico. Infine, un ultimo caso di perdita di personalità: la perdita dello status libertatis. Quando qualcuno veniva catturato durante una battaglia, questi, era ridotto in schiavitù: giuridicamente perdeva ogni capacità, la cittadinanza e la condizione sui generis (ammesso che la possedesse). Tutti i diritti/ doveri che gli facevano capo prima della cattura subiscono una sospensione della prescrizione in attesa venisse sciolta la situazione di incertezza nella quale si ignorava la condizione del presunto schiavo. In pratica, non si sapeva se tizio era riuscito a liberarsi dalla schiavitù e stava tentando un ritorno in patria. Questa sospensione (che si estingueva al momento del ritorno dello schiavo perché ritornava in possesso della sua condizione giuridica) era legittimata dal diritto romano in base allo ius postliminium ed è data dal fatto che il diritto è solo una semplice astrazione concettuale per cui era possibile ipotizzarne una sospensione suscettibile di attivazione successiva, di riviviscenza. Nell’ambito del diritto romano, comunque, non si rimettevano a questo diritto il matrimonio ed il possesso. Il primo, era fondato su due aspetti: la maritalis affectio (rapporto coniugale fra i coniugi) e l’usus (convivenza fisica dei coniugi) . Finché coesistevano entrambi il matrimonio aveva modo di sussistere ma è comprensibile che, nel momento di cattività di uno dei due coniugi, almeno uno dei due aspetti (l’usus) veniva meno per cui il vincolo matrimoniale veniva meno e si dissolveva. Per quanto riguarda il diritto di possesso, esso consiste di due elementi: materiale (corpus possidendi) e soggettivo (animus possidendi). Il possedere è un comportamento di fatto. Non è suscettibile di sospensione, quando un soggetto viene ridotto in stato di cattività egli perde ogni diritto di possesso sui suoi beni. Una volta ritornato in patria, ammesso che si sia liberato dalla schiavitù, deve ritornare in possesso di tutto ciò che gli spettava di diritto prima della perdita di ogni capacità giuridica. Poteva accadere, poi, che una persona morisse in stato di cattività; in questo caso il diritto romano considerava la morte come avvenuta nel momento della cattura e consentiva perciò l’apertura della successione ereditaria. PROCESSO CIVILE Ovvero, come si fa a far valere il proprio diritto di proprietà o credito che vengono messi in situazione di impedimento di esercizio? All’epoca dei romani si concepiva il diritto privato all’interno del processo civile. Il capitolo del processo è fondamentale all’interno delle istituzioni del diritto romano privato/civile. Al tempo si distinguevano almeno 3 tipologie di processo: • per leges actiones • formulare • cognitio extra ordinem la maggior parte delle situazioni processuali è, comunque, di carattere formulare (civile). Con esso si poteva possedere la capacità di far valere i propri diritti soggettivi. 5 Esso si svolge sempre allo stesso modo, in un luogo preposto al suo svolgimento (il tribunale). Qualunque fosse lo scopo, esso si svolgeva sempre attraverso le medesime modalità, che possono essere almeno 4: •.)1mero accertamento •.)2condanna •.)3esecuzione •.)4divisione 1) mirava ad accertare semplicemente una situazione giuridica, come ad esempio poteva essere autenticare la condizione sui iuris di una persona o la sua libertà; 2) scopo di questa modalità processuale, era ottenere dal giudice l’emanazione di un provvedimento di condanna verso un debitore, ad esempio; 3) era attivato per ottenere dal giudice, a seguito di precedente condanna, la messa in atto della stessa stabilita da un precedente tribunale attraverso processo formulare; 4) con essa si richiedeva l’interruzione della proprietà fra due o più condomini; si trattava di una interruzione di proprietà in comunione, in effetti, sul piano formale, la proprietà iniziale era solo scomposta in tante parte quanti erano i condomini comproprietari. Il processo poteva essere intentato da un soggetto che poteva vantare un diritto di credito nei confronti di qualcuno. Normalmente questo procedimento prevedeva che si fosse venuti meno all’osservanza di un contratto (la cui stipulazione prevede il concorso di almeno 2 persone). Un contratto, nel caso preso in esempio di mutuo, ovvero prestito di danaro (cosa fungibile); il mutuo non deve essere confuso con il comodato attraverso il quale si dà in prestito un oggetto. L’osservanza del contratto, però, da parte del mutuatario, non nasce dall’atto di volontà fra mutuante e lo stesso mutuatario nella stipulazione del contratto; bensì essa si contrae, nasce “re” con la cosa ovvero, quando avviene l’effettiva consegna da parte del mutuante del danaro al mutuatario. Per questo motivo, per questa serie di passaggi, il mutuo è un contratto: • gratuito, non oneroso: e non lo può nemmeno essere perché se esso si perfeziona con la consegna di una certa quantità di danaro, quella sola deve essere restituita, senza l’aggiunta di un interesse che deriva solo da un diverso atto di volontà fra i contraenti; • unilaterale, non perché lo stipuli un solo soggetto ma perché produce effetti giuridici (obblighi) solo verso una delle due parti, in questo caso il debitore/mutuatario; • reale, perché si attiva solo nel momento in cui avviene la consegna fisica del prestito. Il mutuo è un contratto che ha per oggetto il prestito di una cosa fungibile, esprimibile solo quantitativamente (il danaro ad esempio), ed esso può essere fatto valere soggettivamente solo perché esiste, contemplato dalla legge, un diritto oggettivo che lo tutela, secondo cui una somma di danaro data in prestito da un mutuante (creditore) ad un mutuatario (debitore) deve essere resa al creditore. Se questo obbligo non viene osservato da parte del debitore, il mutuante può far valere il suo diritto di credito appellandosi ad un magistrato (pretore) che, in luogo apposito, lo ius ovvero il tribunale, dà vita all’udienza. Per questo motivo il creditore dovrà citare (vocatio in ius) in giudizio, il giorno stabilito in cui il giudice preposto a queste operazioni tenga l’udienza, il suo debitore inadempiente. A questo punto il creditore espone le sue ragioni e presenta le prove fondate, o meno, delle sue accuse nei confronti del debitore che, a sua volta potrà difendersi e ribattere alle accuse che riterrà false. Il pretore, dunque, non interviene minimamente nel definire il torto o la ragione di uno o dell’altro: si limita a curare la forma del dibattito secondo uno schema prestabilito, secondo regole precise che lui stesso, al momento della sua elezione (dura in carica un anno) aveva provveduto a definire (editto) ed esporre. Il processo privato formulare è il più simile per nozioni teoriche al nostro processo civile ma molto diverso per quanto riguarda la procedura. Come già detto in precedenza, il contratto di mutuo è tale 6 per cui non nasce esclusivamente dall’accordo fra mutuante e mutuatario ma “re”, dalla/con la cosa. Con la concreta consegna del denaro, si perfeziona (e tutt’oggi accade così) il contratto reale. L’actio è il mezzo giuridico per cui il mutuante fa valere il proprio diritto di credito verso il mutuatario. Essa prende il nome di conditio certae creditae pecuniae ovvero l’azione di ripetizione, di restituzione di una certa (conosciuta) quantità di danaro. Anche se la somma di danaro dovesse essere incerta, in questo caso il mutuante ha il diritto di ottenere la restituzione del risarcimento dei danni. Nel diritto romano, ad ogni diritto soggettivo corrispondeva un mezzo per farlo valere attraverso una azione definita, adatta, che aveva un nome. Per sapere quale fosse l’azione adatta, si faceva appello all’editto che il pretore, all’inizio dell’anno di carica, affiggeva all’albo del tribunale. La certae creditae pecuniae è una azione formulare perché con essa si esprime il diritto di credito vantato dal debitore nei confronti del suo debitore (pag. 124 A. R.). Serve a far valere i diritti di credito fondati sui contratti di mutuo che viene pronunciata di fronte al giudice. L’azione espressa dalla formula viene esperita di fronte al pretore che però NON è il giudice. Per questa ragione dovrà essere indicato nella formula il nome di un giudice; così al posto degli altri due nomi fittizi dovranno essere inseriti quelli dei litiganti. Al giudice è rimessa la sentenza definitiva del processo (in questa fattispecie, di condanna); egli NON è da confondere con il giudice. Chi è allora il giudice? È un cittadino privato di comune fiducia delle parti scelto dalle medesime. Esse si accordano circa la designazione del giudice. Se non raggiungono l’accordo è il pretore a decidere il nome del giudice estraendolo da un elenco di persone oneste di cui lui è a disposizione. Dopo che le parti hanno formalizzato il nome del giudice e la controversia, il pretore invita le parti a contestare la lite (litis contestatio), ovvero, invita l’attore (creditore) ed il convenuto (colui che è stato chiamato in giudizio [vocatus in ius]) a rimettersi alla decisione del giudice privato che essi stessi hanno scelto, o è stato loro affidato dal pretore. Dalla formulazione della litis contestatio derivano almeno due effetti: anzitutto la formula diventa intangibile, è chiusa, sigillata ed invita al giudice che, dopo averla letta e aver proceduto nell’istruttoria, provvederà a decidere la sentenza, non in base alla sua nozione personale ma sulla base delle prove testimoniali o documentali; inoltre, il rapporto di credito è prospettato in termini controversi/litigiosi. Diventa successivamente un rapporto processuale, ha ancora senso di esistere? Affatto, la litis contestatio lo ha estinto dal momento che si è trasformato in processo. Da questo secondo punto scaturisce una conseguenza: se il mutuatario è assolto, il mutuante non potrà più far valere il suo diritto di credito che, come detto, si è estinto attraverso la l. c. Se il convenuto, dopo la formulazione della l. c. ma prima dell’emissione della sentenza del giudice, decide di pagare perché capisce che verrà inevitabilmente condannato, ha solamente gettato via dei soldi poiché il debito si è estinto dopo avere formalizzato la l. c. È importante osservare che se il giudice emette condanna, questa può solo essere rivolta verso il convenuto, mai contro l’attore. La sentenza ha carattere obbligatorio per le parti in quanto esse stesse si sono accordate per rimettere al giudice la decisione. Sarebbe insensato procedere all’appello ed impugnare la sentenza. Finora non si è spiegato circa la forza esecutiva, come è possibile che il creditore possa ottenere la restituzione del danaro da parte del debitore? Questa restituzione avviene dal momento che il giudice è investito dal pretore (dopo aver accertato l’effettiva e valida litis contestatio) del potere-dovere di emettere sentenza e farla rispettare. Questo è un aspetto meramente pubblico. Si può capire ora, cosa si intenda per giurisdizione: in primo luogo, il pretore autorizza le parti a dibattere sulla azione formulare; poi, ordina al giudice di emettere sentenza. Analizziamo, ora, la formula. Essa inizia con la nomina del giudice e prosegue con un si paret che regge una infinitiva (intentio); questa è la parte della formula nella quale l’attore esprime le sue pretese nei confronti del convenuto. A questa fa seguito la condemnatio cui succede la sentenza del giudice. La ripetizione della quantità di danaro, di cui il mutuante richiede la restituzione, è fondamentale; altrimenti sarebbe a discrezione del giudice lo stabilire una certa somma di danaro da restituire. Questo perché quanto dato in mutuo deve essere reso senza interessi in quanto, quello di mutuo, è un contratto gratuito. 7 invece perde il suo diritto di condominio, riceve dal giudice l’attribuzione di un conguaglio in misura alla quota di cui si è persa la comproprietà. Questo conguaglio deve essere estinto da chi mantiene il diritto di proprietà nei confronti dell’altro o degli altri. Si tratta di una condanna che viene data alla parte aggiudicata consistente nel versare una certa somma di danaro alla parte non aggiudicataria. L’adiudicatio ha lo scopo di sciogliere il rapporto di comproprietà fra più persone che non litigano ma si trovano solo a dover sciogliere tale rapporto che li unisce. La adiudicatio si manifesta per decidere in merito a tre determinati ambiti: cosa comune, eredità e regolamento di confini. Si tratta ora di analizzare la sfera dei diritti reali. Di quei particolari diritti, cioè, che si hanno su “cose” quae tangi possunt. Cose che hanno una consistenza materiale fanno parte dei diritti reali. Essi si suddividono in almeno due categorie: di godimento e di garanzia. Alla prima tipologia appartengono i diritti reali di proprietà, di servitù, di usufrutto e di superficie; alla seconda classe di diritti appartengono quello di pegno e di ipoteca. Nell’ambito dei diritti reali, in realtà, rientrerebbero anche quelli di uso e di abitazione, ma la loro trattazione riguarda un ambito differente. Analizzando più approfonditamente il primo dei diritti reali di godimento, la proprietà, iniziamo con il definire quale sia l’azione giudiziaria che deve essere utilizzata perché possa essere fatta valere. Essa è detta azione di rivendica o rei vindicatio; è nelle facoltà di azione del proprietario contro chiunque lo privi della cosa gli appartiene. Si tratta di un diritto soggettivo che spetta al proprietario; ad essa corrisponde una formula specifica: Titius iudex esto. Si paret rem de qua agitur Aii Aii esse, ex iure Quiritium, iudex Nm Nm Ao Ao…condemnato. Si non paret absolvito (in questa prima formula vi sono omissioni importanti che solo in seguito ad ulteriori spiegazioni verranno apposte). Anzitutto si deve procedere a nominare un giudice di comune accordo; poi si nota come l’intentio sia la clausola nella quale si esprime il diritto soggettivo dell’attore. Paragonando poi la formula della rei vindicatio con quella relativa alla conditio certae creditae pecuniae, si possono individuare alcune differenze e certe analogie. Prima di tutto si nota che in entrambe si trovano una premessa ed una conclusione identiche. Inoltre, la conditio è una azione formulata in ius (l’attore vanta un diritto di credito fondato sul diritto civile) e pure la rei vindicatio trova fondamento in ius. Entrambe presuppongono un diritto soggettivo. A livello di differenze si può evidenziare che nell’intentio della conditio compaiono i nomi di entrambe le parti (sia attore che convenuto), mentre nella rei vindicatio compare solo quello dell’attore. Nel primo caso il contratto è relativo alla persona del debitore, solo a lui si rivolge l’azione dell’attore/creditore; e solo nei suoi confronti il creditore può rivolgere il suo diritto di credito. L’azione della conditio è una actionem in personam. Nel secondo caso, invece, il contratto è assoluto su una singola cosa. È il potere che l’attore assume su una cosa legittimato dal diritto civile erga omnes indistintamente. Si tratta in questa situazione di actionem in rem. Questa distinzione fra le due formule definisce e giustifica l’attribuzione del titolo di diritto reale ad un diritto di proprietà. Soffermando l’indagine ancora per un momento sulla conditio, relativa al diritto di credito, il giudice deve condannare il convenuto a risarcire la stessa somma indicata nella formula; nella rei vindicatio, invece, il giudice condanna il convenuto al risarcimento in danaro del valore che la cosa avrà al momento dell’emissione della sentenza, in un futuro. È essenziale a questo punto che si indichi con estrema precisione il momento presente. Esso si identifica con il confezionamento definitivo della litis contestatio, cioè, quando il diritto soggettivo posseduto dall’attore si trasforma in diritto processuale. Il valore pecuniario posseduto dalla proprietà al momento dell’emissione della sentenza, verrà definito nel momento in cui avverrà la trasformazione del valore materiale in valore pecuniario tramite la litis aestimatio. A questo punto, dopo aver chiarito alcuni aspetti, è necessario introdurre la parte mancante della formula. Essa recita, una volta completa nella forma: se pare al giudice che la cosa per la quale si agisce sia di A A, secondo il diritto civile, e quella cosa non sia ancora stata restituita previa decisione del giudice, N N sia condannato al pagamento di una somma di danaro che sarà pari al valore della cosa. Se non pare al giudice, sia assolto. A questo punto, se l’attore dovesse vincere la causa non otterrebbe indietro la cosa per cui si agisce, ma dal momento che il processo formulare prevede sempre una condanna pecuniaria, salvo alcune 10 circostanze che prevedono condanne in forme specifiche. Questo è dettato da una ragione logica, oltre che da una di natura storica. Il fatto è che il convenuto può passivamente opporre resistenza alla restituzione della cosa di cui l’attore è proprietario; per questo la condanna è di carattere pecuniario. Ciò comunque non realizza in fondo l’interesse primario dell’attore. La sua intentio va constata, così come la possibilità che la cosa sia stata già restituita. Sul verbo restituire è necessario insistere, per avere una chiara idea di che cosa esso significhi nell’ambito del processo formulare. Non si tratta del semplice dare indietro o ridare indietro una cosa; se questa non si trova più nelle condizione in cui si trovava nel momento in cui altri se ne impossessassero. Ponendo l’esempio di una medesima cosa, di cui dispongano due proprietari distinti in maniera differente (uno per lavoro e l’altro per divertimento – l’auto nel caso di un tassista e di un collezionista), che venga sottratta ad ambedue, la condanna che subiranno i convenuti sarà diversa a seconda dei due attori. Ciò è dovuto al diverso uso che ne fanno i due attori: per l’uno è mezzo di sopravvivenza, per l’altro oggetto da collezione. In questo caso la cifra che i convenuti saranno condannati a risarcire ai rispettivi attori sarà diversa (in misura alla funzione che la macchina rivestiva nella vita dei due attori) ma determinata comunque in sede di litis aestimatio. Se il giudice accerta che la cosa apparteneva in proprietà all’attore ma il convenuto condannato non provvede a riconsegnarla indietro, la condanna pecuniaria è stimata al momento dell’emissione della sentenza. Ma a questo punto, la cosa in oggetto nella l. a., a chi è in proprietà? I Romani dicono che una volta conclusa la l. a. (consente il trasferimento di proprietà), l’attore perde il diritto di proprietà che passa al convenuto (si direbbe paradossalmente) anche se condannato. La l. a. ha un effetto processuale: determinare l’ammontare della sanzione pecuniaria da corrispondere al convenuto; ed un effetto sostanziale, con il quale si determina il passaggio di proprietà dall’attore al convenuto. Se si pensa a questo fatto, il tutto acquista logica, pur nella sua iniziale paradossalità: non sarebbe sensato, infatti, che l’attore rimanesse proprietario di una cosa anche dopo la condanna del convenuto qualora quest’ultimo non abbia provveduto a riconsegnare la cosa medesima nelle mani dell’attore dopo avergli corrisposto il risarcimento stabilito. Si tratta a questo punto di definire come si acquisti un diritto di proprietà e in chi si identifichi N N, che viene in possesso della cosa. L’effetto sostanziale della l. a. (provvedimento attuato dal giudice) stabilisce il passaggio di proprietà dall’attore al convenuto dopo che quest’ultimo ha corrisposto la somma pecuniaria stabilita dal giudice in sede di liquidazione della cosa. Bisogna ora definire a che titolo A A si possa considerare proprietario della cosa, in accordo con il diritto civile romano. Come acquista la proprietà sul bene oggetto dell’intentio? Nell’ordinamento civile italiano si trova riscontro circa la materia di acquisto della proprietà (art. 922 c.c.). sono elencati diversi modi attraverso cui una persona acquisisce il titolo di proprietà su una cosa: occupazione, invenzione, accessione, specificazione, unione e commistione, usucapione e mortis causa. Nel diritto romano ci sono diversi modi di acquisto della proprietà; i giuristi moderni ne individuano almeno tre categorie: a) a titolo originario b) a titolo derivativo c) a titolo costitutivo a) si tratta delle situazioni ugualmente richiamate nel c.c. italiano, eccezion fatta per i contratti (al tempo dei romani NON esistevano: essi avevano efficacia puramente obbligatoria dal momento che la proprietà, per il giurista romano, era un diritto reale assoluto opponibile a tutti i terzi). In aggiunta si analizzano anche quelli che derivano da incrementi fluviali. Essi sono: 1) Occupazione: caccia, pesca… chiunque può appropriarsi della cacciagione perché essa non appartiene a nessuno (res nullius). Nell’ambito della caccia almeno fino a qualche decennio fa, quando la selvaggina venne definita res communis omnium, in sostanza non ha cambiato nulla. Avviene la materiale apprensione della cosa con la volontà di farla propria. È un modo originario di acquisto di acquisto della proprietà perché sulla cosa non era esercitato in precedenza alcun potere. 11 2) Invenzione: quando non è più possibile risalire a chi appartenesse la cosa, se questa fosse stata ritrovata. Anche questo è un caso di acquisizione del titolo di proprietà a titolo originario. Se la cosa è rinvenuta su un fondo posseduto dal ritrovante (a meno che non abbia un interesse storico archeologico) egli ne può godere appieno; se invece è rinvenuta su un fondo altrui, la cosa è da spartirsi fra il ritrovante e il proprietario del fondo. 3) Accessione: si manifesta su cose che pur appartenendo ad altri (cui si possa risalire) vengono acquisite a titolo originario di proprietà per attrazione esercitata da una proprietà più rilevante. Ad esempio, se nel costruire una casa gli operai si impossessano di materiale edile dal terreno confinante quello su cui si costruisce, i materiali utilizzati vengono acquisiti in proprietà dal proprietario della casa in costruzione. Colui che se li vede sottrarre, non può richiederli indietro ma dovrà farsi ottenere un risarcimento dei danni subiti. 4) Unione e commistione: se le cose di cui una persona si impossessa per ottenere una nuova cosa sono inscindibili, la cosa che viene generata è di proprietà di colui che l’ha creata (se le cose originarie, invece, sono scindibili, esse tornano ai loro proprietari) 5) Specificazione: se ci si impossessa di una materia grezza dalla quale si ricava un opera d’arte, la proprietà su di essa è acquisita dall’artista autore dell’opera che dovrà corrispondere al proprietario della materia grezza il valore pecuniario della stessa. Se l’artista ruba la cosa, egli non diventa proprietario della cosa ma di ciò che crea. 6) Incrementi fluviali: se un fiume o qualsiasi corso d’acqua, ritirandosi lascia scoperta una porzione di terreno più o meno ampia, la proprietà su quella parte di terreno è acquistata da chi risulta essere proprietario del fondo rivierasco antistante la parte di terreno lasciata scoperta dal ritirarsi del fiume. b) si tratta di quei modi di trasferimento di una proprietà che è già in capo a qualcuno; quali sono i modi con cui una persona diventa proprietaria dal momento che un’altra persona le trasferisce il diritto di proprietà sulla cosa in oggetto? L’ordinamento moderno la stabilisce attraverso i contratti di compravendita o nei casi di successione mortis causa. L’ordinamento romano, invece, non riconoscendo i contratti come validi per il trasferimento di proprietà, dà valore alla successione mortis causa. Alla morte del proprietario subentra, acquista tale titolo nel possesso delle cose, colui che la legge designa come erede. Ci possono essere a titolo derivativo almeno tre tipologie di trasferimento della proprietà: mancipatio (a), in iure cessio (b) e traditio (c). I primi due metodi sono formali e solenni (al tempo dei romani, esserlo, significava venir conclusi in forma orale, presso un tribunale di fronte ad una serie di testimoni e seguendo uno schema preciso di affermazioni da pronunciare). Riguardavano soprattutto le cose più importanti dal punto di vista sociale: le cose su cui oggi si regge l’economia (valore delle cose materiali e immateriali): le case, i poderi e gli strumenti per condurli, gli animali e gli schiavi. Si tratta di una categoria di res mancipi. Al tempo dei romani era necessario sapere a chi appartenessero tali res mancipi. Tutte quelle che non lo erano, venivano dette nec mancipi; per queste non era necessario il trasferimento attraverso atti formali: era sufficiente la traditio . Sul piano economico, con riguardo alle res mancipi, non contava il valore perché fosse necessario o meno effettuare trasferimento di proprietà tramite atti solenni e formali. In tal caso mancipatio e in iure cessio, sono sempre necessari quando si fa riferimento a res mancipi. )a chi vuole acquistare una res mancipi è necessario che per il trasferimento di proprietà si segua l’ordine prescritto da una sorta di rito arcaico: l’acquirente (mancipio accipiens) deve pronunciare la frase secondo cui lui è proprietario della cosa, oggetto della trattazione, secondo il diritto civile; dopo aver detto queste parole deve toccare con una bacchetta l’oggetto res mancipi e gettare sulla bilancia un pezzo di bronzo (che verrà pesato, per definire il controvalore, da un addetto, detto libripens); in questo caso l’atto costituisce il contratto e solo seguendo questo schema rituale la mancipatio può dirsi correttamente conclusa. Lo svolgimento di queste ritualità ci dice che il meccanismo della mancipatio è molto antico: il mancipio accipiens, infatti, non lascia cadere sulla bilancia una certa somma di danaro, bensì un pezzo di metallo. Solo a partire dal II sec. d. C. Gaio, parlando del 12 conclusione. È per questa serie di motivi che è praticata la semplice traditio. In tal caso, però, non c’è stato affatto trasferimento di proprietà in capo all’acquirente: questa è infatti una questione che i due contraenti possono disconoscere. È nelle facoltà dell’alienante (che sia venuto a conoscenza del mancato trasferimento di proprietà nei confronti dell’acquirente a seguito di traditio) convenire in giudizio l’acquirente invocando la rei vindicatio per ottenere in restituzione la merce venduta. Ora, si tratta di una azione giuridicamente corretta ma moralmente ingiusta perché viene meno agli accordi che i due avevano contratto in sede di mercato. A questo punto, dopo che l’alienante ha convenuto in giudizio l’acquirente, per quest’ultimo si prospettano diverse alternative. Se riesce a dimostrare che la traditio è avvenuta da oltre un anno, l’azione formulare dell’attore è infondata perché l’acquirente, trascorso questo tempo, ha usucapito la proprietà sulla merce venduta e ne è diventato proprietario agli effetti del diritto civile. Se invece non è trascorso l’anno di tempo, il convenuto sarà costretto a restituire la merce o rimborsare il valore della stessa all’attore. Si è di fronte ad una grave lacuna del diritto civile che non si preoccupa di tutelare l’acquirente dopo la vendita che può essere stata conclusa con un accordo di reciproca fiducia fra le parti. Ecco, allora, che il diritto pretorio colma una lacuna gravemente nociva per qualsiasi acquirente. Un pretore, non si sa di preciso chi e quando, inserì nella azione formulare di rivendica una exceptio rei venditae et traditae che tutelava in queste circostanze il convenuto dalle pretese dell’attore. Pretese che potevano anche essere fondate, ma con l’inserimento della exceptio, qualora anch’essa fosse stata accertata fondata, non avevano alcun valore. L’iniziativa dell’attore, però, non si conclude qui. Con insistenza riesce ad ottenere che la formula venga ulteriormente ampliata: si inserisce così quella che prende il nome di exceptio iusti dominii. A questo punto il convenuto si vede nuovamente messo in sfavore dalla legge; ed è per questo motivo che il diritto pretorio, tagliando la testa al toro, stabilisce che oltre alla exceptio dell’attore, il convenuto può ancora apporre una sua replicatio doli (in considerazione del contegno malizioso che il proprietario terrebbe cercando di trattenere la cosa da lui stesso venduta e consegnata) ed ottenere così dalla sentenza del giudice l’effettivo riconoscimento di proprietà sulla merce in oggetto della vertenza. Di fronte a qualunque attacco del venditore, l’acquirente è tutelato dal diritto pretorio. Ciò non basta, l’acquirente mostra ancora un fianco scoperto ai terzi. Se infatti la merce da lui acquistata, quando non sia ancora trascorso l’anno (o il biennio, a seconda della cosa in questione) per cui la usucapisca, dovesse scappare: ipotizziamo si tratti di buoi che dopo un violento temporale, spaventati, fuoriescono dalla proprietà dei fondi dell’acquirente e si dirigono verso una proprietà limitrofa. Che accade in questo caso, come viene tutelato l’interesse dell’acquirente dal terzo che, vedendo i buoi nei fondi di sua proprietà, decide di catturarli e tenerseli? In questa circostanza ci sono 2 possessori ma l’uno non può convenire in giudizio l’altro con la azione di rivendica dal momento che non ne è ancora proprietario non essendo trascorso l’anno. Ancora una volta interviene un pretore, Publicio. Egli istituisce una azione formulare (detta actio Publiciana) utilizzabile dall’acquirente possessore nei confronti dei terzi che fossero venuti in possesso dei suoi beni; la formula non mette in discussione la parte della azione di rivendica fondata sul diritto civile. La formula è così modificata: si quem hominem As As bona fide emit et is ei traditus est, anno possedisset, tum si eum hominem de quo agitur ex iure Quiritium eius esse oporteret, neque is a No No Ao Ao restituetur…etc. Aulo Agerio è l’acquirente possessore, Numerio Negidio è colui che ha catturato i buoi. Attraverso la azione Publiciana si finge l’esistenza di una realtà di fatto attraverso l’inserimento di una formula fittizia (anno possedisset) che invita il giudice a ricercare soltanto se vi sia stata la vendita e la successiva tradizione, e a regolarsi in caso affermativo come se fosse decorso anche il termine dell’usucapione. Ciò consente a chiunque abbia ricevuto la consegna della res mancipi per una causa diversa dalla mancipatio, di difendersi come se ne fosse a tutti gli effetti proprietario. Se non che, trattandosi di una azione di rivendica fittizia, farebbe presumere che con la sua correlata l. a. si trasferisca in capo al convenuto la titolarità della proprietà sulla res mancipi in questione nel giudizio; ciò non sussiste, non è logico che accada applicando la actio Publiciana dal momento che l’attore non possiede ancora la proprietà sulla cosa (non essendo trascorso l’anno per poterla usucapire) ma questa è solo ipotizzata sul piano giuridico astratto. Questo fattore di differenziazione determina la distinzione fra proprietà pretoria e (tutelata dalla azione di rivendica Publiciana) e proprietà civile 15 (per cui si può azionare la rei vindicatio canonica). La actio Publiciana estende la proprietà anche a chi compera a non domino. L’acquirente, se viene privato della cosa, può servirsi della azione Publiciana per rivendicare il suo diritto. Il pretore in questo modo tutela pienamente gli scambi commerciali, ma fino ad un certo punto. Ipotizziamo che un bene sia consegnato da Tizio a Caio, contro un pagamento di danaro, attraverso la sola traditio. Ipotizziamo, anche, che non sia ancora trascorso un anno dalla conclusione della traditio da Tizio a Caio, quando quest’ultimo decida di vendere quella medesima cosa acquistata ad un terzo, Sempronio. La situazione giuridica è questa: Tizio è ancora il proprietario della res mancipi finché non si esperisca mancipatio o sopravvenga usucapione; Caio, invece, è al momento solo possessore e quando vende a Sempronio, questi non essendo a conoscenza della realtà fattuale, acquista suo malgrado a non domino. Nel momento in cui Tizio dovesse decidere di esperire azione di rivendica sulla sua res mancipi, lo farebbe nei confronti di Sempronio (l’attuale possessore di fatto) che vedendosi convenire in giudizio non avrebbe strumenti di difesa per tutelarsi da Tizio dal momento che fra loro due non ci sono mai stati contatti di commercio (non potrebbe perciò avvalersi nemmeno della azione Publiciana). Tizio, infatti, aveva stipulato traditio con Caio mentre Sempronio era totalmente estraneo alla circostanza fra i due. Di fatto, però, quest’ultimo, potrebbe obiettare a Caio una norma contenuta nel diritto civile: chiunque venda una cosa all’acquirente è di per sé garante per l’ipotesi dell’evizione. Questa norma impone a Caio, qualora Tizio intenti causa nei confronti di Sempronio per rivendicare la sua proprietà, di intervenire in giudizio in qualità di parte convenuta al fianco di Sempronio. Garantire in questo caso significa che Caio si impegna, nell’ipotesi in cui le parti convenute dovessero uscirne sconfitte, a restituire la somma corrispostagli per l’acquisto della cosa da Sempronio che quest’ultimo, in attuazione della sentenza del giudice, si è visto costretto a dover riconsegnare nelle mani di Tizio. Bisogna sottolineare a questo punto che la tutela di proprietà non avviene solo attraverso la rei vindicatio ma pure attraverso altre due azioni formulari. L’art. 949 del codice civile italiano, ai commi 1 e 2, disciplina una azione che dimostri l’inesistenza del diritto di proprietà nei confronti di terzi: azione negatoria. Nel caso in cui chiunque invada abusivamente il fondo di un altro proprietario senza averne alcun diritto, il proprietario del fondo invaso non può evidentemente azionare la formula di rivendica dal momento che nessuna cosa è stata spogliata dalle sue proprietà; bensì la formula di azione negatoria con la quale si chiede al giudice di emettere una sentenza dichiarativa sull’inesistenza di qualsiasi diritto in favore di terzi e da loro affermati qualora il proprietario ritenga di ottenerne pregiudizio. Inoltre al secondo comma, se l’invasore fa sussistere turbative al fondo, il proprietario di questo può chiedere la condanna dell’invasore al giudice con pagamento dei danni cagionati. La formula dell’azione negatoria ha una intentio negativa nella quale si deve provare l’inesistenza di qualsiasi diritto in capo a terzi. Ecco che in queste circostanze l’onere della prova è rovesciato: non è più accollato all’attore (come nel caso della rei vindicatio) ma al convenuto che deve dimostrare l’esistenza di un diritto in suo favore. Ma se l’azione di passaggio abusivo dovesse protrarsi nel tempo (e il vicino invasore ogni volta ripristinerebbe le condizioni iniziali del campo dopo che sia stato continuamente citato in giudizio) è previsto che il proprietario del fondo contragga una stipulatio con l’invasore: essa è detta cautio de amplius non turbando affinché quest’ultimo cessi in maniera definitiva la turbativa. Esistono però delle forme preventive di tutela del diritto di proprietà da un possibile damnum infectum. Ovvero, da un danno che sia ancora stato cagionato ma che si teme fondatamente possa essere cagionato. Lo strumento di cui ci si può servire in questa circostanza è la cautio damni infecti: non si tratta di una azione formulare ma di una semplice cautio. Dall’impiego della c. d. i., il pretore può obbligare il proprietario dell’edificio pericolante a contrarre stipulatio con il proprietario del fondo minacciato. Se non vuole impegnarsi, in un primo momento il pretore emette un decreto che immette nella detenzione (possesso naturale) del fondo pericolante il proprietario minacciato; in seconda istanza, se il proprietario del fondo pericolante persiste nel suo rifiuto a voler contrarre stipulatio, il pretore, attraverso un ulteriore decreto, immette nel possesso esclusivo dell’immobile pericolante il proprietario minacciato. In questo senso la c. d. i. costituisce iuxta causa usucapionis (risolvibile entro 2 anni, trattandosi di bene immobile). La s. è un contratto formale verbale e l’obbligo fra le parti non nasce giuridicamente dall’atto ma dalla forma (che deve 16 essere conclusa in una uniforme unità contestuale – vale quanto già detto sul sorgere dei diritti di credito). Essa perde valore se dalla battuta formale di richiesta del creditore e la risposta del debitore intercorrono elementi estranei alla forma della s. La cautio indica cautela a livello di risarcimento danni a seguito di stipulatio. Nel diritto romano era già in vigore, però, una legge (detta lex Aquilia databile intorno al II sec. a. C.) che prevedeva un risarcimento dei danni a seguito di danneggiamento. • Colui che uccide uno schiavo o un animale altrui corpore corpori ingiustamente deve risarcire il danno al proprietario. • Chiunque abbia causato un danno materiale ad uno schiavo, ad un animale o ad una cosa inanimata deve risarcire il danno al proprietario. Nel primo caso la somma ammonta al valore massimo che la vittima ha raggiunto nell’ultimo anno precedente la azione delittuosa; nel secondo caso il valore ammonta a quello che la cosa danneggiata ha raggiunto nell’ultimo mese. La l. A., dunque, prevede l’esistenza del danno, l’esistenza di qualcuno che lo abbia commesso e l’ingiustizia del danno, ovvero, un danno causato da un comportamento non disciplinato nel diritto. Nel caso di danno cagionato (crollo di una casa) la l. A. non è esperibile: non si tratta di un danno cagionato materialmente dal proprietario del fondo pericolante né di un danno ingiusto (il proprietario può liberamente lasciare che la sua casa cada in macerie). Ecco perché il pretore preventivamente si attiva a tutela del proprietario del fondo minacciato attraverso la stipulatio che in queste circostanze assume carattere condizionale: se il crollo avverrà, ti impegni tu proprietario del fondo danneggiato a risarcire il danno cagionato al proprietario del fondo danneggiato? Una condizione indica un evento futuro ed incerto al cui manifestarsi si attivano le sanzioni dedotte in s. La c. d. i. è una stipulatio conclusa fra il proprietario del fondo pericolante e quello del fondo minacciato a tutela cautelare del proprietario minacciato. Se il crollo avvenisse, il proprietario danneggiato potrebbe esperire azione di condanna nei confronti del proprietario del fondo crollato fondando la sua iniziativa sulla stipulatio. Questa stipulatio è detta pretoria perché: .1 se il proprietario non la attua di sua spontaneità o su invito del pretore, quest’ultimo stabilisce delle conseguenze (detenzione e poi usucapione, come visto sopra) che tutelino in ogni caso il proprietario minacciato. .2 inoltre la cautio, o meglio, il contenuto causale della stipulatio deve essere recepito sullo schema edittale del pretore e senza clausole, trattative etc. Per queste due sole motivazioni la cautio damni infecti è detta stipulatio pretoria anche se i suoi effetti cadono pienamente nel diritto civile. La c. d. i. è applicabile soltanto nei casi di vicinato immobiliare. Inoltre, se preventivamente viene concessa c. d. i., e il danno dovesse realizzarsi, essa non funziona come i moderni contratti di assicurazione per cui il danno che dovesse essere cagionato da cause che fuoriescono dal controllo del prestante la cautio (eventi che sfuggono al controllo del proprietario e non quelli di vizio della costruzione o manutenzione) non devono essere risarciti. Ci sono casi in cui titolari di un unitario diritto di proprietà siano più di una sola persona: si parla in questi casi di comproprietà o condominio. Il codice civile italiano tutela la comunione di proprietà nell’art. 1100 (qualsiasi sia l’oggetto della comproprietà), ma l’art. 1117 tratta in particolare la comproprietà su edifici: pone problemi specifici in merito e va ad integrarsi con l’art. 1139. Proprietario è chiunque possa opporre questo suo diritto esclusivo (acquisito secondo il diritto e nei modi analizzati) erga omnes. Come è possibile, allora, che vi siano più proprietari e come è praticamente conciliabile la situazione? Anzitutto si deve distinguere fra comunione volontaria e incidentale. La prima si ha quando più soggetti si accordano per acquistare la proprietà di un bene; nella seconda, invece, si può cadervi o incidervi senza averlo deciso volontariamente in preventivo. In questi casi, la gestione della cosa (indivisibile) comune si applica pro quota ideale: ciascuno dei proprietari ne dispone (esercita su di essa diritti e doveri) in misura uguale agli altri. Se dovessero litigare fra di loro i comproprietari, si può attivare una soluzione coattiva (processo) che sciolga la comproprietà. il processo formulare prevede l’applicazione della actio communi dividundo che porti ad una adiudicatio. Si tratta pur sempre di un provvedimento del giudice. 17 • parola; • lettere scritte; • accordo. Fonti delle obbligazioni: Gaio afferma che nascono o da contratto (1) o da delitto (2). Con questa ultima dizione non si allude a reati gravi puniti dal diritto penale, bensì a quelli del diritto privato. Nell’ambito delle obbligazioni nascenti da contratto, Gaio afferma che si contraggono: re (consegna di una cosa) , verbis (accordo verbale), litteris (accordo scritto) e consensum (consenso). In Giustiniano si hanno le sole categorie di obbligazione pretoria o civile. Nelle sue istituzioni, si delineano 4 tipologie di obbligazioni: quelle che nascono da contratto, da delitto, da quasi contratto o da quasi delitto. I codici del 1865 (francese ed italiano) richiamano la summa divisio giustinianei; mentre l’attuale codice civile italiano (art. 1173) riprende la triplice divisione gaiana. Le obbligazioni da contratto, dunque, si contraggono in 4 modi: • re: a) mutuo, b) comodato, c) deposito (pegno). a) si carica dell’obbligo il solo mutuatario; l’obbligazione nasce nel momento della consegna materiale dell’oggetto mutuato al mutuatario; b) anche l’obbligazione del comodatario nasce dal momento in cui avviene la materiale consegna della cosa concessa in comodato; c) infine, anche in quest’ultimo caso l’obbligo del depositario nasce con la consegna dell’oggetto a deposito. Se si pensa, come potrebbe avvenire diversamente? Il consenso ci vuole, ma non basta perché un contratto possa perfezionarsi. Quelli elencati sono contratti reali. Essi sono tutti unilaterali, nel senso che l’obbligazione si contrae da un solo lato del contratto; ma sono pure contratti a titolo gratuito, poiché in nessuno di essi deve essere fornita una controprestazione dal momento che non sorge a carico di colui che fornisce la res alcun onere. Essi, inoltre, non sono contratti formali (non servono atti del notaio, con testimoni etc.). Nel diritto romano un contratto ha sempre e soltanto effetti obbligatori e MAI reali (che sono invece quelli di servitù, superficie etc.). • verbis: la stipulatio ne è un chiaro esempio. Si trattava di un istituto largamente diffuso al tempo dei romani ed ancor oggi, il verbo stipulare è molto impiegato. Perché allora, ancora oggi questo verbo è assai utilizzato? E perché al tempo era molto diffusa? Ma soprattutto, perché si contrae verbis (con le parole)? Si tratta di un contratto attraverso il quale un creditore, di fronte a testimoni, chiede al futuro debitore di impegnarsi ad assumere un obbligo, rispondendo adesivamente usando le medesime parole del futuro creditore. Il tutto deve svolgersi in un’unità contestuale di tempo. È un contratto formale. Si obbliga colui che risponde adesivamente alla forma verbale, cui il diritto civile ricollega valore. È gratuito, ma pure multilaterale ed astratto, nel senso che non è causale ovvero, non emerge dalla forma quale che sia la causa per cui essa si contrae. Nei contratti consensuali, il consenso è sufficiente a perfezionare il contratto quali quelli di vendita qualunque modo si manifesti. I contratti di vendita non sono formali. Sono bilaterali perché l’obbligo nasce in capo ad entrambe le parti. È inoltre sinallagmatico, ovvero le due obbligazioni (compra – vendita) sono l’una in funzione dell’altra. Si parla di contratti consensuali nel caso di: • mandato; • compra-vendita; • locazione conduzione • società. Le cose fungibili sono quelle che vengono consegnate misurandole, pesandole, contandole etc. ed il mutuatario dovrà riconsegnare il medesimo quantitativo di merce, oggetto del mutuo. Anche chi riceve un indebito da chi abbia pagato per errore pur non sussistendo un mutuo/ debito, è obbligato “re” a riconsegnare la somma ricevuta erroneamente. Pur non essendoci consenso (non ha natura contrattuale) l’obbligazione si contrae lo stesso. Essa, invero, non si genera neppure per delitto. Il debitore che voglia chiedere indietro la somma di un indebito si 20 avvale della conditio indebiti. Sul piano partitivo, questa obbligazione, mette in crisi la divisione delle obbligazioni proposta da Gaio (contractu vel delictu). Obbligazioni nascono anche da pagamenti spontanei di debiti nell’interesse del debitore (a questo riguardo l’esempio dei due amici, uno dei quali in ferma di leva lontano da casa, che venga raggiunto da un’ingiunzione di pagamento. L’amico che provveda a pagare nei suoi interessi fa nascere un rapporto obbligatorio in capo al compagno militare): queste vengono dette nascenti da gestione di affari altrui. Non è una obbligazione contrattuale perché non sorge da previo consenso fra le parti né tanto meno da delitto. Una terza obbligazione che non nasce né da contratto né da delitto è la tutela. Anche la proprietà condominiale incidentale ottenuta per successione obbliga l’erede non in ordine al contratto o al fatto delittuoso. Anche fra colui che è designato erede nel testamento e colui che nel medesimo è indicato come legatario, insorge un obbligo. In un’opera di indubbia attribuzione (Gaio?) si indicano le obbligazioni come nascenti da contratto, da delitto o da altri casi/atti volti a produrle. I compilatori giustinianei andranno oltre questa partizione, essi indicheranno le obbligazioni nascenti anche da quasi delitto o quasi contratto. Nel diritto romano non esiste una costituzione formale bensì materiale: non esisteva, però, un tramite fra chi presentava la legge e chi ne era destinatario. Il promotore presentava la legge durante i comiti centuriati in cui tutti i cittadini ne votavano l’approvazione o la bocciatura. Al giorno d’oggi c’è un tramite (il Parlamento) che in qualche modo allontana i cittadini dalla formazione legislativa. La legge a Roma era una sorta di communis rei publicae sponsio (come testimonia Papiniano) in cui veniva rafforzata l’intesa fra Stato e popolo romano. All’epoca di Augusto, però, vengono emanate le ultime leggi >>> si passa ai senatoconsulti dal momento che i comizi non potevano più essere convocati a causa dell’elevata popolazione che Roma contava già in quegli anni (circa 600000 abitanti). Il termine lex significa generalmente legge. In realtà, in una accezione più ampia, indica pure il diritto; essa veniva pure concessa alle nuove colonie attraverso statuti (la c. d. lex data). Infine, essa indicava particolari clausole contrattuali (leges contractus) che obbligavano le parti come fossero clausole reali. Nell’ambito delle leges contractus i romani distinguevano fra quelle in continenti e quelle ex intervallo. Le prime erano pattuite in sede di stipulazione del contratto; le seconde pattuite una volta concluso il contratto. Infatti romani affermano che il nudo patto non genera obbligazioni a meno che esso non ricada in casi a cui il diritto civile ricolleghi effetti obbligatori. Così, fra un invito a cena e una compravendita, pur essendoci in entrambi i casi il patto, il diritto civile ricollega effetti obbligatori alla sola compravendita poiché essa ricade sul consenso. Le clausole sono obbligatorie solo se inserite nel contesto del contratto (in continenti). Se invece un ulteriore patto viene concluso al di fuori del contesto contrattuale, questo non ha effetto obbligatorio (ad esempio il patto di dilazione di pagamento fra creditore e debitore non ha effetti obbligatori). Tipicità contrattuale: ogni contratto ha una forma ed una causa pratica tipiche. Con uno sguardo al codice civile italiano attuale, si potrebbe pensare che l’art. 1322 faccia riferimento, almeno al primo comma, alle leges contractus. Il secondo comma, poi, sembrerebbe una ripetizione del 1° ma in riferimento all’art. 1470, si osserva che vengono indicate un numero ristretto e specifico di forme contrattuali. Il sistema vigente in Italia, riassume in sé entrambe le caratteristiche della tipicità contrattuale. Già Ulpiano (III sec. d. C.) afferma, riportando discussioni di Aristone e Celso, che quelle forme di accordo non espressamente nominate da figure contrattuali tipiche sono da considerarsi a tutti gli effetti contratti. Sulla base di queste considerazioni si può analizzare la situazione nella quale due soggetti che non abbiano previamente raggiunto, fondino i loro rapporti su un effetto comunque obbligatorio (causa data causa non secuta) >>> se uno dei due versa all’altro una somma di danaro per l’acquisto di uno schiavo ma l’altro non glielo consegna, può rivolgersi al giudice servendosi della conditio causa data causa non secuta. Se uno lascia in custodia una cosa dietro pagamento si parla di locazione d’opera; se la custodia consente di usare l’oggetto da parte del custode, si parla di comodato. Se si perde una cosa per la quale non si è avuta alcuna contrattazione, colui che viene danneggiato può servirsi di una azione in factum, che si distinguono da quelle in ius (ovvero, azioni conferite a diritti soggettivi 21 cui l’ordinamento civile ricolleghi effetti); esse vengono concesse dal pretore senza che siano previamente inserite nell’editto (actio praescriptis verbis). obbligazioni da deltto: fatto illecito extra contrattuale di diritto privato. Esse sono rappresentate da: • furto (rapporto obbligatorio fra ladro e derubato) • rapina • danneggiamento aquiliano • iniuria [sono figure, alcune come il furto o la rapina, che oggi non ricadono in fonti di obbligazione perché sono disciplinate dal codice penale] Nel nostro ordinamento oggi è rimasto solo il danneggiamento extracontrattuale (2043). Al tempo dei romani il damnum iniuria datum era regolato da una delle pochissime leggi di diritto privato (lex Aquilia, II sec. a. C.); essa non ci è pervenuta integralmente: disponiamo solo di tre capi, ma già il secondo era desueto al tempo di Gaio e si applicavano gli altri due. Perché si potesse applicare la l. A. erano necessari alcuni requisiti: 1. che ci fosse un danno; 2. che ci fosse un rapporto casuale fra il comportamento del danneggiante e il danneggiato (molti di questi comportamenti vennero introdotti dai giuristi); 3. che si trattasse di un danno ingiusto, ovvero la circostanza per la quale il diritto non giustifica il comportamento comunque dannoso del danneggiante. Le azioni da delitto subiscono un regime processuale peculiare. Le c. d. rei persecutoriae hanno lo scopo di ristorare non solo il danno fisico arrecato al derubato ma pure quello morale, che di norma è due volte tanto il primo. Sono azioni intrasmissibili, cioè non esercitabili in capo agli eredi del derubante, a meno che il ladro non muoia dopo la litis contestatio: in questo caso il rapporto obbligatorio si fonda sulla l. c. e non più sull’azione di furto: il derubato può rivalersi sugli eredi. Sono azioni cumulative e contengono la noxea deditio prevista in capo a soggetti alieni iuri (schiavi, filii familia) qualora questi commettano delitto. Tramite essa, al convenuto, padrone del ladro, è consentita una duplice alternativa: o difendere lo schiavo (con il rischio di soccombere e dover risarcire il doppio del dovuto) o dando a nossa lo schiavo all’attore. La l. A. parla di un risarcimento del danno cagionato corpore corpori. Se ci sono casi in cui le circostanze non prevedano azioni formulari, il pretore concede azioni in factum. Il diritto romano classico non ha mai concepito alcuna sanzione contro quel giudice che si fosse accordato con una delle parti per risolvere a suo favore il giudizio. Ancora una volta a colmare una lacuna ci pensa il pretore, emanando la formula: iudex qui fecit suam sententiam. Così pure quelle figure causali non espressamente ritenute capaci / essenziali per generare obbligazioni, che non siano delitti, vengono ritenute capaci di generare obbligazioni. I compilatori giustinianei, però, fanno un passo oltre rispetto ai giuristi gaiani di epoca classica. Osservano che anche quelle varie figure causali non espressamente ritenute capaci di generare obbligazioni siano da considerare tali: quasi delitto e quasi contratto. L’evoluzione del diritto tenderà ad abbandonare questa quadripartizione, tornando a quella gaiana (come emerge dal nostro codice civile). obbligazioni solidali obbligazioni naturali Che cosa succede se io, pater familias, dico a mio figlio in potestà o al mio schiavo di comprare qualcosa? Il mio schiavo va dal venditore e compra, è possibile che ciò si avveri? È possibile che un soggetto in potestà ponga in essere questo contratto? In realtà esso è valido ed efficace purché i due 22
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