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Istituzioni di diritto Romano - prof. Maganzani - Programma non frequentanti, Appunti di Istituzioni di Diritto Romano

Il documento presenta tutto il riassunto dei testi necessari per l'esame di Istituzioni di Diritto Romano. Presenta i libri: 1) Formazione e vicende di un'opera illustre (0-99) 2) Il diritto nell'esperienza di Roma antica

Tipologia: Appunti

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Scarica Istituzioni di diritto Romano - prof. Maganzani - Programma non frequentanti e più Appunti in PDF di Istituzioni di Diritto Romano solo su Docsity! Istituzioni di diritto romano FORMAZIONE E VICENDE DI UN’OPERA ILLUSTRE Il Corpus Iuris nella cultura del giurista europeo Capitolo 1: LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA Da quando, nel 330, Costantino aveva spostato la capitale da Roma a Costantinopoli, la sede degli imperatori d’oriente era sul sito dell’antica Bisanzio. Nei due secoli successivi le due parti dell’impero incontrano sorti diverse: 1) nella pars occidentis la crisi dell’economia (basata solo sui prodotti della terra) aveva provocato il collasso della struttura amministrativa statale 2) Bisanzio invece resisterà fino a che nel 1453 sarà occupata dalle truppe turche di Maometto II il Conquistatore. Le motivazioni del diverso destino sono economiche, politiche e militari, Costantinopoli vantava una raffinata diplomazia, un’efficiente organizzazione militare e un’agricoltura migliore rispetto all’occidente (Polis per eccellenza, dopo la Roma repubblicana e imperiale). Il trasferimento della corte a Costantinopoli aveva segnato il passaggio all’era cristiana. Roma ormai era vista come la città del paganesimo destinata alla decadenza e Costantinopoli invece come quella ancora non contaminata dai culti pagani. Per questo gli imperatori d’oriente si sono considerati per secoli gli unici degni eredi del grande impero romano classico, rivitalizzato dalla luce di Cristo. Pienamente conscio di questo ruolo è Giustiniano (imperatore d’oriente dal 527 al 565), in funzione della dichiarata universalità di Roma, persegue: - con le armi la riconquista dell’occidente - con la diplomazia l’unità della fede e la pace religiosa - con la grande compilazione giuridica, il riordinamento del diritto. Nella praefatio della constitutio Deo auctore, Giustiniano parla di successi militari, che però si rivelano essere effimeri. Dopo 3 anni dalla morte di Giustiniano: 1) con l’invasione dei Longobardi gran parte dell’Italia fu perduta, 2) i Visigoti reagirono e, a 40 anni dalla morte di Giustiniano, la dominazione bizantina in Spagna fu annientata e 3) l’Africa resistette fino all’invasione araba del VII secolo. In campo religioso Giustiniano tentò un accordo con la chiesa di Roma, per questo si impegna in una lotta contro i monofisiti; in seguito tenta di conciliare questa dottrina con quella dei duofisiti, per influenza di Teodora (moglie di Giustiniano). Questo compromesso non andava bene al papa Vigilio, ma Giustiniano lo obbliga ad accettare questi risultati emersi dal concilio di Costantinopoli (553 d.C.). La vittoria però è solo apparente perché i successori di Vigilio ignorarono i risultati del concilio. L’unica vera vittoria di Giustiniano è stata dunque il riordinare il patrimonio giuridico precedente. Corpus iuris civilis Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus nasce nel 482 d.C. in Dardania da una famiglia di modeste condizioni. Si perdono le tracce fino al 518 quando alla morte di Anastasio I diventa imperatore Giustino, zio di Giustiniano. Da subito il nipote ottiene posizioni importanti e collabora nella politica imperiale (riavvicinamento al papato romano, al regno gotico in Italia e rifiuto delle tendenze monofisite di Anastasio). 1 524-5 Giustiniano sposa Teodora, ex attrice, che lo influenzerà molto per tutta la sua vita; il matrimonio viene celebrato alla morte di Eufemia, moglie di Giustino, che era decisamente contraria. Il primo aprile 527 Giustiniano assume il titolo di Augusto e la co-reggenza dell'impero d’oriente. Da subito Giustiniano si impegna nel diritto: 529 Codex (=prima raccolta di costituzioni imperiali), 533 Digesto(/Pandette, = frammenti scelti della giurisprudenza classica) e Istituzioni (= trattato giuridico elementare per studenti), 534 seconda edizione del Codex e 535-565 Novellae (= successiva legislazione giustinianea). Prima fase - Digesto, Codice e Istituzioni Seconda fase (535-541/42) - Novellae Terza fase (543-565) - Novellae, tuttavia la produzione è più scarsa per la scomparsa dei suoi migliori aiutanti. ➢ Il primo Codice Giustiniano rende noto questo progetto al senato il 13 febbraio 528, con la costituzione “Haec quae necessario”: pubblicazione di una raccolta ordinata di costituzioni imperiali, che sia per gli operatori del diritto una base certa e imprescindibile per la ricerca della norma da applicare nei diversi casi. Questo perché c’era uno stato di confusione, nonostante le raccolte preesistenti. La commissione era composta da: 1. Giovanni, ex quaestor sacri palatii 2. 6 funzionari/ ex funzionari (tra cui Triboniano) 3. Teofilo, professore di diritto a Costantinopoli e comes del consistorium imperiale 4. due togati 5. avvocati patrocinanti presso il tribunale del prefetto del pretorio La raccolta deve essere composta di leggi concise e certe, dunque i commissari possono modificare i testi legislativi, eliminandone la praefationes, le ripetizioni, le contraddizioni e le norme desuete, inoltre sono autorizzati a fare aggiunte, tagli, modifiche dei testi, chiarirne il significato e a ordinare le leggi in titoli. ➢ I Digesta Sono le opere dei giuristi classici (si esauriscono nel III sec. d.C.); in epoca post-classica costituivano diritto vigente e utilizzabile in giudizio. Seppur fossero un numero di testi limitati si trovavano in uno stato di confusione totale, Giustiniano decide di risolvere con l’avvio di una raccolta ordinata di frammenti dei giuristi. Lo emana con la constitutio Deo auctore del 15 dicembre 530, indirizzata a Triboniano (quaestor sacri palatii). La composizione della commissione è affidata a Triboniano, che la presiede, esso può scegliere tra professori e avvocati del foro della capitale imperiale. Il testo viene diviso in 50 libri divisi in titoli, sono presenti gli aggiornamenti necessari e le modifiche opportune per eliminare antinomie e ripetizioni, non dovrà essere oggetto di commentarii che ne confondono il significato e il testo deve essere immune da abbreviazioni e sigle che ne rendano più difficile la lettura. Fu pubblicato nel 533 (con la costituzione bilingue Tanta o Dédoken). Si compone di frammenti dotati di un’inscriptio con l'indicazione dell’autore e dell’opera. ➢ Le Institutiones Opera giuridica elementare in 4 libri che vuole fornire agli studenti una descrizione chiara e sintetica dei primi rudimenti del diritto. Pubblicata il 21 novembre 533 con la constitutio Imperatoriam, indirizzata alla cupida legum iuventus. Gli autori sono: Triboniano e due professori del diritto, Teofilo di Costantinopoli e Doroteo di Berito. Il manuale, nonostante la funzione didattica, assume vero e proprio valore normativo, questo per i riferimenti ad istituti giuridici sconosciuti al diritto classico. ➢ Il Codex repetitae praelectionis 2 comitia e dei concilia plebis, sostituiti gradualmente da senato e principe. Anche in età repubblicana il ruolo della legislazione comiziale a regolare materie di diritto privato fu usata in via meramente eccezionale. Con lo sviluppo del commercio terrestre e marittimo, nasce la necessità di accostare al diritto riguardante i cives, anche uno che potesse gestire i rapporti tra questi e gli stranieri, lo ius gentium. Esso fu il risultato del confluire di elementi di diversa origine. Molti istituti romani furono, ad esempio, adattati per essere applicabili anche ai peregrini. La trasformazione di questo insieme di regole consuetudinarie, in contrapposizione allo ius honorarium, fu possibile grazie all’istituzione del praetor peregrinus nel 242 a.C. e la diffusione del processo formulare, accessibili anche ai peregrini. Il pretore peregrino, volendo tutelare i rapporti fondati sulla fides, un tipo di formula d’azione in cui l’organo giudicante era istruito a giudicare secondo la buona fede. § IUS HONORARIUM (Def. provvisoria) Ius honorarium = insieme di regole giuridiche scaturite dall’attività giurisdizionale dei pretori e degli altri magistrati romani titolari di iurisdictio. Il magistrato non può creare ius civiles, ma può contribuire a migliorare la sua applicazione nel pratico, come detto da Papiniano quando spiega la distinzione tra ius civile e ius honorarium. Per comprendere lo ius honorarium espresso da Papiniano e la portata degli edicta magistratuali, serve capire i meccanismi del processo formulare romano. Processo formulare romano LEGIS ACTIONES Già presente negli antichi mores, ma arricchito poi dalle XII tavole e da leggi successive. Si occupava solo di controversie tra i cives. Prevedeva 6 schemi di azione fissi, a seconda della pretesa, a cui corrispondevano altrettanti formulari fissi che il magistrato e le parti dovevano pronunciare alla lettera (mutando solo i nomi e la controversia). Le più antiche sono: - Legis actio per sacramentum in rem: esercitata dal pater familias per far valere i suoi poteri sui sottoposti (ogni tipo). Si parla di sacramentum perché il magistrato si basava sul giuramento delle parti, esse dichiaravano che avrebbero versato una certa somma di denaro nell’erario se la propria pretesa non fosse risultata fondata. Il giudice non si dichiarava direttamente sulla questione, bensì indirettamente decretando quale fosse il sacramentum iniustum. - Legis actio per manus iniectionem: tipica azione esecutiva mossa contro il iudicatus (colui condannato al pagamento di denaro in un giudizio precedente), contro il confessus (colui che confessa in iure un debito di denaro) e contro taluni debitori “speciali” previsti dalla legge. Il sottoposto veniva sottratto al processo se in iure un terzo (vindex) si opponeva all’esercizio della manus iniectio perché ingiustificata, dopo aver ascoltato il creditore. Ciò costringeva il creditore ad agire nei confronti del vindex (probabilmente usando la legis actio per sacramentum in personam). Le XII tavole introdussero la legis actio per iudicis arbitrive postulationem→ per la divisione di eredità e cose comuni, o per vincoli derivanti da sponsio. 5 Nel III sec. a.C. la lex Silia e Calpurnia introdussero la legis actio per condictionem → per i crediti di somma certa di denaro e di cosa determinata. Legis actio per pignoris capionem → attribuiva ai titolari di una pretesa avente carattere sacrale o pubblico un potere di pignoramento sui beni del debitore. Quando nel III sec. a.C. Roma è diventata potenza politica ed economica del Mediterraneo, fu necessario predisporre un’adeguata predisposizione giuridica. Nel 242 a.C. al praetor urbanus (che si occupava solo dei rapporti tra cives), si accostò anche il praetor peregrinus, titolare di iurisdictio nelle controversie fra cives e peregrini, o tra peregrini. Si utilizzò un nuovo sistema per formulas adeguato alla situazione. In realtà probabilmente il praetor urbanus con il suo imperium aveva già iniziato a ius dicere anche a favore e contro gli stranieri, elaborando i primi rudimenti della procedura. Il nuovo sistema per formulas non era basato sui mores, ma solo sull’imperium del magistrato. Era definito per formulas perché il magistrato, all’inizio, ascoltata pretesa ed eventuale difesa, redigeva la c.d. formula dove erano indicati il nome del giudice incaricato e i dettagli della controversia. Con la litis contestatio le parti si accordavano sul contenuto della formula e si impegnavano a sottostare alla decisione del giudice privato scelto da loro, che risolveva la lite nella seconda fase del processo (era vincolato alle risultanze della formula). Inizialmente legis actiones e per formulas coesistettero, ma Gaio nelle Institutiones informa che nel 130 a.C. con l’emanazione della lex Aebutia iniziò ad essere usato indipendentemente il processo formulare. Ci sono due letture: la prima (Wlassak) dice che dopo la proclamazione di detta legge, i cives potevano scegliere quale strada seguire; la seconda (Kaser, Biscardi) sostiene che detta legge si limitò a sopprimere la legis actio per condictionem, sostituendola dalla condictio certae rei e certae pecuniae formulare. La soppressione definitiva della legis actio avvenne con la lex Iulia iudiciorum privatorum di Augusto nel 17 a.C. Titolari di iurisdictio a Roma erano i pretori urbani, peregrini e edili curuli (limitatamente a liti nei mercati e alle lesioni corporali causate da animali in luogo pubblico). Nelle provincie la esercitava soprattutto il governatore provinciale. Ciascun magistrato all’inizio del mandato redigeva un editto con il programma della sua attività giurisdizionale. In realtà in pratica spesso il magistrato finiva per usufruire dell’editto redatto dal suo antecedente, creando un nucleo tralaticio di clausole e formule, comune a tutti gli edicta perpetua, detto edictum tralaticium. In ogni caso nell’anno di carica ogni magistrato poteva emettere gli edicta repentina per le fattispecie che non erano state prese in considerazione. Intorno al 130 d.C. sembra che l’imperatore Adriano abbia affidato a Salvio Giuliano il compito di riordinare e fissare il contenuto degli edicta dei pretori e degli edili curuli. I Digesta ce ne riportano numerosi frammenti. La dottrina romanistica oggi si serve della ricostruzione di Lenel. Fin da quanto il nuovo processo fu utilizzabile anche per le controversie tra cives, nell’editto del pretore erano in primo luogo inserite le formule elaborate sulla base delle legis actiones e ne recepivano le parole essenziali. Si parla di azioni civili, a tutela di situazioni giuridiche fondamentali sullo ius civile. Il pretore si limitava a riportare nell’editto le formule, senza aggiunta di altre precisazioni. Le azioni potevano essere -in rem (esercitabili da chi si affermasse titolare di un diritto reale su una cosa, contro chiunque mettesse in atto un comportamento lesivo di tale diritto) o -in personam (esercitabili contro una determinata persona titolare di un dovere giuridico civilistico, oportere). Es. di azione formulare in personam: condictio certae pecuniae (esercitata per fare valere un diritto di credito per somma certa di denaro, sorto in seguito a stipulatio o a mutuo). Quando questa azione 6 sorgeva da mutuo assumeva il nome di actio certae creditae pecuniae, ma la struttura formulare era invariata. Nell’editto vi erano le formule dei c.d. iudicia bonae fidei, relativi a rapporti sorti nella pratica commerciale e fondati sulla buona fede, protetti per la prima volta con l’arrivo del processo formulare. Anch’essi rientravano nella categoria delle azioni civili e il pretore si limitava a inserirne la formula nell’editto, senza indicazioni sulle modalità d’esercizio. Il pretore peregrino tutelò i rapporti sorti nel commercio internazionale, fino a quel momento non riconosciuti, congegnando formule accomunate dal fatto che oggetto di oportere civilistico a carico del convenuto non era prestazione certa, ma ciò che il giudice riteneva rientrare negli obblighi del convenuto sulla base del rapporto fra attore e convenuto e del principio fondamentale della buona fede che regolava i rapporti. Il pretore svolgeva la funzione di adiuvare, supplere, corrigere il ius civile, in questo senso fondava e costituiva un sistema giuridico parallelo, il ius honorarium. In seguito fu introdotta dal pretore l’azione in factum, che implicitamente riconosceva il rapporto di deposito, fino a quel momento improduttivo di effetti giuridici, in quanto imponeva al giudice di condannare il depositario in caso di mancata restituzione dolosa del bene depositato. Da ciò non sorge un oportere (obbligo civilistico) perché il pretore non è fonte idonea a crearne uno, tuttavia di fatto attribuiva al depositante la protezione giurisdizionale di cui aveva bisogno. Vi sono anche formule pretorie fittizie: il pretore estendeva a rapporti sconosciuti al diritto civile la tutela di una situazione giuridica civilistica, usando lo strumento della fictio. Es. Actio Publiciana, concessa dal pretore a chi, avendo acquistato un bene a non dominio (da chi non ne era reale proprietario) o avendo ricevuto una res mancipi attraverso traditio, ne sia stato poi privato da terzo che ne ha attualmente disponibilità di fatto. Il pretore per ragioni di equità tutela comunque, come fosse effettivamente dominus. Ciò fu possibile grazie alla finzione che l’acquirente, dopo il trasferimento della cosa, l’avesse posseduta per un anno, ciò che per diritto civile gli garantiva l’acquisto della proprietà per usucapione. Anche le azioni con trasposizione di soggetti erano pretorie, dunque nella formula dove c’era l’intentio dell’attore figurava come parte del rapporto un determinato soggetto, ma un altro destinatario della condanna/assoluzione. E’ un tipo di formula usato nel caso di rapporti contrattuali conclusi da schiavi o filii familias (titolari di capacità d’agire, ovvero di compiere atti giuridici, ma non di capacità giuridica, dunque di essere titolari di diritti e obblighi, spettanti solo al pater familias). Andava tutelato chi stringeva rapporti con filii familias o schiavi. Considerato che sarebbe stato iniquo responsabilizzare in questi casi il dominus/pater familias, il pretore congegnò particolari formule nelle quali si enunciava la pretesa e il suo fondamento, accompagnato dal nome dell’effettivo contraente, tuttavia nella parte finale, dove veniva invocato il giudice, era indicato il nome del dominus/pater. Quest’ultimo non era condannato nei limiti del peculio dello schiavo o del figlio, invece lo era per l’intero se lui stesso aveva preposto lo schiavo o il filius ad un determinato commercio, nell’ambito del quale era sorta la lite. Es. formula institoria, tanti tipi di formule institoriae quanti erano i contratti che il sottoposto poteva stipulare. Talvolta il pretore correggeva il ius civile impedendo che una certa pretesa, tutelata in sede civilistica, fosse protetta nel processo, in quanto non ritenuta più meritevole di tutela. I mezzi utilizzati sono: 1. denegatio actionis - il pretore la usava per rifiutare, qualora ci fossero certi presupposti, la concessione di un’azione se considerata iniqua (es. denegatio dell’azione esercitabile dal patrono contro il liberto per ottenere adempimento di promesse troppo onerose estortegli da schiavo); 2. exceptiones - clausole edittali inseribili nella formula, con cui il convenuto chiedeva che il giudice tenesse conto di un fatto, la cui prova avrebbe bloccato la pretesa dell’attore, costituendo condizione negativa della condanna. Integrazione e completamento della normativa civilistica venivano realizzati dal pretore anche attraverso cautiones o stipulationes praetoriae: in certe situazioni previste dall’editto, il pretore sollecitava i soggetti a concludere una stipulatio al fine di poter concedere, in caso di inadempimento di questa da parte del 7 Nel II sec. d.C. fra i giuristi-funzionari emergono Ulpio Marcello (del consilium di Antonio Pio e Marco Aurelio) e Quinto Cervidio Scevola (del consilium di Marco Aurelio). Fu allievo di quest’ultimo Emilio Papiniano (diventò anche prefetto del pretorio), ma anche Giulio Paolo (membro del consilium di Settimio Severo e Caracalla, anch’esso adsessor del prefetto del pretorio Papiniano). Stesso ruolo lo assunse Domizio Ulpiano (consilium di Alessandro Severo). Di poco successivo, Marciano che scrisse 16 libri di Institutiones. Ultimo giurista classico è Modestino, praefectus vigilum. La ricostruzione della presumibile struttura originaria delle opere giurisprudenziali classiche è stata realizzata nel 1889 da Otto Lenel in Palingenesia iuris civilis. § LA TRADIZIONE DEI TESTI DELLA GIURISPRUDENZA CLASSICA DAL III SEC. D.C. A GIUSTINIANO La giurisprudenza romana che gli studiosi identificano come “classica” si esaurisce nella prima metà del III sec. d.C., sia (1) a causa della mancanza di una giurisprudenza letterariamente attiva, sia (2) per l’estinguersi della funzione nomogenetica svolta dai prudentes, attraverso il loro operare sul piano tecnico-giuridico e il respondere de iure. Dalla metà del III sec. i prudentes vengono sostituiti dalla cancelleria imperiale. La sorte degli scritti rimarrà oscura da ora ai Digesta giustinianei, che cercano di raccoglierne estratti. Anche al di fuori del Digesto, sono pervenute alcune operette post-classiche che raccolgono frammenti, ma ne è dubbia l’autenticità. Tra questi ci sono: Pauli sententiae, Tituli ex corpore Ulpiani, Fragmenta Vaticana, Mosaicarum et romanarum legum collatio (che compara le opere mosaiche desunte dal Pentateuco e quelle romane, rappresentate da frammenti giurisprudenziali e costituzioni imperiali), Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, Fragmenta Augustodunensia, Epitome Gai e Scholia Sinaitica. Il fatto che solo il Digesto, nel concreto, ci da testimonianza della giurisprudenza classica, incuriosisce gli studiosi e pone il problema sulla tradizione testuale delle opere dei giuristi romani, in quanto non si sa quanto siano state alterate. Wieacker rinvigorisce questa ricerca, sotto sono trattate alcune conclusioni. La sorte degli scritti letterari e quella degli scritti giuridici variava, i primi venivano lasciati quanto più possibile inalterati; al contrario i secondi, a causa della loro utilità pratica, venivano se necessario modificati o rimaneggiati. Tra il III e il IV secolo avvenne una rivoluzione nella tecnologia letteraria, ossia il passaggio dal rotolo di papiro al codex (di papiro o pergamena). Fino a quel momento i fogli di pergamena a Roma erano utilizzati solo per usi spiccioli, non per la pubblicazione di opere letterarie e giurisprudenziali. Dunque l’uso della pergamena è proprio da ricondurre ai codices (usati per la prima volta in età flavia, 69-96, ma diffusi solo nel II secolo). Inizialmente la pergamena non si estese alla letteratura, ma esclusivamente agli scritti cristiani. Venne destinata alla letteratura meno dotta e più umile, a causa del minor costo e della maggior comodità di lettura. Il codex poi si diffuse sempre di più, nel frattempo il cristianesimo, che da molto lo prediligeva, aveva progressivamente instillato l’idea della sacralità del libro e della subordinazione del fedele ai suoi contenuti. Per lo stesso motivo nella giurisprudenza, l’uso del codex si legava ad una reverenza per i testi scritti che si accompagnava alla necessità di imporre l’osservanza assoluta del loro contenuto. Le opere della giurisprudenza vennero sistematicamente copiate su codices, il che ha comportato una selezione, perlopiù venivano copiati i grandi commentari ad edictum e ad Sabinum, conseguentemente la letteratura giurisprudenziale anteriore ai Severi uscì dal circuito. Dato che spesso le grandi opere venivano divise in più rotoli, si iniziò dal IV secolo ad utilizzare la stessa tecnica anche con i codices, per 10 mantenere la ripartizione precedente. Di qui la diffusione di edizioni parziali di singole opere, con titoli a sé stanti e propria numerazione. Con la constitutio Antoniniana del 212 (cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero) e la conseguente applicazione generale del diritto romano, si accrebbe la richiesta di testi di iura da parte degli avvocati e dei tribunali provinciali. Ciò provocò la riedizione delle opere precedenti e, qualora fosse necessario, il loro adattamento alla pratica. L’autorità scientifica degli scritti della giurisprudenza classica nel IV secolo spinse gli studiosi dell’epoca a parafrasare ed epitomare le singole opere, ma talvolta addirittura a compilare opere ed attribuirle a giuristi antichi. Questi interventi furono dovuti all’opera dei maestri delle scuole postclassiche, ma anche all’influenza esercitata dal diritto volgare (adattamento e deformazione del diritto romano nella pratica). Il fluttuare della tradizione tese ad attenuarsi quando, con Costantino, il potere centrale cominciò ad occuparsi della salvaguardia dell’autenticità dei responsa prudentium. Tali interventi però non bastarono, come dimostrano le Pauli Sententiae (che rimangono ampiamente rimaneggiati). Solo dalla seconda metà del IV secolo la tradizione testuale della giurisprudenza classica divenne più stabile. L’introduzione della lingua greca nell’insegnamento, avvenuta tra 380 e 420, rendeva il testo più difficile da rimaneggiare. Si iniziò perciò a preferire la strada della sintesi, piuttosto che quella della modifica. Nel 426 venne introdotta la legge delle citazioni di Valentiniano III, volta a mettere ordine nel sistema di recitatio in tribunale dei testi giurisprudenziali classici → per la citazione di giuristi diversi da Papiniano, Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino, occorreva, oltre all’espresso riconoscimento da parte di uno di questi della loro autorità, la codicum collatio (esibizione dei relativi manoscritti). Ciò portò le opere degli altri giuristi a non circolare più in occidente. § METODO DI COMPILAZIONE DEL DIGESTO Giustiniano sottolinea la difficoltà di compilazione del Digesto, ma mai sottolinea le modalità utilizzate. Lo studio dell’organizzazione del lavoro della commissione presieduta da Triboniano investe un problema di fondo degli studi umanistici: la nostra conoscenza della letteratura giurisprudenziale classica dipende quasi interamente dalla selezione effettuata dai compilatori di Giustiniano. Su questo tema si basa lo studio di Bluhme (“L’ordine dei frammenti nei titoli delle Pandette”). La sua idea si basa su due osservazioni: ● i frammenti si presentavano di regola divisi in tre gruppi e nei titoli questi gruppi di frammenti erano divisi in ordine sparso; ● in ogni gruppo la sequenza dei testi tratti dalle diverse opere giurisprudenziali, salvo eccezioni, è costante. Ciò fa pensare che per spogliare l’immenso materiale si siano divisi il lavoro in 3 sottocommissioni, ognuna delle quali prendeva in considerazione un gruppo di opere da cui estrarre frammenti. Ogni gruppo di opere è detto “massa”. I. Massa sabiniana - raggruppa opere di diritto civile, con prevalenza dei commentari ad Sabinum. II. Massa edittale - comprende soprattutto commentari all’editto pretorio. III. Massa papinianea - contiene opere casistiche, soprattutto di Papiniano, giurista del III a.C. (responsa e quaestiones). IV. Appendix - comprende i testi il cui spoglio è iniziato in una fase successiva e dunque quando i primi libri erano già stati completati. 11 E’ poi possibile che dopo il titolo si trovi un frammento introduttivo che si discosta dal tema di fondo e che nella conclusione della massa ci sia la “coda”, ovvero un testo estraneo all’ordine. Bluhme descrive nel seguente modo il metodo seguito dalla commissione. 1. I compilatori divisero in tre parti tutti gli scritti da spogliare e si separarono in tre comitati. Ogni comitato leggeva per fila gli scritti che gli toccavano, i libri che trattavano degli stessi argomenti venivano letti vicini e in contemporanea. Si confrontavano col Codice giustinianeo, e ciò che era stato estratto per le future Pandette si poneva sotto una qualche rubrica, che bisognava mutare dal Codice o dall’Editto o, in caso di necessità, dallo stesso scritto spogliato. Ora si collazionava ciò che era stato messo nella stessa rubrica e si cancellavano ripetizioni ed estirpavano contraddizioni, con anche trasposizioni qualora l’argomento lo richiedesse. 2. Quando i comitati finirono il loro lavoro, con le tre raccolte di spogli si crearono le Pandette. Ad ogni titolo fu posta quella raccolta per base che forniva i frammenti più numerosi o più lunghi. Con essa si confrontavano le raccolte più piccole, cosicché venissero cancellate ripetizioni o contraddizioni e furono aggiunti supplementi, disposizioni più precise e massime generali. Infine ciò che non era stato ancora inserito e nemmeno cancellato, fu posto in coda della raccolta prima, e precisamente così, che per regola decidesse il numero dei frammenti quale collezione dovesse nel mezzo del titolo e quale alla fine. La scoperta delle masse da parte di Bluhme destò subito generale consenso, fino a quando ottant’anni dopo Hofmann sostenne l’irrealizzabilità in soli tre anni di un’opera del genere, considerata anche la situazione politica (532 ribellione di Nika: tumulto scoppiato nel circo, che degenerò in un movimento volto a sostituire Giustiniano con Ipazio). La tesi di Hofmann, poi chiamata tesi del “Predigesto”, trovò accoglienza negativa fino all’inizio degli anni ‘20, quando la supportarono fonti molto autorevoli. Questi ultimi, pur accettando i risultati di Bluhme, ipotizzano l’esistenza di compilazioni post-classiche, pratiche o scolastiche, costituite da catene di passi, che avrebbero agevolato il lavoro dei compilatori, evitando loro parte dello spoglio diretto dei testi. Venne poi formulata l’ipotesi Cenderelli, secondo cui in età giustinianea ci fu il rinvenimento, negli archivi imperiali, di una schedatura di iura già divisi per masse, risalente al primo progetto codificatorio di Teodosio II, o di un’intera biblioteca di opere giuridiche risalente al IV sec (ipotesi Pugsley). Purtroppo però l’idea dei predigesti, basata unicamente sulla velocità di compilazione, fu negata o ridimensionata da studiosi come Verrey e Mantovani, questo perché nei Digesta si trova una grande regolarità con cui i titoli si susseguono nelle masse e, solo in presenza di deviazioni è possibile pensare all’esistenza di corpi estranei, mentre l’80% è secondo ordine. E’ necessario poi citare l’ipotesi di Honoré che è fondata su rilievi di carattere numerico. Egli ipotizza che ogni sottocommissione fosse composta da 2 commissari stabili (6 totali, ossia i quattro antecessores, Triboniano e il comes sacrarum largitionum Costantino) che si sarebbero divisi lo spoglio della propria massa, e che ad essi, per compiti particolari, venissero accostati gli 11 avvocati della commissione. Questa idea della divisione del lavoro trova prove nell’escerpimento e nella struttura delle masse. L’ipotesi però fu confutata nel 1985 da Osler, attraverso analoghi e opposti rilievi numerici, che hanno attestato configurabilità diverse da quella prevista. Inoltre Mantovani osserva che Honoré ha basato le sue indagini su dati meramente ipotetici proposti da Bluhme. Anche Mantovani fornisce direttive sulla compilazione, egli sostiene che le prime ad essere consultate furono le opere di contenuto generale, autorevole e già note, che consentivano la realizzazione della struttura fondamentale della compilazione. La restante bibliografia fu organizzata per insiemi di opere fortemente omogenei. Infine i compilatori si sono occupati delle opere specialistiche che sembravano più indicate per ogni materia. 12 correttori fosse latino, in più sembra probabile che la Fiorentina fosse in Italia già in antichità, dunque il codice potrebbe essere rinvenibile nei centri bizantini italiani (Napoli o Ravenna). Norr ha suggerito l'ipotesi che la Fiorentina fosse una “non ancora perfezionato esemplare di Digesta”, dunque che i compilatori avrebbero redatto la Fiorentina nel corso dei loro lavori, salvo apportarvi poi le necessarie modifiche o correzioni. Concorda però con Lowe sulla collocazione dello scritto ed anche sul fatto che siano state aggiunte varianti da autori in diverse fasi. Nei manoscritti della tradizione vulgata le inscriptiones dei frammenti sono riportate integralmente soltanto nei codici più antichi, spesso le limitavano al nome dei giuristi. I termini greci riportati in forma scorretta nei testi antichi sono poi stati sostituiti dal latino. La divisione in paragrafi fatta dalla scuola bolognese non è ancora definita alla fine del XII secolo, Mor suggerisce che sia poi stata rivista e sistemata da Azone. Le edizioni scritte del Digesto utilizzate nelle università sono perlopiù manoscritti della Vulgata. Il Digesto è diviso in ¾ volumi: Digestum vetus, Digestum Infortiatum, Tres Partes (poi unite all’Infortiatum) e Digestum novum. Studiosi del XVI secolo come Augustin e Torelli erano convinti che la Vulgata derivasse direttamente o indirettamente dal manoscritto fiorentino e che quindi le varianti fossero dovute ad errori dei copisti. Altri sostenevano che essa derivasse da un manoscritto diverso; altri ancora che soltanto alcune parti derivassero dalla Fiorentina. In effetti la Vulgata presenta spesso lezioni migliori o aggiunte, dall’altra parte molti errori sono comuni. In più nei manoscritti della Vulgata l’ordine di successione degli ultimi fogli del Digesto ricalca quello erroneo della Fiorentina. Savigny ipotizzava che i glossatori bolognesi possedessero più manoscritti originali del Digesto diversi dalla Fiorentina, e che la Vulgata costituisse una tradizione manoscritta ottenuta dai glossatori correggendo la Fiorentina con questa littera vetus, che diventerà poi il testo ufficiale della scuola di Accursio. Una volta consolidata la littera Bononiensis, la littera vetus fu smarrita. Mommsen invece fa risalire i codici della Vulgata ad un testimone perduto, che chiama Codex Secundus, manoscritto completo e diviso in 3 parti che sarebbe stato copiato dalla Fiorentina, arricchito con glosse e richiami alle Istituzioni e corretto sulla base di un codice perduto diverso dalla FIorentina. Tale supposizione però spingeva Mommsen a tralasciare, nella sua edizione critica dell Digesto, gran parte dei manoscritti bolognesi, fondandosi essenzialmente sulla Littera Florentina e sui soli codici più antichi della Vulgata, ciò è una grave manchevolezza. Kantorowicz propose però un’integrazione alla sua idea, secondo lui infatti le numerose e spesso intelligenti emendazioni del Codex Secundus da cui trasse origine la tradizione medievale del Digesto risalirebbero ad Irnerio: ciò significa creare un’equivalenza fra la scoperta del Digesto e la rinascita bolognese. Conclusione rifiutata da Mor che invece faceva derivare il Codex Secundus non dalla Fiorentina, ma da un archetipo della fine dell'VIII secolo, corretto sulla base di questa ben prima dell’età irneriana, di conseguenza retrodatando la conoscenza del Digesto. Studi recenti hanno infine condotto il Radding a retrodatare l’inizio della circolazione del Digesto al terzo quarto del XI secolo, nell’ambito della scuola longobardistica di Pavia, dove i giuristi avrebbero corretto la Fiorentina introducendo quelle emendazioni riscontrabili nei manoscritti della Vulgata. Le edizioni del Digesto attualmente utilizzate dagli studiosi del diritto romano sono: editio maior (Berolini) e minor di Mommsen. Le Institutiones di Giustiniano e i metodi di insegnamento del diritto dall’età tardo-repubblicana a quella giustinianea Con la pubblicazione delle Institutiones Giustiniano intendeva fornire una trattazione sistematica del diritto destinata all’insegnamento, ma anche dotata di valore legislativo. Constitutio Omnem del 533: (sulla riforma dell’insegnamento) precisa che le Institutiones rappresentano il manuale introduttivo del 15 nuovo corso di studi giuridici, necessario per affrontare la successiva trattazione casistica, ovvero l’esame dei frammenti giurisprudenziali contenuti nel Digesto e delle costituzioni imperiali. Le Istituzioni sono il risultato di una lunga evoluzione della didattica giuridica iniziata in età repubblicana, furono per secoli un’imprescindibile modello per la formazione del giurista. Excursus sui metodi di insegnamento romano In origine l’educazione dei giovani aristocratici romani si svolgeva all’interno della famiglia, fino a 7 anni attraverso la madre ed in seguito attraverso il padre, il quale comunicava al bambino gli ideali di vita e le regole della convivenza sociale fondate essenzialmente sul mos maiorum. 7-16 anni il ragazzo (praetextatus) indossava la toga listata di porpora e seguiva il padre in ogni occasione sociale e religiosa, ma anche in senato. A 16 anni, indossata la toga virile, veniva affidato ad un cittadino eminente per fare esperienza politica, tirocinium fori (in teoria durava un anno, ma spesso i giovani continuavano a seguire nel foro il personaggio a cui si erano affidati), dopo di che cominciava il servizio militare, tirocinium militiae. L’educazione romana fin dall’origine tendeva ad infondere nella coscienza dei ragazzi un sistema rigido di valori morali, di riflessi sicuri, uno stile di vita. Questo è l’ideale della città antica, fatto di sacrifici, di rinuncia, di dedizione totale della persona alla comunità. Nel III-II secolo a.C. la parte filoellenica del ceto senatorio, che voleva assicurare ai propri figli lo stesso livello culturale dei provinciali sottomessi, favorì a Roma la formazione di scuole di tipo ellenistico (rette da privati, ma aperte al pubblico): scuola primaria del litterator o ludi magister, che insegnava ai bambini 7-11 anni a scrivere, leggere e far conti. La Lex metalli Vipascensis (epigrafe trovata nel 1876) descrive l’ordinamento interno del distretto minerario di Vipasca, in Lusitania, nel II secolo d.C., stabilisce l’immunità fiscale per i maestri impegnati. Al contrario aveva carattere elitario la scuola secondaria del grammaticus, che impartiva ad allievi 12-15 anni l’insegnamento della grammatica e della letteratura in preparazione alla retorica, fino alla fine del I secolo d.C. veniva usato solo il greco. I testi venivano analizzati in questo modo: - praelectio, introduzione del maestro; - lectio, lettura ad alta voce da parte degli allievi; - enarratio, spiegazione parola per parola degli aspetti grammaticali e contenutistici, in questa occasione, se necessario, si parlava di materie come la storia, la musica o la geografia, che altrimenti non erano toccate; - iudicium, giudizio estetico. In seguito alla scuola secondaria esclusivamente gli uomini si davano all’educazione retorica, il ragazzo veniva introdotto alla materia attraverso esercizi preliminari (progymnasmata), imparava, anche per mezzo di arringhe pubbliche, nella duplice forma delle: 1. suasoriae, retorica deliberativa su fittizie questioni di coscienza 2. controversiae, difese o requisitorie fittizie. L’insegnamento retorico fu inizialmente impartito in greco, probabilmente per mantenere il carattere elitario, già proprio dell’insegnamento secondario, di un'istruzione che apriva le porte del successo politico ed elettorale. Infatti quando nel I sec. d.C. fu aperta a Roma una scuola di retorica in latino, ne fu subito disposta la chiusura, attraverso un linguaggio apparentemente etico, seppur realmente politico l’oligarchia senatoria intendeva bloccare sul nascere il tentativo di estendere l’insegnamento retorico. Scuole di retorica in latino furono poi aperte con Cesare, ma l’indirizzo era già segnato, l’educazione oratoria rimase sempre elitaria, anche perché preceduta dall’insegnamento bilingue del grammaticus. Il sistema didattico delineato fino ad ora rispecchia fedelmente, ma al contrario l’insegnamento del diritto costituisce una manifestazione peculiare ed originale della cultura latina. Con la generazione di Cicerone, l’utilizzo della tecnica diairetica o divisoria tipica della dialettica aristotelica, anche nella formazione dei responsi dei giuristi, non potè che riflettersi sull’insegnamento, strettamente collegato, all’attività pratica respondente. Ciò appare evidente in un passo del De Oratore in cui Cicerone, probabilmente riferendosi alla formazione giuridica degli oratori, auspica, nel diritto come in ogni scienza, l’impiego di categorie sistematiche, perché è ciò che caratterizza un’ars. Non si sa se tale 16 riorganizzazione sistematica delle categorie giuridiche sia stata effettivamente effettuata a breve termine, anche se Pomponio nel Liber singularis Enchiridii sottolinea la novità dell’utilizzo, da parte di Quinto Mucio, di classificazioni sistematiche nello studio del diritto civile. Sicuramente, almeno nelle Istituzioni di Gaio, il diritto civile venne spiegato con chiarezza e semplicità annullando classificazioni sistematiche. Almeno per il II secolo d.C. è attestata da Gellio la presenza di centri di insegnamento del diritto organizzati e specializzati che svolgevano contemporaneamente attività respondente, in cui forse l’insegnamento veniva impartito sia attraverso preliminari trattazioni istituzionali, sia attraverso l’ascolto delle consulenze e l’esegesi degli scritti giurisprudenziali precedenti dotati di maggiore autorità. Non si può escludere che trattazioni giurisprudenziali didattiche appuntate dagli allievi siano poi circolate come opere originali del maestro, Quintiliano stesso diffida i lettori dall’utilizzo di un’edizione delle sue opere tratta dagli appunti degli allievi. Non si sa se queste scuole di diritto fossero, come quelle di retorica a partire da Vespasiano, finanziate dalla cassa imperiale. Un’ingerenza dell’imperatore nella didattica giuridica è tuttavia probabile, nel senso che i giuristi impegnati in quest’ambito erano comunque quelli graditi all’imperatore. In ogni caso il potere imperiale si impegnò sempre, in genere, in una politica di sostegno della scuola e dell’istruzione, così da assicurare la continuità del bagaglio culturale della tradizione, preparando i quadri destinati all’apparato della burocrazia imperiale e all’attività forense. La prova di radicazione del sistema di istruzione tradizionale si ricava dalla posizione dei cristiani, che dopo un primo atteggiamento di rifiuto ed isolamento rispetto alla tradizione letteraria e filosofica classica, almeno dal III sec. d.C. frequentarono le scuole dei pagani fino ad arrivare ad insegnarvi. L’esigenza di conoscere i canoni retorici della pedagogia tradizionale aveva il fine di comunicare con la stessa efficacia i nuovi valori del cristianesimo. Alla progressiva divisione della pars orientis e della pars occidentis dell’impero, si accompagnò, tuttavia a partire dalla seconda metà del IV secolo, una tendenziale e sempre più marcata scissione dell’unità culturale greco-latina: in occidente cominciava a declinare la lettura dei testi greci in originale, in oriente lo studio della lingua latina sopravvisse soltanto nelle grandi sedi. (1) In occidente la tradizione scolastica classica perdurò fino ad un'età compresa fra la fine del VI e la metà del VII secolo. Il declino incominciò da regioni periferiche dove le invasioni barbariche determinarono, insieme con il venir meno dei sussidi statali e municipali. (2) Più roseo il futuro dell’Africa vandalica, dove Cartagine mantenne, sia sotto la dominazione barbarica sia in epoca giustinianea, una tradizione scolastica classica che perdurò fino alla presa di Cartagine da parte degli Arabi. (3) In Italia, dopo la caduta dell’impero d’occidente (476 d.C.) con la deposizione di Romolo Augustolo (generale di Odoacre), inviando le insegne imperiali a Zenone (imperatore d’oriente) lo riconosceva unico imperatore e richiedeva per sé la sola ammirazione. Ma Zenone, timoroso che le mire di Odoacre fossero altre, spinse Teodorico (re degli Ostrogoti nella Mesia inferiore) a invadere l’Italia. Teodorico si impadronì di Ravenna e gli stessi barbari pur accelerando la decadenza dell'organizzazione dello stato romano, furono da una parte assorbiti nel sistema culturale romano, dall’altra convertiti alla fede cristiana. Cassiodoro, per anni una delle massime autorità politiche del governo gotico e ha redatto gli atti ufficiali di corte documentando, nei 12 libri delle Variae, la sua lunga attività di amministratore nutrito di cultura classica ed di diritto romano. Quando, dopo il 540 e la fine della dominazione gotica in Italia, divenne chiara l’irrealizzabilità di un regno gotico romanizzato, ritiratosi in Calabria, dove fondò il monastero di Vivarium, Cassiodoro organizzò una comunità dedita alla conservazione e alla trascrizione dei libri antichi, contribuendo a salvare il patrimonio letterario dell’antichità classica. Anche il secondo grande intellettuale dell’Italia gotica, Boezio, intraprese una prestigiosa carriera politica, ma venne incarcerato e giustiziato per ordine di Teodorico. Egli perseguì un intento di restaurazione della cultura filosofica classica dominando con le sue opere il campo degli studi filosofici fino alla filosofia scolastica di San Tommaso. Durante il regno di Teodorico (493-526) si ebbe una vera e propria rinascita degli studi con la rivitalizzazione delle cattedre statali di Roma, molto frequentate anche da studenti provinciali. Giustiniano, dopo la riconquista dell’Italia dai Goti nel 554, con la Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii ordinò il pagamento regolare degli stipendi a medici, grammatici, oratores e iurisperiti. 17 forme costituzionali il suo potere, lo fece attraverso una serie di atti costituzionali emessi dall’anno dopo. Nel 27 a.C. Ottaviano fece mostra di rinunciare a ogni suo potere, restituendo l’amministrazione dello stato agli organi del governo repubblicano, ricevendo così il titolo di Augusto. I poteri imperiali vennero ridefiniti quando nel 23 aC il senato gli conferì: - tribunicia potestas, che comprendeva il diritto di porre veto negativo agli atti di assemblee e magistrati, quello di usare la forza per indurre all’obbedienza, quello di presiedere le assemblee di plebe e senato e l’inviolabilità; - imperium proconsulare, che attribuiva il potere di coordinare le prerogative e le funzioni dei governatori provinciali, con le attribuzioni degli organi centrali della civiltà romana, fra l’ordinamento cittadino e quello provinciale. Progressivamente Ottaviano, e anche i suoi successori, assunsero i titoli di Princeps (che indica un primato generale), Imperator (titolo onorifico assunto dal generale per acclamazione dei soldati dopo una rilevante vittoria e prima del trionfo) e Augustus (che mette in rilievo la felicità costante delle azioni promosse dal principe, elevandolo al di sopra della media umana ma senza divinizzarlo). Anche i poteri costituzionali furono poi trasmessi integralmente ai successori attraverso la lex de imperio, nella quale i giuristi individuavano il fondamento della potestà dell’imperatore. Sia Gaio che Ulpiano considerano i singoli tipi di costituzioni imperiali (edicta, decreta, epistulae, rescripta e subscriptiones) come atti normativi dotati di valore legislativo. Di queste edicta e mandata erano costituzioni imperiali a carattere generale, in linea di principio non avrebbero dovuto sopravvivere alla morte dell’imperatore stesso. Fino all’equiparazione, nel II secolo, di tutte le costituzioni alle leggi con conseguente inclusione fra le fonti civilistiche, gli edicta, formalmente equiparati agli editti magistrali, potevano influire in ambito privatistico soltanto creando un sistema parallelo al diritto civile che si accostasse senza modificarlo. In effetti si realizzò in primo luogo con la realizzazione dello ius extraordinarium, che comprendeva tutti gli istituti, privi di tutela civilistica, riconosciuti e giurisdizionalmente protetti dal solo imperatore nel nuovo sistema della cognitio extra ordinem. Nonostante le affermazioni di principio sui limiti formali della produzione normativa imperiale, di fatto già nel I secolo dovevano essere, in ragione della supremazia imperiale, legittimate deviazioni dai principi costituzionali repubblicani a cui il principe formalmente si richiamava. La stessa deviazione in ambito criminale, ampliava la portata di crimina già previsti e puniti attraverso il sistema delle quaestiones, invadendo il campo tradizionalmente della legislazione comiziale. I mandata, invece, erano istruzioni imperiali, fondate sull’imperium proconsulare maius et infinitum, rivolte sia ai funzionari, sia ai governatori delle provincie senatorie. Il loro contenuto, destinati a fissare funzioni e compiti inerenti alle singole cariche, si venne col tempo fissando in corpora mandatorum stereotipi, che indicavano ai funzionari entranti in servizio le competenze del relativo ufficio. Costituzioni imperiali a carattere particolare invece sono: decreta, epistulae, rescripta. I decreta sono le sentenze pronunciate dal princeps in qualità di giudice, in primo grado o in appello, in un giudizio di qualsiasi tipo, spesso alla presenza del suo consilium. Tale potere conferiva alla sua sentenza un’autorevolezza superiore a quella di qualsiasi giudice. D’altra parte l’imperium consolare era un potere tendenzialmente generale che riassumeva in sé tutto l’imperium di pace e di guerra senza limitazioni. Su questa base Augusto inizia a giudicare su domanda di parte, in materia civile e criminale, la nuova procedura venne chiamata cognitio principis. Dapprima il princeps giudicava in primo e unico grado, il giudizio di secondo grado o d’appello divenne sua prerogativa soltanto in seguito alla diffusione di cognitiones non imperiali, in cui la causa celebrata era decisa extra ordinem da magistrati, questa servì ad affiancare a rimedi ordinari, anche rimedi nuovi, talvolta più agili e comprensivi. Inoltre funzioni giudiziarie vennero col tempo istituzionalmente attribuite a funzionari imperiali (es. praefectus urbi e prefetto del pretorio). 20 Egualmente correlate al processo sono le risposte scritte del princeps su una determinata questione giuridica relativa a un caso concreto, emesse in seguito a richiesta di privati (libelli, preces) o di magistrati e funzionari (epistulae). Rescriptum → il privato interessato, rispetto ad un qualsiasi processo, poteva presentare istanza all’imperatore in un giorno di udienza, attendendo l’affissione della risposta imperiale, scritta in calce alla domanda e detta quindi rescriptum. Tale struttura voleva consentire al giudice della causa il controllo della conformità tra i fatti annunciati nei libellus e posti alla base del rescriptum, e i fatti verificati dal giudice in sede di giudizio. Epistulae → con esse l’imperatore risolveva la questione di diritto controversa secondo la prospettazione del caso fatta dal funzionario/magistrato interessato, il quale poi procedeva nell’esercizio delle sue funzioni adeguandosi al parere dell’imperatore. Se questi ultimi incidevano sul piano dello ius honorarium, il principio giuridico nuovamente fissato non diveniva vincolante di per sé, ma veniva attuato attraverso interventi giurisdizionali dei magistrati titolari di iurisdictio. Sempre questi ultimi trovano la massima espansione con Adriano che riorganizzò gli uffici (es. a cognitionibus, ab epistulis, a libellis) della cancelleria imperiale, affidandoli non più a liberti dell’imperatore ma a funzionari di rango equestre. Soltanto i casi nuovi e difficili erano discussi alla presenza dell'imperatore. Questo spiega la progressiva sostituzione, per la soluzione dei casi concreti, dei rescripta e delle epistulae ai responsi giurisprudenziali. Nel III secolo le costituzioni imperiali diventano unica fonte produttiva di nuovo diritto, pur rimanendo in vigore forme non più vitali. Fin dalla fine del III secolo ci furono tentativi di ordinare una raccolta unitaria di costituzioni imperiali (codice di Gregoriano, Codex Hermogenianus, Codice Teodosiano p 98). Il codice teodosiano rimase in vigore fino alla pubblicazione del primo codice giustinianeo, tuttavia per il principio di personalità del diritto c’erano altri tipi di codici: lex romana Wisigothorum (contiene per intero le costituzioni dei 3 codici pre giustinianei) e lex romana Burgundionum. 21 IL DIRITTO NELL’ESPERIENZA DI ROMA ANTICA Per un’introduzione alla scienza giuridica Capitolo 2: concetti e linguaggio IL CORPUS IURIS CIVILIS DA GIUSTINIANO ALLE CODIFICAZIONI OTTOCENTESCHE: BREVE RESOCONTO DI UN VIAGGIO MILLENARIO Giustiniano era originario della Dardania (tra le attuali Macedonia e Albania), vi era nato nel 482 d.C. da famiglia modesta, tuttavia nel 518 suo zio Giustino divenne imperatore, e lui il suo successore, rimase imperatore d’Oriente fino al 565. Salito al trono all’età di 42 anni, Giustiniano mise subito mano alla sua opera più duratura: il riordinamento del diritto ereditato dal passato di Roma, cosciente che si presentava “talmente confuso che non ci fosse umana natura capace di comprenderlo”. Emanò nel 529 il primo Codex Iustinianus, che comprendeva le costituzioni imperiali, rieditato poi con un secondo codice nel 534. Quest’ultimo era diviso in 12 libri, a loro volta divisi in titoli con apposita rubrica e conteneva costituzioni a partire da Adriano. Seguì nel 533 la pubblicazione del Digesto, contenente testi della giurisprudenza classica, e delle Istituzioni, manuale elementare in 4 libri per l’insegnamento del diritto. In questi pochi anni si concluse la fase delle grandi compilazioni, a cui seguì quella molto più lunga della legislazione novellare: infatti fino alla morte dell’imperatore furono emesse molte costituzioni, mai raccolte ufficialmente e dunque che mai subirono interventi di massimizzazione ed emendazione. II.1. La sorte della compilazione giustinianea dopo la morte di giustiniano Giustiniano nel suo lungo regno era riuscito nell’intento di ricostruire il grande impero della Roma classica riconquistando gran parte dei territori che erano finiti in mano ai regni barbarici, anche se tali conquiste si rivelarono effimere. L'impero d’Oriente abbandonò le sue mire sull’Occidente per ripiegarsi nell’area del mar Egeo e dell’Asia minore, lasciando spazio per la progressiva formazione del Sacro Romano Impero, culminata con l’incoronazione di Carlo Magno. Per questo motivo anche la codificazione giustinianea fu perlopiù ricacciata in Oriente dove rimase alla base dell’insegnamento universitario e del diritto applicato. Al contrario, in Occidente la conoscenza della compilazione e delle sue rielaborazioni bizantine si mantennero soltanto nelle terre rimaste legate a Bisanzio. La legge romana continuò ad essere vigente oltralpe nella forma ridotta delle leggi romano-barbariche che recepivano perlopiù i contenuti della codificazione teodosiana, ma la stessa compilazione giustinianea almeno in Italia continuò a circolare attraverso compendi ed epitomi. Venne invece meno totalmente l’insegnamento specialistico del diritto, che venne rimesso ai religiosi, che organizzarono scuole presso i monasteri e le sedi vescovili, dove la grande eredità culturale di Roma venne trasmessa nelle 7 arti liberali (trivium e quadrivium). Il diritto fungeva soprattutto da complemento a materie come grammatica, retorica e dialettica. II.2. La scuola dei glossatori L’autonomia didattica del ius romanum fu invece la grande novità della rinascita degli studi giuridici nella seconda metà del XI secolo a Bologna (con Pepo o Pepone, poi Irnerio, sul versante canonistico con Graziano), il diritto cominciò ad essere considerato come un insegnamento superiore da impartire a studenti già educati alle arti del trivio secondo le tecniche della logica e della dialettica aristotelica. Si tornò così alla lettura diretta e integrale dei testi giustinianei. Nacque e si diffuse la scuola dei glossatori, indirizzo di studi così denominato per l’utilizzo sistematico della glossa. L’interpretatio doveva partire dal testo, chiarine il significato, restringerlo, estenderlo e 22 copernicano inserito in un’ampia serie di fenomeni fisici entro la sfera della legge gravitazionale, egli convinse dell’imprescindibilità di un approccio scientifico e sistematico alla realtà sensibile. Così all’umanesimo che aveva di fatto sostituito all’auctoritas dei testi medievali quella dei testi classici, subentrò un nuovo ideale di conoscenza fondato sull’autonomia della ragione, sui procedimenti sintetici propri delle scienze esatte e sull’idea di sistema. Così si comprende sia il progressivo esautoramento della tradizionale autorità del Corpus iuris sia i nuovi tentativi di esprimere il diritto vigente, secondo ragione, in sistemi organici in sé compiuti e ordinati. Alla forma esegetica tipica della scienza giuridica sin dai suoi primordi, si affiancò quella sistematica, la cui compiuta realizzazione avrebbe fornito ai giuristi dei secoli XVIII e XIX gli strumenti concettuali necessari al superamento definitivo dello ius commune e alla sua sostituzione con le codificazioni civilistiche. La tendenza si era già manifestata con Grozio in settori nuovi ma privi di regolamentazione positiva (diritto internazionali, quello dei traffici commerciali e quello dei nascenti imperi coloniali. Wolff elaborò un sistema così dettagliatamente da contribuire in modo sostanziale al radicamento dell’idea moderna che la soluzione dei casi pratici non potesse che essere logicamente dedotta dai principi. Ciò spiega perché alcuni concetti cardine della dogmatica odierna siano nati proprio dall’esperienza del giusnaturalismo. I contenuti del Corpus iuris costituirono la base delle sistematizzazioni giusnaturalistiche e delle nuove formulazioni dogmatiche e non solo perché poteva essere creato nulla poteva essere creato dal nulla in un modo caratterizzato dal predominio del diritto romano, ma anche per la sostanziale concordanza fra i principi romani e quelli del diritto naturale. Alla naturale bipartizione diritto civile-canonico si sostituì un piano di studi frazionato in diverse discipline (es. diritto pubblico, penale sostanziale, processuale, locale e naturale). L’insegnamento del diritto naturale fu impartito per la prima volta 1660 da Pufendorf nella facoltà di filosofia, ma fu poi esteso a quella di diritto da Thomasius. Nel giro di pochi decenni, alla vecchia lectio, fondata sulla lettura dei testi della tradizione si sostituì progressivamente la moderna lezione, intesa come rappresentazione organica del diritto; alle dispute dei bartolisti si sostituirono i seminari; all’uso del latino, la lingua nazionale (prima ad Halle, poi a Göttingen). In Francia non si istituirono cattedre di diritto naturale, ma su iniziativa di Luigi XIV, vennero introdotti corsi di diritto francese relativi alle coutumes, alle ordonnances regie e alla giurisprudenza dei parlamenti, tenuti da professori regi. Tutto questo trasformò il diritto romano da disciplina onnicomprensiva a materia di insegnamento esclusivamente privatistico, spesso impartito in un corso istituzionale fondato sulla tripartizione giustinianea persone-cose-azioni e in un corso specialistico di Pandectae che seguiva l’ordine legale giustinianeo. Le teorizzazioni dei giusnaturalisti non mancarono di fare presa sui primi tentativi di codificazione: ALR 1794 (Diritto territoriale comune per gli Stati Prussiani) e Code Napoléon del 1804. II.7. La codificazione napoleonica In Francia dove già la monarchia aveva limitato l’influenza diretta del Corpus iuris e dell ius commune sulla prassi sancendo la superiorità formale delle fonti del diritto consuetudinarie, l’illuminismo e la rivoluzione francese ne determinarono il definitivo declino. Già durante gli anni rivoluzionari si era tentato di creare un sistema di leggi che superasse la tradizione e desse sanzione ufficiale ai nuovi principi. L’idea fu ripresa nel 1804 dal Code Napoléon, tutt’ora vigente, che fu un ottimo compromesso tra l’antico patrimonio giuridico e le nuove idee illuministiche e liberali imperanti. Il modello francese poi si estese in Belgio, Olanda, zone tedesche a sinistra del Reno e Italia, così diede inizio al processo di codificazione del ius tipico del XIX secolo. La nuova codificazione francese segnò anche il superamento del giusnaturalismo a favore della concezione positivistica. Ne derivò il completo esautoramento del ius commune come fonte del diritto, ma anche il divieto rivolto al giudice e alla dottrina di rifarsi ai principi romanistici nell'interpretazione della legge, al giudice doveva competere la mera individuazione e applicazione della norma adatta al caso concreto. Si parla della scuola dell’esegesi, con particolare riferimento al gruppo dei civilisti ottocenteschi 25 che privilegiavano la forma del commentario articolo per articolo della normativa codicistica sforzandosi di basarsi sulla sola lettera del testo. II.8. La scuola storica tedesca Il caso della Germania fu molto diverso, questo perché la debolezza del potere imperiale a fronte dell'influenza dei potentati locali aveva sempre impedito la nascita di una monarchia di area tedesca, rendendola più che altro una confederazione di entità territoriali minori. Ma le guerre napoleoniche e l’occupazione francese fecero scoppiare fra i ceti intellettuali, universitari e liberali quei sentimenti nazionalistici che erano rimasti per tempo sopiti: celebre esempio è Fichte (a favore della lingua e della cultura tedesche come fondamenti primi dell’unità nazionale. Dopo la caduta di Napoleone, con il congresso di Vienna ridisegnò la mappa dell’Eu creando la Confederazione germanica di trentanove stati. Inizialmente la politica conservatrice del cancelliere austriaco Metternich ebbe l’effetto di bloccare la diffusa propensione verso l’unificazione nazionale, ma la nuova borghesia radicatasi a partire dal 1830 sollecitò l’approvazione di misure di unificazione economica del paese, radicalizzando le spinte liberali verso l’unificazione politica. Ciò portò ai moti del 1848 e condusse all'unificazione della confederazione tedesca sotto l’egemonia prussiana, alla divisione dall’Austria e alla proclamazione nel 1871 dell’Impero tedesco. Durante questo lungo periodo il diritto romano aveva progressivamente perso la sua legittimazione di diritto imperiale e, nei territori che si erano via via dotati di autonoma codificazione, aveva perso anche la sua qualifica di diritto sussidiario. La corrente dominante delle facoltà giuridiche degli ultimi decenni del XVIII secolo era diventata la Scuola filosofica, risalente a Wolff, che si proponeva di disporre tutto il diritto vigente in un ordine sistematico con metodo matematico. L’elaborazione di una Parte generale del diritto privato, cioè di una serie di definizioni e principi giuridici generali, costituenti l’alfabeto di ogni giurista, ma anche la formulazione della distinzione fra diritto sostanziale (somma di diritti e doveri del soggetto) e diritto processuale (tutela di tali diritti). In tale contesto, secondo alcuni esponenti dei ceti intellettuali (Thibaut) il COdice napoleonico avrebbe dovuto essere preso ad esempio per una nuova codificazione unitaria ottenuta tramite un accordo fra i principi tedeschi. Ma all’idea giusnaturalista Savigny (1779-1861), padre della Scuola storica tedesca, oppose la convinzione che il diritto positivo di ogni nazione dovesse essere un insieme di istituti e regole giuridiche ad essa peculiare, oggetto di una formazione spontanea e progressiva ad opera del Volksgeist. Ciò corrispondeva agli ideali del romanticismo. Herder (autore del manifesto dello Sturm und Drang) vedeva nella storia un grandioso processo di perfezionamento dell’umanità verso forme di vita sempre più complesse, realizzato attraverso la libera espressione delle singole individualità. Il diritto positivo di ogni nazione venne considerato da Savigny come un organismo vivente, caratterizzato diacronicamente da un’evoluzione perenne, sincronicamente dalla correlazione e reazione reciproca fra le sue varie parti. Savigny sosteneva la necessità della formazione di una scienza giuridica e di un ceto di specialisti capaci di padroneggiarla, mentre una codificazione avrebbe avuto l’effetto di stabilizzare nel mondo tedesco un diritto ormai asfittico e decaduto. Da qui la nascita per Gustav Hugo e lo stesso Savigny della scuola storica tedesca, il cui programma consisteva nell’elaborazione sistematica di una scienza del diritto tedesca attraverso la rivalutazione e l’approfondimento delle sue componenti storiche. Fra queste componenti deve essere privilegiata quella romanistica, mentre la germanica rimase in origine in una posizione subordinata. Ne derivò un notevole impulso agli studi di diritto romano e una spiccata tendenza alla costruzione dogmatica di un sistema giuridico elaborato da giuristi colti ma idoneo ad essere trasfuso in una codificazione positiva, liberato dalle degeneri incrostazioni del ius commune: il diritto romano avrebbe consentito di collegare il pensiero giuridico odierno ai suoi fondamenti storici, ma avrebbe anche funto da viatico per un incontro proficuo fra tutti i giuristi delle nazioni di tradizione romanistica. Questo secondo versante della metodologia della scuola storica venne coltivato più dai successori di Savigny, in particolare da Puchta in “Pandekten” (da cui la denominazione di “pandettistica”). Ne derivò 26 l’elaborazione di un sistema compiuto ed organico di principi, concetti e regole giuridiche, che si rivelò vicino alla più pura tradizione giusnaturalistica e tese di regola a mantenersi estraneo ad ogni istanza extra-giuridica. Massima espressione di ciò è Windscheid <<considerazioni etiche, politiche o economiche non sono competenza del giurista in quanto tale>>. Fu la vittoria della Giurisprudenza dei concetti fondata sulla fiducia positivistica della completezza del sistema giuridico. Il sistema giuridico così creato costituiva tuttavia un sistema fisso, astratto e insensibile ai problemi sociali, che suscitò la critica di Jhering che sarebbe poi sfociata nella Giurisprudenza degli interessi. Egli infatti visse in pieno l’epoca del declino degli ideali romantici e degli interessi storico-eruditi tipici dell’impostazione savignana a favore della tendenza più prettamente sistematica della scuola e a tale tendenza egli dapprima aderì, poi si fece più forte in lui il disagio verso un metodo che non consentiva una spiegazione storica e dinamica del fenomeno giuridico. In un’opera egli manifestava l’esigenza di distinguere l’anatomia del diritto dalla fisiologia. Nell’opera Lo scopo del diritto partendo dall’idea che scopo dell’agire umano è il soddisfacimento dei propri bisogni, Jhering costruì un sistema nuovo in cui gli istituti giuridici venivano considerati come strumenti ideati dall'uomo per il raggiungimenti di tale finalità e classificati sulla base della funzione economico-sociale che svolgevano, del bisogno che soddisfavano e della giustificazione che li rendeva adeguati. La sua critica rimase isolata e la Scuola storica, nata in antitesi al giusnaturalismo, con la Pandettistica finì per rappresentarne un’evoluzione: dimostrato sia dalla comune tendenza verso una sistematica scienza giuridica fondata sul metodo induttivo e deduttivo, sia l’utilizzo di concetti giuridici già utilizzati dai giusnaturalisti, sia il riferimento alle fonti giustinianee come base. Inoltre come il giusnaturalismo aveva influito sulle codificazioni prussiana, austriaca, francese, così la Pandettistica gettò le basi per il Codice civile tedesco. Questo comportò nella didattica giuridica la generale soppressione dei corsi di diritto naturale e la bipartizione dei corsi di diritto privato in diritto privato romano e diritto privato germanico. Progressivo passaggio verso un tipo di insegnamento basato perlopiù sull’illustrazione esaustiva del sistema giuridico, in assenza di contatti con la pratica. Anche gli studi romanistici tesero da quel momento a cambiare indirizzo: la ricerca storico-giuridica cominciò ad emanciparsi dalla sistematica, sviluppando interessi prettamente antichistici o dedicandosi alla comparazione fra il diritto romano e i sistemi giuridici di altre civiltà antiche. II.9. La situazione italiana La situazione italiana è peculiare. Sia i Codici preunitari sia il primo Codice civile dell’Italia unita (1865), avevano conseguito il modello del Codice napoleonico, di conseguenza la civilistica italiana aveva di regola accolto la metodologia della Scuola dell’esegesi importata dalla Francia. Ma dalla seconda metà del XIX secolo, su iniziativa di studiosi cresciuti in Austria (Serafini), le nuove istanze della scuola storica e della pandettistica iniziarono a divulgarsi, con l’intento di costruire sulla base della storia un sistema giuridico rigoroso da applicare nel presente. Tale collegamento fra diritto romano e diritto civile si manifestò particolarmente nei corsi universitari dove i contenuti del diritto privato giustinianeo furono intesi come indispensabile premessa ai corsi civilistici.Ne derivò a cavallo fra i due secoli un’ambivalenza tra diritto positivo rappresentato dal Codice civile del 1865 di matrice francese e una scienza giuridica improntata alla pandettistica. Se la fine della vigenza positiva del ius commune in Eu a seguito della codificazione tedesca ebbe l’effetto di stornare gli interessi della romanistica italiana dalla sistematica in favore di studi prettamente storico-giuridici, tuttavia nelle università il diritto romano privato, considerato il diritto per eccellenza della tradizione giuridica patria, continuò ad essere insegnato nella forma dogmatica della pandettistica. Novità nell’insegnamento in Italia si ebbe nel 1885 con l’introduzione di Storia del diritto romano, nel corso del ‘900 si estese a materie di diritto pubblico, costituzionale e amministrativo, finora di dominio esclusivo degli storici. 27 sottolineano a più riprese che ‘pubblico’ in senso stretto è solo ciò che concerne la res publica populi Romani, mentre le comunità sono dotate di un’organizzazione interna e propri rappresentanti. III.5. Diritto sostanziale e diritto processuale Le norme giuridiche possono essere di diritto sostanziale o di diritto processuale, intendendo con il primo l’insieme delle regole dettate dall’ordinamento per disciplinare i rapporti fra soggetti (diritto sostanziale), con il secondo l’insieme di regole atte a predisporre la tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche (diritto processuale). La dottrina tedesca fra Ottocento e Novecento e quella italiana nei primi decenni del ‘900, hanno elaborato il concetto di azione come categoria generale atipica, di regola la tutela giurisdizionale viene assicurata a chiunque si affermi titolare di un diritto sostanziale riconosciuto come tale dall’ordinamento, indipendentemente da una norma che attribuisca, per il diritto che si assume violato, una specifica azione. La suddetta distinzione era sconosciuta nel mondo romano, dove le azioni erano di regola tipiche, cioè specifiche e nominate per ciascun diritto fatto valere, ed era addirittura riconosciuti al pretore il potere di introdurre nel suo editto una nuova formula di azione per tutelare una situazione giuridica fino a quel momento non tutelata. Infatti in età classica, ai magistrati dotati di iurisdictio spettava il ius edicendi: in base ad esso all’inizio dell’anno di carica il magistrato emanava un editto giurisprudenziale nel cui poneva i provvedimenti, tra questi c’erano in particolare formule che potevano essere civili (già previste dallo ius civile) oppure pretorie (di diretta creazione magistrale). Esso poteva poi anche concedere con decreto una formula specifica al richiedente senza che questa fosse riportata sull’editto, azione decretale. Oggi, come si è detto, il principio generale della tipicità dell’azione può dirsi superato. III.6. Il soggetto di diritto Si è già detto che al centro del sistema giuridico vi è il soggetto di diritto, ossia la persona riconosciuta dall’ordinamento come capace di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive, attive (es. diritto soggettivi) o passive (es. obblighi). Soggetto di diritto è prima di tutto la persona fisica: con la nascita acquista oggi la capacità giuridica, intesa come la capacità di essere titolare di diritti e obblighi. Al contrario egli diviene capace di agire soltanto quando sia in grado di curare autonomamente i propri interessi, normalmente con la maggiore età. Soggetti di diritto sono anche le persone giuridiche, ossia che abbiano acquistato la capacità giuridica. Eppure si tratta di categorie elaborate non prima del XVIII secolo, quando a partire dall’esperienza del giusnaturalismo, il diritto (soprattutto privato) venne organizzato in un sistema logico in funzione dell’individuo. In ambito francese, particolare influenza per l’avvio del processo che avrebbe portato al riconoscimento legislativo della soggettività giuridica come attributo naturale, fu la riflessione di Domat (1625-1696), l’autore infatti riconobbe che i principi naturali fondamentali da cui l’intero sistema doveva logicamente discendere erano già contenuti, pur in modo disorganico e confuso, nelle opere giuridiche romane, in particolare nel famoso frammento ulpianeo nel Digesto di Giustiniano, che indicava come praecepta iuris proprio l’honeste vivere, alterum non ledere e suum cuique tribuere (dare a ciascuno ciò che gli è dovuto). Per Domat era essenzialmente privato anche il diritto naturale, essendo invece il diritto pubblico una regolamentazione perlopiù arbitraria, mutevole e variamente dipendente dalla situazione politica del singolo momento storico. Innovando rispetto alla tradizione, egli sottolineò che rilevanti per il diritto privato erano soltanto le qualità naturali delle persone. Questa distinzione fra privato-naturale e pubblico-arbitrario ebbe l’effetto di minare dalle fondamente l’idea tradizionale di origine romana che non l’uomo in quanto tale fosse centro di imputazione di situazioni giuridiche, ma soltanto quell’individuo che l’ordinamento ritenesse tale. Era il primo passo verso la solenne affermazione dell’art. 1 della Dichiarazione dei diritti umani dell’uomo e del cittadino del 1789 per cui << tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti>>, nonché del principio nell’art. 8 del Codice napoleonico del 1804 30 che dice <<godimento dei diritto civili da parte di tutti i Francesi>>, esteso, pur in condizioni di reciprocità, anche agli stranieri. La categoria del soggetto di diritto, ma anche quelle connesse ai diritti soggettivi, alla capacità giuridica e alla capacità di agire, furono il portato della riflessione scientifica della dottrina tedesca del XVIII-XIX. Furono invece i pensatori dell’età moderna (per primi Hobbes e Leibniz) a modificare il significato del termine ‘soggetto’, indicando con esso l’essere umano senziente. Da qui il definitivo capovolgimento, in particolare con Kant e l’idealismo tedesco, dei significati tradizionali di subiectum-obiectum, che vennero da quel momento riferiti rispettivamente al pensiero cosciente e alla realtà esistente e pensata, e il corrispondente trapasso dell'espressione subiectus nel lessico specialistico del diritto, dapprima con Leibniz e Wolff, poi con la pandettistica tedesca. Il soggetto divenne così il centro del sistema giuridico, edificato a partire dalle capacità (giuridica e di agire), dall’attività e dalla volontà. Da qui anche la reinterpretazione del termine latino capacitas, dal significato antico di capienza-attitudine, a quello tecnico di idoneità di un soggetto ad essere o a compiere. Conseguenza di ciò fu l’introduzione della categoria del diritto soggettivo nelle due forme del diritto assoluto (diritto reale) e relativo (diritto di credito). Ulteriore conseguenza fu l’estensione della qualifica di ‘persona’ a soggetti diversi dagli esseri umani (c.d. persona giuridica), ciò iniziò con i canonisti del Trecento che vollero identificare come persona l‘universitas della Chiesa, e poi con Savigny che considerò quella equiparazione come il risultato non più di un’opera meramente dottrinale ma di una finzione giuridica. Il mondo romano conosceva il concetto generale di ‘persona’, tuttavia, a definire la posizione della persona nei suoi rapporti con i terzi, concorrevano diversi elementi che, variamente combinati, ponevano in essere situazioni anche differenziate tra loro. Se è vero che agli stranieri, fin dalla media repubblica, il diritto romano fu reso applicabile nelle forme dello ius honorarium e del ius gentium, è vero anche che la titolarità delle situazioni giuridiche dello ius civile vetus rimase sempre patrimonio esclusivo dei cittadini romani. Inoltre fin dall’inizio dell'impero, ebbe luogo un graduale processo verso il riconoscimento ai filii familias, infatti soltanto chi fosse sui iuris (=indipendente da una potestà paterna) godeva di piena capacità giuridica. Un’analoga complessità riguarda la capacità di agire: gli stesso filii familias e anche gli schiavi, furono considerati, quando avessero raggiunto l’età pubere, capaci di compiere atti giuridici, con la precisazione tuttavia che i rispettivi effetti sarebbero ricaduti sul pater o dominus. Questo forse spiega perché a Roma non si sia sentita la necessità né dell’istituto odierno della rappresentanza diretta, né di una regolamentazione compiuta ed unitaria delle persone giuridiche, rispondeva già per certi versi la struttura della familia. C’è un altro aspetto però per cui le categorizzazioni del diritto odierno rischiano di tradire i principi riconoscibili nella concreta operatività del diritto romano: parlando di ‘soggetto di diritto’ come di colui che è titolare di diritti soggettivi, si tradisce almeno in parte il modo di vedere dei giuristi romani, i quali, non a caso, parlavano più volentieri di actio in rem e actio in personam piuttosto che di diritto reale e personale. Oggi si ragiona essenzialmente in termini di ‘diritto sostanziale’, nel senso che, in primo luogo, la legge prevede e riconosce tali diritti e, solo in secondo luogo, fissa le modalità per la loro tutela giurisdizionale; nel mondo romano classico invece accadeva spesso che fosse il pretore a tutelare in via processuale una situazione giuridica non prevista dallo ius civile inserendo nell’editto un’apposita formula. III.7. Il rapporto giuridico e le situazioni giuridiche soggettive La categoria del diritto soggettivo descrive la realtà dei rapporti fra i privati dal punto di vista del titolare dell’interesse protetto dall’ordinamento: come scriveva Savigny, il diritto serve prima di tutto a garantire al singolo la protezione della sua sfera di libertà. Tuttavia tale sfera di libertà trova il suo limite necessario nella libertà dell’altro ed è proprio nella mediazione dell’inevitabile conflitto che il diritto trova la sua ragion d’essere. Da questo punto di vista alla categoria di ‘diritto soggettivo’ si sostituisce quella di 31 ‘rapporto giuridico’. Fu in particolare Savigny a dare rilevanza a tale categoria, indicando il ‘rapporto giuridico’ come la più concreta manifestazione dell’operare del diritto nella storia. E’ dunque compito del giurista individuare nella realtà concreta quali siano le relazioni interpersonali qualificabili come rapporti giuridici. I soggetti di un rapporto giuridico sono detti ‘parti’ e si distinguono in: soggetto attivo (o titolare della posizione giuridica attiva) e soggetto passivo (o titolare della posizione giuridica soggettiva passiva). Si dice ‘terzo’ ogni soggetto estraneo al rapporto giuridico. Per ‘prestazione’ si intende l’attività umana ritenuta idonea a soddisfare l’interesse protetto dall’ordinamento. La figura del rapporto giuridico si attaglia perlopiù alla categoria dei diritti personali o relativi, dove il rapporto assume la denominazione specifica di obligatio, un vincolo giuridico in forza del quale un soggetto è tenuto ad eseguire una determinata prestazione in favore di un altro. Tuttavia tradizionalmente si parla di ‘rapporto giuridico’ anche con riferimento ai diritti patrimoniali assoluti, cioè quelli che presuppongono un potere esclusivo dell’uomo su una cosa (proprietà e diritti reali limitati). L’idea a cui è ricorsa la dottrina per individuare una relazione giuridicamente tutelata fra persone, è quella dell’esistenza in capo a tutti i consociati di un generale dovere di astensione rispetto all’esercizio del diritto assoluto sulla cosa da parte del suo titolare. La bipartizione diritto assoluto-diritto relativo trova plastica corrispondenza in diritto romano nelle formule delle azioni in rem e in personam. Le formule erano documenti consegnati dall’autorità giurisdizionale alle parti di un processo e contenevano sia la nomina del giudice privato, sia la descrizione dei termini essenziali e le regole base. Il contenuto concreto della formula era oggetto di accordo fra le parti nella litis contestatio. Tali assonanze fra le categorie attuali e l’esperienza antica dipendono molto anche dal fatto che la figura del rapporto giuridico è stata modellata dalla pandettistica con riferimento specifico agli interessi di contenuto patrimoniale, cioè aventi ad oggetto beni materiali o immateriali. E’ noto che oggi oggetto di tutela da parte dell’ordinamento possono essere anche interessi di contenuto non patrimoniale. Un altro aspetto da sottolineare è che la categoria del rapporto giuridico è stata tradizionalmente modellata sul paradigma del diritto soggettivo e dell’obbligo, ma che esistono anche situazioni giuridiche soggettive ed oggettive non rientranti in queste due figure: ad esempio il diritto potestativo (potere attribuito dall’ordinamento ad un soggetto di modificare unilateralmente la sfera giuridica altrui) e la situazione di soggezione, dal lato passivo. Altri esempi: potestà e aspettativa. Passando al lato passivo, si parla di onere per indicare la peculiare posizione del soggetto che, per realizzare un proprio interesse giuridicamente protetto deve tenere un certo comportamento. Si intende infine per ‘status’ la posizione che il soggetto riveste nel quadro di una determinata formazione sociale, come la famiglia o lo Stato. L’assunzione di un certo status porta con sé l’attribuzione in capo al soggetto di determinati diritti e obblighi. Si tratta di figure giuridiche varie ed eterogenee, alcune del tutto estranee all’esperienza antica. III.8. Costituzione, modificazioni ed estinzione del rapporto giuridico Ora vediamo l’aspetto dinamico del rapporto giuridico. Per ‘costituzione’ del rapporto si intende la sua prima venuta ad esistenza. Per ‘titolo’ invece si intende il fatto o atto giuridico che ha come effetto l’acquisto della proprietà (es. oggi proprietà a titolo originario o a titolo derivativo). I romani invece usavano distinguere fra i modi di acquisto della proprietà: diritto naturale e diritto civile. Generalmente c’è una corrispondenza fra i modi di acquisto della proprietà di diritto naturale e quelli oggi definiti ‘a titolo originario. Ma è ovvio che le due classificazione, essendo fondate su parametri diversi, possono anche non coincidere. Anche per il rapporto obbligatorio si parla di costituzione: in particolare si chiamano ‘fonti delle obbligazioni’ quei fatti a cui il diritto riconnette la nascita dei rapporti obbligatori fra due o più parti e che sono <<il contratto, il fatto illecito e ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico>>. Invece si ha semplice modificazione del rapporto giuridico già esistente, in caso di trasferimento della proprietà da un soggetto ad un altro. 32 negozio per conto di un altro ma non in suo nome, poi dovrà trasferire gli effetti al rappresentato. La rappresentanza si distingue in volontaria (se la legittimazione viene conferita tramite procura) o legale (se viene conferita dalla legge allo scopo di tutelare degli incapaci di agire). Gli stessi giuristi romani non isolarono la figura della rappresentanza diretta rispetto a quella più ricorrente indiretta, né sentirono l’esigenza di elaborarla in via generale. Probabilmente la ragione concreta è che a Roma la struttura della famiglia era tale che sia i figli in potestà sia gli schiavi, raggiunta l’età pubere, potevano compiere atti giuridici i cui effetti ricadevano sul pater o dominus. Non si tratto mai comunque di rappresentanza, perché la produzione degli effetti in capo al dominus dipendeva dalla natura del rapporto esistente tra lui e il sottoposto, non dalla sua volontà o dalla legge. III.11.2. … in relazione agli effetti, al tipo, alla causa, alla forma (nel diritto odierno) In relazione a agli effetti i negozi giuridici si possono dividere in: ● patrimoniali, che determinano i rapporti giuridici patrimoniali, ovvero quelli suscettibili di valutazione economica. Possono essere tipici, ma anche atipici (es. il contratto), cioè autonomamente configurati dalle parti. ● Non patrimoniali (/personali), che non sono valutabili economicamente. Di regola sono tipici, ossia corrispondono a schemi prefissati, espressamente disciplinati dal legislatore. [Oggi esistono anche specie negoziali la cui portata è duplice, come le convenzioni patrimoniali tra coniugi, volte a regolare il regime patrimoniale della famiglia] Tutto questo si lega con il concetto di causa e con la fondamentale distinzione fra negozi causali (dove viene espressamente menzionata la causa) e astratti (la causa esiste, ma non viene menzionata). Il legislatore italiano del 1942 non esprime una definizione di causa, ma dalle norme codicistiche risulta che essa è stata da lui intesa come la ragione economico-sociale dell’atto. Art. 1322 , II comma c.c., afferma che i contratti atipici devono essere non solo leciti, ma anche rispondenti ad interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico → pone limite all’autonomia contrattuale. Nei contratti atipici le parti possono liberamente fissare i contorni della loro convenzione patrimoniale a patto che sia lecita e abbia una causa ritenuta meritevole. Tuttavia il nostro ordinamento ritiene che la causa sia elemento essenziale di qualsiasi negozio, anche tipico. Nel caso dei contratti tipici il problema dell’identificazione della causa è che la funzione economico-sociale del negozio è intrinseca al tipo configurato dal legislatore e con esso rischia di confondersi. Il problema assume ancora maggior evidenza se si pensa che oggi, a differenza che nel mondo romano, i negozi tipici sono di regola causali (eccezione: cambiale). Tutte queste circostanze spiega perché in molti hanno rifiutato la tradizionale spiegazione economico sociale del concetto di causa, preferendo una concezione economico-individuale o concreta, secondo cui la causa consisterebbe nello scopo pratico delle parti. Anche questa spiegazione però rischia di confondere la causa oggettiva con le motivazioni personali, irrilevanti al diritto, in più si apre la strada a qualsiasi forma di convenzione patrimoniale fra le parti col solo limite della liceità. Tra i negozi causali: ❖ a titolo oneroso, detti sinallagmatici, ovvero in cui la diminuzione del patrimonia di ciascuna parte è correlata all’assunzione di un corrispondente vantaggio; ❖ a titolo gratuito, che comportano un mero vantaggio a favore di una delle due parti; ❖ atti di liberalità, che hanno luogo quando un disponente col proprio atto determina l’arricchimento di un beneficiario e un proprio depauperamento. Un’altra distinzione è quella fra i negozi inter vivos e mortis causa. Da ultimo si possono distinguere anche i negozi formali (caratterizzati da una forma determinata) e informali (caratterizzati dalla libertà delle forme). Vale nel diritto attuale, in generale, il principio della libertà delle forme, salvo che sia diversamente specificato dalle norme. 35 III.11.3. … in relazione agli effetti, al tipo, alla causa, alla forma (nel diritto romano) L’esperienza romana si dipanò lungo un periodo lungo un periodo storico lunghissimo, dalla fondazione dell’urbe fino all’età di Giustiniano, è chiaro che quelle distinzioni assunsero nelle varie epoche storiche connotati molto differenti. Nell’età arcaica di Roma il diritto, conosciuto solo dai pontefici e riservato ai cives romani, era profondamente connesso a credenze magico-religiose. I ‘negozi’ erano quindi formali e solenni, tipici e all’inizio anche causali: da una parte la volontà doveva essere manifestata o dichiarata con parole o gesti predisposti con assoluta rigidità dal diritto (forma solenne); dall’altra che pochi e predeterminati erano gli schemi negoziali ammessi (tipi); infine che tali tipi negoziali erano in origine funzionali ad uno scopo specifico e predeterminato dal ius (causa). Es. mancipatio → un alienante trasferiva ad un acquirente la proprietà quiritaria di un bene a scopo di compravendita, con la pronuncia di parole solenni e alla presenza di un libripens (portatore di bilancia) e di cinque testimoni. Il formalismo di tali pratiche arcaiche era tale che il rispetto rigoroso delle forme prescritte era considerato elemento necessario e sufficiente per la produzione degli effetti. Il requisito della causalità fu il primo a venire sacrificato: con il passaggio dall’aes rude (brondo grezzo) all’aes signatum (lingotti di bronzo prepesati) e poi, soprattutto, alla moneta coniata, il rito originario, pur rimanendo formalmente invariato, poiché la pesatura del raudusculum non corrispose più all’effettivo pagamento del corrispettivo, ma divenne mero simbolo. Ne derivò la possibilità senza l’effettivo pagamento del prezzo e da qui dell’utilizzo del rito per svariati motivi (es. matrimonio). Le XII tavole poi codificarono tale possibilità, perciò la mancipatio, nata come negozio causale, divenne il paradigma dei negozi astratti, tali cioè da produrre i loro effetti indipendentemente dallo scopo pratico perseguito dalle parti. I Romani parlarono in proposito di imaginaria venditio, cioè di un negozio apparente di compravendita volto, tuttavia, ad uno scopo reale differente, mentre Gaio parla di atti dicis causa o dicis gratia, cioè compiuti per finalità differenti da quelle per cui l’atto formale era sorto. Sponsio - altro negozio astratto, volto alla costituzione di vincoli obbligatori: la sua forma era costituita da una domanda posta dal futuro creditore, seguita da una congruente risposta impegna da parte del futuro debitore. Si tratta dunque di una forma snella che non lasciava spazio all’indicazione della causa della promessa del debitore. Le cause reali potevano quindi essere moltissime, da qui l’effetto della sponsio di essere moltiplicatore degli interessi regolabili con tale negozio obbligatorio. A questi negozi dello ius civile vetus si aggiunsero progressivamente altre forme negoziali, utilizzabili sia dai cittadini sia dai peregrini, che perlopiù furono informali. Una di queste fu la stipulatio → negozio costitutivo di un vincolo obbligatorio tra le parti attraverso una domanda del futuro creditore e una congruente risposta impegnativa del futuro debitore. Essa rimase formale e astratta, ma fu una delle poche eccezioni, in genere i negozi nati in quest’epoca, o nell’ambito del ius gentium o ius honorarium, furono di regola informali e causali. Riferimento in particolare ai contratti consensuali sorti nell’ambito dei commerci internazionali e aventi come regola di base nei rapporti fra le parti quella della buona fede, a differenza dei negozi di ius civile vetus erano caratterizzati da notevole libertà di forma, ma anche da una causa stabilita a priori. A Roma i contratti erano tipici e predeterminati dal ius. Peraltro si trattò, almeno all’inizio, di una tipicità fortemente dinamica, nel senso che il numero delle figure contrattuali si allargò via via fino a ricomprendere una serie di nuovi rapporti precedentemente non tutelati. Verso la fine della repubblica i tipi contrattuali si stabilizzarono definitivamente e di regola, da lì in poi, il loro elenco non subì variazioni né venne superato. Essi cominciarono presto ad apparire ristretti rispetto alle esigenze sociali ed economiche, il che spinse da una parte il pretore a sforzarsi di estendere i tipi, dall’altra (si sa da un testo celeberrimo di Ulpiano conservato nel Digesto giustinianeo) Aristone e Mauriciano, giuristi del primo secolo, sostennero che un accordo fra le parti estraneo ai tipi riconosciuti dallo ius civile e gentium poteva nondimeno far nascere fra loro un’obligatio qualora esse si promettessero reciprocamente di effettuarsi due prestazioni corrispettive (synallagma) e una sola delle due parti effettuasse la prestazione promessa. 36 La generalizzazione dei contratti atipici fu opera delle scuole postclassiche, mentre in epoca classica ci si limitò ad ammettere accordi atipici caratterizzati appunto dal synallagma e dalla già avvenuta esecuzione delle due prestazioni. Dunque il panorama delle forme negoziali a Roma era più vario e complesso di quanto accade oggi: infatti quei negozi, pur essendo di regola tipici, potevano essere sia astratti sia causali. Quelli astratti, che erano anche i più antichi, erano formali e solenni. Quelli negoziali più recenti, risalenti al III secolo a.C. erano caratterizzati dalla più assoluta libertà di forme ma, nello stesso tempo, erano dotati di causa intrinseca, cioè di una funzione economico-sociale predeterminata dal ius. Oggi viceversa i negozi tipici o atipici sono causali (con pochissime eccezioni). III.11.4 … in relazione alla validità ed efficacia (nel diritto odierno) L’elaborazione dogmatica del concetto di invalidità che, nelle forme di nullità e annullabilità, hanno fatto Savigny e poi la pandettistica sulla scorta dell’esperienza del giusnaturalismo, non trova alcuna corrispondenza nell’esperienza romana. Tale elaborazione dogmatica parte dall’dea del primato della volontà del diritto. Nell’esperienza romana invece non si diede mai così forte rilievo alla volontà individuale né si prospettò la possibilità di procedere all’annullamento di un negozio giuridico per un ‘vizio’ relativo al modo di formazione di tale volontà. Oggi l’atto negoziale si definisce esistente quando tutti gli elementi che ne qualificano la struttura sono stati posti in essere nella forma richiesta dalla legge. Un negozio infatti è valido se conforme alle regole giuridiche che lo disciplinano. I requisiti di carattere generale richiesti (art. 1325 c.c.) sono: l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto e la forma quando richiesta a pena di nullità. Un negozio valido però non è sempre efficace, cioè capace di produrre i suoi effetti. Un atto valido sarà inefficace ad es. quando non si è ancora verificato l’evento (condicio iuris). Allo stesso modo sarà efficace il negozio a cui le parti abbiano apposto una condizione sospensiva o un termine iniziale. Il nostro ordinamento riconosce ai privati autonomia negoziale. Si parla di nullità del negozio quando mancano o sono gravemente anomali alcuni degli elementi che il diritto considera essenziali e costitutivi. Il negozio nullo non produce effetti e di conseguenza l’azione eventualmente esercitata per fare valere in giudizio tale nullità è di mero accertamento o dichiarativa. Al contrario si parla di annullabilità quando, pur ricorrendo i requisiti essenziali del negozio, il consenso di una o di entrambe le parti, pur esistente, è viziato, cioè si è irregolarmente formato. Si verifica se è posto in essere in condizioni di incapacità legale o naturale, oppure nei casi dei vizi della volontà. Il negozio annullabile, a differenza di quello nullo, produce tutti i suoi effetti finché la parte interessata non ne richieda l’annullamento che, se dichiarato dal giudice varrà sin dal momento della stipulazione. L’azione di annullamento è dunque costitutiva. III.11.5. … in relazione alla validità ed efficacia (nel diritto romano) Diversa è la prospettiva adottata nel diritto romano dove non si ebbero mai elaborazioni sistematiche dei giuristi dei giuristi sul punto, ma si operò sempre con riferimento a singole figure senza individuare una terminologia unica e specifica né una disciplina comune. Nel periodo antico i negozi dello ius civile vetus erano in massima parte formali, solenni e astratti, dunque di regola era nullo l’atto per il quale non si fosse seguita la forma prescritta dal ius. Trattandosi poi di atti in prevalenza astratti, di regola la mancanza di una causa idonea e lecita non determinava la nullità dell’atto. Il ius civile conosceva solo la distinzione tra negozi validi e negozi nulli. In più l’estremo formalismo del diritto antico faceva sì che fosse valido se erano state rispettate le forme richieste, anche un atto compiuto da un soggetto per mero errore o sotto costrizione. Sostanziali mutamenti si verificarono a partire dal III secolo a.C. quando Roma si aprì ai commerci nel Mediterraneo, l’errore fu in genere ritenuto causa di nullità del negozio soltanto se relativo ad una circostanza di fatto in assenza della quale il negozio stesso non sarebbe stato concluso e inoltre se fosse scusabile. Al contrario l’error iuris, cioè l’ignoranza totale fu di regola ritenuto inescusabile e quindi 37 altrui. Fu infatti questa l’impostazione accolta dalla codificazione napoleonica che, alla pluralità di forme proprietarie tipiche dell’età precedente, sostituì la concezione unitaria della proprietà nonché l’idea che i ‘diritti reali limitati’ andassero configurati con altrettante ‘restrizioni al diritto di proprietà’. Così facendo i compilatori franzesi affermavano di tornare alla purezza del diritto romano, in realtà quest’ultimo non coincide: la proprietà non era un diritto unitario, ma multiforme in relazione sia alla persona dei titolari, sia ai possibili oggetti, sia alle forme della tutela processuale → dipende dall’impostazione romana del pensare il diritto attraverso l’azione e per cerchi concentrici. La proprietà romana va divisa in: quiritaria, provinciale e pretoria. III.12.2. La proprietà nell’esperienza giuridica romana La proprietà quiritaria (c.d. dominium ex iure Quiritium) era una forma di appartenenza piena ed esclusiva sulla cosa, tipica del ius civile vetus, quindi riservata ai cittadini romani e limitata, fra i beni immobili, a quelli siti in territorio italico. Si trattava di una forma di appartenenza libera da pesi ed imposte sin dal 168 a.C. quando, con la conquista della Macedonia da parte di Lucio Emilio Paolo, tante ricchezze pervennero a Roma da rendere possibile questa liberalità. Al contrario, imposte fondiarie di vario tipo, in denaro o in natura, gravavano sui terreni provinciali, che vennero considerati politicamente come dominio del popolo romano. Fu riconosciuta ai possidenti una forma di appartenenza, qualificata da Gaio nelle Istituzioni, con espressione ambigua, ‘possessio vel usufructus’ e tutelata da un’actio in rem parallela alla rivendica, chiamata actio de fundis stipendiariis et tributariis (quella che noi chiamiamo proprietà provinciale). Ma non si trattava di un’appartenenza piena ed esclusiva come nel caso del dominium ex iure Quiritium, infatti il proprietario era tenuto al pagamento delle imposte sulla terra. Per comprendere invece la proprietà pretoria serve sottolineare che, per fare valere il proprio diritto contro chi tenesse il bene presso di sé, l’attore in rivendica aveva l’onere di provare di aver acquistato. Detta prova di un acquisto a titolo derivativo, ad esempio per compravendita o successione a causa di morte, non era invece sufficiente perché non si poteva mai sapere se lo stesso rivendicante o uno dei suoi danti causa avessero acquistato il bene da chi non era proprietario. Proprio per rispondere a tale problema fu istituito l’usucapione (chi avesse acquistato a titolo derivativo un bene credendo in buona fede che l’alienante ne fosse effettivo titolare, ne avrebbe comunque acquistato il dominium civilistico ex iure Quiritium dopo soltanto un anno di possesso ininterrotto per i beni mobili e due per gli immobili. Inoltre alcuni beni considerato di particolare valore economico in una società agricolo-pastorale e chiamati res mancipi, dovevano necessariamente essere trasferiti attraverso mancipatio o in iure cessio, non essendo sufficiente la semplice consegna perché si producesse l’effetto traslativo. Tuttavia il problema dell’incertezza rimaneva insoluto per il periodo di tempo antecedente al perfezionarsi dell’usucapione. Intervenì un pretore di nome Publicio nel 67 a.C. con l’introduzione nell’editto pretorio di un’azione di nuova formazione, detta Publiciana: chi avesse comprato o in un altro modo acquistato un bene per iusta causa, ignorando in buona fede che l’alienante non era il vero proprietario oppure con una forma giuridica non idonea allo scopo, sarebbe stato processualmente tutelato dal pretore come se avesse acquistato il dominium del bene per usucapione avendolo posseduto per tempo prescritto (finzione processuale). Questa situazione fu detta dai giuristi ‘in bonis’, tuttavia formava di fatto una forma di appartenenza giuridicamente tutelata e per questo viene sovente chiamata dai romanisti ‘proprietà pretoria’. III.12.3. Il problema irrisolto degli acquisti ‘a non dominio’ Questa disamina sulle forme romane dell’appartenenza ha mostrato che esse si differenziavano non tanto sul piano sostanziale, quanto su quello processuale, cioè in relazione alla tutela garantita al titolare dall’autorità giurisdizionale nei casi in cui egli fosse stato spossessato. Il Codice civile italiano disciplina un’unica forma di proprietà tutelata da un’unica azione, quella della rivendica. Eppure i problemi che affliggevano i romani in Italia, almeno per i beni immobili, non sono ancora del tutto stati risolti. 40 Per i beni mobili infatti sin dalla codificazione francese vige, in quasi tutte le codificazioni civilistiche, la regola ‘il possesso vale titolo’. In più, almeno per l’Italia, ciò vale anche nel caso di beni di provenienza furtiva, dato che l’art. 1153 c.c. non prevede eccezioni alla regola generale. I problemi invece rimangono per il trasferimento dei beni immobili, almeno nei paesi dove i registri immobiliari non fanno prova dell’effettiva titolarità in capo all’alienante del bene oggetto della trasmissione. Ancora oggi, almeno in Italia, quando un soggetto gisce con un’azione di rivendica di un bene immobile, non basta che provi di averlo acquistato in buona fede e in base a titolo idoneo, in quanto può sempre accadere che egli, senza saperlo, lo abbia acquistato a non dominio. A questo proposito si parla ancora di probatio diabolica (espr. medievale), ossia una prova estremamente complessa che rende la posizione processuale del vendicante alquanto sfavorevole rispetto a quella del convenuto in rivendica, possessore del bene. Anzi, oggi la posizione del rivendicante è più complessa che a Roma. Oggi l’usucapione ha come funzione primaria quella di favorire chi sfrutti economicamente un bene rispetto a chi se ne disinteressi, infatti (art. 1158 c.c.) in merito all’usucapione c.d. ordinaria, tale possessore usucapirà il bene immobile a danno del precedente titolare, che perderà il suo diritto <<in virtù di un possesso continuato per vent’anni>>. Esiste anche, naturalmente, l’usucapione c.d. abbreviata, che presuppone (come a Roma) un acquisto a non domino nella buona fede dell’acquirente e un titolo astrattamente idoneo al trasferimento, si parla di termini abbreviati ma comunque di dieci anni. III.13. L’obligatio e le sue fonti Per diritto di credito si intende la situazione giuridica soggettiva attiva per effetto della quale un soggetto attivo o creditore è legittimato a pretendere da un soggetto passivo o debitore l’esecuzione di una prestazione a carattere patrimoniale. Il diritto di credito è un diritto soggettivo relativo in quanto consente al titolare il soddisfacimento del suo interesse soltanto per il tramite della prestazione eseguita da un’altra persona. Il rapporto giuridico che si instaura fra creditore e debitore si chiama obbligazione. Il nostro Codice non ne contiene una definizione e gli stessi civilisti si limitano a parafrasare la definizione romana di obligatio [L’obbligazione è un vincolo giuridico in base al quale siamo costretti ad eseguire una qualche prestazione secondo il diritto della nostra civitas]. Del resto la materia delle obbligazioni è, tra quelle privatistiche, quella che ha mantenuto nel tempo la maggiore stabilità. Preme mettere in luce i momenti di rottura tra la tradizione antica e quella moderna: una prima fondamentale differenza riguarda le fonti. In realtà le classificazioni moderne riecheggiano quelle antiche, il legislatore italiano del 1942 indicò nell’art. 1173 del Codice civile come fonti delle obbligazioni: il contratto, il fatto illecito e ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico (in ciò riecheggia la tripartizione gaiana in: contratto, delitto e ‘varie figure e cause’). Tuttavia sono radicalmente mutate sia la nozione di contratto sia quella di delitto. III.14. Il contratto: principali differenze tra l’esperienza romana e quella attuale III.14.1. Dalla tipicità contrattuale romana all’autonomia contrattuale moderna Basti qui dire che nel diritto romano classico i contratti erano tipici, nel senso che si consideravano produttivi di obligatio soltanto quei ‘tipi’ o schemi contrattuali a cui nell’editto del pretore corrispondeva una data formula. Le obbligazioni da contratto erano distinte in: - re (reali) - verbis (verbali) - litteris (letterali) - consensu (consensuali) Ciò non significa che ai fini della conclusione del vincolo obbligatorio, la comune volontà delle parti fosse necessaria soltanto nelle obbligazioni consensuali, ma che soltanto in queste ultime la manifestazione del consenso rappresentava l’elemento perfezionativo del vincolo obbligatorio. Del resto i contratti 41 consensuali nacquero nel III secolo a.C., cioè quando Roma divenne potenza commerciale mediterranea, sentendo il bisogno di figure contrattuali in forme accessibili agli stranieri, infatti le forme contrattuali più antiche erano riservate ai cives romani e sottoposte a rigido formalismo. Es. sponsio e stipulatio. Tuttavia nella stessa epoca (III sec. a.C.) furono elaborate e tutelate dal pretore nuove figure contrattuali: i contratti consensuali in buona fede. Essi sorsero ex novo. Elemento perfezionativo del vincolo obbligatorio fu qui considerato il solo consenso fra le parti; si rese inoltre possibile la creazione di vincoli bilaterali, cioè producenti obblighi reciproci fra le parti, o addirittura plurilaterali. La buona fede, in più, fu qui considerata il valore etico-giuridico supremo a cui le parti dovevano attenersi nell’adempimento dei loro obblighi: cosicché al giudice fu reso possibile tener conto in sede di giudizio, direttamente e autonomamente, non solo (come accadeva nel caso della sponsio-stipulatio) di un eventuale inadempimento, ma anche di qualunque tipo di comportamento che una delle parti avesse tenuto nell’ambito di quel rapporto in contrasto con la regola fondante della buona fede. Al di fuori di questi ‘tipi’ comunque vigeva la regola, riportata in un testo di Ulpiano e presente nel Digesto, che il nudo patto non producesse obbligazioni. Non che il nudo patto non avesse rilevanza giuridica, ma tale rilevanza era piena soltanto se il patto fosse stato raggiunto dalle parti a un contratto tipico tra loro stipulato. A partire dalla prima età imperiale cominciarono ad essere accolte dalla giurisprudenza come produttive di obligatio anche conventiones prive di regolamentazione tipica, ma caratterizzate dal fatto che una parte avesse effettuato una prestazione a favore dell’altra in vista di una futura prestazione. La forma della sponsio-stipulatio d’altronde poteva essere rivestita di qualunque contenuto. L’esigenza di aprire la strada a accordi vincolanti al di fuori dei tipici prescritti non fu particolarmente sentita nel mondo romano. Ma col tempo la stipulatio perse la sua funzionalità originaria divenendo nella pratica atto da redigersi per iscritto e preferibilmente alla presenza di un notaio: allora iniziò quel processo che avrebbe lentamente portato la tradizione giuridica occidentale verso l'idea dell’obbligatorietà del nudo patto e infine alle enunciazioni codicistiche della regola dell’autonomia contrattuale. Infatti per far fronte all’assenza di uno strumento duttile come la stipulatio, già i glossatori pur nella fedeltà ai testi giustinianei, tesero ad estendere il più possibile il campo dei patti protetti da azione. I canonisti poi sviluppando un’idea, già in nuce in Tommaso d’Aquino, sostennero il carattere vincolante di ogni promessa, non solo sul piano morale ma anche su quello giuridico. Il passo definitivo verso l’affermazione del principio dell’obbligatorietà della semplice conventio (accordo) fra le parti, indipendentemente dai tipi contrattuali tramandati dalla tradizione, fu compiuto dal giusnaturalista Grozio (1583-1645). Egli aveva ripresi in ambito pubblicistico le c.d. Teorie contrattualistiche fondate sull’idea che la società politica statuale e il potere del sovrano dipendevano da un contratto stipulato dai singoli membri della collettività. Nella sua opera magistrale De iure belli ac pacis aveva sottolineato come gli stessi rapporti reciproci fra stati e popoli diversi, in condizione di pace o di guerra, fossero essenzialmente regolati da patti a cui i rappresentanti delle rispettive potenze decidevano di attenersi. Grozio si chiese: come è possibile continuare a sostenere l’antica idea per cui un semplice pactum, informale tra due privati, che non ricada in uno dei contratti tipicamente previsti, non possa regolare su base volontaria i loro rapporti giuridici? Questa intuizione di ripresa e portata a compimento da Pufendorf, in De iure naturali et gentium introdusse definitivamente il principio per cui il solo consenso fra le parti, espresso nella forma di promessa o patto informale, consentisse alle stesse di limitare su base volontaria la propria sfera privata di libertà. Fu l’inizio di una nuova era fondata sul predominio assoluto dell’individuo e della volontà. La figura del ‘contratto’ in Francia portò alla teorizzazione di Domat e Pothier, che ascrissero a principio fondante del diritto naturale l’idea per cui il nudo patto, purché concluso con seria intenzione, fosse sufficiente alla creazione di un vincolo obbligatorio tra le parti, giuridicamente sanzionato. Da qui la formulazione dell’art.1101 del Code civil napoleonico: <<Il contratto è un accordo mediante il quale una o più persone si obbligano, l’una nei confronti dell'altra, a dare, a fare o a non fare qualcosa>>. 42 Un altro esempio è quello della gestione degli affari altrui: anche in questo caso, il ‘gestore’ non ha diritto ad nessun corrispettivo eppure, dalle fonti giustinianee e dalle reinterpretazioni successive, risulta che, una volta assunto l’impegno, egli è tenuto a portarlo a termine con la massima diligenza. Infine i critici giusnaturalisti sottolineavano che è la stessa morale comune a insegnare che, una volta assunta un’obbligazione, indipendentemente dal possibile ‘guadagno’, il debitore è tenuto ad adempiere al suo obbligo con la diligenza del buon padre di famiglia. Sia il Codice napoleonico del 1804, sia l’ABGB austriaco del 1811 e il Codice civile italiano del 1865 abbandonarono il principio dell’utilitas contrahentium e la conseguente tripartizione della colpa, a favore di un unico grado di diligenza media. Venne progressivamente meno anche il riferimento alla ‘colpa’ e alla sua tripartizione. Es.. Nel c.c. italiano del 1865 si diceva <<La diligenza che si deve impiegare nell’adempimento dell’obbligazione, abbia questa per oggetto l’utilità di una delle parti o ambedue, è sempre quella di buon padre di famiglia…>> ma anche <<il debitore sarà condannato al risarcimento dei danni…>>. Nel c.c. italiano del 1942 due articoli recitano rispettivamente che <<Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia>> e <<Il debitore che esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità…>>. III.15. Le obbligazioni da atto illecito e la responsabilità extracontrattuale: principali differenze tra l’esperienza romana e quella attuale Ultima sostanziale differenza riguarda le c.d. obbligazioni da atto illecito. La posizione del soggetto autore di atto illecito è disciplinata in Italia dall’art. 2043 <<Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno>>. Da tale norma risulta che l’illecito presuppone una condotta dolosa o colposa, un danno ‘ingiusto’ inferto a terzi, nonché l’esistenza di un nesso di causalità fra la condotta e l’evento dannoso. Per indicare la posizione del soggetto a cui venga imputato un illecito civile si usano diverse espressioni. ➢ Responsabilità extracontrattuale: obbliga l’autore dell’illecito a risarcire il danno cagionato a terzi indipendentemente da qualsiasi rapporto preesistente con la controparte; in contrapposizione alla responsabilità contrattuale per inadempimento di un’obbligazione da contratto o da atto lecito non contrattuale, che obbliga invece il debitore da contratto o da altro atto lecito non contrattuale a risarcire il danno al creditore in caso di inadempimento o ritardo nell’adempimento che siano a lui imputabili. ➢ Responsabilità civile: regolata dal c.c., deriva dalla violazione di interessi prevalentemente privati e obbliga l’autore a risarcire il danno; in contrapposizione alla responsabilità penale, regolata dal codice penale e che deriva dalla commissione di reati, comporta la comminazione di sanzioni penali. ➢ Responsabilità aquiliana. A questa soluzione normativa si è giunti a partire dall’esperienza romana del damnum iniuria datum disciplinato dalla Lex Aquiliana. A Roma, a partire dall’età repubblicana, vigeva la distinzione fra crimina e delicta (/maleficia). I primi, considerati pregiudizievoli per l’intera comunità e pericolosi per la sua esistenza (oggi diritto criminale); i secondi considerati pregiudizievoli per il solo interesse di un singolo (oggi diritto penale privato). Tale distinzione affonda le sue radici nell’età monarchica di Roma, tuttavia in quest’epoca essa non era ancora ben definita. Crimina publica passibili di condanna capitale erano per esempio: parricidium e perduellio, ossia l’alto tradimento della res pubblica. Illeciti privati lasciati alla vendetta del gruppo di appartenenza della vittima erano il furto e l’iniuria. Fu proprio con le XII Tavole che iniziò quella divaricazione tra crimina e delicta: da una parte si previdero nuove figure criminose e le relative sanzioni afflittive, dall’altra si inaugurò per le figure meno gravi quel processo teso a sostituire alla vendetta privata una composizione pecuniaria. Tale composizione fu 45 dapprima volontaria, poi divenne legale, nel senso che la comunità imponeva il ‘riscatto’ della vindicta attraverso il pagamento di una somma di denaro. Ulteriore evoluzione si ebbe con la Lex Aquilia, plebiscito emanato intorno al III sec. a.C. che stabilì la comminazione di una pena pecuniaria per alcune ipotesi tipiche, fra cui l’uccisione di schiavi o animali altrui appartenenti alla categoria del bestiame e, nel terzo capitolo, il loro ferimento, l’uccisione di animali altrui diversi dal bestiame, il danneggiamento di qualsiasi altro materiale altrui. Da qui verso la fine della repubblica, la formazione definitiva della categoria delle obbligazioni ex delicto in contrapposizione a quelle ex contractu, nonché l’apparizione della classica quadripartizione dei delitti privati in: furto, rapina, danneggiamento aquiliano e iniuria. L’oggetto dell’obligatio rimase pecuniaria. Inoltre, nel caso che il delitto fosse commesso da più persone, la pena pecuniaria fu imposta per intero a ciascuno dei complici. Era peraltro possibile anche che la pena pecuniaria fosse inflitta ad un soggetto diverso dall’autore dell’illecito (dominus o pater). Progressivamente, prima in seguito all’introduzione, nel II sec. a.C. delle quaestiones perpetuae, poi con la cognitio extra ordinem imperiale, non solo si introdussero nuove fattispecie criminose, ma vi fu anche la tendenza ad attrarre nel novero dei crimina figure rientranti fra i delicta (es. iniuria). Nella compilazione di Giustiniano la risarcibilità del danno causato da iniuria fu estesa anche al di fuori dei casi tipici previsti dalla lex Aquilia; lo stesso fu seguito dai maestri dello ius commune. Cambiò invece nell’età del giusnaturalismo: in particolare con Grozio, i materiali provenienti dalla compilazione vennero ripresi ed elaborati alla luce dell’individuo e del principio “neminem ledere”. Per Grozio infatti l’uomo andava tutelato e protetto da ogni ingerenza lesiva della sia sfera giuridica che gli provocasse danno. Era l’inizio di quel modello di atipicità dell’illecito civile, che dal giusnaturalismo passò alla codificazione napoleonica e da qui alla disciplina codicistica italiana. Mentre nei primi decenni successivi alla codificazione la giurisprudenza italiana tendeva a limitare la risarcibilità (es. art. 2043) a casi di lesione dei diritti soggettivi assoluti, in seguito essa è stata estesa ad ogni lesione di interesse giuridicamente apprezzabile e meritevole di tutela. La scelta del modello dell’atipicità dell’illecito civile non fu adottata ad es. dalla codificazione tedesca che preferì il modello della tipicità, menzionando espressamente nella norma relativa le lesioni risarcibili. La scelta del legislatore francese ed italiano si è rivelata più opportuna, infatti la genericità del dettato dalla norma sulla responsabilità aquiliana consente di ampliare il concetto di danno risarcibile anche ad ipotesi nuove e non concepibili al momento dell’entrata in vigore dei codici. A tale ampliamento contribuisce anche l’idea che la colpa o il dolo dell’agente non debbano più essere considerati un requisito indispensabile ai fini della risarcibilità del danno (in tale prospettiva la risarcibilità aquiliana è divenuta mero strumento normativo). La regolamentazione antica aveva dunque prima di tutto una funzione sanatoria dell’illecito commesso; quella attuale ha in primo luogo una funzione riparatoria del pregiudizio subito dalla vittima. Una delle conseguenze di tale impostazione era che la pena pecuniaria, in caso di morte del colpevole, non si poteva trasmettere ai suoi eredi, proprio perché era impensabile che qualcuno fosse punito per comportamento compiuto da altri. L’avente potestà aveva pur sempre la possibilità di consegnare alla vittima il sottoposto autore del delictum, liberandosi così dall’obbligo del pagamento della poena. Tutto diverso il senso della disciplina attuale, dove la funzione della responsabilità aquiliana è essenzialmente quella della riparazione del pregiudizio subìto dalla vittima nei casi in cui si rilevi una violazione di un suo interesse giuridicamente tutelato. Ecco perché in Italia l’illecito civile non prevede ipotesi tipiche e predeterminate, ma il giudice, nei limiti della fattispecie astratta di cui all’art. 2043, può estendere i casi di danno risarcibile anche ad ipotesi nuove e non previste. Oggi, a differenza che in antichità, l’obbligo di risarcire il danno, in caso di morte del responsabile dell’illecito, si trasmette ai suoi eredi. Si tratta di una precisa scelta legislativa favor victimae, si è deciso di mettere in secondo piano l’intento sanzionatorio del comportamento delittuoso, che i Romani prediligevano. 46 Capitolo 3: il diritto delle persone I. Il nodo della soggettività giuridica Il fenomeno giuridico ha trovato nella testimonianza di un giurista romano di età tardo classica una formulazione tanto celebre quanto celebrata <poiché dunque l’intero sistema del diritto è stato costituito in funzione degli esseri umani, in primo luogo parleremo della condizione delle persone >. Con essa Egermoniano illumina chiaramente lo spessore umano del fenomeno giuridico. Naturalmente non possiamo immaginare da parte del giurista romano, un livello di teorizzazione comparabile con quello sviluppato dalla moderna riflessione giuridica. Anzi, manca un apparato lessicale capace di identificare, con valore tecnico, le nozioni dogmatiche attorno alle quali ruota la sistematizzazione teorica della soggettività giuridica. Lo stesso vocabolo ‘persona’ appare prevalentemente impiegato per indicare l’essere umano. Ne scaturisce un tratto peculiare dell’esperienza romana che, pur forgiando la categoria sistematica del ius personarum, declinava la capacità giuridica secondo un repertorio di prerogative, facoltà, limitazioni variamente modulabili e dunque capaci di determinare modelli di soggettività tutti tra loro diversi ma tutti implicanti un riconoscimento all’interno del sistema politico e giuridico. II. La capacità giuridica Intesi come riflesso della posizione occupata dall'individuo rispetto alla comunità di riferimento, erano appunti tre gli statuti personali coinvolti nella definizione di soggettività giuridica: libertas, civitas, familias. Il sistema giuridico non poteva che riflettere la logica di fondo. STATUS LIBERTATIS Primo dei presupposti della soggettività giuridica, la cui perdita avrebbe comportato il più grave tra i mutamenti di status è lo status libertatis. Il giurista Gaio dice esplicitamente nelle Istituzioni: <<tutti gli individui o sono liberi o sono schiavi>>. In questa prospettiva universalizzante si comprende dunque perché la schiavitù del mondo antico si ponga come istituto di ius gentium, diffuso presso tutti i popoli e praticato in regime di reciprocità. II.1.1. Cause della schiavitù Innanzitutto si diventa schiavi per effetto della prigionia di guerra, che costituisce il nucleo originario della riduzione in schiavitù di una parte dell’umanità. Il conflitto armato è un fattore di crescita economica, oltre che di rafforzamento politico, e rappresenza il bacino di produzione della schiavitù in base alla regola di ius gentium, secondo cui il prigioniero di è schiavo del nemico vincitore. Principio reciproco, un cittadino romano divenuto schiavo del nemico, perdeva ogni diritto, sia personale che patrimoniale. Tuttavia grazie ad un antico istituto di ius civile detto postliminium, il prigioniero romano che fosse riuscito a rientrare nel territorio di Roma, grazie alla fuga o ad uno scambio di prigionieri, avrebbe recuperato immediatamente e automaticamente la propria complessiva situazione giuridica, con l’eccezione di matrimonio e possesso. Sul finire dell’età repubblicana una lex Cornelia (Lucio Cornelio Silla) intervenne a favore dei prigionieri morti in prigionia e dunque in condizione servile. La lex introdusse una finzione ‘fictio legis Corneliae’ con cui si presumeva morto nell’atto della cattura colui che fosse in realtà morto nel corso della prigionia. La legge consentì di ritenere valido il testamento eventualmente confezionato ovvero, per successiva estensione interpretativa, di aprire una successione legittima sul patrimonio del prigioniero deceduto. La seconda causa di schiavitù è la nascita in condizione servile. Chi nasceva da una madre schiava era a sua volta schiavo, in proprietà del proprietario della schiava. I proprietari potevano prevedere le unioni tra schiavi di loro proprietà, esse venivano qualificate come contubernia (= relazioni a fondo 47 II.1.6. Manomissioni La duplice percezione che l’esperienza romana mostra nei confronti dello schiavo (res mancipi, ma anche soggetto agente e pensante) trova conferma nella previsione di istituti che realizzano la cessazione della schiavitù, cosicché si può affermare che liberi non solo si nasce ma anche si diventa. Gli atti che consentivano la liberazione della schiavitù sono istituti noti già allo ius civile di età arcaica. L’atto in questione è la manomissione, che era l’atto con cui il proprietario concedeva la libertà al proprio schiavo, facendogli acquisire lo status libertatis e lo status civitatis (al conferimento della libertà si accompagnava la cittadinanza romana). La manomissione trasformava lo schiavo immediatamente da cosa a soggetto di diritto, titolare di piena capacità. MANOMISSIONI CIVILI Contrassegnate da rigorose solennità. Manumissio vindicta- costruita secondo lo schema rituale della in iure cessio, consisteva nell’applicazione a fini sostanziali di una struttura fintamente processuale. Davanti al magistrato giusdicente dovevano convenire: il proprietario, lo schiavo e un terzo (adsessor libertatis, dichiaratore di libertà). A quest’ultimo spettava il compito di formulare la rivendica dello stato di libertà, poiché lo schiavo ancora era res, poi veniva fatto un gesto rituale rappresentato dal tocco di una bacchetta sullo schiavo. Il proprietario taceva come assenso, così consentiva la pronuncia dell’addictio, ossia il magistrato ora aggiungeva le sue parole a quelle già dette, confermandole con efficacia costitutiva di status libertatis. In età repubblicana avanzata il processo sarà semplificato, non servirà più l’intervento del terzo e potrà fare ovunque fosse il magistrato. Manumissio censio- qui si può cogliere ancora un profilo pubblicistico. E’ una procedura liberatoria che avveniva in occasione del censimento previsto a Roma ogni 5 anni in occasione del censimento, dunque affidato alla magistratura dei censori. Lo schiavo, esibendo un’autorizzazione ricevuta dal dominus, si poteva presentare per ottenere l’iscrizione nelle liste in qualità di uomo libero e cittadino. Manumissio testamento- dimensione spiccatamente privata e mortis causa. Nel proprio testamento il dominus poteva porre una clausola, secondo le solennità, con cui concedeva libertà al proprio schiavo. A partire dall’età del Principato, la modalità testamentaria venne articolandosi anche in forma indiretta (manumissio fideicommissaria): il testatore poteva chiedere all’erede (o al legatario o al fedecommissario) di effettuare la manomissione. In epoca postclassica, con l’affermarsi del cristianesmo anche nella vita politica e giuridica, prese corpo la manumissio in ecclesia, che prevedeva una dichiarazione liberatoria resa informalmente dal proprietario davanti all’assemblea dei fedeli e in presenza di un'autorità ecclesiastica. MANOMISSIONI PRETORIE Nell’ultimo secolo della Repubblica la storia della manomissione conobbe uno sviluppo parallelo, destinato a convergere sul terreno del ius honorarium. Il processo prese avvio grazie al diffondersi di pratiche liberatorie adottate dai proprietari nei confronti dei loro schiavi, senza rispetto delle solennità. In forza del sempre crescente numero di schiavi disponibili, la prassi di dichiarare la libertà di un proprio schiavo mediante una lettera (manumissio per epistulam), davanti agli amici (manumissio inter amicos) o nel corso di un banchetto (manumissio ad mensam) si impose come fenomeno sociale dalla preoccupante ricaduta giuridica. Le manomissioni irrituali erano infatti nulle dal punto di vista dello ius civile. Lo schiavo manomesso in modo informale avrebbe potuto essere rivendicato in servitù dal dominus, che avesse cambiato idea. Di fronte a questa eventualità si concretizzò nel I sec. a.C. l’intervento dell pretore. L’editto sancì che in presenza di una dichiarazione liberatoria informale ma documentabile, il pretore avrebbe negato l’autorizzazione ad agire (denegatio actionis) al proprietario che intendesse promuovere un’azione per la revoca in servitù. L’intervento pretorio offriva tuttavia una protezione solo parziale allo schiavo, assicurandogli il suo permanere in uno stato di libertà di fatto. Il 50 colpo d’ala giunse grazie ad una politica svolta da Augusto, anche se successiva alla sua morte: nel 19 d.C. la lex Iunia Norbana stabilì che gli schiavi manomessi con le modalità pretorie avrebbero acquistato la libertà, ma non avrebbero avuto la piena cittadinanza romana (Latini Iuniani). Va ricordato che, reciprocamnete a quanto previsto per le cause di schiavitù, si annoverano casi (a partire dall’età classica) in cui la liberazione dello schiavo avveniva per disposizione di legge. Si tratta però di ipotesi marginali che seguono una logica sanzionatoria oer ill dominus o premiale per il servus. II.1.7. Limiti alle manomissioni Gli anni a cavallo dell'era cristiana, sotto il principato di Augusto, videro l’emanazione di importanti leggi in tema di manomissioni, promosse con l’obiettivo di contenere ill numero degli schiavi affrancati. Il convergere di due fenomeni durante la tarda repubblica - il grande numero di schiavi di cui i proprietari potevano disporre e l’assurgere della generosa disponibilità a liberarli a indicatore di riconoscibilità sociale - provocarono una crescita esponenziale del numero di manomissioni, con il conseguente impatto sulle dimensioni del corpo cittadino e il rischio di liberare schiavi troppo giovani per poter provvedere a sé stessi. Nel II a.C. lex Fufia Caninia → disciplinava le manomissioni in forma testamentaria, imponendo al testatore una percentuale massima di liberazioni (100). Nel IV d.C. lex Aelia Sentia → regolamenta le manomissioni per atto inter vivos, stabilendo l’età minima per il dominus che intendesse manomettere (20 y.o.), salva l’esistenza di una giusta causa non poteva essere manomesso lo schiavo con meno di trent’anni. Inoltre se fosse stato liberato uno schiavo che si era reso responsabile di gravi colpe, costui non avrebbe acquistato la cittadinanza romana ma la condizione di peregrinus. II.1.8. Patronato Le manomissioni contemplate dallo ius civile rivestono anche l’efficacia costitutiva di un nuovo rapporto tra i protagonisti della manomissione stessa: rapporto che prende il nome di patronato. Ne sono titolari l’ex proprietario (patronus) e lo schiavo liberato (libertus). Tale qualifica consentirà al sistema giuridico romano di distinguere i soggetti nati liberi da coloro che lo sono diventati. La legislazione matrimoniale voluta da Augusto sancirà il divieto di matrimonio tra liberti e i loro discendenti e soggetti appartenenti al ceto senatorio. Il rapporto di patronato prevede obblighi reciproci tra le parti (reciprocità non paritaria). Il liberto per dimostrare la gratitudine ha l’impossibilità di citare in giudizio il patronus senza la preventiva autorizzazione del magistrato, non può intentare azioni comportanti la pena accessoria dell’infamia. Se lo ha promesso, il liberto deve fornire gratuitamente un certo numero di giornate lavorative all’anno. Ciascuna parte è obbligata a fornire la prestazione alimentare in favore dell’altra che versi in condizione di diligenza. Corollario fondamentale: laddove il liberto fosse morto senza eredi legittimi, il patrono avrebbe avuto diritto all’eredità in mancanza di testamento valido, in presenza del testamento comunque avrebbe avuto diritto a metà dell’asse ereditario. STATUS CIVITATIS Lo status civitatis identifica la posizione occupata dall’individuo rispetto l’organizzazione politica della Roma antica. Il connotato caratterizzante è che questa appartenenza veniva declinandosi secondo una pluralità di statuti, tra cui quello di civis Romanus. La condizione di cittadino non costituiva dunque l’unico parametro in grado di garantire la titolarità dei diritti soggettivi. Del resto quello di civis Romanus era indicato come lo status optimus, condizione di piena appartenenza. Rende evidente la possibilità di uno statuto diverso, ‘non ottimo’: la condizione per un’appartenenza non altrettanto piena ma capace di consentire una partecipazione alla titolarità dei diritti di cittadinanza. 51 II.2.1. Cittadinanza romana Solo il civis Romanus era titolare di tutti i diritti, in particolare: ● commercium - attitudine a concludere negozi patrimoniali dello ius civile; ● conubium - unione che deve sussistere reciprocamente tra i due coniugi. Altrettanto piene sono le prerogative al cittadino sul piano politico, in primo luogo per quanto attiene ai diritti di elettorato: ● ius suffragii - diritto di voto all’interno delle assemblee cittadine; ● ius honorum - diritto di candidarsi alle magistrature secondo l’ordine del cursus honorum. Ulteriore formidabile prerogativa che spetta ai soli cive Romani è il diritto di provocatio ad populum, ossia la possibilità di opporsi all’esercizio del potere capitale da parte di un supremo magistrato. II.2.2. Acquisto e perdita della cittadinanza romana Innanzi tutto lo stato di cittadino si acquista in iure sanguinis (da genitori entrambi cittadini). Se uno soltanto lo è, nasce civis Romanus chi è procreato all’interno del matrimonio legittimo. Nel caso la nascita avvenga da unione illegittima, è cittadino chi abbia la madre cittadina al momento del parto. Circa nel 90 a.C. la lex Minicia escluderà in caso di unione fra una romana e uno straniero, il riconoscimento del figlio come cittadino. Lo stato di cittadino poteva essere acquistato anche successivamente alla nascita, per effetto per provvedimento amministrativo di una concessione della cittadinanza a favore di singoli o comunità. La competenza spettava all'assemblea popolare o al magistrato, in età repubblicana, mentre si sposta su senato e imperatore con l’avvento del Principato. Nel 212 d.C. Caracalla con la Constitutio Antoniniana → concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, che allora si estendeva su Europa, Asia e Africa. Sino a quel momento la storia della cittadinanza romana era stata caratterizzata da un moto continuo di progressivo ampliamento. Perciò la concessione della cittadinanza costituì molto spesso uno strumento strategico di cui la politica romana si avvalse per estendere la propria area di influenza senza l’uso delle armi, o per uscire dai conflitti che risultassero troppo pericolosi sul piano bellico. Esemplare è il ‘problema italico’ che impegnò Roma agli inizi del I sec. a.C.: gli abitanti delle comunità autonome si consorziano nella c.d. una guerra sociale contro Roma. Quest’ultima uscì con un graduale riconoscimento della cittadinanza ai nemici che avessero deposto le armi (con la lex Iulia e la lex Plautia Papiria), così riuscendo a sconfiggere militarmente le poche comunità rimaste escluse. La condizione di cittadino poteva discendere da un atto di autonomia privata, ma reciprocamente era possibile la perdita della cittadinanza romana, che dava luogo alla capitis deminutio media. Ciò poteva accadere per cause involontarie, ma anche per cause volontarie, come l’esercizio dello ius migrandi (il diritto di migrare verso una diversa comunità legata con Roma dal reciproco riconoscimento; oppure per trasferimento in una colonia con il conseguente acquisto dello status di Latino, invece che civis Romanus). Tutto questo discende dall’applicazione del principio che non consentiva la doppia cittadinanza, il quale avrebbe conosciuto importanti deroghe nel corso del Principato. II.2.3. La Latinità L’appartenenza dell’individuo al sistema politico e giuridico romano poteva aversi anche sulla base di un diverso statuto personale, fonte di un riconoscimento meno pieno idi rispetto: la latinità. Essa è categoria che nasce con una peculiare connotazione etnico-geografica per poi trasformarsi in un paradigma politico di riconoscimento giuridico. Roma si trovava unita ad altre città della regione in un'alleanza detta Lega latina, una confederazione di comunità indipendenti e sovrane legate prima di tutto da un accordo di difesa reciproca. La leega si impegnava a riconoscere reciprocamente agli abitanti delle altre la piena parificazione sul piano del diritto privato e dunque la piena validità dei rapporti giuridici tra loro costituiti. Poi però Roma raggiunse una posizione egemonica non più 52 III.2. Gli effetti Il rito si muoveva dunque all’interni del dettato legislativo, lo interpretava letteralmente (tanto che si pensava che usando la parola filius la norma valesse solo per il figlio maschio, cosicché per la figlia sarebbe bastata una sola vendita), ma riusciva a piegarne la ratio, trasformandola da sanzionatoria a negoziale, così si raggiungeva un duplice risultato: - liberare il figlio dalla patria potestas rendendolo sui iuris; - mantenere sempre all’interno della famiglia naturale il fascio di relazioni prodotte dalla manomissione che la giurisprudenza pontificale aveva inserito per equilibrare gli effetti delle vendite multiple previste dalla norma. L’istituto dell’emancipazione offre una sintesi dei tratti connotati l’esperienza giuridica più risalente: il rigoroso formalismo; la concentrazione di poteri in capo al pater familias e la loro sostanziale unitarietà; la omologazione di fondo tra lo statuto servile e quello filiale; l’adattamento della mancipatio; la capacità creativa di nuovo ius civile espressa già dalla più antica interpretazione giurisprudenziale. IV. Essere alieni iuris, << o per natura o per diritto >>. Le adozioni Un’affermazione di Ulpiano riportata nel Digesto suona come un manifesto: si è in potestà del pater o per natura o per diritto. La patria potestas si esercita in primo luogo sui figli procreati, siano essi legittimi, ovvero (a partire dalla tarda età) figli naturali legittimati. La filiazione legittima è quella che consegue ad un concepimento in costanza del matrimonio legittimo. Si intende il figlio nato non prima di 180 giorni dall’instaurarsi della convivenza coniugale e non oltre 300 dalla sua cessazione. L’ordinamento romano attribuì rilevanza alla figura del concepito attraverso la previsione di strumenti giuridici diversi, questo per garantire il regolare corso della gestazione con la nomina di un ‘custode del ventre’ e in vista dell’attribuzione di posizioni patrimoniali equiparanti la condizione del figlio concepito a quella del figlio già nato. La sottoposizione a potestà può discendere da un atto giuridico che, creando artificialmente in capo ad un estraneo la condizione di figlio, lo fa entrare nella famiglia di chi non lo ha generato: adoptio (due diverse figure→ adrogatio e adoptio). ADROGATIO IV.1. I presupposti e il procedimento Sicuramente la figura più antica, lo conferma il fatto che il procedimento prevedeva l’intervento del comizio curiato. E’ l’adozione di un pater familias ad opera di un diverso paterfamilias. Il destinatario dell’adrogatio poteva essere solo un soggetto sui iuris che, cadendo nella potestà del suo arrogante, subiva quella capitis deminutio minima che lo riportava nella condizione di alieni iuris. Essa ci appare un accordo stretto tra due soggetti. E’ comprensibile se consideriamo due rilievi già noti: il fatto che la patria potestas costituiva un potere assoluto e pertanto esclusivo, non avrebbero potuto coesistere la potestà di due padri sullo stesso figlio, e soltanto grazie all’interpretazione postdecemvirale fu creata quell’emancipazione che permetteva di far cessare volontariamente la patria potestas. La adrogatio, che risale all’epoca precedente le XII Tavole, obbliga a chi avesse voluto adottare un figlio per procurarsi un discendente di rivolgersi ad un altro paterfamilias. Sul piano procedurale l’adrogatio si caratterizza per l’intervento dei massimi organi pubblici della città: il comizio curiato, presieduto per l’occasione dal pontifex maximus, a cui spettava la verifica istruttoria sui requisiti: - la condizione di persona sui iuris dalle due parti - l’età non più fertile dell’aspirante arrogante (60 yo) - che quest’ultimo non avesse figli. 55 Il pontefice avrebbe poi rivolto al comizio un’interrogazione (rogatio) chiedendo di approvare la trasformazione dell’arrogato in filius dell’arrogante, sarebbe diventato equiparato ad un figlio naturale. Con il passare del tempo la decadenza del comizio curiato portò ad un’aggiustamento della procedura che si svolgeva ora davanti a 30 littori che presenziavano all’atto in rappresentanza delle 30 curie. Nel corso del principato si rese evidente il limite di una procedura che chiedendo la presenza del comizio curiato poteva svolgersi soltanto a Roma. L’adrogatio iniziò a compiersi mediante costituzioni imperiali, nella forma del rescriptum principis e divenne ben presto prevalente anche nei territori provinciali. La modalità imperiale eliminando l'impedimento procedurale rese possibile che l‘adrogatio si svolgesse anche nei confronti di una donna. IV.2. Gli effetti In quanto maschio sui iuris l’arrogato poteva trovarsi, al momento dell’adrogatio, a capo della propria famiglia. Per effetto dell’adrogatio che lo rendeva filius, l’intero nucleo familiare a lui facente capo sarebbe stato assorbito sotto la potestas dell’arrogante, sostanzialmente scomparendo come gruppo autonomo sul piano politico e sacrale. L’arrogato perdeva altresì i vincoli di parentela agnatizia dell’arrogante. L’adrogatio comportava effetti anche sul piano patrimoniale: la capitis deminutio subita dall’arrogato provocava infatti una successione universale tra vivi, le situazioni giuridiche patrimoniali facenti capo all’arrogato venivano a trasferirsi in capo all’arrogante, così subentrato nella titolarità dei diritti sia relativi che assoluti. I debiti originariamente facenti capo all’arrogato, rappresentando un costo e dunque un impoverimento, non si trasmettevano nel patrimonio dell’arrogante. Allo stesso tempo non avrebbero potuto restare nella titolarità dell’arrogato ormai divenuto filius dunque privo di capacità giuridica. Di conseguenza si estinguevano i debiti di cui fosse stato titolare l’arrogato e l’istruttoria preliminare del pontifex maximus avrebbe garantito contro il rischio di manovre fraudolente in danno dei creditori. Quinto Mucio Scevola (89 A.C.) introdusse a carico dell’arrogante l’obbligo di giurare sulla correttezza delle sue azioni, aliene da ogni proposito di malversazione dolosa nei confronti dell’arrogato. ADOPTIO IV.3. I presupposti e il procedimento L’adoptio si aggiunse all’adrogatio probabilmente intorno al V sec. a.C. Si trattava dell’adozione di un filius ad opera di un pater familias diverso dal genitore naturale. Presupposto dell’adoptio era dunque che l’adottato fosse soggetti alieni iuris il quale, per effetto dell’adoptio, sarebbe passato dalla famiglia d’origine a quella dell’adottante. Necessario era l’accordo tra i due patres. L’adoptio di un filius doveva presupporre la sua liberazione dalla patria potestas del genitore naturale, condizione imprescindibile affinché potesse costituirsi la patria potestas in capo all’adottante. Per questo si avvaleva dell’istituto dell’emancipazione. Il rituale dell’adoptio si articolava pertanto in due fasi: 1. fase estintiva- ripeteva esattamente i passaggi procedurali già visti per l’emancipazione in generale; 2. fase costitutiva- utilizzava lo schema formale della in iure cessio. In quanto finzione di un processo di rivendica questa fase si svolgeva in tribunale davanti al pretore magistrato giusdicente presso il quale comparivano: l’aspirante adottante, il padre che dava il figlio in adozione e il filius adottando. L’adottante rivendicava quel filius presente in giudizio come sottoposto, il padre, che avrebbe potuto controvindicare, taceva e silenzio assenso. Conseguentemente il pretore poteva confermare (con il provvedimento detto addictio) la dichiarazione dell’adottante che aveva parlato senza essere contraddetto, costituendo la sia patria potestas sull’adottato. 56 Laddove un paterfamilias avesse voluto adottare una filia altrui, la fase emancipatoria si sarebbe esaurita in una sola vendita, con conseguente remancipatio cui avrebbe fatto seguito la usuale in iure cessio. IV.4. Gli effetti L’adottato usciva dalla famiglia di origine, verso la quale spezzava ogni rapporto di parentela agnatizia, per entrare in qualità di filius nella famiglia del pater adottivo, qui acquisendo tutti i legami di parentela con gli agnati. L’adottato, che perdeva l’aspettativa ereditaria nei confronti del genitore naturale, acquistava i diritti successori civilistici rispetto all’adottante e agli agnanti di quest’ultimo. Gli effetti dell’adoptio si producevano sul piano sociale e onomastico: l’adottato acquisiva la condizione sociale dell’adottante, patrizio o plebeo che fosse (dall’età imperiale si potrà cambiare statuto sociale solo per migliorarlo) e assumeva i 3 nomi del pater adottivo, conservando il nomen originario ma modificato con l’aggiunta del suffisso -anus. Nell’età postclassica il regime dell’adoptio subì profonde trasformazioni che furono definitivamente sancite da Giustiniano: a meno che l’adottante non fosse stato un suo congiunto, l’adottato non perdeva i legami di parentela (né i diritti successori) con lla famiglia d’origine, rimanendo sotto la patria potestas del pater naturale, solo costituendosi un’aspettativa ereditaria nei confronti del pater adottivo (ma non degli agnanti di lui). Avvenne poi una riforma sul piano procedurale: venute meno la fase emancipatoria e quella costitutiva, rappresentata dalla in iure cessio, la adoptio si concludeva grazie allo scambio delle dichiarazioni, reciproche e concordi, rese dai due patres alla presenza dell’adottando che non doveva dissentire. In età imperiale ci fu un’evoluzione che accompagnò entrambe le figure di adozione relativamente alla legittimazione femminile all’atto. Per tutta l’età classica la donna non poteva effettuare alcun tipo di adozione. Gaio è lapidario sul punto <<le donne non possono adottare in nessun modo perché non hanno neppure i loro figli naturali in potestà>>. Tuttavia l’imperatore Diocleziano consentì un’apertura per un’adrogatio al femminile, seppur in presenza di circostanze molto particolari e comunque senza costituzione di patria potestas. V. La capacità di agire. Il problema dell’età Sia nell mondo antico che nelle società moderne, il riconoscimento della attitudine dell’individuo ad una ‘relazionalità’ giuridicamente valida ed efficace postula il raggiungimento di un determinato livello di maturità psico-fisica. Tale livello viene valutato secondo parametri che variano. Nell’esperienza della Roma antica l’idoneità a concludere validi negozi giuridici appare collegata al conseguimento di un preciso stadio nello sviluppo dell’organismo umano: la pubertà. In origine accertato mediante un’indagine diretta caso per caso, nel corso dell’età classica il raggiungimento della pubertà venne da ultimo fissato in modo presuntivo, collegandolo al compimento di una determinata età. La soglia anagrafica fu diversa per i due sessi: 12 y.o. per le donne e 14 y.o. per gli uomini. V.1. La tutela degli impuberi Al di sotto di queste soglie anagrafiche i soggetti erano qualificati ‘impuberes’ e come tali mancavano di capacità di agire, condizione gravida di conseguenze se l’impubere si fosse trovato ad avere una capacità giuridica in quanto sui iuris. L’impubere sui iuris non avrebbe potuto usufruire dei diritti soggettivi di cui era titolare con la necessaria attività negoziale, così scoprendo il fianco a possibili situazioni pregiudizievoli per la consistenza del suo patrimonio. l’ordinamento civilistico, già dal cuore dell’epoca arcaica, configura lo strumento della tutela impuberum. 57 escludere la validità e l’efficacia del negozio che rimanevano intatte. E’ su questo piano che intervenne il ius honorarium, l’editto del pretore configurò due strumenti a favore dell’adolescente danneggiato del negozio: - exceptio legis Laetoriae, eccezione della legge Letoria, con la quale l’adolescente che non avesse ancora eseguito la prestazione cui si era obbligato per effetto della circumscriptio, poteva difendersi dall’azione contrattuale promossa nei suoi confronti dalla controparte maggiorenne, ottenendo di essere assolto definitivamente. - la restituzione nell’integro a causa dell’età, a favore dell’adolescente che avesse invece già effettuato la prestazione. Entro un anno poteva così chiedere, il minore di 25 anni, al pretore di essere restituito nell’integro, cioè riportato alla situazione, giuridica e fattuale, preesistente alla conclusione del negozio. LA CURATELA DELL’ADOLESCENTE Ma la rete che in tal modo dava totale sicurezza all’adolescente contro il pregiudizio contrattuale, avrebbe finito per soffocarne la piena capacità d’agire. Infatti le situazioni precarie indussero una generalizzata diffidenza dei soggetti maggiorenni cersi i negozi conclusi con gli adolescenti. La soluzione fu che il minore di venticinque anni si facesse assistere nella conclusione del negozio da un soggetto maggiorenne con funzioni di curator minoris. Il curatore dell’adolescenre non veniva a integrare alcuna capacità, posto che l’adolescente aveva in sé piena soggettività giuridica, conseguentemente non avrebbe prestato alcuna auctoritas in senso tecnico. La presenza del curatore, e il suo consenso al negozio, servivano piuttosto, d’un lato a compensare il gap di esperienza e ingenuità e soprattutto a garantire la controparte sul buon esito della situazione negoziale. IL RUOLO DEL CURATORE E LA SUA EVOLUZIONE La figura del curatore e il suo intervento rappresentano una soluzione di estrema efficacia. La soluzione nata nella prassi incontrò un favore crescente e ottenne una prima istituzionalizzazione grazie al pretore, alla cui competenza venne infatti affidata la nomina del curatore. La trasformazione più significativa sopraggiunse nel II sec. d.C., con l’imperatore Marco Aurelio. Ancora una volta nell’intento di favorire gli adolescenti, si stabilì che il curatore fosse nominato una sola volta, con validità per l’intero periodo di adolescenza, un curatore permanente. Questa figura segnò l’avvio di una diversa parabola evolutiva che avrebbe condotto il curatore ad essere investito dell’amministrazione nei confronti dell’adolescente. Prese corpo pertanto un processo di avvicinamento fra la figura della curatela e quella della tutela, con una sovrapposizione che nelle fonti giustinianee appare ormai avanzata. Al curatore dell’adolescente fu esteso il regime delle excusationes e si impose l’obbligo di prestare la satisdatio in vista dell’assunzione dell’incarico. L’oratio Severi vietava al tutor impuberis la vendita del fondo rustico in proprietà del pupillo, nel caso in cui l’alienazione non era stata consentita nel testamento paterno o non era stata autorizzata dal magistrato. In più, nel corso della tarda epoca classica, si affermò la possibilità di chiedere la venia aetatis: gli adolescenti che avessero compiuto 20 anni (18 per le donne) potevano ottenere, previa verifica caso per caso della maturità raggiunta, un provvedimento che li esonerasse anticipatamente dalla curatela. V.3. Le fragilità psichiche La possibile esistenza di condizioni psichiche tali da escludere il pieno possesso delle facoltà cognitive, pure in soggetti di età matura, era nota già all’esperienza romana più antica, le XII Tavole intervennero a fissare una disciplina nei confronti di soggetti la cui vulnerabilità li escludeva dal riconoscimento di quella capacità negoziale che sarebbe stata lesiva, per loro stessi e per il gruppo 60 familiare. C’era la figura del ‘furiosus’, l’infermo di mente che fosse sui iuris, e attribuivano al parente più prossimo in linea maschile, oppure ai gentiles (componenti della stessa gens), la potestas su di lui e sul suo patrimonio, cura furiosi. Mancando un curatore legittimo, sarebbe intervenuto il pretore, il quale, in progresso di tempo, avrebbe potuto confermare l’eventuale designazione, di per sé irrilevante, contenuta nel testamento paterno. Gaio scrisse: << il pazzo non può concludere alcun negozio poiché non comprende ciò che fa >>. Il curatore del furiosus operava pertanto alla pari del tutore del pupillo infans, intervenendo come rappresentante indiretto e concludendo in nome proprio l’atto d’interesse del furiosus. La malattia mentale aveva una rilevanza automatica, ipso iure: non necessitava dunque di un formale accertamento, né di una pronuncia interdittiva. Un ‘lucido intervallo’ restituiva temporaneamente al furiosus la sua idoneità sul piano negoziale. Posto il ruolo rivestito dal curatore, il rapporto con il furiosus e con i suoi eredi sarebbero stati regolati in base alla ordinaria actio negotiorum gestorum. Lo stesso testo decemvirale dettava la disciplina per il soggetto mon infermo di mente ma afflitto da una patologica propensione allo sperpero: il prodigus. Un provvedimento del magistrato ne sanciva l’interdizione, al prodigo era consentito di concludere solo i negozi meramente acquisitivi, per tutta la residua attività di amministrazione del suo patrimonio subentrava il curator prodigi. La cura del prodigo, come quella del furioso, era affidata al parente prossimo in linea agnatizia oppure ai gentiles. In loro mancanza il pretore avrebbe designato un curatore dativo. Anche il curatore del prodigo, al pari del curator furiosi, avrebbe operato come un negotiorum gestor. VI. La capacità di agire. Il problema del genere Su un orizzonte diverso si pone la questione del genere e del suo impatto sul riconoscimento della piena soggettività giuridica. Sul piano dell'attitudine alla titolarità di diritti soggettivi patrimoniali di natura privatistica, lo statuto femminile in Roma non si discosta in modo significativo da quello maschile. Le figlie femmine venivano all’eredità di loro padre in condizione di perfetta parità con i figli maschi: l’asse ereditario del pater familias premorto sarebbe stato diviso in quote eguali tra tutti i figli. Talune limitazioni particolari saranno introdotte in età successiva, ma la titolarità della capacità giuridica patrimoniale da parte della donna rimane un punto fermo. La situazione, tuttavia, cambia in modo significativo se si considera il piano dei diritti personali e familiari. Lo stesso Ulpiano notò:<< La condizione femminile è peggiore di quella maschile >>. Una donna non avrebbe mai potuto essere titolare della patria potestas, né avrebbe potuto adottare un figlio o esercitare la tutela, neppure sui figli rimasti orfani, almeno per tutta l'epoca classica, nonostante qualche deroga. LA TUTELA DELLE DONNE: FORME DELLA TUTELA E POTERI DEL TUTORE Al raggiungimento dell’età pubere, le donne conseguivano una capacità di agire solo parziale: lasciavano pertanto la tutela cui erano state sottoposte in quanto impuberi, per entrare in un diverso regime di tutela in quanto donne sui iuris: le tutela mulierum. Questa, dice Gaio, fu istituita dagli antenati, dagli antichi, e le sue forme ricalcavano in larga parte quelle previste per la tutela degli impuberi. Tutore della donna poteva essere infatti: - un tutore testamentario, designato nel testamento del pater familias; - un tutore legittimo, fra gli agnanti della donna e in mancanza di designazione testamentario; - un tutore dativo, in mancanza dei due precedenti, alla nomina avrebbe provveduto il tutore. Esclusa ogni possibilità di intermediazione gestioria, essendo la donna sottoposta a tutela sicuramente infantia maior, l’intervento del tutore muliebre, mai un rappresentante della donna, si sarebbe limitato alla auctoritas interpositio, rispetto al negozio concluso personalmente dalla donna stessa. Si aggiungevano ulteriori dettagli discliplinari che erano invece peculiari della tutela muliebre: nel cui ambito era prevista una quarta figura di tutore, il tutor optivus (tutore scelto). Era infatti possibile che il testamento accordasse alla donna la facoltà di scegliersi personalmente il proprio tutore che sarebbe stato poi confermato dal pretore. Fermo il principio che la donna poteva compiere 61 da sola gli atti meramente acquisitivi, anche nell’ambito dei negozi diminutivi non sempre la loro validità ed efficacia richiedeva l’intervento del tutore muliebre: la sua auctoritas sarebbe stata infatti necessaria soltanto per ‘straordinaria amministrazione’. Il trasferimento di proprietà di una res mancipi, seppur di modesto valore monetario (es. attrezzo agricolo), avrebbe richiesto la prestazione di auctoritas, superflua invece in caso di traditio di una res mancipi. L’assunzione di un obbligo contrattuale o l’aditio hereditatis avrebbero reso necessario l’intervento del tutore, accanto però ad ampi segmenti negoziali accessibili alla donna in piena autonomia. Il regime appare dunque molto meno ‘invasivo’ rispetto a quello previsto per gli impuberi, evidentemente riconoscendosi alla donna pubere un margine ben superiore di attitudine alla ‘relazionalità’ giuridica. TUTELA DELLE DONNE ED EMANCIPAZIONE FEMMINILE Nel corso dell’età repubblicana, in particolare negli ultimi due secoli ante Christum natum, le fonti antiche documentano episodi spie di un fenomeno complessivo di emancipazione femminile. Sappiamo di donne che manifestarono pubblicamente in favore dell’abrogazione di un’antica leggi (lex Oppia) che limitava la loro esibizione di gioielli; di donne che protestarono collettivamente contro l’imposizione di una gravosa imposta straordinaria, affidando ad una di loro (Ortensia) la perorazione davanti ai triumviri e ottenendo una riduzione di numeri della manovra; di donne che si dedicavano ad attività imprenditoriali. La tutela mulierum venne progressivamente esaurendo la propria rilevanza. Così Augusto, stabilì l’esonero dalla tutela (ius liberorum) per la donna ingenua che avesse partorito tre figli (limite di 4 per le donne liberte). Claudio (lex Claudia) abolì la tutela legittima esercitata dall’adgnatus proximus, portatore di un conflitto di interessi con la donna in quanto, in pari tempo, suo potenziale erede. Gaio attesta che il tutore avrebbe potuto essere obbligato dal pretore a presentarvi l’auctoritas, molto spesso poco più che pura formalità, << le donne puberi, infatti, trattano personalmente i loro affari >>. Alla metà del II sec. d.C. la giurisprudenza classica accompagnava ormai la tutela muliebre, voluta dagli antichi, dice Gaio, perché le donne fossero guidate da un tutore, afflitte com’erano dalla loro debolezza d’animo. Una debolezza tuttavia, che suonava adesso come luogo comune, una giustificazione apparente che non corrisponde più alla realtà. Ed è probabile che al tutore muliebre, una volta caduto in desuetudine, si fosse venuto sostituendo, per la donna tuttora adolescente, il curator minoris. 62 manumissio, che lo avrebbe fatto rientrare sotto la potestas del pater, non essendo venuto definitivamente meno il vincolo per effetto della mancipatio. Il meccanismo fin qui descritto, determinante il trasferimento presso un terzo di un filius nella condizione di persona in mancipio, fu sin da età risalente utilizzato anche per effettuarne la noxae deditio, ovvero consentire facoltativamente ad un pater di liberarsi della responsabilità derivante da delitto del sottoposta, anziché risponderne con il suo patrimonio, consegnando l’autore dell’illecito all’offeso. b) Anche sotto il profilo patrimoniale la soggezione dei figli è alle origini altrettanto piena, riconoscendo il ius civile capacità patrimoniale solo al soggetto sui iuris del gruppo, il pater familias. Ne consegue l’impossibilità per i sottoposti di essere titolari di situazioni giuridiche reali, come di rapporti obbligatori. Il sottoposto non può deteriorem facere (svantaggiare) la consistenza del patrimonio paterno. Il rigore del regime civilistico descritto inizia ad incrinarsi per opera del pretore, che riconosce effetti all’agire dell’alieni iuris nell’ambito del peculium, attraverso la concessione di strumenti atti a garantire coloro che avanzavano pretese a seguito dell’affare concluso col sottoposto. L’azione relativa era detta ‘de peculio’. Consentì inoltre che il pater fosse chiamato a rispondere dei debiti contratti dal sottoposto che avesse agito nell’ambito di un’attività commerciale alla quale era stato preposto dal sui iuris ad esempio in una taberna. Oltre che per concessione paterna, i filii poterono nel tempo essere titolari di peculi costituiti da beni pervenuti da altre situazioni. I proventi delle attività in castris del filius (bottino di guerra, doni ricevuti, stipendio militare etc.) composero, a partire dall’età augustea, il peculium castrense, sul quale fu riconosciuto all’alieni iuris il diritto di disporre, dapprima solo per via testamentaria, poi anche per atti inter vivos. Al castrense si affiancò in epoca postclassica, il peculium quasi castrense, composto dai proventi pervenuti al filius dallo svolgimento di talune professioni private ovvero dalla copertura di specifiche cariche pubbliche. I bona materna ed i bona materni generis (cespiti ereditati dalla madre, i primi; pervenuti al figlio per linea femminile in genere, i secondi), di essi il filius è considerato proprietario ma non ja il diritto di disporne, che rimane del pater. Con Giustiniano i filii vengono considerati pienamente capaci in ordine ai diritti sui beni pervenuti nella loro disponibilità; la titolarità dei beni si estende agli acquisti da essi realizzati, sui quali pater esercita la facoltà di godimento, in una posizione assimilabile a quella di usufruttuario. MATRIMONIO E CONVIVENZE STABILI NON MATRIMONIALI II.1. Matrimonium. Struttura, presupposti, impedimenti. Elementi idonei a costruirlo Alla base dell’organizzazione familiare romana c’è il matrimonium, l’unione tra uomo e donna nel rispetto dei presupposti edei requisiti previsti dall’ordinamento giuridico e dalla quale discendono effetti incidenti sia sul rapporto di discendenza sia sul vincolo coniugale. I Romani indicavano col sostantivo nuptiae l’articolata liturgia che si componeva di una serie di elementi fortemente evocativi (p.213), che rispondevano allo stesso tempo all’esigenza religiosa di favorire gli auspici della divinità, alla cui benevolenza venivano affidate la fertilità degli sposi e la sorte della nuova famiglia, ed a quella laica di rendere manifesto alla comunità il ‘fatto’ dell’avvenuta unione. La variegata celebrazione nuziale si snodava nell’arco di un intero giorno (dies nuptialis) e culminava nella deductio in domum viri (o mariti), il rituale di ingresso della nupta nella domus del marito (in latino vir o maritus), la casa nella quale avrebbe iniziato la sua vita da moglie (uxor). L’originaria tensione comunitaria e religiosa sottesa al compimento dell’articolato cerimoniale nuziale perse progressivamente di cogenza e lo svolgimento delle nuptiae si dimensionò sempre più nitidamente entro la sfera del costume e delle prassi sociali. L’istituto del matrimonium romano risulta infatti rispondere ad una peculiare concezione giuridica che non necessita, ai fini costitutivi, di un atto formale iniziale. Per i giuristi il matrimonium iustum e 65 pertanto produttivo degli effetti giuridici ad esso riconosciuti ove sussistano taluni specifici presupposti, previsti dall’ordinamento, e siano constatabili i due elementi fattuali costituiti dalla volontà continuativa dei coniugi a perseverare nella condizione di marito e moglie (elemento soggettivo) e dalla loro continuativa coabitazione (elemento oggettivo). I presupposti e i requisiti che rendono iustum il matrimonio, in un testo di età classica contenuto nei Tituli ex corpore Ulpiani << Il matrimonio è conforme a ius se tra coloro che contraggono le nozze vi sia il conubium, e se tanto l’uomo quanto la donna siano puberi e se vi sia il consenso di entrambi, se sui iuris, ovvero anche dei loro genitori, se sono in potestate >>. Se la sussistenza e l’accertamento dei primi due presupposti coinvolge il nucleo familiare di appartenenza degli sposi, così non può dirsi per il requisito del reciproco conubium tra i nubendi, essendo il ius conubii una facoltà distintiva dell’appartenenza comunitaria, il cui godimento può essere riconosciuto, concesso o negato solo dall’ordinamento. Occorre non solo che i nubendi siano titolari in assoluto di conubium, ma anche che inter eos conubium sit, implicitamente negandosi qualità di matrimonium iustum all’unione intercorsa tra i soggetti appartenenti alle categorie destinatarie, storicamente di uno specifico, reciproco veto. Il riferimento è alle unioni tra patrizi e plebei (anteriormente al plebiscito Canuleio del 445 a.C.), ovvero tra senatori e liberte, tra patronae e liberti, tra ingenui e prostitute, tra pupilla e tutore, tra magistrati provinciali e donne della stessa provincia, o militari di guarnigione e donne del medesimo luogo di guarnigione. Sotto Costanzo il veto riguardò anche le unioni tra cristiani e ebrei. Per la validità dell’unione essa deve essere monogamica enon deve aver avuto inizio prima di almeno 10 mesi dallo scioglimento del precedente matrimonio (ius lugendi). Era necessario che non vi fossero vincoli di parentela tra i futuri coniugi, sia in assoluto, tra i parenti in linea retta, che entro il sesto grado, tra i parenti per via collaterale. Le nuptiae contratte in violazione erano considerate nefariae o incestae, con conseguente nullità dell’unione. Questo divieto subì una deroga da un senatoconsulto del 49 d.C., per consentire le nozze tra l’imperatore Claudio e la nipote Agrippina, ma fu ripristinato nel 342 d.C. Abbisogna ancora che si acclarino i due elementi fattuali considerati fondativi dell’unione: ● elemento soggettivo del consenso, ovvero l’intenzione, la volontà continuativa dei coniugi a perseverare nella condizione di marito e moglie; ● elemento oggettivo della collaborazione, intesa come stabilità della convivenza coniugale. I due requisiti sono rivelatori della peculiare concezione che i Romani ebbero dell matrimonio, quale situazione di fatto, la cui esistenza andava valutata in base alla persistenza in atto degli elementi. Il consenso rimanda alla costante e permanente intenzione di vivere come marito e moglie, la quale deve essere pertanto continuativamente ravvisabile ai fini della perduranza dell’unione. Tale concezione si trova soventemente ribadita nelle fonti, le quali puntualizzano altresì il rapporto tra i due requisiti: il matrimonio si costituisce in base al consenso, non all’unione fisica tra i due coniugi. La dimensione fattuale del matrimonioromano ne accomuna la natura alla possessio, per la cui sussistenza va parimenti accertata la persistenza in atto – tra il possessore e la res – dei due requisiti dell’animus possidendi (elemento spirituale) e del corpore possidere (elemento materiale). Il ritorno a casa del marito a seguito di prigionia di guerra, pur reintegrando ipso iure nella condizione di libero e di civis, e quindi nel godimento dello ius conubii, non avrebbe ricostituito, iure postliminii, anche il matrimonio, come avveniva per le situazioni giuridiche che facevano capo al coniuge prima della prigionia. Per ricostituire i vincolo coniugale, andavano necessariamente ripristinati i due requisiti della convivenza abituale e della concorrente affectio maritalis. II.2. Conventio in manum La forza attrattiva esercitata dalla familia, con la sua concezione potestativa e patriarcale, incide sulla storia dell’istituto del matrimonio che, dell’organismo familiare, costituisce il fondamento giuridico, oltre che naturale. Sin dalle origini di Roma al matrimonio soleva accompagnarsi un istituto, la conventio in manum, che comportava l’ingresso della moglie nella familia del marito. Lessicalmente ‘convenire in 66 manum’ rimanda plasticamente al congiungersi (cum-venire) degli sposi, rafforzato dalla evocazione della ‘mano’, la quale può rappresentare il simbolo della forza e del potere, ma anche della protezione e dell’affidamento, era quest’ultimo il senso (es. ricongiungere le destre costituiva uno dei gesti simbolici del rito nuziale). Nella locuzione risultano efficacemente e sinteticamente intrecciati entrambi i significati: essa descrive tanto il fatto a cui costitutivamente si lega l’unione nuziale suggellata dall’incontro delle mani, quanto anche l’ ‘effetto’ giuridico che consegue dalla sua instaurazione, ovvero il passaggio della donna nella sfera giuridica del marito, o del pater di lui, nella condizione definita di (uxor) in manu, comportante la sua sottoposizione ad una serie di doveri. L’ultima connessione della conventio in manum con il matrimonio emerge dall’esame dei tre modi attraverso cui si realizzava l’in manum convenire: usu, farreo, coemptione. A. L’usu in manum usu convenire risulta già praticato anteriormente all’epoca decemvirale. Gaio racconta che conveniva in manum la sposa, la nupta, che avesse perseverato nella condizione di moglie per un intero anno, allo scadere del quale l’unione coniugale si sarebbe trasformata inevitabilmente e definitivamente in matrimonio cum manu. Dunque gli effetti della ‘stabilizzazione giuridica’ si sarebbero verificati all’esito del comprovato consolidamento dell’unione, tarato sul primo anno di ininterrotta conseguenza. A ciò pose argine una disposizione contenuta nelle XII Tavole la quale stabilì che per impedire che si instaurasse la conventio in manum usu, la donna si sarebbe dovuta allontanare ogni anno dalla casa maritale per un trinoctium, ponendo così in essere un comportamento platealmente ed emblematicamente indicativo, per previsione legislativa, della non intenzione di conferire all’unione coniugale l’ulteriore qualificante natura di unione cum manu. La coabitazione veniva solo strumentalmente interrotta e l’affectio maritalis non risultava compromessa dall’espediente decemvirale. Gaio ci informa che, al suo tempo, la pratica di questa modalità di conventio in manum era venuta meno, per effetto di legge e di desuetudine. B. La conventio in manum farreo (mediante il farro) si instaurava invece all’atto della celebrazione delle nuptiae, era una solenne cerimonia dedicata a Giove Farreo, svolta alla presenza del pontefice massimo e di 10 testimoni, nel corso della quale gli sposi venivano uniti col rito del farro. La sacralità e la solennità di cui era intriso l’atto hanno fatto pensare che esso fosse riservato, in origine, unicamente ai patrizi, come anche che fosse ad esclusivo appannaggio degli appartenenti all’ordine sacerdotale. La confarreatio determinava, accanto agli effetti giuridici, effetti suoi precipui (p. 218) e solo coloro che erano nati da genitori uniti da nuptiae, e che perciò si trovavano nella condizione di patrimi et matrimi, potevano accedere ai più importanti sacerdozi, come il flaminato. Il ricorso a questa actio si andò diradando nel tempo, ma è anche vero che essa continua ad essere ricordata nelle fonti per i secoli a venire, con un linguaggio che induce a ritenere la confarreatio, in uso, ancorché in modo residuale, ancora in età classica. C. Più laica è la coemptio. Il sostantivo è composto da cum e emptio (da emere, acquistare) e descrive la struttura giuridica dell’atto, ovvero il suo articolarsi intorno ad uno schema che nelle fonti appare evocativo di una sorta di reciproca e fittizia compera degli sposi, calata nell’ambito formale della mancipatio. Essa si svolgeva alla presenza di 5 testimoni e del libripens, dinanzi ai quali avveniva la pronuncia di dichiarazioni accomodate alla finalità propria dell’atto, nel suo certo collegamento col matrimonio: Gaio definisce la coemptio ‘mortis causa’. Effetti: ancorché la familia romana si fondasse sulle iustae nuptiae, la donna andata sposa continuava a rimanere giuridicamente legata (adgnata) alla sua famiglia d’origine, mentre con i figli da lei generati, adgnati del loro pater e dei componenti della famiglia per linea paterna, avrebbe mantenuto solo il legame di cognatio. Ebbene quando il matrimonio invece era accompagnato dalla conventio in manum, l’uxor divenuta in manu viri perdeva i legami di adgnatio con la sua famiglia d’origine ed entrava a far giuridicamente parte del gruppo familiare dell marito, instaurando quindi il legame di adgnatio col consorte, col suo paterfamilias, con i figli nati dal matrimonio e con tutti gli altri appartenenti, fino al sesto grado per linea 67 consumato nella casa maritale il marito veniva facultato a mettere a morte l’amante sorpreso, ma non la moglie. Il pater familias della donna adultera a quale spettava il potere di uccidere contestualmente al correo anche la figlia; al pater spettava parimenti l’accusa privilegiata di adulterio. Non era possibile intentare l’actio furti, penale ed infamante, contro la moglie che avesse sottratto beni appartenenti al marito; il pretore indusse l’actio rerum amotarum e previde l’applicabilità tra i coniugi, del cosiddetto beneficium competentiae, che consentiva di limitare la condanna all’attivo patrimoniale del coniuge condannato. Per iniziativa del pretore, poi consolidato dagli imperatori fu poi garantita una reciproca aspettativa successoria tra i coniugi. II.6. Scioglimento del matrimonio Secondo un noto testo del giurista Paolo, di età classica, le cause di scioglimento del matrimonio romano erano il divorzio, la nmorte, ovvero accadimento come la prigionia di guerra o altre circostanze comportanti la schiavitù. Dalle elencazione si desumano le tipologie dei possibili fatti determinanti il venir meno del vincolo coniugale: fatti volontari come il divorzio; fatti naturali, come la morte; fatti giuridici, come le vicende incidenti. a. Divorzio. La natura fattuale e libera del matrimonio Romano, fondato sulla persistenza del consenso, implicava la possibilità del suo scioglimento. poteva trattarsi di una volontà reciproca, divortium; o dall’intenzione di uno dei due coniugi,repudium. In età antica lo scioglimento volontario dell'Unione coniugale era infatti considerato un fatto di grande risonanza che intaccava uno dei fondamentali pilastri della concezione potestativa Romana originaria, la famiglia. fu pertanto inizialmente soggetta ad un severo controllo sociale e accettata in caso di specifici comportamenti di cui si fosse resa responsabile la donna, ritenuti incompatibili col perdurare dell'Unione: l’adulterio, l'ubriachezza, forse anche il procurato aborto. il repudio ingiustificato sarebbe stato oggetto di riprovazione sociale nei confronti del marito ed esposto a sanzioni patrimoniali. , non era prevista una modalità formale necessaria che conclamasse l'intenzione di porre fine al vincolo coniugale. era Tuttavia prassi sottolinearne il fatto mediante il ricorso a certa verba, da formulazioni pronunciate platealmente dal ripudiante e convenzionalmente atte a sancire l'interruzione della convivenza mediante l'allontanamento del coniuge, accompagnate dal gesto simbolico della restituzione delle chiavi della domus. con l'allentamento del rigore familiare iniziale, si favorì il superamento della rigorosa visione di età arcaica. si pervenne così, per un verso, al ricorso sempre più frequente alla pratica del divorzio, anche senza giustificato motivo e Per iniziativa Adesso anche delle mogli e , per l'altro, al superamento della originaria prassi della esternazione formale, scritta o orale, della volontà di divorziare dall'altro coniuge, con problemi interpretativi di non poco conto. Sin da età augustea per rispondere all’esigenza di certezza necessaria al fine di non incorrere nelle conseguenze penali scaturenti dall’accusa di adulterio, e poi anche in età classica, si registra sotto il profilo delle forme la reintroduzione di modalità esteriori in cui fissarne la manifestazione, che deve essere ora esternata dinanzi a sette testimoni e notificata al coniuge. Subisce profonde modificazioni su impulso della concezione cristiana del matrimonio volta a dissuadere i coniugi dalla pratica dello scioglimento dell’unione. Al rispetto dei requisiti formali, deve accompagnarsi inoltre la sussistenza di iusta causa (conseguenza di condotte disdicevoli tenute da uno o da entrambi i coniugi) tra quelle ritenute lecite per ricorrere al divorzio: possono essere comuni ad entrambi i coniugi ovvero riguardare il marito, o la moglie. In talune o ulteriori circostanze, determinate da vicende oggettive per le quali non era possibile imputare la colpa ad alcuno dei due coniugi, il divorzio si verificava bona gratia, come nel caso di impotenza maritale, prigioniero di guerra, senza che se ne abbiano più notizie. Il divorzio posto in essere nel rispetto dei requisiti formali ma sine iusta causa, non è nullo, ma espone i coniugi a sanzioni patrimoniali o personali. 70 b. Morte o cause iure civili di scioglimento. il tempo di attesa dal momento della morte del marito era di dieci mesi e rispondeva all'esigenza di accertare l’inesistenza di un eventuale stato di gravidanza in corso. La finalità era quella di evitare di incorrere nella turbatio sanguinis, ovvero nell’incertezza circa la paternità del nascituro. La mancata osservanza della prescrizione provocava l’infamia e dava luogo a sanzioni di natura sacrale. La necessaria sussistenza del requisito momentaneo del conubium tra i coniugi, ai fini di un valido matrimonio, comportava inoltre lo scioglimento dell’unione al verificarsi di specifiche cause di ius civile che incedevano sullo status libertatis e civitatis. Il matrimonio in tali casi si scioglieva sotto il profilo del suo riconoscimento e dei suoi effetti iure civile, ma il vincolo tra coniugi poteva mantenersi, sotto forma di contubernium. Le stesse conseguenze si verificavano in caso di perdita di conubium da parte di uno o di entrambi i coniugi per perdita della cittadinanza ovvero per situazioni specificatamente previste. II.7. Scioglimento della conventio in manum Qualora il matrimonio fosse stato accompagnato dalla conventio in manum, lo scioglimento, pur sempre possibile, avrebbe risentito della instaurazione del vincolo giuridico avvenuto usu, farreo o coemptione, imponendo il ricorso a specifiche e formali modalità dissolutive di esso. I coniugi legati da nuptiae conferreatae avrebbero dovuto fare ricorso alla cerimonia della diffarreatio, di cui non conosciamo i dettagli ma il suo essere ricordata come horrida antiquitas nelle fonti lascia intendere l’aura di turbamento e di riprovazione sociale, religiosa e sacrale che ne doveva accompagnare lo svolgimento. La diffarreatio era infatti finalizzata a sciogliere un legame matrimoniale che si era costituito sotto il crisma della potenziale indissolubilità, sancita dalla solennità rituale di una forma costitutiva. Per l’unione matrimoniale accompagnata da una conventio in manum attuata usu o coemptione la vicenda si presenta più articolata. Lo scioglimento della conventio in manum, in tali casi, poteva avvenire a seguito dello scioglimento del sottostante matrimonio, e comportava la realizzazione di una procedura di liberazione della donna, che si attuava mediante remancipatio. L’uomo, una volta ricevuto il ripudio, non poteva opporsi al compimento dell’atto emancipatorio. II.8. Restituzione della dote Si è detto di come la dote fosse res mulieris. In antico, non era previsto uno strumento diretto col quale poterne ottenere la restituzione: per prevenire a tale risultato, occorreva affiancare all’atto costitutivo della dote una cautio de restituenda dote, ovvero un’apposita stipulatio. Qualora l’evento si fosse poi verificato, il marito sarebbe stato chiamato in giudizio e tenuto a restituire in virtù dell’azione scaturente dall’obbligazione assunta. In età tardo repubblicana, con la previsione, in caso di cessato matrimonio, di un’azione, l’actio rei uxoriae, con cui la donna o il suo paterfamilias potevano pretendere dal marito la restituzione del patrimonio dotale. L’esperimento dell’azione appare infatti tutto orientato a favorire il soddisfacimento dell’interesse primario della uxor: in ipotesi di scioglimento del matrimonio per divorzio o per premorienza del marito, l’azione per la restituzione, comunque dovuta, spettava alla donna, se sui iuris, ovvero, se ella era alieni iuris, al pater di lei, ma in esercizio congiunto con la figlia. In caso invece di premorienza della donna rispetto al coniuge, l’azione poteva essere esercitata dal suo pater familias solo se la dote era stata da lui costituita. L’actio rei uxoriae, di incerto regime, avrebbe consentito al giudice la previsione di dilazioni al marito nella restituzione dei beni, e, in virtù del c.d. beneficium competentiae, anche una limitazione dell’entità della condanna, misurata sulle effettive condizioni economiche del coniuge. Era poi previsto che al marito fossero accordate le c.d. retentiones, ovvero trattenute sull’ammontare dotale, correlate a varie causae: - retentiones propter liberos, per il mantenimento dei figli rimasti a carico del marito dopo il divorzio o la morte della moglie. - retentiones propter mores, ovvero trattenute giustificate dalla condotta riprovevole tenuta dalla donna durante il matrimonio e causative del divorzio. 71 - retentiones propter res donatas, operate per scomputare l’ammontare dei regali fatti alla donna durante il matrimonio. - retentiones propter res amotas, nel caso di sottrazioni di beni dalla casa maritale, da parte della moglie, in vista dello scioglimento del matrimonio. - retentiones propter impensas, relative alle spese sopportate dal marito durante il matrimonio per la gestione del patrimonio dotale. In età postclassica e giustinianea si registrano una serie di interventi volti a rafforzare la concezione della dote come res di appartenenza muliebre. In caso di divorzio, si prevede che la dote vada restituita alla donna, salvo che il matrimonio non si sia sciolto per sua colpa; scompare anche il sistema delle retentiones. II.9. Convivenze stabili non matrimoniali: concubinato e contubernium Il matrimonium non rappresentava, né poteva rappresentare, l'unica modalità espressiva di un vincolo lecito, affettivo e stabile tra uomo e donna. Accanto al matrimonio appare da sempre attestata la coesistenza di unioni di fatto tra persone di sesso opposto, solitamente appartenenti a classi sociali differenti, le quali non potevano o non volevano unirsi in matrimonio. Per esse si parla di concubinatus, concubinato. Il sostantivo nel rimarcare il riferimento all'elemento materiale della convivenza, enfatizza l'alterità concettuale di tale relazione rispetto al matrimonium. Cioè che diverte è il punto di messa a fuoco, che per il matrimonium è costituito dalla qualità precipua dell'affectio maritalis e dal corteo di esternazioni ad essa coerenti che conferiscono all'unione quell'honor appunto detta 'matrimonii'. In caso di assenza di conubium era l'unione in sé che, per difetto di requisito giuridico, non assurgeva a dignità di matrimonio; così come non poteva qualificarsi matrimonio l'unione affettiva intercorrente con un soggetto già legato da vincolo coniugale corrente ad un altra donna. La prassi di convivenze abituali non matrimoniali appartiene al costume romano, senza ombra di riprovazione sociale, sin dalle origini: in una disposizione legislativa che la tradizione letteraria riferisce al re Numa Pompilio è contenuto il riferimento alla paelex, donna ordinariamente convivente con un uomo sposato, alla quale viene vietato di toccare l'altare di Giunone. Il ruolo della paelex, della concubina, è da intendersi come socialmente diverso rispetto a quello dell'amante occasionale. Storicamente il concubinato si afferma sino all'età Giustinianea. Riceve probabilmente impulso sotto Augusto, per via della esclusione di tale relazione da quelle extraconiugali per le quali si incorre nel crimen adulterii e si conforma, in età classica, come unione lecita e foriera di talune conseguenze giuridiche quali: - La possibilità di automatica trasformazione del legame in matrimonium. - L'inquadramento dei figli nati da concubinato nella condizione di liberi naturales e l'introduzione, in età Giustinianea, anche un loro limitato diritto successorio con i genitori. Il concubinato riceve un trattamento comprensibilmente più restrittivo in età cristiana, con la previsione di taluni presupposti ai fini della sua liceità, come l'assenza di parentela o affinità, di matrimonio o altra relazione di concubinato in atto, comprovata stabilità dell'unione. Se ne incentiva inoltre la trasformazione in matrimonio, con la previsione dell'acquisto della condizione di 'legitimi' dei figli mediante il subsequens matrimonium. Per potervi accedere occorreva però che il matrimonio fosse stato possibile all'epoca del concepimento. Giustiniano consentì successivamente la legittimazione della prole nata da concubinato 'per rescriptum principis' mediante cioè un provvedimento emanato, su istanza, dall'imperatore. Va ricordata poi la modalità sviluppatasi sulla scia di interventi di natura fiscale di Teodosio e Valentiniano (443-444 d.c.), con i quali si consentiva ad un padre che avesse assegnato il proprio figlio naturale all'ufficio di decurione, di considerarlo alla stregua di filius legitimus limitatamente agli effetti giuridici di lasciti ereditari o donazioni in vita effettuati in suo favore. Stante l'oblatio curiae (l'offerta alla curia) che in tal modo si realizzava per mano del padre naturale, si sulle convenzionalmente parlare in proposito di legittimazione per oblationem curiae. Tra liberi e servi, la 72 ‘esecutore testamentario’. Alcuni studiosi ipotizzano che in età decemvirale la mancipatio familiae non contemplasse anche l’istituzione di erede, ma fosse semplicemente diretta a consentire a un pater di distribuire determinati suoi beni, dopo la sua morte, a persone al di fuori del più stretto ambito familiare. Da tale atto si sarebbe sviluppata poi una nuova forma di testamento, il testamentum per aes et libram, combinando gli effetti della mancipatio familiae e di una heredis institutio. Il familiae emptor si sarebbe tramutato in un semplice ‘uomo di paglia’ (dicis gratia). Il reale esecutore delle volontà del de cuius diventava, nel quadro del testamentum per aes et libram evoluto, l’erede. Ben presto di afferma la regola in base alla quale non possono convivere la delazione testamentaria e quella ab intestato. Là dove il testamento regoli la successione solo in parte, le quote degli eredi istituiti si accrescono in proporzione fino all’ammontare del totale dell’hereditas. IV. La bonorum possessio L’insieme di regole delineato in età arcaica e decemvirale avrebbe avuto ben presto la necessità di correttivi. La disciplina introdotta nell'editto del pretore, risalente almeno agli inizi del II se. a.C., e seggetta a progressivi aggiornamenti, consisté nel riconoscere a determinati soggetti non il dominium, la proprietà, sui beni ereditari, o la qualifica di hered, ma la bonorum possessio (possesso dei beni ereditari), una tutela provvisoria in via possessoria. Da un certo momento in poi, sulla scia delle istanze sociali via via sempre più diffuse, il pretore iniziò a concedere la bonorum possessio, anche a chi non avesse in determinati casi, un titolo ereditario secondo il ius civile, ma fosse considerato, ciò nonostante, meritevole di tutela. In origine il possesso era temporaneo e il bonorum possessor era destinato a soccombere a seguito di un’azione intentata con successo dall’erede civile (bonorum possessio sine re); successivamente il possesso fu accordato e difeso, a determinate condizioni, anche nei confronti dell’erede civile (bonorum possessio cum re). Il pretore avrebbe ammesso i privati a richiede la bonorum possessio si in caso di testamento non confezionato correttamente secondo le regole del ius civile nell’editto dedicato alla bonorum possessio secundum tabulas; sia in assenza di testamento nelle forme della bonorum possessio sine tabulis, sia per ammettere alla successione soggetti per un motivo o per l’altro non inclusi nel testamento, nelle formule della bonorum possessio contra tabulas. La bonorum possessio andò progressivamente avvicinandosi e contaminando il sistema successorio di ius civile. In età tardoantica, venuta meno la distinzione fra ius civile e ius honorarium, i due sistemi si vennero ulteriormente assimilando. Nella compilazione giustinianea la distinzione fra successione di ius civile e bonorum possessio pretoria si mantenne solo pro forma. V. La successione intestata Il sistema successorio illustrato nelle XII Tavole in caso di assenza di testamento, fondato sulla struttura agnatizia delle origini, si rivelò eccessivamente rigido. Ad esempio i figli che venivano emancipati uscivano dalla potestas del padre e non potevano più essere qualificati sui. Analoghi problemi si posero per gli adgnati diversi dal proximus, per le donne che avessero sposato il pater familias senza conventio in manum, per i figli dati in adozione e per altri congiunti. V.I. La bonorum possessio intestati Nella propria opera d’intervento a sostegno delle istanze sociali emergenti, il pretore iniziò ad accordare, ad alcuni dei soggetti esclusi dalla successione secondo il ius civile, la bonorum possessio sine tabulis (in assenza di testamento). Cicerone nelle Verrine documenta una versione embrionale delle relative clausole, compiutamente formulate, invece in età adrianea. Nonostante le singole clausole si possano ricostruire solo indirettamente, siamo sicuri che il pretore prevedesse nell’editto quattro ordini di soggetti ammessi a chiedere (e ottenere) la bonorum possessio (successio ordinum et 75 graduum). Ogni successibile aveva di solito 100 giorni per chiedere il bonorum possessio, scaduti i quali si sarebbe passati alla successiva classe di bonorum possessores. a. Ordo unde liberi- tutti i figli del defunto (liberi), sia se sotto la sua potestà, sia se emancipati. I figli emancipati potevano concorrere senza correttivi, ma si sarebbe verificata una sperequazione: mentre questi avrebbero potuto formarsi un patrimonio autonomo, non essendo in potestà di altri, i sui avrebbero, con la loro attività, incrementato quel patrimonio ereditario che ora venivano chiamati a spartire con chi non aveva contribuito ad accrescerlo. Perciò si chiedeva agli emancipati di conferire proporzionalmente, ai sui heredes, i beni di cui fossero titolari al momento della successione, prima di ammetterli alla bonorum possessio con i fratelli. b. Ordo unde legitimi- consiste nell’accordare la bonorum possessio agli stessi soggetti che erano chiamati all’eredità secondo l’ordine decemvirale(legitimi). In tale classe rientravano solo gli adgnati e gli eventuali sui che avessero lasciato scadere il primo termine a loro disposizione. c. Ordo unde cognati- in esso erano ammessi i parenti di sangue in linea collaterale fino al sesto grado (eccezionalmente fino al settimo), i cognati: la successione era in ordine gerarchico, seguendo il criterio della prossimità di grado. d. Ordo unde vir et uxor- in cui erano ammessi alla bonorum possessio la vedova nei riguardi del marito defunto e il vedovo nei riguardi della moglie defunta. Un regime particolare si dava nel caso della successione a liberti. Se il liberto di cui si apriva la successione fosse defunto senza figli, la bonorum possessio sarebbe spettata per intero al patrono e ai discendenti legittimi di lui. V.2. I senatoconsulti Tertulliano e Orfiziano Il sistema successorio edittale avrebbe condotto ad una progressiva apertura della disciplina successoria in favore dei parenti di sangue (cognati). In particolare due senatoconsulti risalenti al II sec. d.C. regolarono i profili della successione tra madri e figli. Sino a quel momento, era possibile una successione reciproca, ab intestato, solo se la madre fosse stata nella manus del marito. Nel caso (assai più frequente) in cui la donna non fosse stata nella manus del marito, le aspettative successorie di lei riguardo ai figli, e quelle dei figli nei suoi confronti, potevano farsi valere solo all’interno della terza classe di bonorum possessores, quella unde cognati. Nel corso del principato si avvertì in modo più pressante l’iniquità di una tale disciplina. Il senatoconsulto Tertullianum, di età adrianea, attribuì alla madre munita di ius liberorum il diritto di succedere al figlio subito dopo i discendenti di lui, il padre e i fratelli consanguinei. Il senatoconsulto Orphitianum, emanato nel 178 d.C. sotto Marco Aurelio e Commodo, attribuì ai figli il diritto a succedere alla madre nell’ordo unde legitimi, a preferenza di qualunque altro agnato. Le disposizioni dei due senatoconsulti svolsero dunque una funzione integrativa e correttiva della successione iure honorario. V.3. I successivi sviluppi sino ad età giustinianea Costituzioni di età tardoantica attribuirono al figlio il diritto a succedere non soo nei riguardi della madre, ma anche degli ascendenti materni. Alcune costituzioni imperiali riconobbero diritti ai figli nati fuori dal matrimonio e successivamente legittimati, nonché alle concubine. Quanto ai liberti, iniziò a darsi rilievo alla parentela di sangue creatasi nel periodo di schiavitù (cognatio servilis). Infine Giustiniano, con due importanti novelle, la 118 del 543 d.C. e la 127 del 548 d.C., operò un riordino complessivo della successione ab intestato, unificando definitivamente il sistema civilistico e quello pretorio, e ponendo alla base della nuova disciplina il criterio esclusivo della cognatio. La disciplina operava una suddivisione dei successibili in quattro classi: - stirpes, tutti i discendenti del de cuius - ascendenti paterni e materni, i fratelli e le sorelle germane, nonché il loro figli 76 - fratelli e sorelle consanguinei, e i relativi figli - tutti gli altri, secondo il rispettivo grado di parentela. In assenza di collaterali, secondo le vecchie regole, succedeva il coniuge superstite. Solo se i chiamati ad una classe rifiutassero la delatio o fossero assenti, si passava a deferire l’eredità ai componenti della classe successiva. In caso di concorso di più discendenti all’interno di una classe, costoro erano chiamati a conferire alla massa ereditaria le libertà in precedenza ricevute dal de cuius, come la dote, la donazione obnuziale etc. (c.d. collatio descendentium). VI. La successione testamentaria Presupposti di capacità Per quanto attiene alla successione mediante testamento, la tipologia in esame si diffuse ben per tempo, acquistando una notevole rilevanza sin da età medio-repubblicana. Il testamento rappresentava, per la classe medio alta, uno status symbol. L'ammontare del censo definiva di frequente il peso politico di un cittadino. Sembra che sia da ricondursi a Servio Sulpicio (metà del I sec. a.C.) la seguente definizione: il testamento è la testimonianza complessiva della nostra volontà, accompagnata dalle necessarie formalità, affinché sia valida dopo la nostra morte. Per indicare la capacità di testare le fonti usano l’espressione testamenti factio (attiva). Non possiedono quest’ultima gli schiavi, gli alieni iuris, gli impuberi sui iuris, i folli; a Latini e peregrini alicuius civitatis essa è attribuita ma a determinate condizioni. Le donne sui iuris, forse in origine sprovviste della capacità di testare, la acquisirono ben per tempo (forse già in età decemvirale): era necessaria tuttavia per loro l’auctoritas tutoris, solo con Adriano sarebbe venuta a meno questa necessità. Legittimati a ricevere per testamento, ossia in possesso di testamenti factio passiva, erano tutti i soggetti liberi e cittadini romani che non fossero stati privati per disposizione di legge o sentenza della capacità di ricevere ereditariamente, nonché i loro schiavi. Ai peregrini non era possibile essere destinatari di lasciti ereditari, ai Latini invece ciò fu consentito. Gli schiavi acquistavano al loro avente potestà, purché ottenessero la libertà al momento dell’apertura della successione. Per quanto attiene alle donne, la loro capacità di ricevere per testamento fu piena fino alla lex Voconia del 169 a.C., in base alla quale fu vietato ai cittadini che avessero un censo superiore a 100 mila sesterzi di istituire eredi donne. Nel corso del principato tuttavia le previsioni in esame sarebbero cadute in desuetudine, anche per via della responsabilità di aggirarle disponendo fedecommessi. La capacità di essere istituiti eredi doveva sussistere sia al momento della confezione del testamento, sia al momento della morte del testatore, sia al momento dell’acquisizione ereditaria, là dove quest’ultima non coincidesse con la morte del testatore (tria momenta). Ebbero particolare importanza le previsioni contenute nella lex Iulia de maritandis ordinibus (18 a.C.) e nella lex Papia Poppaea nuptialis (9 d.C.), le c.d. leggi matrimoniali augustee: in esse si stabiliva che i non coniugati (caelibes) e i coniugati senza figli (orbi), compresi entro determinate età, non potevano acquistare in tutto o in parte ciò che era stato lasciato loro per testamento, sia a titolo di eredità che di legato. Le quote e i lasciti rimasti in tal modo non percepiti (caduca) venivano destinati a quei beneficiari che avessero figli e, in assenza di essi, all’aerarium populi Romani. Testamento liberale e bonorum possessio secundum tabulas Il già descritto testamento per aes et libram era un atto rivolto alla istituzione di erede e contestualmente ad una serie di disposizioni collaterali. Originariamente fondato su un rituale di gesti e parole, sarebbe invalsa nel tempo La prassi, per i testatori, di porre per iscritto, solitamente su tavolette cerate, le loro ultime volontà. La circostanza lascia pensare che nel principato il testatore si presentasse dinanzi ai testimoni (in numeri di 7, contando i 5 necessari per la mancipatio familiae e le 2 persone destinate al rivestimento del ruolo di familiae emptor e quello di libripens) tenendo in mano le tavole testamentarie già redatte. Si sarebbe poi provveduto a munire le tavolette dei sigilli dei sette 77 solenne dell’incarico affidatogli. A quel punto i familiari dell’impubere avrebbero dovuto rivolgersi al pretore perla nomina di un tutor. Già in diritto classico era diffusa la prassi di conferire alla madre dell’impubere il diritto di amministrare i beni destinati al pupillo. La tutela muliebre fu ammessa solo in età tardo antica. Disposizioni testamentarie a titolo particolare: legati e fedecommessi I testamenti contenevano assai di frequente lasciti rivolti a integrare una successione a titolo particolare. I testamenta dei personaggi in vista dell’epoca contenevano solitamente numerosi lasciti ad personam, per ricordare i legami intrattenuti in vita con parenti, amici, clienti, liberti etc. Fra essi il legato era la forma più importante e tipica: si trattava del lascito di un determinato cespite ereditario, da parte del testatore in favore di una determinata persona, facendone carico all’asse ereditario o all’erede (onerato). Il legato produceva l’acquisto, per l’onorato, di singoli beni o diritti e non generava una responsabilità del legatario per debiti del defunto. (1) Il legatum per vindicationem Il legato ‘per rivendica’ era un lascito ad effetti reali: destinava al legatario la proprietà (dominium) su un bene che era stato del testatore, o un diritto reale su un bene ereditario. <Do e lego a Tizio lo schiavo Stico>. Il legatario acquisiva immediatamente la proprietà del bene. Il de cuius doveva ovviamente essere proprietario del bene, o titolare del diritto reale, oggetto di legato: diversamente il legato sarebbe stato nullo; nel principato tuttavia furono escogitate soluzioni per preservare la volontà testamentaria e la validità, almeno parziale, di simili lasciti. (2) Il legatum per damnationem Il legato ‘per imposizione di obbligo’ aveva ad oggetto l’imposizione, da parte del testatore, all’erede, di operare una prestazione patrimoniale a favore del legatario. Non aveva quindi effett i reali, come il legatum per vindicationem. “Il mio erede sia obbligato a trasferire a Tizio il cavallo Incitatus”. Se l’oggetto del legato fosse appartenuto a un terzo, l’erede era tenuto ad acquistarlo e a trasmetterlo al legatario, o, in alternativa, a fargli pervenire il contro valore. (3) Il legatum sinendi modo E’ il ‘legati per imposizione di permettere’, < il mio erede sia obbligato a permettere a Tizio di impossessarsi e tenere per sé il cavallo Incitatus >. In esso si prescriveva all’erede non di compiere positivamente un’attività, ma di non impedire al legatario di impossessarsi del bene oggetto di legato. Veniva anche usato con funzione liberatoria, per consentire cioè al legatario di non pagare un debito vantato dal testatore. Progressivamente poi sarebbe stato esautorato dall’imporsi del legatum per damnationem. (4) Il legatum per praeceptionem Quest'ultimo tipo di legato, ‘per prelievo’, o ‘prelegato’, era un lascito avente ad oggetto la proprietà o un diritto reale parziario, destinato a uno o più coeredi. <Tizio prelevi il cavallo Incitatus>. Il legatario otteneva il bene con l’esperimento dell’actio familiae erciscundae: il giudice dell’azione divisoria, prima di operare la ripartizione del patrimonio dei coeredi, era tenuto ad assegnare il/i beni oggetto del legatum per praeceptionem all’onorato. La grande diffusione, nella prassi testamentaria, dei legati, condusse nel tempo all’emanazione di provvedimenti che limitassero la facoltà di disporne, nel testamento. Si intendeva evitare soprattutto che i testatori distribuissero il loro intero patrimonio in lasciti a titolo particolare, lasciando all’erede istituito un nudum nomen, ossia il titolo di erede. Si trattava tuttavia di leges imperfectae, che non disponevano la nullità dei lasciti in esame, ma solo una pena pecuniaria per il trasgressore. La lex Falcidia del 40 a.C. previde che il testatore non potesse 80 distribuire, attraverso legati, più dei tre quarti dell’hereditas (per conservare ai legittimati la quarta Falcidia). Nel tempo le diverse tipologie di legato si vennero avvicinando, anche per via della prassi testamentaria di contaminare le diverse formule. Un fenomeno analogo si sarebbe verificato anche nel senso di utilizzare, per disporre dello stesso bene ereditario, sia della formula del legato, che di quella del fedecommesso, così che, in caso di invalidità di una delle due disposizioni, fosse possibile eventualmente contare sulla ‘salvaguardia’ fornita dall’altra. Un senatoconsulto emanato dall’età di Nerone dispose che un legato che avesse avuto oggetto un bene che non era mai appartenuto al disponente dovesse considerarsi valido come se fosse stato disposto nella forma idonea. Nel tardo impero e nel diritto giustinianeo i quattro tipi di legati non furono più considerati negozi a sé stanti e la distinzione fra le diverse formule di disposizione ebbe rilievo solo quanto all’efficacia che il testatore intendesse conferire al legato. (5) I fedecommessi Già nella tarda repubblica si era andata diffondendo nella prassi la consuetudine di rivolgere all’erede o ad altra persona beneficata preghiere o raccomandazioni, in modo formale, contando sulla sua fides. I fideicommissa non erano soggetti a particolari requisiti di forma. Potevano essere disposti nel testamento, o in un autonomo documento, confermato o meno nel testamento (codicillus), in lingua latina o in altra lingua, e anche oralmente, o addirittura con l’uso di gesti (nutu). La relativa libertà formale lasciava aperte numerose questioni interpretative, cui in età imperiale sarebbe stata progressivamente fornita di risposte. Con Augusto iniziò a garantirsene l’esecuzione: il princeps affidò ai consoli il compito di decidere in tema di fedecommessi. I privati destinatari di lasciti fedecommissari presero a rivolgersi sempre più spesso ai consoli, nelle forme della cognitio extra ordinem. Claudio avrebbe affidato la giurisdizione de fideicommissis a due pretori, poi ridotti a un unico praetor fideicommissarius da Tito. Data la possibilità,mediante fedecommesso, di trasmettere in blocco anche l’intero patrimonio ereditario, essi vennero usati di frequente per destinare beni a persone che non avevano la testamenti facti passiva (es. peregrini o donne soggette alla lex Voconia). Solo nel corso del I sec. d.C.furono vietati fedecommessi a peregrini. Il senatoconsulto Pegasianum di età Flavia estere poi le previsioni della lex Iulia et Papia anche ai lasciti disposti mediante fedecommesso. Il SC. Tribillianum di età neroniana dispose che, a seguito del trasferimento di un’eredità,cagionato da un fideicommissus hereditatis, il fedecommissario universale fosse considerato heredis loco. Le azioni ereditarie che sarebbero spettate all’erede potevano essere esperibili direttamente dall’onorato. Il fedecommesso di eredità comportava il problema che l’erede istituito rischiasse, ottenendo un nudum nomen heredis, di non avere alcun vantaggio per sé: dovendo dare esecuzione al fedecommesso universale, costui poteva scegliere di non adire affatto l’eredità, lasciando così invase le ragioni del fedecommissario. Un SC. Pegasianum di età vespasianea dispose che all’erede onorato di fedecommesso universale o di fedecommessi a titolo particolare spettasse un quarto dell’hereditas; le quote eventualmente esuberanti dovevano pertanto essere ridotte in proporzione. Per ‘fedecommesso a titolo particolare’ potevano poi disporsi anche prestazioni di natura non patrimoniale, come manomissioni di schiavi. Già nel corso del principato si profilò un avvicinamento fra legati e fedecommessi. L’allentarsi del formalismo relativo ai legati, e l’abitudine di disporre nello stesso atto legati e fedecommessi di identico contenuto, oltre al diffondersi della cognitio extra ordinem anche per la tutela di pretese scaturenti da legata, avrebbero fornito l’assimilazione progressiva frale due tipologie di lascito. Nel 339 d.C. Costantino concesse che i legati, al pari dei fedecommessi, venissero disposti con qualsiasi tipo di formula verbale. Con Giustiniano poi ci fu la completa fusione. 81 VII. Successione ‘necessaria’. Inofficiosità del testamento Le regole che governavano la successione testamentaria producevano obblighi del testatore solo nei riguardi di sui, che gli era consentito diseredare. Nella tarda età repubblicana iniziò a farsi strada un diffuso malcontento verso situazioni nelle quali i familiari potevano essere impunemente trascurati nelle ultime volontà. In alcuni casi il pretore accogliendo le lamentele di parenti prossimi non contemplati nel testamento, aveva provveduto causa cognita a negare le azioni ereditarie all’istituto e ad attribuire la bonorum possessio al parente trascurato. A partire dal I sec. a.C. si andò poi affermando un rimedio giudiziario ad hoc volto ad ottenere l’annullamento di testamenti validamente confezionati, la querela inofficiosi testamenti. Una delle fattispecie più rilevanti fu probabilmente presentata dalle vedove, o dalle divorziate ormai sui iuris, in possesso di un cospicuo patrimonio personale. Esisteva una rilevante lacuna: alle donne non si applicava la regola ‘sui heredes instituendi sunt vel exheredandi’, esse non erano tenute a istituire o diseredare espressamente i discendenti. Le fonti documentano ipotesi in cui vedove, passate in seconde nozze, avrebbero omesso di menzionare i figli di primo letto nel testamento. Per questa ipotesi si sarebbe affermato poi il rimedio della querela inofficiosi testamenti. In giudizio, originariamente presso il tribunale centumvirale, oggetto del contendere era appunto se il testatore avesse violato il proprio officio pietatis, ovvero l’obbligo sociale e morale di tener conto dei parenti più stretti. La querele era esperibile verso l’erede istituito che avesse adito l’eredità: l’azione doveva essere esercitata entro 5 anni dall’accettazione. Legittimati a promuovere la querela inofficiosi testamenti erano le stesse persone che il pretore avrebbe ammesso alla bonorum possessio in caso di successione ab intestato. Nell’ambito del giudizio si partiva dal presupposto che ai querelanti dovesse essere riservato un quarto della quota che sarebbe loro spettata ab intestato (c.d. portio debita): la portio debuta poteva essere lasciata con qualsiasi disposizione di ultima volontà, non solo quale istituzione di erede pro quota, ma anche sotto forma di legato, fedecommesso o donazione mortis causa. Se erano presenti altri rimedi giudiziari, il ricorso alla querela era vietato. In caso di esito vittorioso della querela, il testamento era considerato invalido ai sensi del ius civile: all’attore spettava in quel caso l’intera sua quota ab intestato, e non soltanto un quarto. La lungaggine dei tempi procedurali giocava verosimilmente un ruolo importante nel convincere il legittimario ad accontentarsi della portio debita, senza dover attendere il concludersi di un processo dall’esito incerto. Si sarebbe formata infatti nel tempo una ricca e minuziosa casistica di eventualità, nelle quali i tribunali ritenevano che ben avesse fatto ill testatore ad omettere la menzione dei discendenti nelle ultime volontà. La procedura poteva condurre ad esiti iniqui, dato che chi aveva ricevuto la portio debita nel testamento doveva accontentarsi di essa, mentre chi avesse intentato e vinto una querela avrebbe potuto lucrare l’intera quota ab intestato. Giustiniano prescrisse che chi fosse stato istituito per una quota inferiore alla portio legittima non potesse ottenere la rescissione del testamento. Con una successiva novella del 542 dispose che i figli e i genitori del testatore dovessero comunque ricevere una ‘quota legittima’ del patrimonio ereditario attraverso heredis institutio, e non potessero essere diseredati se non per gravi motivi tassativamente elencati. VIII. Acquisto dell’eredità e strumenti di tutela dell’erede Successione ipso iure e aditio hereditatis L’apertura della successione coincideva con la morte del de cuius: generalmente le fonti parlano di delatio hereditatis. In un momento logicamente distinto da essa si attua poi l’acquisizione del patrimonio ereditario: - può coincidere con il momento della delatio e in questo caso coloro che necessariamente subentrano al de cuius nella titolarità dei beni ereditari sono detti ‘eredi necessari’, in quanto 82 corrispondere, ovviamente mutatis mutandis, a quella moderna tra beni materiali e beni immateriali. ‘Cose corporali’ sono in Gaio, gli oggetti di diritto che si possono toccare, ‘incorporali’ quelli che mon si possono toccare. RES MANCIPI E NEC MANCIPI. EXCURSUS SU MANCIPATIO E IN IURE CESSIO. Una distinzione fondamentale e con ancora il suo ruolo ben preciso nelle Istituzioni di Gaio, è la divisione delle res a seconda che siano mancipi o nec mancipi. Sono res mancipi una serie di beni corporali che compongono un numero chiuso, un elenco ben definito e non suscettibile ad ampliamento. Tutte le altre res (criterio residuale) sono da considerarsi nec mancipi. ➢ Mancipatio e ipotesi di ‘adattamento funzionale’ (processo p. 316) La proprietà sulle res mancipi poteva trasferirsi attraverso il ricorso a due negozi formali del ius civile, la mancipatio o la in iure cessio. Per trasferire invece la proprietà sulle res nec mancipi bastava di regola il ricorso alla traditio. La mancipatio era il più antico negozio privatistico, dalla struttura formale. A partire dal III sec. a.C., per ovviare alle esigenze dei traffici economici con non romani (peregrini), si affermò nella vita economica e poi giuridica il contratto consensuale della compravendita (emptio venditio), ma assai meno formale della mancipatio. E’ con riguardo alla trasformazione delineata che Gaio afferma che la mancipatio è da considerarsi imaginaria venditio. Allude alla natura dei negozi che dalla mancipatio derivarono, e che - essendo modellati su essa - ne rappresentavano un ‘riadattamento’. L'effetto-tipo della mancipatio restava quello di trasferire la proprietà di una res mancipi da un soggetto ad un altro. I giuristi romani, per i negozi in esame, modellati sulla originaria mancipatio, ma adattati allo scopo che le parti intendevano in concreto perseguire, parlarono complessivamente di gesta per aes et libram. Le altre applicazioni del negozio, in chiave di imaginaria venditio, conservarono una persistente applicazione nel tempo. ➢ In iure cessio (processo p.318) Assai antico è anche la in iure cessio, altro negozio diretto primariamente a trasferire la titolarità di res mancipi, e poi col tempo esteso ad alcune tipologie di res nec mancipi. Si trattava di un riadattamento della legis actio sacramento in rem, in funzione del trasferimento di proprietà o di altro diritto sulla cosa. Anche per essa, come per la mancipatio, la prassi negoziale conosce degli adattamenti volti a realizzare funzioni diverse da quella della compravendita di res: costituzione di dote, donazione, costituzione di iura in re aliena. RES MANCIPI E RES NEC MANCIPI: ORIGINI E PERCORSI EVOLUTIVI DI UNA DISTINZIONE. Sono considerati di maggiore rilevanza (almeno alcuni) beni che già in età tardo-repubblicana e nel primo principato possedevano un valore economico inferiore a quello di molte res nec mancipi (es. una collana di diamanti richiedeva formalità ridotte rispetto a uno schiavo anziano e malandato). Il fenomeno si giustifica in chiave storica: la res mancipi si attesta in una fase molto antica dell’esperienza romana, connotata, si diceva, dal passaggio da un’economia di raccolta a un’impostazione di tipo agro-pastorale. L’affermarsi di gruppi ‘stanziali’ di contadini e pastori avrebbe condotto a fornire rilevanza a una serie di beni che fossero assolutamente funzionali alla sopravvivenza dei relativi nuclei familiari. Una certa teoria presume anzi che originariamente, oltre alle ‘cose’ presenti nell’elenco gaiano, rientrassero nella ‘sfera di potere / appartenenza’ dei singoli patres familiarum anche figli, figlie e mogli. Non solo gli schiavi dunque avrebbero avuto uno status intermedio tra quello di persona e quello di res. A volte sono necessari decenni perché il regime (di trasferimento) cui la cosa è sottoposta muti, venendone finalmente rilevata l’obsolescenza. Ha assistito ad analogo percorso del resto anche lo statuto degli attuali ‘beni’ nel sistema giuridico italiano. La summa divisio tra beni immobili e beni mobili affonda le sue radici nella tradizione medievale, e poi moderna, che introdusse particolari solennità per il trasferimento di beni immobili. Una volta superata la concezione ottocentesca, e 85 liberale, della proprietà individuale inverantesi in particolare nella proprietà immobiliare, è emersa con tutta evidenza l’aporia per cui l’ordinamento richiede, per immobili che possono avere valore irrisorio, le formalità legate all’atto scritto e alla pubblicità dello stesso, mentre per oggetti ‘mobili’ di enorme valore esige formalità decisamente meno gravose. Altre classificazioni delle cose COSE MOBILI E IMMOBILI. La bipartizione fra cose mobili e immobili, pur conosciuta nell’antichità, non ebbe lo stesso rilievo di quella tra res mancipi e res nec mancipi. Nelle XII Tavole i terreni e gli edifici erano fatti per vero oggetto di distinzione rispetto a quelle che, con un criterio residuale, venivano qualificate cetera res. La previsione disponeva che, per i terreni, il possesso indisturbato conducesse all’acquisto della proprietà dell’immobile in capo a due anni; le ceterae res potevano invece essere usucapite nel volgere di un anno. La norma fu estesa poi anche agli edifici che insistessero sui fondi. L’interpretazione vi annoverava tutte quelle ‘cose’ che non fossero fundi ed aedes secondo la disposizione decemvirale. La contrapposizione tra fundi/aedes e ceterae res ebbe rilievo in ogni caso non solo sul piano della disciplina dell’usucapione ma anche su quello della tutela possessoria. COSE DIVISIBILI E INDIVISIBILI. Le cose indivisibili sono quelle che non possono essere suddivise in parti senza perdere la propria funzione o il valore originario; le cose divisibili sono invece quelle che è possibile dividere fisicamente in parti, con funzione e utilità economica proporzionalmente corrispondente a quella dell’intero. Vi possono infatti essere diritti indivisibili su cose divisibili, come il diritto di servitù su di un fondo che insiste integralmente su tutto il fondo. COSE CONSUMABILI E INCONSUMABILI. Alcuni beni, nella valutazione sociale corrente, sono inconsumabili, ossia quelli il cui uso può essere ripetuto nel tempo, talora indefinitamente. Altri beni invece sono consumabili, quindi usati una sola volta, dato che il loro consumo ne provoca la distruzione o ne determina la perdita. Il comodato è ad esempio situazione giuridica che ha ad oggetti cose inconsumabili; il mutuo invece, comportando la perdita della proprietà dell’oggetto del negozio, si intende in connessione con cose consumabili. Controversa fu, presso i giuristi del principato, la condizione dei beni ‘deteriorabili’, idonei ad uso prolungato nel tempo ma non indistruttibili. Giustiniano ne avrebbe accolto la teorica, individuando nel Corpus Iuris tale tipologia di res quale autonoma, a sé stante sia rispetto alle cose inconsumabili che a quelle consumabili. COSE FUNGIBILI E INFUNGIBILI. La giurisprudenza romana, partendo dalla nozione di species (ossia qualità/caratteristica che rende speciale un oggetto rispetto ad una categoria). Le prime sono definite dalle fonti ‘res, quae pondere numero mensura constant’, vale a dire che non sono oggetto di transazioni per i singoli elementi che le compongono, ma si negoziano secondo il peso, la quantità o una certa misurazione. Questi beni sono considerati ‘cose generiche’. La dogmatica moderna parla di ‘beni fungibili’ per connotare tale tipologia di cose: il mutuo, come visto, era appunto negozio imperniato tipicamente sul trasferimento della proprietà di cose fungibili. Quelle Che invece connotiamo come ‘cose infungibili’ erano classificate come ‘cose di specie’, in quanto il valore di esse era legato ai caratteri tipici di ogni singola res. Ad esempio la compravendita era ‘di cosa specifica’, quindi infungibile. COSE SEMPLICI, COMPOSTE E UNIVERSALITA’ DI COSE MOBILI. Questa distinzione dei corpora derivava alla riflessione dei giuristi romani dal pensiero filosofico greco, e in particolare da quello stoico. Alcune cose costituiscono per loro natura un corpo ‘semplice’, ossia animato da un solo spirito. Altre (la maggioranza) scaturiscono dall’unione materiale di più cose tra loro congiunte (corpora ex cohaerentibus). Accade che alcune cose, semplici o composte, vengano collegate idealmente (ossia 86 giuridicamente) per adempiere ad una funzione unitaria: quod ex pluribus constat ut corpora plura. I prudentes trattavano le cose composte e le universalità di mobili come cose singole e in quanto tali soggette nel loro complesso a traffici economici. I giuristi romani trattavano in proposito anche di communio pro diviso: vale a dire che ciascun proprietario si una singola parte del bene ammetteva che esso potesse essere trasferito ad altri ‘in modo unitario’, che sulla cosa composta si potesse costruire un pegno, un’ipoteca o che essa potesse essere nel suo complesso oggetto di un’unica rei vindicatio. PARTI DI COSA. COSE FRUTTIFERE E INFRUTTIFERE. I giuristi di età repubblicana, le cui riflessioni furono poi ulteriormente elaborate da quelli del principato, concepirono anche la nozione di ‘parte di cosa’, ossia porzioni fisiche di un bene ma non autonome. Esse si devono considerare come delle specie di ‘arti’ della nave in quanto frutto di una congiunzione materiale che produce una cosa composta. Già agli inizi del principato Labeone aveva individuato il criterio per definire ‘parte di cosa’ uno degli oggetti in esame: essa doveva essere durevolmente a servizio dell’edificio o della ‘cosa principale’. ‘Parte del fondo’ erano da considerarsi i frutti ancora pendenti dagli alberi coltivati sul fondo stesso (fructus pendentes): se il venditore alienava il fondo, anche se non ne facesse esplicitamente menzione, avrebbe trasferito anche gli alberi da frutto in esso presenti. Se voleva escluderli dalla vendita doveva dichiararlo apertamente. I giuristi parlano o di fructus extantes, colti ma non ancora coltivati, o di fructus separati, colti e resi cose autonome, ovvero di fructus percepti se raccolti dal proprietario del fondo o in ogni caso dall’avente diritto. I diritti reali e la loro affermazione processuale LE ACTIONES IN REM. A tutela della proprietà ben presto fu introdotto uno strumento processuale, che nel principato prese il nome generale di rei vindicatio (o anche semplicemente di vindicatio): anche per gli altri iura in re (servitù prediali, usufrutto, etc.) gli strumenti di tutela giurisdizionale introdotti dal pretore nel proprio editto sarebbero stati modellati sulla falsariga dell’azione più antica. Gaio afferma che l’azione reale, ‘in rem’, è quella in cui affermiamo o che una cosa corporale è nostra, o che ci compete un determinato diritto, del tipo di quello di uso, o di usufrutto, o di attraversamento di un fondo, o di derivazioni di acqua [...] le azioni reali, ‘in rem’, sono dette vindicationes, mentre le azioni volte a far valere un diritto di credito in personam sono dette condictiones. ALLE ORIGINI DELLA REI VINDICATIO. LEGIS ACTIO SACRAMENTI IN REM E RICONOSCIMENTO DI UN ‘DIRITTO POZIORE’ A UNA DELLE DUE PARTI IN CAUSA. L’azione di rivendica assume diverse forme. La più antica è la legis actio sacramenti in rem. Nell’ambito di tale, più antico, rimedio processuale in difesa della proprietà non risulta una chiara distinzione dei ruoli tra attore e convenuto. Entrambe le parti sono perciò tenute a provare il fondamento della propria affermazione: la res viene temporaneamente affidata ad una delle due, sino all’emanazione della sentenza che dirime la controversia. LA LEGIS ACTIO PER SPONSIONEM E IL RICONOSCIMENTO DI UNA ‘LIBERTÀ’ ASSOLUTA’ (ERGA OMNES). Stando sempre a Gaio, la legis actio sacramenti in rem era complessa e dispendiosa. Parrebbe dunque che, ancor prima della emersione della procedura per formulas, i privati prendessero a ricorrere, per far valere la proprietà o altro diritto reale, ad un espediente: colui che affermava la proprietà su un bene posseduto da un altro si faceva promettere attraverso una sponsio praeiudicialis una somma simbolica per l’ipotesi che il futuro convenuto subisse la condanna. Il preteso dominus avrebbe poi provveduto ad agire con una legis actio per iudici (arbitrive) postulationem. Il convenuto, per restare in possesso della cosa controversa, doveva rendere una promessa, fornendo altresì dei garanti personali: cautio pro praede litis et vindiciarum; se egli, 87 deve in ogni caso constatarsi come, già a partire dalla media repubblica, se non prima, la supposta condizione indifferenziata di beni e persone ‘oggetto’ del potere del pater avrebbe iniziato a sfaldarsi. Il pater familias aveva ora, con la crescente espansione di Roma, dinanzi a sé un ampio novero di nuove res, di crescente appetibilità economica e sociale, le formalità d’acquisto e trasferimento della titolarità dovevano essere alleggerite. L’estensione della possibilità di esperire la rei vindicatio per far valere in giudizio anche la titolarità di res nec mancipi avrebbe portato alla progressiva emersione di una nuova tipologia di appartenenza, ‘dominium ex iure Quiritium’. Si venne affermando e strutturando una autonoma tipologia di ius in re aliena, la servitus (praediorum rusticorum) appunto, distinto dal dominium ex iure Quiritium e diverso anche da quel potere (potestas / manus / mancipium) che il pater esercitava sulle 4 servitutes mancipi. Analogo destino avrebbe investito quelle facoltà di carattere personale nei riguardi dei sottoposti liberi, assistendo al sorgere di distinte ‘signorie’ familiari: la patria potestas, la manus, un potere distinto sui liberi in municipio, la tutela (impuberum e mulierum). LA ‘PROPRIETÁ PROVINCIALE’ E LA ‘PROPRIETÁ PRETORIA’ (O IN BONIS HABERE). Il dominium ex iure Quiritium è definito nelle fonti ius proprium civium Romanorum, diritto tipico degli appartenenti al populus Romanus (esteso poi ai Latini). Le res soli, gli immobili, dovevano trovarsi in un territorio romano, oppure, a seguito dell’espansione, italico. Nei distretti amministrativi sottoposti all’amministrazione di un magistrato romano, o nelle province (la prima è la Sicilia), la terra era considerata di proprietà del populus Romanus, che avendola assoggettata ne era titolare. In riferimento alle possibilità che venivano riservate ai provinciali che disponessero materialmente di tali terre, Gaio affermava che per esse non si potesse parlare di dominium: definiva la condizione di tali soggetti ‘possessio vel usufructus’, ovvero possessori con l’obbligo di versare al populus Romanus un qualche corrispettivo (stipendium o tributum). Gaio ricorre poi all’espressione ‘duplex dominium’, con la quale locuzione si riferisce al caso in cui su una data res mancipi insistesse formalmente la titolarità di un soggetto, mentre sostanzialmente un altro avesse pressi di sé il bene e si trovasse in attesa di usucapirlo. I moderni usano l’espressione ‘proprietà pretoria’, i romani parlavano di ‘in bonis habere’. Il caso originario fu quello in cui una res mancipi venisse alienata e trasferita attraverso la semplice consegna materiale dell’oggetto, la traditio. Con la traditio si acquistava, sulle res mancipi, solo un ‘possesso qualificato’, quello che (ai sensi della legge delle XII Tavole) avrebbe condotto all’usucapione nel volgere di un biennio in caso di res mancipi immobile, e di un anno nel caso di res mancipi mobile. Il rischio dell’assenza di tutela si profilava nel caso in cui l’acquirente, prima che si compisse il tempus ad usucapionem, fosse spossessato da un terzo. Un altro rischio risiedeva nel fatto che il reale (formale) dominus ex iure Quiritium della cosa potesse decidere di esperire lui, in prima persona, la rei vindicatio nei riguardi del possessore. Il pretore riconobbe al possessore in attesa di usucapione, che avesse perso il possesso della cosa, un’azione modellata sulla rei vindicatio, l’actio Publiciana, un’actio ficticia: nella litis contestatio di tale azione il pretore invitava il giudice a giudicare sulla titolarità del bene, ‘come se’ fosse già decorso il termine per l'usucapione e dunque l'attore fosse già divenuto dominus ex iure Quiritium del bene. Un simile esercizio strumentale dell’azione di rivendica fu inibito concedendo al convenuto-possessore in attesa di usucapio un rimedio processuale, la c.d.exceptio rei venditae et traditae (eccezione di cosa venduta e consegnata): inserita nella formula della rei vindicatio come rimedio a favore del reus, consentiva di respingere le pretestuose asserzioni del dominus-attore. GLI SVILUPPI GIUSTINIANEI DEL DIRITTO DI PROPRIETÀ. Presso i giuristi della tarda repubblica e del principato i termini dominium e dominus erano di frequente affiancati, si è visto, dalla specificazione ‘ex iure Quiritium’: con essa si distingueva di regola il proprietario civilistico dall’in bonis habens (‘proprietario per diritto pretorio’) e dal titolare di immobili siti al di fuori d’Italia (‘proprietario provinciale’). Giustiniano unifica le diverse forme di proprietà in un unico diritto, il dominium appunto. Configurò un dominium unitario (su beni immobili, in tutto l’impero, e su beni mobili), contrapposto da un lato al possessore dall’altro ai diritti reali parziari. 90 LA COMUNIONE. In diverse situazioni la titolarità di un bene è garantita non da un unico soggetto. È quanto avviene ad esempio nel caso di ‘comunione incidentale’, che per lo più è soggetta (nel nostro codice civile, e diversamente dal diritto romano) alle stesse regole della comunione ordinaria; ovvero nell’ipotesi di ‘comunione volontaria’, in cui più soggetti acquistini insieme una cosa composta. La ‘comunanza gentilizia’ In età pre civica dominava una concezione comunitaria dei beni, almeno per quanto relativo a terreni agricoli, da pascolo e boschivi. In tale organizzazione non era consentito ai ‘contitolari’ dei beni in esame di disporre di essi in via autonoma, sottraendoli al gruppo di appartenenza. Originariamente l’organizzazione gentilizia comportava, fra le famiglie (communi iure) che appartenessero a una data gens, una sorta di ‘comunanza domestica’: i componenti liberi della famiglia fruivano di terreni, boschi e altre res del patrimonio collettivo. Si è fatto ricorso al già menzionato principio per cui i discendenti (e la uxor in manu), già in vita del padre di cui sono in potestate, devono reputarsi ‘quodam modo’ anch’essi proprietari dei beni familiari. Una volta strutturata in maniera organica la città-stato, tuttavia, e affermatasi la concezione della ‘proprietà individuale’, tali modelli furono destinati all’obsolescenza: una qualche forma di sopravvivenza appare rappresen tata dall’ager publicus populi Romani e dall’ager compascuus, terreno posseduto in comune da determinate persone e destinato al pascolo del loro bestiame. Il c.d. ‘consortium ercto non cito’: consortium fratrum suorum e consortium ad exemplum Una forma di comunione più vicina a quella evoluta fu integrata dal c.d. consortium ercto non cito. Alle origini era una comunione (ereditaria) che si instaurava fra tra i figli alla morte del pater. Originariamente il consortium ‘fratrum suorum’ si pensa che fosse rivolto fra l’altro a far sì che il censo, di cui erano ‘collettivamente’ titolari tutti i fratelli di sesso maschile, fosse abbastanza alto da consentire a ciascuno di loro la stessa posizione. Alla morte del padre, al fine di conservare lo stesso ‘potere politico’ era dunque opportuno che i fratelli mantenessero unito il patrimonio familiare, per ripartirlo solo nel momento in cui ciascuno di loro avesse raggiunto, autonomamente, un patrimonio tale da consentirgli l’iscrizione individuale nella stessa classe di censo a cui era appartenuto il padre. Il bene / patrimonio comunque era reputato appartenere a ciascun consorte nella sua totalità: non si era ancora affermata l'impostazione di una condivisione fondata su ‘quote ideali’. Il consortium ercto non cito non fu solo il consortium fratrum suorum appena descritto, il giurista antonino (Gaio) menziona un’altra tipologia di consortio, quello ad exemplum fratrum suorum, una situazione di comunione volontaria costituita da estranei, mediante una certa legis actio della quale tuttavia non sappiamo i dettagli (anticipazione di forme societarie). La communio di età evoluta Dal primo principato iniziò una riflessione sul principio che una cosa non poteva appartenere a, o essere posseduta per intero da, una pluralità di persone. Poteva tuttavia concepirsi che più soggetti fossero ‘contitolari’ dello stesso tipo di proprietà su un bene. Venne allora elaborato un diritto del condomino come frazione del dominium sulla cosa, e al transito dalla impostazione della comunione come ‘proprietà plurima integrale’ a quella dello stesso diritto come ‘proprietà plurima parziaria’, fondata su una ripartizione in quote ‘astratte’, frazioni matematiche del tutto. L’emersione della nozione di ‘pars quota’, di quota ideale, o di ‘pars dominica’, frazione del dominium, consentì un mutamento di paradigma nella disciplina della comunione. Si affermarono i seguenti principi: - ciascun condomino poteva disporre liberamente della su quota; - la partecipazione di ciascun contitolare del bene agli oneri e agli utili era proporzionale alla quota di ciascuno; - il potere decisionale di ciascun condomino era pertanto commisurato alla quota; - più condomini potevano collegarsi fra loro, formando una maggioranza di quote che avrebbe potuto decidere delle sorti del bene comune. Sabino documentava che fosse ancora possibile, per un comproprietario, opporre il veto ad attività individuali di altri condomini che incidessero sulle sorti della cosa comune (ius prohibendi). Ma anche vigeva ius adcrescendi: laddove uno dei contitolari avesse abbandonato la res o avesse rinunciato alla 91 sua quota,essa non diveniva res nullius, ma andava ad accrescere, in proporzione, le quote degli altri. In età repubblicana ad esempio, se un singolo condomino avesse manomesso un servus communis, il ius adcrescendi operava nel senso che ciascun contitolare avrebbe visto accrescere in proporzione la sua quota di dominium sullo schiavo. Nel principato la manomissione conduceva all’acquisto della libertà da parte dello schiavo. La divisione della comunione La più antica tra le azioni divisorie fu forse l’actio familiae erciscundae, volta a sciogliere la comunione incidentale, ereditaria, vale a dire il consortium fratrum suorum. Ma c’è anche l’azione di regolamento di confini (actio finium regundorum): il limes era segnato da una linea di terreno in comune. Il rimedio concesso fu l’actio communi dividundo. Essa poteva essere esperita da uno qualsiasi dei contitolari, e conduceva oltre alla individuazione delle porzioni materiali di res spettanti a ciascun dominio, alla ripartizione dei frutti e delle spese originali della cosa comune e alla soluzione di eventuali problemi di responsabilità e risarcimento reciproco. Le tre azioni erano caratterizzate dalla possibilità, riservata al giudice, oltre che di ricorrere alla condemnatio, di utilizzare la adiudicatio: esso faceva scaturire, in capo a ciascun contitolare, nuovi diritti di proprietà solitaria su una parte o su tutto il bene precedentemente in comunione, con efficacia ex nunc. Acquisto e perdita del dominium sulle cose MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETÀ ‘A TITOLO ORIGINARIO’. Gaio, nelle Istituzioni, illustrava unna serie di modi di acquisto della proprietà che affermava realizzarsi ‘per diritto naturale’. Fra essi ne elencava una serie che la moderna teoria del diritto qualifica oggi di acquisto ‘a titolo originario’. Il diritto, in tal caso, non si trasferisce, ma si costituisce autonomamente nella titolarità dell’acquirente. ➔ Occupazione L’occupazione, occupatio, consisteva nell’impossessamento di cose che non fossero mai appartenute ad altri (res nullius) o che, pur essendo appartenute ad alcuno, fossero state abbandonate da chi ne era proprietario (res derelictae). Ad esempio: cacciando animali selvatici o animali domestici sfuggiti al padrone. Un ruolo a sé stante ebbe il ritrovamento del tesoro: Paolo definiva il thesaurus ‘antico deposito di denaro, di modo che esso è sprovvisto di proprietario. In origine il tesoro doveva essere attribuito al proprietario del fondo; a partire da una costituzione di Adriano, si pervenne che il tesoro rinvenuto nel proprio fondo dal relativo dominus sarebbe ricaduto integralmente nella sua proprietà; se rivenuto invece in fondo di proprietà altrui, a seguito doveva essere attribuito per intero a colui che lo aveva ritrovato; se infine il tesoro fosse stato scoperto per caso in un fondo di proprietà altrui, esso toccava per metà all’inventor e per metà al privato o all’autorità. ➔ Accessione L’accessione si verificava in caso di incorporazione di un bene economicamente di minor valore (accessorium) in uno di valore maggiore (principale). Valeva la regola ‘accessorio sequitur principale’, per cui il proprietario del bene maggiore acquistava il dominium anche sul bene accessorio, in virtù dell’incorporazione. Talvolta operava anche contro la volontà dei proprietari. Superficies solo cedit: tutto ciò che viene edificato accede al suolo. Il proprietario dei materiali da costruzione non ne perdeva definitivamente la titolarità, tuttavia fintanto che l’edificio fosse rimasto in piedi non avrebbe potuto rivendicarli in giudizio. Nella scrittura il proprietario dell’inchiostro ne avrebbe perso la proprietà, in quanto le litterae, la scrittura, accedeva alla pergamena o alle tavolette cerate, cioè al materiale scrittorio: il ‘supporto’ era ritenuto il bene di valore superiore. Eccezione a questa regola è la pittura: in questo caso il supporto, la tela etc. ricadevano nella proprietà del pittore. ➔ Incrementi fluviali Il proprietario di un fondo prospiciente a un fiume, e ubicato verosimilmente a valle, acquistava per alluvione (adluvio) la proprietà su detriti e zolle di terreno che la corrente del fiume avesse sottratti a uno o più fondi frontisti che si trovassero a monte. La stessa corrente avrebbe potuto anche provocare un brusco distacco di una consistente porzione di terreno, che si fosse andata a incorporare 92 ‘potis sedere’, un insistere da padrone sul bene con preminenza (potis) rispetto ad altri. L’ordinamento non conosceva (e non conobbe verosimilmente fino al III sec. a.C.) forme di tutela ‘giurisdizionale’ per tali situazioni. La ‘giuridicizzazione’ delle situazioni possessorie arcaiche Col passare del tempo, in relazione all’ager publicus, si sarebbero addensati conflitti fra concorrenti ambizioni ‘occupatorie’, e si sarebbe reso necessario che il giusdicente, di regola il praetor, intervenisse con rapidità e assenza di formalismi. Proprio in quanto la concessione della possibilità di sfruttamento e la relativa tutela erano di ordine ‘pubblicistico’, la situazione in esame originariamente non fu reputata rilevante ai fini del ius civile. La stessa sorte deve supporsi per le res nec mancipi. Il precarium e l’usus di età predecemvirale e decemvirale Un’ulteriore ipotesi si diede, poi, per il caso in cui un pater concedesse in utilizzazione (usus) un suo sottoposto o una res mancipi ad un altro pater familias. Su preghiera di quest’ultimo poteva concedergliela a titolo provvisorio, di precarium. L’uso sarebbe stato possibile finché il titolare non manifestasse in qualsiasi modo (ad nutum) la volontà di riaverla. A livello giuridico, si escogitò la possibilità, per chi avesse presso di sé la res (di cui non era proprietario), di usucapirla, col decorso del tempo. Poteva essere presente l’auctoritas (vale a dire il consenso e l’avallo) dell’avente diritto sulla cosa, che lasciava che il concessionario usucapisse. Oppure essa poteva mancare, e l’usucapiente essere l’usurpatore. Già in età decemvirale il meccanismo era utilizzato anche per realizzare l’acquisto della manus su una donna, di regola a fini matrimoniali: la relativa prassi sarebbe stata denominata conventio in manu ‘usu o, più brevemente, usus. IL PROGRESSIVO AFFERMARSI DEL POSSESSO QUALE SITUAZIONE GIURIDICAMENTE RILEVANTE ➢ Il possesso quale situazione corrispondente all’esercizio di un diritto reale Quanto al binomio usus-auctoritas, e alla relativa disciplina decemvirale fu forse l’affermarsi di tale prassi a fornire l’idea che fosse possibile scindere la ‘titolarità’ su un bene e la disponibilità di esso. Si fecero strada nuove concezioni di possedere. Una di esse (età medio-repubblicana) era quella che vedeva il possesso come l’altra faccia del diritto di proprietà: un comportamento volto al godimento e all’uso, attuale e futuro, di una res, che era di regola pendant alla ‘titolarità’ del diritto (di proprietà o di altro diritto reale) sulla cosa. Es: Cicerone indica col termine ‘possessiones’ i beni oggetto di proprietà, non le situazioni poossessorie di fatto. Connessa con questa era la configurazione del possesso relativo a res mancipi che le fonti connotano come in bonis habere, una forma di ‘possesso qualificato’, che alcune fonti definiscono anche possessio ad usucapionem. Una situazione nella quale un soggetto, pur non essendo dominus della res mancipi che gli era stata trasferita mediante semplice traditio, la possedeva come se fosse ‘sua’, in quanto a seguito del decorso del tempo ne sarebbe divenuto proprietario: una situazione che, in fin dei conti, era pendant di un diritto di proprietà non ancora acquisito, ma di prossima acquisizione. ➢ Il possesso tutelato mediante interdetti I giuristi romani elaborarono in ogni caso le loro dottrine in tema di possesso parallelamente al formarsi di una tutela giurisdizionale. Esempio: se constatiamo che presso Caio Mario si trova un certo bene, siamo indotti a pensare che ne sia anche proprietario. Ora, se ad esempio Lucio Cornelio Silla provi a portar via lo schiavo di forza, sarebbe conforme a equità se intervenissimo in aiuto del presunto proprietario. Se però Silla fosse intervenuto per reagire al fatto che lo schiavo era stato sottratto da Mario, potremmo farci un’idea diversa e reputare legittima la reazione di Silla. Oppure potremmo reputare opportuno che lo spoliatus chieda aiuto alla pubblica autorità per un ripristino dello status quo ante. Il giurista di tardo I sec. d.C. Sesto Pedio affermava che, in riferimento al possesso, si controverte di regola o sulla restituzione di quanto non possediamo o sulla conservazione di quanto possediamo. Per quanto riguarda la conservazione del possesso, il pretore previde nel suo editto benper tempo (II 95 sec. a.C.) dei provvedimenti ingiuntivi di urgenza, detti interdicta. Con essi ordinava al convenuto, su richiesta dell’attore, di compiere illico et immediate l’azione richiesta da quest’ultimo. Se il destinatario dell’ordinanza non obbediva all’ingiunzione del praetor, l’attore poteva esperire nei suoi riguardi un’actio ex interdicto, ossia un regolare processo di accertamento. Il richiedente esercitava un possesso pro suo e non pro alieno. Eccezioni: 1) Interdictum uti possidetis - gli interdetti rivolti alla conservazione del possesso, gli interdicta (prohibitoria) retinendae possessioni sono di due tipi. Il più antico, relativo al possesso di beni immobili, era l’interdictum uti possidetis, il ‘molestato’ poteva ottenere la concessione entro un anno dal momento in cui si era manifestata la turbativa. Tale interdetto non veniva concesso laddove il possesso del bene per il quale era stato chiesto fosse stato ottenuto ingiustamente. Se ricorrevano gli estremi della clausola vitii l’ordine interdittale non si applicava. 2) Interdictum utrubi - laddove la turbativa del possesso riguardasse un bene mobile, il ‘provvedimento ingiuntivo’ richiesto al praetor doveva essere il c.d. interdictum utrubi: esso fu introdotto pi tardi rispetto a quello di prima ed era relativo al possesso di schiavi. Il magistrato vietava ogni tipi di turbativa, subordinando tuttavia il divieto al fatto che il richiedente non avesse a sua volta ottenuto il possesso vi, clam, precario. Il pretore poteva infetti concedere il diritto a tenere presso di sé il bene, anche quello, tra i due contendenti, che lo avesse posseduto, durante l’anno precedente all’emanazione dell’interdetto, per la maggior parte del tempo, ma non lo possedesse al momento della concessione dell’interdectum utrubi. Anche in tale interdetto c’era la clausola vitii. 3) Interdictum unde vi e de vi armata - secondo gruppo di interdetti, recuperandae possessionis, volti a recuperare, a colui che avesse posseduto fino a poco tempo prima un bene, la res di cui era stato spossessato. Così, per esempio, se Caio Mario fosse stato lontano da casa per un periodo, e tornatovi avesse trovato che Lucio Cornelio Silla si era installato nel proprio immobile, poteva chiedere al pretore l’interdictum unde vi (espulsione violenta) o l’interdictum de vi armata. Non molto tempo dopo la comparsa dell’interdictum unde vi nell’editto, si sarebbe pervenuti a far sì che esso diventasse esperibile anche noi confronti di chi avesse ordinato a terzi (schiavi, amici) di effettuare la deiectio dello spoliatus. Taluni ipotizzano l’esistenza di un interdictum de clandestina possessione. Da Cicerone abbiamo notizia anche dell’interdictum de vi armata: il magistrato ordinava con esso a chi avesse effettuato una deiectio da un immobile non solo in modo violento, ma anche con l’uso delle armi, di restituire l’immobile. Poteva essere richiesto senza limiti di tempo. Entrambi gli interdetti recuperandae possessionis erano soggetti a un limite: venivano concessi solo se si fosse verificato uno spoglio violento, mentre non pare esistesse in età repubblicana e classica un rimedio idoneo a sanzionare chi non usasse la vis. Giustiniano intervenne a colmare tale lacuna, disponendo che chi avesse usurpato un immobile vacuae possessionis, fosse tenuto ad adoperare la restituzione. RIFLESSIONI TEORICHE SUL POSSESSO IN ETÀ EVOLUTA ● Corpore possidere e animus rem sibi habendi I giuristi, stante l’evoluzione in esame, presero, a partire dalla tarda repubblica e in parallelo a uno sviluppo ancora in fieri delle tipologie in possesso, a formulare alcune definizioni e ‘appigli teorici’ nel tentativo di rielaborare la materia. Elio Gallo definì il possesso immobiliare come una situazione distinta dagli oggetti si cui insisteva un usus quidem agri et aedificii. Elio sentiva il bisogno di precisare che per possessio (in senso giuridico) non doveva intendersi l’oggetto in senso fisico, ma l’usus, il pofilo della disponibilità materiale che su di essa si aveva. In tale situazione non poteva ravvisarsi una res corporales. I giuristi concepirono ben presto tale situazione in termini ‘giuridici’, in termini di ‘signoria’, come (a mero titolo di esempio) la proprietà e, in quanto tale, come diritto difendibile nei riguardi dei terzi. Si trattava però di una signoria connotata dal dato fattuale, una ‘signoria di fatto’. Paolo definisce il possesso come res facti. 96 In Giavoleno il termine possesso si distingue da quello di ager, per via della titolarità del diritto: infatti i beni di cui ci impossessiamo, ma dei quali non siamo proprietari … li chiamiamo ‘possessi’: dunque il possesso è l’uso di un luogo mentre l’ager rimanda alla proprietà del luogo stesso. Paolo dice che se taluno agirà in via di interdetto per difendere il possesso, e successivamente userà una actio in rem, non gli si potrà opporre in giudizio un’eccezione [quella rei iudicatae, vel in iudicium deductae], in quanto negli interdetti si trattava della tutela del possesso, nelle azioni (reali) della tutela della proprietà. Sempre Paolo si fermava su quelli che la successiva dottrina, anche medievale, ha ‘costruito’ come elementi essenziali del possesso, egli chiariva che il possesso si acquista infatti corpore et animo. Per ritenersi possesso dovevano coesistere due aspetti: la disponibilità fattuale della cosa (corpore possidere) e la ferma intenzione di tenerla per sé (animus rem sibi habendi). Nel corso del tempo si ammise che si potesse acquistare il possesso per via di intermediari qualificati, vale a dire corpore alieno: un filius familias o uno schiavo,e nell’età del principato anche un procuratore. Nel tardo principato, e nel dominato, si estesero le ipotesi di ‘intermediari del possesso’ ai casi del depositario, dell’inquilino e del colono. Per le cose mobili si richiese ad esempio che esse si trovassero ‘a portata di mano’, senza per questo doverle fisicamente acquisire. Per gli immobili lo stesso Paolo asseriva che se uno volesse possedere un fondo, non dovesse necessariamente perlustrarne ogni zolla. Sempre per le res immobiles, si giunse ad affermare che se ne conservava il possesso anche se si era temporaneamente lontani dal bene. Forse classica fu anche l’ipotesi del servs fugitivus: laddove si possedesse uno schiavo altrui, si reputava che anche in caso di fuga dello schiavo il possessore nonne perdesse il possesso, e che le cose che eventualmente lo schiavo, durante la sua fuga acquisisse, spettassero appunto al possessore del fugitivus. Nel tardo antico si giunse a configurare una serie di ipotesi di possesso solo animo, generalizzando quella che in origine era stata una casistica specifica. La differenziazione, inoltre, fra i casi che oggi definiremmo di ‘possesso’ relativa all’animus: se colui che aveva presso di sé la cosa la teneva con animus rem sibi habendi, era da qualificarsi possessore; se invece era titolare di una mera custodia et observatio, era da qualificarsi mero detentore. ● Altre concettualizzazioni: quasi possessio, possessio iuris, possessio naturalis In considerazione del fatto che, in riferimento a determinate situazioni in cui il possesso corrispondeva all’esercizio di un ius in re aliena, il pretore interveniva concedendo una tutela interdittale ad hoc, i giuristi in alcuni casi qualificarono il legittimato a servirsi di tale tutela come ‘quasi’ possessor, e la sua condizione come quasi possessio. Nel tardoantico si finì per contrassegnare ipotesi a quelle assimilabili come situazioni di ‘possessio iuris’. Se i pretori accordavano la tutela interdittale anche a chi non fosse usufruttuario o titolare di servitù in modo certo, perché non estendere la tutela anche a chi apparisse libero, figlio legittimo, civis Romanus? Anche questi ultimi si erano impadroniti di una posizione giuridica, di una res incorporalis consistente in un preciso diritto. Nel nostro ordinamento è stata abrogata l’ipotesi di ‘possesso del credito’. Per concludere, si rinviene a tratti nelle fonti la terminologia di ‘possessio naturalis’ o anche un civiliter possidere in contrapposizione ad un naturaliter possidere. I iuris peritis così intendevano riferirsi a quelle ipotesi che noi ora classifichiamo di detenzione. Contrapponendovi le ipotesi in cui il ‘possesso’ era qualificato, perché situazione stabile, o destinata a condurre all’acquisto del dominium per usucapione. Capitolo 8: diritti reali o parziari QUALIFICAZIONI GENERALI. Nel quadro dei diritti reali, già nell’esperienza storica antica, vi è una contrapposizione fra i diritti di proprietà e le altre figure, denominate diritti reali su cosa altrui o diritti reali parziari, o limitati. I diritti reali parziari, a differenza del diritto di proprietà, si esercitano sempre su un bene che è di proprietà di un altro soggetto. Si parla di iura in re aliena. Conferiscono al titolare un 97
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