Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Italiano appunti completi maturità, Appunti di Italiano

Manzoni, Leopardi, Scapigliatura, Carducci, Naturalismo, Verismo, Verga, Decadentismo, Baudelaire, D'Annunzio, Pascoli, Svevo, Futurismo, Pirandello, Saba, Ungaretti, Montale

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 26/01/2023

siria-jessica-drudi
siria-jessica-drudi 🇮🇹

4.5

(10)

2 documenti

1 / 55

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Italiano appunti completi maturità e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! ALESSANDRO MANZONI Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria, ricordato per essere stato uno dei massimi esponenti dell’illuminismo Lombardo e aver scritto una delle prime opere contro la pena di morte. Determinate per la sua vita sarà il matrimonio con Enrichetta blondel (calvinista) e la loro conversione al cattolicesimo. Il rinnovamento coinvolse anche l’attività intellettuale e letteraria: Manzoni abbandonò la poesia classicheggiante e si dedicò alla stesura degli inni sacri, che aprivano la strada ad una successiva serie di opere di orientamento romantico. Con la pubblicazione dei promessi sposi lo scrittore assunse un atteggiamento di distacco verso la formula stessa del romanzo storico. PRE CONVERSIONE Opere allineate con il gusto classicistico, fitte di rimandi mitologici e con un linguaggio aulico. In materia si scaglia contro la tirannide politica religiosa POST CONVERSIONE Dalle argomentazioni traspare una fiducia assoluta nella religione come fonte di tutto ciò che è buono e vero. Nasce un atteggiamento anticlassicistico e un nuovo interesse per il medioevo Cristiano, visto come matrice della civiltà moderna. Quindi vediamo un rifiuto della concezione eroica che celebra solo i grandi. Si forma in lui una visione tragica del reale, che non tollera più l’idilliaca serenità classica, nasce il bisogno di una letteratura che guardi al vero della condizione storica dell’uomo. Ne deriva quindi un rifiuto per il formalismo retorico, l’arte come esercizio ornamentale. Manzoni fisserà una formula sintetica che contenga i principi fondamentali che muovono la ricerca letteraria “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo” LA FUNZIONE DELLA LETTERATURA: LE COSE UN PO PIÙ COME DOVREBBERO ESSERE Manzoni nella lettera afferma che gli scrittori devono avere un atteggiamento critico nei confronti della realtà esistente e devono assumere un compito educativo: in tal modo possono contribuire a mutare le cose, rendendole un po’ più come dovrebbero essere. La letteratura per Manzoni deve dunque essere utile, agire sulla realtà e trasformarla. Nell’ottica di Manzoni non può quindi esistere una letteratura fine a sé stessa, altrimenti sarebbe inutile. Deve invece essere didattica, pedagogica e avere come oggetto il vero, come scopo l’utile è come mezzo il dilettevole. STORIA E INVENZIONE POETICA Il poeta non può inventare gli avvenimenti poiché si perderebbe la potenzialità drammatica che questi hanno. A questo punto, al poeta rimane solo una cosa su cui lavorare e da creare: i moventi psicologici e le passioni che hanno accompagnato i personaggi della storia. Il compito del poeta è afferrare, rendere quello che gli uomini hanno provato. L’UTILE, IL VERO E L’INTERESSANTE Manzoni è contro l’imitazione, le regole classicheggianti e la mitologia ed è a favore di un sistema letterario che abbia tre principi: l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo. Þ l’utile per iscopo = il fine dell’arte è l’educazione civile e morale Þ il vero per soggetto = l’arte deve esprimere la realtà umana in senso storico e in senso spirituale e psicologico Þ l’interessante per mezzo = l’arte per educare deve ispirarsi al sentimento della moltitudine e all’esperienza diretta dei lettori contemporanei L’arte non deve essere fine a sé stesso ma deve prefiggersi uno scopo etico GLI INNI SACRI La prima opera scritta dopo la conversione, gli inni sacri, fornisce subito l’esempio di una poesia nuova. Manzoni rifiuta il culto del mondo antico, sentendo la materia mitologica e classica come repertorio ormai morto, come qualcosa di falso e decide di cantare temi che siano vivi nella coscienza contemporanea, aderenti a ciò che è vero. Ne deriva una poesia che non si rivolge più alla cerchia iniziatica dei letterati, ma vuole avere un orizzonte popolare. L’autore si propone quale semplice interprete corale della coscienza Cristiana e ciò si traduce con un uso di metri dal ritmo agile e popolareggiante e versi con ritmi incalzanti. Anche il linguaggio si libera dalle forme auliche del classicismo, senza tuttavia abbassarsi ad una dizione prosastica. LA PENTECOSTE In quest’opera il poeta intende celebrare la fede che egli ha recuperato, ma soprattutto, il senso umano della liturgia e le caratteristiche principali della religione Cristiana. La lirica di può dividere in tre parti: Þ prima parte = tratta la storia della chiesa dalle origini, né evidenziano la debolezza della fase iniziale, sottolineandone comunque la missione evangelizzatrice che emerse soprattutto con la discesa dello spirito santo sugli apostoli Þ seconda parte = enunciano i principi fondamentali di verità, uguaglianza, spiritualità che caratterizzano la predicazione Cristiana Þ terza parte = invocazione allo spirito santo affinché discenda nuovamente, rinnovando i prodigi compiuti il giorno della Pentecoste In quest’opera emerge il sentimento del poeta, che grazie alla religiosità cattolica ricerca la sua liberazione nella verità del cristianesimo. Manzoni annuncia una nuova umanità che stravolgerà i valori tradizionali. Viene quindi prospettata una nuova pace, nuova poiché è vivificata dal valore del cristianesimo, che pone al centro della vita e dell’uomo una religiosità consapevolmente conquistata. Nell’inno, Manzoni, trova la sua vittoria spirituale che sottolinea la nostra debolezza, consolata per dare un piacere e dare una soddisfazione religiosa. IL 5 MAGGIO L’autore rievoca, commosso, la figura di Napoleone, che tanto attrae, partendo dal momento della sua morte: questo evento provoca un grande sgomento poiché Napoleone ha retto le sorti di un’intera epoca e di un intero continente. Non resta che il silenzio, la terra è attonita, è presto per dire sé quella di Napoleone fu una vita gloriosa o meno ma è certo che la sua fu un’esistenza caratterizzata da imprese leggendarie che lasciano il mondo sbigottito. Questa rievocazione si svolge intorno a due temi centrali: Þ la grandezza di Napoleone = per quanto sconvolgente, non è che un pallido riflesso della grandezza di dio, unico a cui vanno ricondotte le sorti e le vicende umane. La storia, infatti, trova un senso solo se rapportata a un disegno divino e provvidenziale e questa è espressione vividissima dell’idea di Manzoni sul senso della storia e la presenza di dio Þ la sconfitta di Napoleone = la sua sofferenza nel solitario esilio, diventano un momento di riflessione e di pace spirituale se vissute cristianamente e attraverso la fede. Napoleone, nei suoi ultimi giorni, doveva essersi rifugiato nella preghiera e questo placò il suo dolore, secondo Manzoni. Lo stile è incalzante, rapido e caratterizzato da bruschi cambi di scena che vogliono rendere il vivere freneticò e avvincente di Napoleone. Nel testo troviamo l’uso alternato di due tempi verbali la cui scelta non è certo casuale: Þ Il tempo dominante è il passato remoto, usato per parlare di Napoleone e delle sue imprese, e serve a segnare una realtà compiuta, terminata. Spesso usato in apertura del verso e a inizio strofa vuole dare l’idea di una svolta fra un “prima” glorioso e un presente in cui tutto si è spento. Þ il presente segna invece il momento della scrittura del poeta, fa riferimento al momento presente in cui Manzoni scrive, ma anche al tempo della fede (Dio che atterra e suscita/che affanna e che consola) e indica un tempo immutabile ed eterno. Nel Fermo Manzoni ricorre in più larga misura al documento storico e realistico: con l'intento di fornire un preciso quadro di costume, introduce ampie digressioni di carattere saggistico su problemi storici, economici, culturali, lascia spazio a lunghe discussioni. Tutto questo materiale non narrativo fortemente è ridotto nei Promessi sposi: qui vi è la tendenza a risolvere in rappresentazione drammatica tutto ciò che nel Fermo è offerto in forma saggistica. Infine, nel Fermo vi sono posizioni critiche e polemiche più aspre e secche, mentre nei Promessi sposi le posizioni dell'autore sono più sfumate e talora dissimulate sotto il velo dell'ironia. Ciò perché nel Fermo vi è una più netta contrapposizione tra bene e male, positivo e negativo, ideale e reale: il negativo è portato alle estreme conseguenze, e ad esso è contrapposto un positivo simmetricamente estremizzato, nei Promessi sposi, invece, positivo e negativo sono più vicini. LA SEDUZIONE DI GELTRUDE Nel Fermo e Lucia, Manzoni narra dettagliatamente il cedimento di Geltrude alla seduzione, la relazione con Egidio e la sua degradazione; anche il delitto è descritto nei minimi particolari più atroci. È una materia cupa e sgradevole. Nei promessi sposi, invece, la materia cupa scompare ed egli si arresta nel momento determinante con la frase “la sventurata rispose” e tace sugli sviluppi successivi. Egidio era uno scellerato che amava amoreggiare, in quanto gli piaceva il brivido del proibito. egli abitava nella casa accanto al monastero dove si trovava Geltrude, e un primo successo con un’educanda, lo spinse a porre gli occhi sulla signora. un giorno e la passeggiava nel cortile del chiostro quando senti dei rumori provenienti da un lato; si trattava di Egidio, il quale la stava chiamando e dopo due tentativi falliti, Geltrude scappa terrorizzata. Una volta chiusa nella sua camera, inizia pensare i motivi che spinsero Egidio a rivolgere i suoi interessi a lei. Con quest’esame si reputa innocente, in quanto penso di non aver fatto nulla per attirare la sua attenzione. Torno nella sala delle educande e si affaccia la finestra per vedere se Egidio era ancora lì e quando lo vede, chiude la finestra e si dirige verso il cortile. Nel mentre cerca di levarsi da tutte le colpe, pensando al fatto che la casa vicino al monastero non l’aveva costruita lei e che quindi non si poteva fare nulla se Egidio si trovava lì. Si dirige verso l’esterno per capire se quelle attenzioni erano rivolte verso di lei. Il comportamento di Geltrude: Þ disapprovazione Þ indifferenza Þ tolleranza Þ sconfitta Questo procedimento lo fa per convincersi Che quello che stava facendo era destino che accadesse e per arrivare a convincersi che lei aveva fatto di tutto per contrastare Egidio, ma che alla fine si è rassegnata. Geltrude si sentiva inebriata da queste emozioni che non riceveva da tanto tempo: E lo utilizza la ragione come strumento di vizio e perversione e con essa si convinse che la sua relazione con Egidio era giusta. E la non poteva rendersi conto che quello che stava facendo era giusto, perché non possedeva non è una meditazione e non è un sentimento della fede cristiana, si abbandona così al vizio. Quando scopre che una damigella aveva rivelato la sua relazione segreta ad un’altra suora, Egidio propone di ucciderla, mentre Geltrude, inizialmente, dice di no, però poi acconsente a patto che ella non partecipasse materialmente al diritto. IL CONTE DEL SAGRADO Il conte del Sagrato reca un soprannome, ricavato datò sua più grande e valorosa impresa, facendo riferimento all’omicidio eseguito sul sagrato di una chiesa. Egli rappresenta il tipico signore feudale del Seicento, un “tiranno” che commette, agli occhi di tutti, delitti e soprusi senza curarsi della legge. Nella sua descrizione non traspare nessun riferimento alla sua interiorità: determinato nel suo agire, questo personaggio é, quindi, un barbaro violento in cerca di onore e fama. Nel “Fermo e Lucia” il racconto del delitto da luogo ad una scena estremamente drammatizzata, in cui i particolari assumono una forte efficacia visiva. Un debitore si reca dal conte per spiegare che egli non doveva nulla al suo creditore, un signore benestante che non godeva della protezione del conte, perché voleva sottomettersi a lui. Al conte fu molto gradita la richiesta di dare una lezione a costui: manda un suo servo e il debitore dal creditore per spiegarvi che il conte stesso ha imposto che non gli deve nulla. Il paese del creditore era affollato per la festa, quindi tende un agguato al creditore sul sagrato della chiesa: il creditore spaventato alla vista del conte tenta di mischiarsi nella folla, la quale però, si allontanava da lui. il conte lo colpisce il creditore cade a terra morente. Il conte sa benissimo come lo chiamano tutti, ma non è dispiaciuto per questo, anzi ne è orgoglioso. STORIA DELLA COLONNA INFAME La Storia della Colonna Infame racconta un episodio realmente accaduto nella Milano del 1630, afflitta dalla peste e sotto la dominazione spagnola, e cioè il processo e la condanna a morte di diverse persone con l'accusa di essere «untori», cioè di essere responsabili della diffusione della pestilenza. Il racconto comincia il 21 giugno del 1630, quando alcune donne vedono dalle loro finestre un uomo che, mentre cammina, tocca i muri delle case sulle quali sembra lasciare una sostanza giallastra che, secondo loro, è l'unguento responsabile della diffusione della malattia. A far spargere la voce sarebbe stata una tale Caterina Rosa mentre l'uomo, che si chiama Guglielmo Piazza, è un addetto al tribunale della Sanità, e viene arrestato con l'accusa di essere un untore. Interrogato e messo sotto tortura, gli viene promessa l'impunità in cambio dei nomi di altri complici, e così il Piazza fa il nome di un barbiere, tale Giacomo Mora, che gli avrebbe consegnato la pozione contente il veleno pestilenziale. All'epoca dei fatti i barbieri come il Mora avevano spesso anche il ruolo di medici, e non era strano che avessero in dotazione intrugli e pozioni che si credeva avessero capacità curative o di altro tipo, motivo per cui appariva verosimile non solo che questi fosse coinvolto nelle pratiche di Piazza, ma anche che ne fosse direttamente responsabile. Il Mora viene quindi arrestato insieme alla famiglia e torturato, finendo con l'autoaccusarsi pur di porre fine al supplizio, ma poi ritratta. I due giudici che conducono il processo, Giovanni Battista Trotti e Giovani Battista Visconti decidono infine di condannare a morte Piazza e Mora. Dopo le esecuzioni le autorità dispongono che la casa di Giacomo Mora venisse rasa al suolo e, al suo posto, fosse eretta una colonna con un'iscrizione che ricordava l'infamia delle azioni del barbiere, del Piazza e degli altri. La colonna rimase al suo posto fino al 1778, quando le autorità dell'Impero austriaco che nel frattempo aveva acquisito la città, ne decretarono l’abbattimento. Per Manzoni non è lecito scusare certi comportamenti attribuendone la responsabilità all’ignoranza dei tempi e alle barbarie dei costumi, considerandoli come effetti fatali ed inevitabili. Manzoni crede nel libero arbitrio dell’uomo, e quindi nella sua responsabilità. I giudici che condannarono a morte i presunti un tory potevano rendersi conto dell’ingiustizia che commettevano, anche in base ai principi allora vigenti. E se non seppero farlo, fu perché non vollero, furono quindi pienamente responsabili di quell’atrocità. Da questa fiducia nella responsabilità umana scaturisce anche uno spiraglio di fiducia nelle possibilità di intervenire per migliorare le condizioni della società umana. Se invece quelle atrocità sono effetto di responsabilità umane, sia la speranza di porvi rimedio, intervenendo su chi ne è responsabile. In Manzoni vi è un pessimismo profondo riguardo alla realtà storica. Però egli non crede che il male sia immodificabile. È vero che il male radicato nell’uomo con il peccato originale, e non puoi mai essere eliminato del tutto dalla società umana; perciò, una vera alternativa l’ingiustizia della storia si può avere solo nella dimensione dell’eterno. Il male insito nella società non sarà eliminato, ma può almeno essere attenuato. Il passo conferma che Manzoni al pessimismo metafisico si accompagna una relativa fiducia nelle possibilità di progresso nella società umana. GIACOMO LEOPARDI LA VITA Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno 1798 a Recanati. Recanati era un borgo di uno degli Stati a quel tempo più retrivi dell'Italia, lo stato pontificio. Giacomo crebbe in questo ambiente bigotto e conservatore che in un primo tempo influenzò le sue idee e i suoi orientamenti. Giacomo fu istruito inizialmente da precettori ecclesiastici, ma ben presto non ebbe più nulla da imparare da essi e continua i suoi studi da solo che contribuirono a minare il suo fisico già fragile. Tra il 1815 e il 1816 si attua quella che Leopardi stesso chiama la sua conversione dalla erudizione al bello: abbandona le aride minuzie filologiche e si entusiasma per i grandi poeti. importante per la sua vita saranno lo scambio di lettere con Pietro Giordani in cui Leopardi trova una confidenza affettuosa che gli manca nell'ambiente familiare, e allo stesso tempo una guida intellettuale. Questa apertura verso il mondo esterno gli rende ancor più dolorosamente insostenibile l'atmosfera chiusa e stagnante di Recanati e del palazzo paterno, e suscita in lui il bisogno di uscire da quella specie di carcere. Tenta una prima volta la fuga ma il tentativo viene scoperto e sventato lo stato d'animo conseguente a questo fallimento lo portano a uno stato di totale prostrazione e aridità. questa crisi del 1819 segna un altro passaggio, sempre a detta di Leopardi stesso, dal bello al vero, dalla poesia di immaginazione alla filosofia. Questo anno sarà anche piena di intense sperimentazioni letterarie. IL PENSIERO Tutta l'opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente immediate e sviluppate, il cui processo di formazioni, si può seguire attraverso lo zibaldone. Al centro della riflessione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico dell'uomo. Egli arriva ad individuare la causa prima di questa infelicità, identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale. L'uomo aspira ad un piacere che sia infinito, per estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall'uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che sempre gli sfugge, nasce per Leopardi l'infelicità dell'uomo. L'uomo è dunque, necessariamente infelice. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita da Leopardi come madre benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all'uomo: l'immaginazione e le illusioni. Per questo gli uomini primitivi e gli antichi greci, che erano più vicini alla natura e quindi capaci di illudersi ed immaginare, erano felici, perché ignoravano la loro reale infelicità. PESSIMISMO STORICO La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita sull'antica tesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di generose illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime e questo favoriva la loro forza morale. Il progresso della civiltà e della ragione le illusioni, ha spento ogni slancio magnanimo, ha resi moderni incapaci di azioni eroiche. La colpa dell'infelicità presente è dunque attribuita all'uomo stesso, che si è allontanato dalla vita tracciata dalla natura benigna. Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni in quanto la vede dominata dall'inerzia. Scaturisce di qui la tematica civile patriottica da cui deriva anche un atteggiamento titanico: il poeta, come unico depositario della virtù antica si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l'Italia a tanta abiezione. Questa fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula pessimismo storico: nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità. LA NATURA MALVAGIA Questa concezione di una natura benigna il provvidenziale entra però in crisi, la natura mira alla conservazione della specie e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Ne deduce che il male non un è semplice accidente, ma rientra nel piano stesso della natura si rende conto, inoltre, del fatto che è la natura che ha messo nell'uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. Leopardi cerca di uscire da questa contraddizione attribuendo alla responsabilità del male al fato, propone quindi una concezione dualistica, natura benigna contro fatto maligno. Leopardi concepisce la natura non più come una madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature. È una concezione non più finalistica (la natura che opera consapevolmente per un fine, il bene delle sue creature) ma meccanicistica e materialistica (tutta la realtà non è che materica, ha regolata da leggi meccaniche). La colpa dell'infelicità non è più nell'uomo stesso, ma solo della natura. Viene così superato il dualismo che si creava tra la natura e il fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima erano del fatto, la malvagità crudele e persecutoria. coerentemente con l'approdo materialistico il senso dell'infelicità umana: se prima era concepita come assenza di piacere in una dimensione psicologica ed essenziale, ora l'infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto ai mali esterni, a cui nessuno può sfuggire (malattie, cataclismi, vecchiaia, morte). PESSIMISMO COSMICO Se causa dell'infelicità è la natura stessa, tutti gli uomini in ogni tempo e in ogni luogo sono necessariamente infelici. A pessimismo storico della prima fase subentra così un pessimismo cosmico: nel senso che l'infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell'uomo, ma ad una condizione assoluta, diviene un dato eterno e immutabile di natura. Ne deriva l'abbandona della poesia civile e del titanismo: se l'infelicità è andato di natura, va nessuno la protesta era lotta e non resta che la contemplazione lucida e disperata della verità. Subentra infatti Leopardi un atteggiamento contemplativo, distaccato e rassegnato. Il suo ideale non è più l'eroe antico ma il saggio antico viola la cui caratteristica è la tassia, il distacco imperturbabile dalla vita. ma la rassegnazione dinanzi a ciò che hai dato non è propria dell'indole di Leopardi: in momenti successivi tornerà l'atteggiamento di protesta, di sfida al fato e alla natura sin che al termine della vita sulla base della concezione pessimistica della natura Leopardi arriverà a costruire tutta una concezione della vita sociale del progresso. ALLA LUNA Il tema che domina la lirica eccolo tipicamente leopardiano della rimembranza, che è anche il titolo originario della lirica: ricordare il passato, anche se loro uso, è fonte di piacere, perché se ne rievocano le illusioni. Il poeta osserva la luna, simbolo della forza rasserenatrice della natura, e le parla come ad una creatura cara. egli rammenta che anche l'anno prima era salito su quel Colle, ma il volto della luna era apparso tremolante ai suoi occhi velati di pianto. Nulla è cambiato da allora, il suo animo è ancora ricolmo di sofferenza, eppure ricordare il dolore di allora gli reca sollievo. IL PASSERO SOLITARIO Il passero e Leopardi hanno in comune molte cose: entrambi hanno un carattere solitario, distaccato da quello dei loro coetanei che invece amano divertirsi in compagnia, entrambi sono diffidenti da divertimenti e compagnie e lasciano scappare via il momento migliore della loro vita senza godersi nulla punto la differenza che viene sottolineata è che il passero essendo un animale, quindi mosso puramente da suo istinto, alla fine della sua vita non ha rimpianti, mentre Leopardi invece avrà ricordo della sua gioventù sprecata e avrà rimpianti di non aver sfruttato appieno la sua giovinezza. Le prime due strofe hanno un evidente parallelismo dato dal fatto che in entrambe viene raccontato un momento di festa: per il passero viene raccontato il periodo della primavera in cui tutti gli uccelli volano e cantano, questo periodo del passero, per il poeta corrisponde alla gioventù in cui i suoi coetanei si divertono uscendo per il paese stando in compagnia. il canto del passero in relazione al poeta simboleggia il suo isolamento due il passero si isola grande dei suoi simili, cantando da solo mentre Leopardi si isola dai suoi coetanei cantando, cioè scrivendo opere. A SILVIA La poesia Silvia è una poesia del ricordo (poesia non realistica ma evocativa, metti in risalto il dato interiore). Il componimento si presenta come un intimo colloquio consiglia ed è caratterizzato da una struttura ordinata, in cui le strofe sono alternativamente delicate ora a Silvia ora il poeta stesso. il tema centrale di Silvia e la contraddizione tra le speranze che l'uomo istintivamente nutre e la crudele disillusione che la vita inevitabilmente riserva, perché la natura è una matrigna per non interessata alla felicità dell'essere umano. Silvia è una figura viva di fanciulla, ma soprattutto è simbolo della giovinezza e delle speranze che l'accompagnano. Leopardi ne canta le gioie, i sogni, le aspettative di evocare con nostalgia quell'epoca lontana che la rappresenta; Ma l'esperienza di vita del poeta lo rende amaramente consapevole della triste realtà: all'apparire del vero le illusioni i sogni si trasformeranno nell'angoscia inconsolabile di chi ha visto dissolversi ogni speranza. CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA Canto notturno di un pastore errante dell'asia è un componimento particolarmente emblematico della poetica leopardiana. Il riferimento all'asse da qui trae origine del componimento deriva da un racconto letto da Leopardi: il resoconto di un viaggio presso una popolazione dell'asia centrale, in cui veniva narrato come alcuni pastori si rivolgessero direttamente alla luna coi loro canti. Il pastore a cui è affidato il canto è però, fin da subito, portavoce del pensiero del poeta. È un pastore filosofo, che rivolge un disperato tentativo di dialogo a due creature mute, la luna e il gregge, entrambi ugualmente prive di risposte. Inizialmente e gli si rivolge alla luna paragonando le proprie condizioni di pastore a quelle dell'astro, simili per certi versi viene programma completamente opposte per altri punto lo attendo alcuna risposta, il pastore si interroga sulla sua vita confrontandola con quella del suo gregge e domandandosi perché gli animali, almeno in apparenza, non solo provino o meno tormento, ma soprattutto non conoscano la noia. L'uomo, invece, non solo vive nel dolore fin dalla nascita ma e subito vinto dalla noia. Particolarmente rappresentativa della condizione umana e invece l'immagine del vecchierel che occupa la seconda strofa del componimento: affronta avversità e fatiche indicibili solo per arrivare a un abisso pronto a inghiottirlo. Ma questa in insensatezza e questa inconcepibile vita della vita fanno un passo oltre e travolgono tutto ciò che circonda il pastore, che si domanda non solo che scopa posso mai avere l'esistenza dell'uomo, ma quale senso possono mai avere il gregge o il modo degli astri. Un ultimo lampo di speranza, per il pastore, e il pensiero del volo che subito viene però rovesciato, ribadendo che la nascita, per ogni creatura non è altro che fonte di dolore. IL SABATO NEL VILLAGGIO La poesia descrive la rappresentazione di una scena di vita paesana e mira ad illustrare un aspetto della teoria leopardiana del piacere secondo cui il desiderio non è presente ma è sempre proiettato al futuro. La poesia è strutturata in bozzetti e racconta di una donzella che torna a casa dal tramonto con un mazzo di fiori per ornarsi per il seguente giorno di festa. ad un certo punto cambia il tono della poesia che si fa più cupo. nella penultima strofa Leopardi afferma che il sabato è il giorno più gradito perché si pensa al domani come un giorno di festa differenza della domenica perché il domani rappresenta un giorno lavorativo punto alla fine Leopardi invita a un fanciullo a godere della sua giovane età perché è come un giorno piena di allegria. con questa poesia Leopardi vuole comunicare che il sabato come giorno di festa rappresenta una metafora perché adesso rappresenta l'adolescenza che è la vera festa della vita, perché c'è speranza verso la maturità. A SÉ STESSO In questa poesia dice che gli è caduta anche l'ultima illusione quella che lui ha considerato eterna, cioè l'amore a sé stesso è un dialogo con sé stesso dove egli afferma che tutto è inganno illusioni, anche l'amore; Da questo momento lui non crede più all'amore. Possiamo dire che questa poesia è scritta con parole e sangue infatti il poeta si rende conto di aver vissuto sempre in un'illusione e ora ha preso consapevolezza della sua condizione. A sé stesso è una poesia anti-idillica il linguaggio è essenziale e si sono frasi anche con una sola parola; non ci sono più quelle frasi complesse molto costruite, inoltre notiamo che non c'è la presenza di parole vaghe e indefinite bensì le parole sono dolorose e chiare perché il dolore è alla base di questa poesia. GINESTRA Il tema fondamentale della poesia e la contemplazione del paesaggio vesuviano, specchio perfetto della condizione umana e del rapporto tra uomo e natura. La natura è responsabile del dolore degli uomini e, più in generale, della sofferenza di tutti gli esseri viventi. Tutta questa posizione è radicalmente diversa da quella che Leopardi aveva sostenuto anni prima, al tempo del cosiddetto pessimismo storico, cioè quando la negatività del presente era vista come perdita di una condizione primitiva relativamente felice. e questa visione negativa della natura, per cui ogni essere vivente è condannato all'infelicità, che ha motivato la definizione di pessimismo cosmico per la seconda fase del pensiero leopardiano. La Ginestra in questo caso ha un valore simbolico, essa è un arbusto che, pure esposto alla furia distruttrice della natura, si rivela flessibile resistente. Per questo Leopardi la indica l'uomo come modello di condotta di fronte al destino avverso. Anche se la storia umana appare inutile perché è condizionata dalle leggi della natura, la civiltà assume per Leopardi un valore positivo: la social catena, ossia la solidarietà permette infatti agli uomini di reagire alle ingiustizie della natura. LO OPERETTE MORALI Le operette morali rappresentano la fase più matura del pensiero del poeta: si tratta della più importante opera prodotta dall'autore nel periodo del silenzio poetico durante il quale Leopardi non compose poesie. le operette morali ambiscono innanzitutto a distruggere ogni visione del mondo ipocritamente ottimista e rasserenante, era presentano un ultimo, disperato tentativo di resistenza alle angosce insensate della condizione umana. Leopardi voleva che si muovessero l'uomo dalle sue certezze e gli mostrassero il vero posto del mondo, molto meno favorevole di quello che con i secoli aveva avuto la superba di credere. DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE Questo dialogo svolge il concetto leopardiano della natura matrigna, che è la causa dell'infelicità degli uomini, perché ha diffuso in essi il desiderio insopprimibile della felicità, pur sapendo di non poterlo mai mantenere. La scelta a protagonista di un islandese sta a significare che sono infelici anche loro che sono vicini alla natura, alla vita primitiva. il dialogo della natura e di un islandese è composto in forma mista di narrazione e di dialogo. Quest'opera segna un momento fondamentale di grande importanza nel pensiero dei Leopardi, il passato da una concezione di natura benefica a quella di una natura matrigna. DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO GENIO FAMILIARE L'operetta tocca alcuni dei temi fondamentali dei Leopardi: l'amore, il sogno e il piacere. l'amore è l'unico capace di sconfiggere la dura verità presente nel mondo, ma è anche l'illusione più tenace. Esso crea il sogno, la cui funzione è analoga a quella dell'immaginazione cioè sconfigge i dolori e le sofferenze. Ma questo piacere è fittizio, in quanto o lo si può sperare polo si può ricordare, ma non è mai presente. È ingannevole e consuma l'esistenza dell'uomo. LA SCAPIGLIATURA 1860-1880, post unità d’Italia. La scapigliatura non è una scuola o movimento organizzato, con una poetica comune, ma è un gruppo di scrittori che operano nello stesso periodo e negli stessi ambienti e che sono accomunati, più che altro è negativo, da un’insofferenza per le convenzioni della letteratura contemporanea. Il termine scapigliatura, proposto per la prima volta da Cleto arridi, ebbe una rapida fortuna a designare il gruppo di scrittori milanesi anticonformisti, che voleva essere l’equivalente italiano del termine francese Bohème. Boemia significava propriamente vita zingaresca e zingari, poiché si credeva che questi nomadi provenissero dalla Boemia. Questi artisti, quindi, avevano modi di vita in regolari e disordinati, ostentando il rifiuto dei valori e delle convenzioni borghesi. Essi disprezzavano anche una società fondata sul mercato e sulla produttività. Con il gruppo degli scapigliati compare per la prima volta anche in Italia il conflitto tra artista e società. Con la modernizzazione economica e sociale dell’Italia, che tende a declassare emarginare i poeti, nascono anche negli artisti italiani gli atteggiamenti ribelli e antiborghesi con un rifiuto radicale delle norme morali e delle convenzioni correnti. Gli scapigliati assumono un atteggiamento ambivalente verso il progresso economico: Þ repulsione = si aggrappano i valori del passato come la bellezza, l’arte, la natura che il progresso va distruggendo Þ rassegnazione = delusi e disincantati rappresentano il vero, vale a dire gli aspetti più prosaici della realtà Gli scapigliati definiscono questo atteggiamento dualismo, essi si sentono divisi tra ideale e vero, bene e male, virtù e vizio, bello e orrendo. La loro opera è proprio l’esplorazione di questa condizione di incertezza, di angosciata perplessità e disperazione esistenziale. La posizione della scapigliatura nella storia della cultura dell’Ottocento è quella di un grande crocevia intellettuale. Gli scapigliati, con il culto del vero e con l’attenzione a ciò che è patologico, orrido e deforme, introducono in Italia il gusto del nascente naturalismo. Dall’altra parte, la tensione verso il mistero e inesplicabile, anticipano future soluzioni della letteratura decadente. GIOSUE’ CARDUCCI Giosuè Carducci nacque nel 1835 a Val di castello, in Versilia, da famiglia medioborghese. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la sua formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica è vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica. Dopo la conclusione dei suoi studi entra a far parte del circolo degli amici petanti che sono caratterizzati da un’aspra polemica nei confronti del romanticismo e di Manzoni. Nel 1860 Carducci inizia ad insegnare presso l’università di Bologna, sono anni in cui Carducci si pone come una figura particolarmente trasgressiva e contro corrente, quando scrive ad esempio l’inno a satana. Gli scapigliati sono contro: Þ il tradimento degli ideali del Risorgimento Þ contro la tradizione, incarnata da Manzoni Þ vogliono svecchiare la letteratura italiana e guardano con favore quella europea Ricercano: Þ Vero oggettivo = lo rappresentano negli aspetti più crudi della realtà Þ Vero soggettivo = mistero dell’animo umano, attratti dal paranormale, dall’occulto e dal fantastico LA NEVICATA Il tema centrale della lirica è quello del pensiero della morte, che caratterizza una parte dell’opera di Carducci; in molte sue liriche su trova. A contrapposizione fra la vita e la morte, fra la luce e le tenebre. In questo tempo sembra predominante solo il pensiero della morte, che acquista la forma simbolica, per altro dichiarata dal poeta, degli uccelli che picchiano con il becco sul vetro. Si può rintracciare però ancora un eco della vita e della gioia che essa suscita in quel grido della fruttivendola, nel carro che corre e nell’accenno all’indomito cuore. Ma questi richiami sono come smorzati e attutiti dalla neve, dalla situazione di pesante tristezza che grava sulla città e sul poeta. É significativi che la poesia si apra con l’immagine della neve che scende sullo sfondo di un cielo grigio e con l’idea del silenzio che si chiuda ancora con le parole silenzio e ombra, a definire il regno dei morti IL NATURALISMO Il naturalismo francese si afferma in Francia negli anni 70 dell'Ottocento. Il retroterra culturale e filosofico del naturalismo è il positivismo che esalta il progresso e la tecnologia portatori di benessere. Si può parlare della fine del naturalismo già tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90 dell'Ottocento. I punti fondamentali sono: Þ il rifiuto della letteratura romantica perché basata sulla fantasia e sul sentimento invece che sull'analisi rigorosa della realtà oggettiva Þ l'affermazione della poetica dell'impersonalità inaugurata dal romanzo Madame Bovary, l'autore nel rappresentare la realtà deve narrare i fatti in maniera impersonale eliminare ogni giudizio personale Þ il rifiuto dei canoni tradizionali del bello l'impostazione scientifica della narrazione Balzac e Flaubert sono considerati i precursori nel naturalismo francese. I fratelli Goncourt si deve una delle prime teorizzazioni della nuova tendenza letteraria, rivendicano il compito della letteratura di studiare la società con particolare attenzione alle classi inferiori col medesimo rigore metodologico nelle scienze. Il naturalismo adotta il romanzo come strumento privilegiato in grado di analizzare in maniera oggettiva e scientifica la realtà. Tale genere deve riflettere la realtà sociale e quotidiana della borghesia e del proletariato filtrata attraverso lo sguardo indagatore e oggettivo dello scrittore. Accanto al romanzo i naturalisti prediligono anche la novella, cioè un racconto breve che inquadra con precisione una condizione umana un ambiente sociale per rendere maggiormente realistiche le trame dei loro romanzi e novelle. Dal naturalismo francese prende spunto il verismo italiano, esso però pur ispirandosi agli stessi principi del naturalismo, se ne distingue in più punti. I SOGNI ROMANTICI DI EMMA, FLAUBERT Il personaggio di Emma Bovary fissa un atteggiamento, che è assurto avere propria categoria del costume e della mentalità moderni, il bovarismo. In queste pagine ne emerge un aspetto fondamentale. La donna piccolo borghese di provincia si cerca mediante il sogno un mondo parallelo, più splendido e affascinante. Questo sogno è costruito con materiale offerte dalla letteratura appunto la fuga dalla realtà a cui l'eroina si abbandona risponde ai modelli culturali e immediatamente individuabili, quelli romantici: è facile riconoscere l'esotismo nel tempo e nello spazio. Questi motivi, però, nelle sue fantasie perdono l'autenticità della letteratura alta: ridotti al suo livello piccolo borghese, si reagiscono in luoghi comuni, i miseri stereotipi e diventano falsi e ridicoli. Flaubert è feroce nel dare il senso di questa stupidità soffocante. Ma non vi sono espliciti interventi giudicanti. La tecnica usata da flobert è la registrazione impassibile: lo scrittore si limita ad enumerare i motivi ricorrenti dei sogni di Emma, e basta questa semplice menzione perché la loro stupidità si dichiari da sé, in una luce crudele UN MANIFESTO DEL NATURALISMO, GONCOURT Da questo manifesto emergono alcuni punti essenziali della poetica del naturalismo: Þ il rifiuto della narrativa di consumo, convenzionale di evasione, ed è il perseguimento di finalità serie. il proposito di non curarsi dei costi del pubblico ma di andare provocatoriamente contro le sue abitudini più consolidate Þ l'acquisizione alla letteratura di una nuova zona del reale, esclusa dalla relativa tradizionale: le classi inferiori che vengono trattati in chiave seria Þ l'attribuzione alla letteratura del rigore metodologico e dei fini della scienza, viene dato per scontato che la forma per eccellenza di questa nuova letteratura è il romanzo Þ l'intento dello studio sociale, dell'analisi di miseria della società, il nome di una missione umanitaria È necessario però distinguere queste enunciazioni teoriche dalla realtà effettiva delle opere. Ciò che spingeva i due scrittori a rappresentare il popolo era soprattutto la ricerca del nuovo ed è raro propria di un gusto ormai sazio ed annoiato. IL VERISMO Il verismo è un movimento letterario che si diffonde in Italia alla fine dell'Ottocento sulla scia del naturalismo francese. Le opere letterarie naturaliste hanno come argomento principale la realtà umana e sociale, rappresentandola corridore scientifico in modo oggettivo e distaccato. I veristi italiani riprendono i principi del naturalismo francese e i trasportano in una situazione storica completamente differente. In Italia la situazione non è quella francese o inglese, l'industrializzazione e l'unità politica sono ancora all'inizio e ciò aggrava i problemi già esistenti di differenza tra nord e sud sulla penisola. Proprio questi anni nasce la cosiddetta questione meridionale. Il verismo assume un carattere e regionalistico: gli scrittori analizzano e descrivono nelle loro opere le proprie realtà regionali in modo crudo e drammatico, con toni pessimistici. I caratteri principali del verismo sono: Þ rappresentazione obiettiva di una precisa realtà, spesso di ambiente popolare Þ narrazioni impersonale dei fatti senza l'intervento dell'autore, il quale rimane completamente estranei fatti Þ utilizzo di un linguaggio semplice e diretto, pieno di espressioni dialettali regionali, che riflette il modo di esprimersi delle persone umili il maggiore rappresentante del verismo italiano e Giovanni Verga, ma ci sono altri scrittori veristi molto importanti come ad esempio Luigi Capuana, Federico de Roberto e Grazia Deledda. SCIENZA E FORMA LETTERARIA: L'IMPERSONALITÀ, LUIGI CAPUANA Capuana sei nettamente le distanze rispetto al romanzo sperimentale di Zola. Questi era convinto di fare veramente, quei suoi romanzi, opera di scienziato, studiando l'ereditarietà e il determinismo ambientale. Capuana, in nome dell'autonomia dell'arte, ritiene invece che perseguendo un simile obiettivo, l'arte si snaturerebbe, trasformandosi in qualcosa di estraneo. Per lui quindi la letteratura non deve diventare scienza ma restare letteratura e perseguire i propri fini, che sono artistici. Al massimo, la letteratura potrà avvicinarsi allo spirito della scienza che domina nei tempi moderni, nel metodo con cui rappresenta la realtà, nella maniera in cui lo scrittore organizza i suoi materiali e i suoi mezzi espressivi. E questa maniera si assume nel principio dell'impersonalità, intesa come scomparsa dell'autore dall'opera, cioè soppressione di soggettivo, mediante commenti e giudizi che caratterizzava la narrativa precedente. GIOVANNI VERGA Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri, con ascendenze nobiliari. Nei suoi primi studi vediamo un fervente patriottismo e il gusto letterario romantico. Successivamente si dedica al giornalismo politico, e questa sua formazione irregolare segna inconfondibilmente la sua fisionomia di scrittore, che si discosta dalla tradizione. I testi su cui si forma il suo gusto in questi anni, più che i classici italiani e latini, sono gli scrittori francesi moderni di vasta popolarità. A Firenze viene a contatto con la vera società letteraria italiana. A Milano poi entra in contatto con l’ambiente della scapigliatura. Nel 1878 avviene la svolta capitale verso il verismo, con la pubblicazione del racconto rosso malpelo. PRE VERISMO Prima di approdare al verismo, Verga si dedica ad altri tipi di romanzi, più vicino alla letteratura di moda all’epoca. Þ romanzi patriottici = Verga appoggia attivamente unità d’Italia, arrivando ad arruolarsi nella guardia nazionale. Il suo patriottismo emerge anche attraverso i suoi primi romanzi che si inseriscono nella corrente molto diffusa all’epoca della letteratura patriottica Þ romanzi mondani = dopo il suo trasferimento Verga inizia descrivere l’ambiente mondano che gli stesso frequenta. Si parla sempre di un giovane artista che subisce l’influsso distruttivo della mondanità per opera di qualche donna. In questo vediamo il giovane Verga e i suoi turbolenti rapporti con le donne che incontrano i salotti fiorentini milanesi SVOLTA VERISTA Rosso malpelo è la prima opera della nuova maniera verista, ispirata ad una rigorosa in personalità. Il cambio così vistoso di temi e di linguaggio inaugurato da rosso mal pelo è stato spesso interpretato come un avere propria conversione. L’approdo al verismo di Verga è frutto di una chiarificazione progressiva di propositi già radicati, la conquista di strumenti concettuali e stilistici più maturi: la concezione materialistica della realtà e l’impersonalità. Infatti, con la conquista del metodo verista, Verga non vuole affatto abbandonare gli ambienti dell’alta società per quelli popolari. Anzi si propone di tornare a studiarli proprio con quegli strumenti più incisivi di cui si è impadronito. Le basse sfere non sono che il punto di partenza del suo studio dei meccanismi della società, poiché in esse tali meccanismi sono meno complicati e possono essere individuati più facilmente Secondo la sua visione, la rappresentazione artistica deve conferire al racconto l’impronta di cosa realmente avvenuta, per far questo deve riportare documenti umani: deve anche essere raccontato in modo da porre il lettore faccia a faccia col fatto nudo e crudo. Per questo lo scrittore deve eclissarsi, cioè non deve comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive. l’autore deve mettersi nella pelle dei suoi personaggi, in tal modo l’opera dovrà sembrare essersi fatta da sé. Il lettore avrà l’impressione non ti sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti che si svolgono sotto i suoi occhi. A tal fine il lettore deve essere introdotto nel mezzo degli avvenimenti, senza nessuno che gli spieghi gli antefatti. Verga ammette che questo può creare una certa confusione però ma mano che gli autori si fanno conoscere con loro azioni e le loro parole, attraverso di esse il loro carattere si libera il lettore: solo così si può creare ed eliminare ogni artificiosità letteraria. La teoria dell’impersonalità non è per Verga una definizione filosofica in assoluto dell’arte ma solo impersonale programma di poetica, la definizione di un procedimento tecnico, di un modo di dar forma all’opera. Per questo Verga parla di artificio: al lettore deve apparire come se l’autore fosse scomparso. Nelle sue opere effettivamente autore si eclissa, a raccontare infatti non è il narratore unisce ente tradizionale ma il punto di vista dello scrittore non si avverte mai. La voce che racconta si colloca tutta all’interno del mondo rappresentato, e allo stesso livello dei personaggi. Non è propriamente qualche specifico personaggio raccontare, ma il narratore si mimetizza nei personaggi stessi. É come se a raccontare fosse uno di loro che però non compare direttamente nella vicenda resta anonimo. Non solo questo anonimo narratore non informa esaurientemente sul carattere sulla storia dei personaggi ne offre dettagliate descrizioni dei luoghi dove si svolge l’azione. E ne parla come se si rivolgesse a un pubblico appartenente a quello stesso ambiente. E se la voce narrante commenta e giudica i fatti, non lo fa certo secondo la visione causa dell’autore, ma in base alla visione elementare e rozza della collettività popolare, che non riesce a cogliere le motivazioni psicologiche autentiche delle azioni. Di conseguenza anche il linguaggio non è quello che potrebbe essere dello scrittore, ma un linguaggio spoglio e povero in cui traspare chiaramente la struttura dialettale. La struttura del racconto è intreccio (presenza del flash back).il momento di massima tensione della novella e nell’ultima sequenza quando Mazzaro si rende conto che la sua morte sta per giungere e lui non potrà, anche se vuole, portarsi la roba con lui. Il punto di vista è quello di un narratore popolare, ovvero un uomo che vive nella realtà che è raccontata. La narrazione è costruita attorno al personaggio di Mazzaro che prima hai descritto da un punto di vista esterno e successivamente dal punto di vista della gente. Le tecniche stilistiche utilizzate sono: Þ straniamento = dato dalla realtà deformata dalla mente di Mazzarò Þ regressione = rappresentata da una mentalità chiusa di una Sicilia post-unitario LIBERTÀ Libertà è un racconto a fondo storico, che narra di una sanguinosa e furibonda rivolta di contadini contro i possidenti del paese, ispirata alla ribellione del 1860 di Bronte, sedata in seguito dai garibaldini capeggiati da Nino Bixio. Ti racconto si suddivide in tre sequenze distinte, ciascuna dotata di una fisionomia propria: Þ sommossa popolare Þ difficoltà degli insorti il giorno successivo Þ repressione da parte dei garibaldini e sul processo Nella descrizione della sommossa il narratore appare uscire l’ansia da due atteggiamenti. Da un lato sia un punto di vista vicino ai galantuomini, che esprime la condanna della furia irrazionale devastante della folla e lascia trasparire non solo orrore indignazione ma anche paura. Questa condanna si traduce non tanto in giudizi espliciti, quanto nell’insistenza su particolari carichi di intensa forza emotiva, atta suggestionare il lettore a livello profondo, si potrebbe quasi dire subliminale. Il giudizio di condanna si esprime poi attraverso la messa in evidenza di particolari patetici, atti a suscitare un moto istintivo di compassione per le vittime e di riprovazione per la crudeltà insensata che si accanisce su degli innocenti. Dall’altro lato si assiste anche a un tentativo di indagare le ragioni della rivolta popolare, di calarsi nel punto di vista della plebe contadina sfruttata e affamata la ricerca di giustizia. Attraverso le voci dei popolani stessi si stagliano allora le figure negative degli oppressori. L’oscillazione dei punti di vista testimonia l’atteggiamento problematico dello scrittore che certo prova orrore dinanzi agli eccessi sanguinario devastanti della sommossa, ma si sforza anche di capire perché essa si è scatenata e denuncia le condizioni miserevoli in cui sono tenuti i contadini e le angherie di cui sono stati fatti segno da parte dei possidenti La seconda sequenza esamina i contraccolpi della sommossa sulla folla. La prospettiva della spartizione delle terre fa emergere dei contadini lego Ismo e la ricerca del proprio interesse, che sono propri della natura umana in generale. E qui si manifesta la concezione pessimistica di verga: anche tra i contadini trionfa comunque il più forte, quindi, se anche i ministri minaste le vecchie classi dominanti la sopraffazione. Non è possibile alcuna speranza in una redenzione delle ingiustizie. Nello scrittore non vi è alcuna propensione a idealizzare le classi subalterni, il suo verismo crudo e spietato non glielo consente. Il pessimismo fatalistico di Verga si misura anche nel quadro della vita del paese che dopo la rivolta torna esattamente come era prima: segno che nulla può realmente mutare. Un diverso atteggiamento dello scrittore si manifesta nella terza sequenza, che descrive la riflessione sui cittadini: se lo scatenamento della furia sanguinaria devastava il raccapriccio del narratore, ora che i popolani non sono più minaccia ma sono solo delle vittime sono solo delle vittime sono fatti segno della sua incondizionata pietà. La pietà è caratterizzata anche dal modo di narrare: infatti il processo è rappresentato interamente attraverso un punto di vista dal basso. Viene rappresentato con gli occhi dei popolani stessi, attraverso la loro ignara estraneità Nella battuta conclusiva si coglie tutta l’estraneità di quella plebe rispetto al mondo civile, alle sue leggi e agli ideali patriottici, che risultano adesso del tutto incomprensibili; l’unico interesse del miserabile è costituito da un palmo di terra, per cui non può capire come perseguimento di quell’obiettivo per lui sacrosanto poi sarai luogo a una simile persecuzione. CICLO DEI VINTI Il ciclo dei vinti alla volontà di tracciare un quadro sociale, di delineare la fisionomia della vita italiana moderna, passano in rassegna tutte le classi, dei ceti popolari alla borghesia di provincia all’aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza: tutta la società è dominata da conflitti di interesse, i più forte trionfa, schiacciando i più deboli. Verga però non intende soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale e sceglie come oggetto della sua narrazione i vinti. I MALAVOGLIA La prefazione a romanzo dei malavoglia, si sofferma su alcuni punti fondamentali per comprendere al meglio per azione verista, in cui si uniscono due dei principali interessi di cerca di Verga, attivi sin dagli anni di composizione delle novelle: Þ interesse per la questione meridionale Þ presenza di un concreto mercato di pubblico cui rivolgersi Il primo romanzo del ciclo e i malavoglia, la storia di una famiglia di pescatori siciliani chiamati malavoglia poiché nell’uso popolare i soprannomi sono spesso il contrario delle qualità di chi porta. Essi vivono nel paesino di Acitrezza, posseggono una casa e una barca e condividono una vita relativamente felice e tranquilla. Nel 1863 però il giovane ‘ntoni, figlio di bastianazzo E nipote di padrone toni, il vecchio patriarca, deve partire per il servizio militare. La famiglia si trova in difficoltà dovendo pagare un lavorante. A ciò si aggiunge una cattiva annata per la pesca, e il fatto che la figlia maggiore, mela, abbia bisogno della dote per sposarsi. Padre ‘ntoni pensa di intraprendere un piccolo commercio compra credito dall’usurario un carico di lupini per rivenderli in un porto vicino.ma la barca naufraga nella tempesta, bastianazzo muore e il carico va perduto. I malavoglia si trovano anche di fronte al debito da pagare. Comincia di cui una lunga serie di sventure, la casa viene pignorata, Luca (secondo genito) muore nella battaglia di Lisa, la madre viene uccisa dal colera. La sventura disgrega il nucleo familiare: ‘ntoni non si adatta più alla vita di dure fatiche e di stenti e comincia a frequentare l’osteria e le cattive compagnie, viene coinvolto nel contrabbando e finisce per dare una coltellata alla guardia doganale. Al processo Antonio una condanna mite ma Lea, ormai disonorata, fugge dal paese e finisce in una casa di malaffare in città. a causa del disonore caduto sulla famiglia, ma erano un po’ più sposare Alfio. Il vecchio padre ‘ntoni va a morire all’ospedale e l’ultimo figlio Alessi riesce a riscattare la casa del nespolo, continuando il mestiere del nonno. Intoni torna una notte in famiglia, ma si rende conto di non poter più restare e si allontana per sempre. I malavoglia rappresentano un mondo rurale arcaico, chiuso in ritmi tradizionali che si modellano suo ritorno ciclico delle stagioni. Ma non si tratta di un mondo del tutto immobile, fuori dalla storia: anzi, il romanzo è proprio la rappresentazione del processo per cui la storia penetra in quel sistema arcaico, disgregando nella compattezza, rompendo negli equilibri. L’azione, infatti, a inizio all’indomani dell’unità mettendo in luce come il piccolo villaggio siciliano si è investito dalle tensioni di un momento di rapida trasformazione tra società italiana. La storia e la modernità si rappresentano in anzitutto con la coscrizione obbligatoria, Che sottrae braccia al lavoro, mettendo in crisi la famiglia come arcaica unità produttiva. Il sistema sociale del villaggio è investito trasformato da questi movimenti dinamici che provengono dall’esterno, dal grande mondo della storia. I malavoglia, a causa delle difficoltà economiche indotte, sono costretti a diventare negozianti da pescatori che erano sempre stati: subiscono quindi un processo di declassazione. Ma vi sono anche processi di ascesa sociale. Questo mondo del villaggio può apparire immobile solo perché ai fatti narrati, se con i principi di personalità e di regressione di Verga, sono presentati dall’ottica dei personaggi stessi. Ma la loro visione deforma, tradisce la realtà effettuale, mentre il montaggio narrativo l’avete chiaramente in evidenza. I personaggi in cui sensualmente si incarnano le forze disgregatrici della modernità è il giovane in toni. Egli è venuto in contatto con la realtà moderna per questo non può più adattarsi ai ritmi di vita ancestrali del paese, accettare il suo fatalismo immobilista. Emblematico è il conflitto col nonno che rappresenta invece lo spirito tradizionalista, l’attaccamento ad una visione arcaica e i suoi valori. Sottrazione di queste due forze la famiglia si disgrega. Il finale sarà poi emblematico in quanto i personaggi inquieto, che già aveva messo in crisi quel sistema, si distacca per sempre, allontanandosi verso la realtà del progresso delle grandi città, della storia (‘ntoni). I malavoglia sono stati spesso interpretati come la celebrazione di un mondo primordiale dei suoi valori, in realtà, il romanzo rappresenta al contrario la disgregazione di quel mondo e l’impossibilità dei suoi valori. Sei ancora nella prima fase del suo verismo persisteva in Verga una componente di nostalgia romantica che la realtà arcaica della campagna, i malavoglia segnano proprio superamento irreversibile di tali tendenze. Lo scrittore sa bene che quello non è un semplice mondo che scompare, ma un mondo mitico, che non è mai esistito. Nel romanzo vediamo una particolare configurazione della struttura romanzesca, costruzione bipolare. Si tratta di un romanzo corale, fittamente popolato di personaggi, ma questo coro si divide nettamente in due: Þ i malavoglia = caratterizzati dalla fedeltà ai valori puri Þ la comunità del paese = pettegola, cinica e mossa solo dall’interesse Si alternano quindi costantemente nella narrazione: di vista opposti, quello nobile e disinteressato dei malavoglia e quello gretto e ottuso degli altri abitanti del villaggio. L’ottica del paese ha il compito di straniare sistematicamente i valori ideali proposti dei malavoglia. Dall’altro però il punto di vista ideale dei malavoglia vale a fornire un metro di giudizio dei meccanismi spietati che dominano l’ambiente del villaggio, facendo emergere dalle cose stessi, senza interventi giudicanti del narratore. Il romanzo è una costruzione estremamente problematica: le due componenti della visione verghiana, idealizzazione romantica della realtà arcaica e il verismo pessimistico reagiscono l’una contro l’altra in un gioco dialettico. MASTRO-DON GESUALDO A seguito di un incendio nel palazzo della già decaduta famiglia dei Trao, nobile stirpe che risiede nel paese di Vizzini in Sicilia, la figlia più giovane viene data in moglie a Gesualdo Motta, ex muratore arricchitosi a tal punto da divenire il maggior possidente del paese e ormai, con il matrimonio contratto, membro della nobiltà locale. Uomo fatto da solo grazie alla fatica e all’occhio per gli affari, mastro Don Gesualdo compirà una serie di scelte economiche che lo porteranno a diventare l’uomo più ricco e potente luogo, ma lo condanneranno tanto al disprezzo della sua classe sociale di provenienza e di passaggio, il proprietario e la borghesia, quanto quello del ceto di approdo, aristocrazia lo considera sempre un bifolco arricchito. Mastro don Gesualdo È un personaggio designato già dal titolo e dall’appellativo che gli hai riservato, nato, come spesso accade in verga, dalla visione che gli altri membri della società hanno di lui, “mastro “designa l’origine del muro da muratore Gesualdo e “Donna “il grado nobiliare che questi finisce per acquisire accumulando ricchezze.su Gesualdo e il mistero finale che gli è riservato pesano le costanti scelte dovuta l’ambizione e la volontà di riscatto sui padroni con l’arricchimento. Membro di una borghesia che, nei cambiamenti sociali dell’Ottocento, scassa la novità dal ruolo di poteri, finisce per ereditare il destino di chi per troppa verità cade in una tragica spirale di decadenza. Incentrato sul conflitto tra le classi sociali dell’epoca risorgimentale, mastro Don Gesualdo vuole rappresentare, all’interno del ciclo dei vinti, le dinamiche interne alla borghesia. Classi sociali emergenti, grazie Elisa cumulate sostituisce l’aristocrazia dell’amministrazione del potere, e animato tutta via da ideali differenti, volti al guadagno e al predominio economico Gesualdo Motta sfrutta la debolezza dei trovo per realizzare definitivamente il monopolio su Vizzini, riuscendoci, ma così facendo si colloca nel fuoco incrociato delle altre due forze sociali in conflitto tra loro. I nobili lo escludono perché non lo considero mai uno di loro, i proletari finiscono per disprezzarlo e identificarlo, probabilmente ha ragione, come traditore e non è padrone, in tutto e per tutto uguale ai vecchi che è riuscito miracolosamente a sostituire. LA TENSIONE FAUSTIANO DEL SELF-MADE MAN Il capitolo quarto della prima parte del romanzo descrive una giornata tipo di Gesualdo. Questa si divide in due parti Þ la prima è tutta dominata dall’attivismo infaticabile delle Roi, che vada a mille affari di raggiungere l’obiettivo per lui sacro di accrescere E difendere la roba. In questo la figura di Gesualdo assume qualcosa di grandiosamente epico: le sue virtù eroiche sono la potenza di creare ricchezza, cioè anche in Gesualdo qualcosa di faustiano.ma proprio per questo la sua figura fortemente problematica: oltre all’alone eroico, c’è in lui qualcosa di cupo e sinistro nel suo concentrare tutta la vita a quell’unico fine, escludendo qualunque altra realtà. Si noti il paesaggio che lo circonda, che ha una fisionomia infernale: Gesualdo è un dannato, sperimenta l’inferno escludendosi dalla vita per raggiungere i suoi fini. Questo aspetto negativo della religione della roba: la totale alienazione, il sacrificio di ogni umanità Þ la seconda parte vede invece il momento del riposo, della quiete della sera. La tensione faustiano si attenua ed emerge dalla memoria dell’eroe tutto il suo passato. Ma anche qui affiora tutta la negatività della sua ascesa, il prezzo durissimo che gli ha dovuto pagare. Persino la famiglia non è più rifugio: i compiti si insinuano anche al suo interno in particolare nei rapporti con la figura paterna. Non è solo un conflitto di interessi, ma più in generale di visioni del mondo. Mastro Nunzio rappresenta la mentalità tradizionalista immobilista propria di una società premoderna; mentre Gesualdo alla nuova mentalità dinamica e individualistica del mondo moderno. Il conflitto Gesualdo Nunzio riprende quello fra i protagonisti dei malavoglia, ma vi è una capitale differenza: nei malavoglia venivano a presentato un grembo protettivo caldo di affetti, mentre il Nunzio vediamo un uomo arido privo di affetti e di generosità. TEMI DELLA LETTERATURA DECADENTE Nella letteratura decadente europea deriva l’ammirazione per l’epoca di decadenza in cui l’esaurirsi delle forze si traduce in estrema squisita raffinatezza. Al culto per la raffinatezza estenuata di tali epoche si unisce il vagheggiamento del lusso raro e prezioso e della lussuria. I temi maggiormente trattati in questa epoca sono: Þ nevrosi = costituisce un avere propria atmosfera che avvolge l’intera cultura di questa età, il punto da qui sembra che tutto il reale si sia osservato Þ malattia = da un lato si pone come metafora di una condizione storica, dall’altro diviene condizione privilegiata (segno di nobiltà e distinzione) Þ malattia delle cose = il gusto decadente ama tutto ciò che è corrotto, impuro e putrescente Þ morte = tema dominante e ossessivo, voluttà morbosa di annientamento e di autodistruzione, un’attrazione resistibile per il nulla Þ Vitalismo = esaltazione della pienezza vitale aldilà di ogni norma morale Þ Superomismo = Punta a creare una vita eccezionale, sottratta alle norme ali norme del vivere comune EROI DECADENTI Þ artista maledetto = profana tutti i valori e le convenzioni della società, sceglie deliberatamente il male e si compiace di una vita misera e condotta sino all’estremo limite dell’autoannientamento attraverso i vizi Þ esteta = l’uomo che vuole trasformare la sua vita è un’opera d’arte, sostituendo alle leggi morali e le leggi del bello e andando costantemente alla ricerca di sensazioni squisite Þ inetto a vivere = che si sente escluso dalla vita, egli può solo rifugiarsi nelle sue fantasie, vagheggiando in sterminati sogni l’azione da qui escluso Þ donna fatale = dominatrice del maschio fragile e sottomesso, lussuriosa e perversa, consuma le energie vitali dell’uomo CHARLES BAUDELAIRE Charles Baudelaire nasce a Parigi nel 1821, in una famiglia di condizione borghese ed entra in contatto con la vita dissipata della Bohemiens letteraria. La giovane inizia a condurre la vita del dandy (individuo che ostentava maniere, comportamenti e gusti fuori dalla norma, eccentrici, in modo da provocare sensazioni e scandalo). Verrà per questo motivo denominato come poeta maledetto. Il poeta non è più figura da seguire perché va a cercare le cose peggiori della vita umana; ostentare disprezzo per i valori e le convenzioni sociali comuni PERDITA DELL’AUREOLA Bisogna sottolineare che laureola per Baudelaire e i poeti maledetti in generale, rappresenta un segno distintivo, un segno di appartenenza a una determinata e ben precisa categoria, la categoria di riferimento è quella dei poeti. L’aureola rappresenta il segno che permette di distinguere i poeti dalla folla, la perdita del laureato diventa occasione di libertà per confondersi con il mondo, però questa guerra che cade nel fango è vista come qualcosa di negativo. Nella società capitalistica il poeta non solo fa esperienza della folla, della società di massa ma diventa lui stesso parte di questa folla perché con la perdita dell'aureola il poeta perde quella funzione privilegiata che aveva precedentemente. I poeti prima di Blair pensavano che la poesia avesse una funzione civile e attraverso questa di orientare l'opinione pubblica invece si rese conto che questa funzione adesso il poeta non ce l'ha più, il poeta è uno dei tanti e non può assolutamente orientare l'opinione pubblica. L'arte ha perso il valore che aveva in precedenza e diventa la merce, qualcosa di inutile. L'arte per Baudelaire ha perso la centralità che aveva in precedenza come il poeta stesso. Ecco perché ci parla di perdita dell'aurea, perdere l'aureola significa perdere la funzione che si aveva in precedenza in questo poemetto Buddha sta parlando dell'eclissi dell'artista che significa emarginazione dell'artista e del poeta, ritenuti figuri inutili all'interno di questa società massificata, volta al guadagno. All'interno della poesia Baudelaire getta uno sguardo sarcastico nei confronti dei poetastri, di coloro che sono fasi poeti, che si fanno portatori di ideologie per orientare l'opinione pubblica ma che scrivono male. Baudelaire afferma che non c'è più spazio per i poeti come lui. L’ALBATRO Nell'allegoria dell'albatro si trova all'enunciazione più compiuta della concezione romantica del poeta. L'albatro, con le sue ampie ali, signore già l'aria ma quando si posa sul suolo, proprio a causa delle ali non riesce a camminare ed appare goffo e ridicolo appunto così il poeta ha le grandi ali della sua nobiltà spirituale che gli permettono di spaziare nei cieli della poesia e dell'ideale, ma, una volta mescolato così tra gli umani comuni, proprio il suo privilegio spirituale lo rende inadatto alla vita pratica e prosaica e lo trasforma in oggetto di scherno da parte della gente normale. Si delinea qui il conflitto tra l'intellettuale e il mondo borghese in una società che ha come valori fondamentali l'utile, l'interessante e la produttività l'artista, teso verso ideale e creatore di un valore disinteressato come la bellezza, appare un diverso e inadatto alla vita comune. la società lo priva del privilegio quasi sacrale e dei privilegi materiali di cui godeva in età precedenti da questa diversità inettitudine si sviluppa nell'artista un oscuro senso di colpa, che lo fa sentire come detto è un maledetto. Ma egli reagisce rovesciando il senso di colpa e assumendo la propria diversità come segno di superiorità e nobiltà, rifiuta quel mondo che non lo comprende. SPLEEN È la poesia che meglio può esemplificare il motivo dello spleen, e che compare nel titolo della prima e più ampia sezione dei fiori del male è costruita su due ordini paralleli di immagini che riguardano rispettivamente il mondo esterno e la dimensione interiore. Þ Mondo esterno = è caratterizzato da un paesaggio autunnale livido e tetro, il cielo basso che grava con un pesante coperchio sulla città, versando una luce nera Þ Dimensione interiore = è rappresentata da una serie di figurazioni allegoriche, ad esempio la speranza che, come un pipistrello, sbatte le aree con trimoni della cella I due ordini di immagini in certi punti si confondono tra loro: è tra le mura della terra umida trasformata in prigione che si agita la speranza pipistrello. la tensione sale progressivamente durante l'opera intollerabile sino ad un si colloca nella l'ultima strofa. E sarà presente all'esplodere della crisi d'angoscia, sia poi un rilassamento della tensione che però non è liberatorio, dopo la crisi l'io piomba in uno stato di totale depressione OSCAR WILDE I PRINCIPI DELL’ESTETISMO Nella prefazione dell'estratto di Dorian Gray, Wilde denuncia e riassume i principi su cui si basa l’estetismo decadente: Þ Il culto della bellezza = risalta il culto della bellezza e della forma fini a sé stessi. L'arte non ha nessuno scopo educativo e morale, in questo senso la vera arte è completamente inutile. Di qui la definizione tautologica secondo cui le cose belle significano solo bellezza, solo gli eletti possono capirla e apprezzarla, costituendo quindi un pubblico ristretto Þ la vita imita l'arte = rispetto all'opera lo scrittore deve rimanere celato non perché il suo punto di vista coincide con quello oggettivo della scienza ma perché la sua vita, si identifica completamente con l'opera creata. A queste premesse si ispira il principio decadente dell'arte pura, che vale di per sé stessa, acquistando un significato assoluto al di là di ogni contaminazione con la realtà appunto si afferma anche un nuovo modo di impostare il rapporto arte vita, nel senso secondo cui non è l'arte che imita la vita ma viceversa Þ letteratura e critica = il carattere intellettualistico di questo tipo di letteratura presentano non pochi elementi di contatto con l'esercizio della critica letteraria punto il critico è colui che collabora a far sprigionare i significati del testo, contribuendo allo stesso processo creativo che l'arte prolunga al di là di sé. L'interprete coincide con l'età e col dandy. Anche in questo modo l'arte estende i suoi poteri sulla vita, contribuendo alla formazione di un nuovo costume. Ne consegue il rifiuto della tradizione letteraria e delle sue tendenze dominanti, il romanticismo e realismo, perché dipendenti dalla realtà GABRIELE D’ANNUNZIO Gabriele D'Annunzio nasce nel 1863 a Pescara da famiglia borghese. La sua vita può essere considerata una delle sue opere più interessanti: secondo i principi dell'estetismo bisognava fare della vita un'opera d'arte e D'Annunzio fu costantemente teso al conseguimento di questo obiettivo Acquisto molto presto notorietà sia grazie alla sua produzione di opere, sia attraverso una vita altrettanto scandalosa fatta di continue avventure Galanti, lusso e duelli. Sono gli anni in cui D'Annunzio si crea la maschera dell'esteta (1° fase) che rifiuta inorridito la mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte. Questa frase estetizzante della vita di D'Annunzio attraverso una crisi alla svolta degli anni 90, lo scrittore cerco così nuove soluzioni e le trovo in un nuovo mito quello del superuomo (2°fase). È un mito non più di soltanto di bellezza, ma di energia eroica e attivistica. D'Annunzio puntava a creare l'immagine di una vita eccezionale sottratta alle norme del vivere comune. Laterali intorno un alone di mito contribuivano anche i suoi amori, spese quello che lo legò alla grandissima attrice Eleonora Duse. in realtà in questo disprezzo per la vita comune ed in questa ricerca di una vita eccezionale, D'Annunzio era strettamente legato alle esigenze del sistema economico del suo tempo, con le sue iscrizioni clamorose e i suoi scandali lo scrittore voleva mettersi in primo piano nell'attenzione pubblica per vendere meglio i suoi prodotti letterari. Il culto della bellezza e il vivere inimitabile, superomistico, risultavano essere finalizzate al loro contrario, a ciò che D'Annunzio ostentava di disprezzare, il denaro e l'esigenza del mercato: proprio lo scrittore più ostile al mondo borghese era in realtà il più legato alle sue leggi. È una contraddizione che D'Annunzio non riuscì mai a superare. Ma D'Annunzio non si accontentava più dell'eccezionalità di un vivere puramente estetico: vagheggiava anche di sogni di attivismo politico. L’ESTETISMO E LA SUA CRISI L'esordio di D'Annunzio avviene sotto il segno di due scrittori, Carducci e Verga: Þ Carducci = Ricava il vitalismo, ovvero di una comunione con una natura solare vitale, ma porta all'estremo che si traduce in una fusione tra io e la natura che egli definirà panismo, in cui l'energia dell'uomo si potenzia nella natura e l'identità dello stesso si perde Þ Verga = il modello di Verga si ritrova nelle figure nei paesaggi della sua terra ma non vi è nulla dell'indagine condotta da Verga sulla realtà intorno, utilizzando meccanismi come l'aggressione e L'eclissi del narratore, perché il mondo dannunziano è sostanzialmente rappresentato per la sua bellezza, in cui esplodono passioni primordiali sotto forma di un erotismo vorace è irrefrenabile Questa matrice è anche evidente in quella che è definita fase estetizzante, in cui l'arte è il valore supremo a cui devono essere subordinati tutti gli altri valori. La vita si sottrae alle leggi del bene e nel male venendo regolata solo da quelle del bello, trasformandosi in un'opera d'arte. il personaggio che ne viene fuori è quello dell'esteta che si isola dalla realtà negativa borghese e si rifugia in un mondo pieno d'arte e di bellezza, quasi rarefatto. D'Annunzio non voleva essere schiacciato dai progressi dello sviluppo capitalistico, che tendevano a declassare ed emarginare l’artista; quindi, si ritrae in un suo mondo superiore per ribattere alla mentalità comune e a ciò che sta vivendo. LA PIOGGIA NEL PINETO La pioggia nel Pineto descrive una passeggiata in pineta durante la quale il poeta e la donna che è con lui vengono colti da un violento acquazzone, che ridona loro un senso di intensa vitalità la poesia è pervasa da una grande sensualità, da una sorta di meravigliosa ebbrezza che afferra i due personaggi quando la pioggia si batte su di loro. La poesia inizia con la parola taci, con essa il poeta invita Hermione ad abbandonarsi completamente alla vita naturale, ad ascoltarne il silenzio. tutti e due si sentono inaspettatamente parte viva del mondo naturale, immedesimati nella stessa natura, come se fossero intimamente Uniti agli alberi, alla vegetazione grondante che ci pone i loro corpi. Domina in tutto ciò un forte senso di panico (termine che deriva da pan viola che è appunto la divinità della natura). La coppia ha assorbita dall'intensità della natura si perde vagando in una dimensione quasi mitica, in cui le determinazioni spaziali temporali sono sostituite da espressioni volutamente vaghe e indefinite. La fusione tra uomo e natura è resa possibile dalla capacità di D'Annunzio di trasporre nella musicalità dei suoi versi la voce della natura, in una ricchissima partitura fonico timbrica. In assenza di voci umane le voci della natura si mescolano e si alternano, secondo variazioni riprodotte attraverso un uso abile di rime. La parola poetica non solo indica la pioggia ma la ricrea, con effetti di grande suggestione sonora. LE STIRPI CANORE in questo testo D'Annunzio sviluppa in modo eccezionale l'arte del linguaggio scoprendo le più varie suggestioni musicali. L'uso della parola segue l'evoluzione estremamente particolare, la cui descrizione viene a coincidere perfettamente da un lato col carattere del poeta, dall'altro con gli aspetti più complessi del mondo che egli contribuisce a edificare. il piacere fisico gestuale della parola ricercata della sonorità quasi fine a sé stessa e della materialità del suono come aspetto della sensualità caratterizza pienamente il componimento. questa lirica è un chiaro esempio della minuziosa elencazione degli aggettivi che qualificano le parole del poeta, secondo un gusto tipicamente dannunziano. Attraverso l'uso degli aggettivi l'autore riesce a descrivere un'atmosfera mitologica, arcaica ma anche solenne, quasi religiosa. L'abbondanza di notazioni coloristiche uditive conferisce al testo un carattere impressionistico. MERIGGIO La lirica si concentra sulla straordinaria esperienza della metamorfosi del poeta, scandita in due tempi distinti: Þ Prima parte = si sofferma sulla descrizione del paesaggio, il poeta si trova sulla riva del Tirreno, nel punto in cui l’Arno foto nel mare. domina un'atmosfera di mobilità assoluta e di che esclude ogni presenza umana Þ Seconda parte = in questa cornice si compie nelle due strofe finali la trasfigurazione dell'io lirico nella natura (la perdita del nome e dell'individualità si accompagna all'espandersi del soggetto, Che si fonde con gli elementi del paesaggio circostante). mentre anche il paesaggio perde i suoi contorni realistici l'estasi mistica permette al poeta il superamento della sua condizione umana e il raggiungimento di una dimensione superiore e divina. Nel meriggio la tematica del metamorfismo raggiunge il suo culmine. il processo metamorfico e preparato dalle prime due strofe, che insistono attraverso una serie di indicazioni sulla sosta staticità del paesaggio sul silenzio che lo pervade. Il primo segnale della trasformazione in atto era perdita del nome, che si attua da prima attraverso una serie di corrispondenze tra il corpo del poeta e gli elementi del paesaggio. Nell'ultima strofa, le similitudini subentrano le equivalenze di rete a cui si accompagna un offendersi quasi fisico del poeta, che si identifica sia nel vicino che nel lontano, fino ad un raggiungimento di una dimensione sovrumana. Il raggiungimento della pienezza dell'estasi e tuttavia offuscato dalla rotazione di un disegno apparentemente negativo. La trasfigurazione del poeta si accompagna proprio nei versi finali ad un'annotazione funebre. L’affermarsi della potenza vitale del soggetto si rovescia inaspettatamente nel suo contrario e, come spesso accade nell'opera d'annunziana, l'espandersi dell'energia vitale tende a rivelare una minaccia di morte e dissolvimento. GIOVANNI PASCOLI La chiusura nel nido familiare e l’attaccamento morboso alle sorelle rivelano la fragilità della struttura psicologica del poeta, che, fissato dai traumi subiti ad una condizione infantile, cerca entro le pareti del nido la protezione da un mondo esterno che gli appare minaccioso ed irto di insidie. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel nido, riproponendo il passato di lutti e di dolori, inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà esterna che viene sentita come un tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del nido. Questa serie di legami inibisce anche il rapporto con l’altro per eccellenza, non vi sono relazioni amorose nell’esperienza del poeta, che conduce una vita forzatamente casta. C’è in lui lo struggente desiderio di un vero nido, in cui esercitazioni un’autentica funzione di padre, ma il legame ossessivo con il nido infantile spezzato gli rende impossibile la realizzazione del sogno. La vita amorosa ai suoi occhi ha un fascino torbido, è qualcosa di proibito e di misterioso, da contemplare da lontano. Le esigenze affettive del poeta sono interamente soddisfatte dal rapporto sublimato con le sorelle, che rivestono un’evidente funzione materna. Si può capire allora perché il matrimonio di Ida fu sentito da Pascoli come un tradimento, una profanazione della sacralità del nido, e determinò in lui una relazione spropositata, con vere manifestazioni depressive. Questa complessa e torbida situazione affettiva del poeta è una premessa indispensabile per penetrare nel mondo della poesia, perché costituisce il punto d’avvio della sua esperienza fantastica. Ed è una chiave necessaria per cogliere il carattere turbato, tormentato, morboso della poesia di Pascoli, carattere che si cela dietro l’apparenza dell’innocenza e del candore fanciulleschi, quel punto di partenza si rischia di scambiare la sua poesia per un modesto idillio, senza scorgere la sua vera, inquietante e proprio per questo affascinante sostanza. LA VISIONE DEL MONDO A cavallo tra ottocento e novecento, il positivismo è la corrente di pensiero più diffusa, ma pascoli rifiuta la convinzione die positivisti in cui regnano le scienze esatte e le forze materiali poiché Pascoli dimostra una realtà diversa, ovvero soggettiva e irrazionale. Nella poesia di Pascoli, infatti, gli oggetti acquistano significati simbolici e si evince una visione soggettiva del poeta tipica dei decadentisti. I SIMBOLI gli oggetti materiali hanno un rilievo fortissimo nella poesia pascoliana, ma ciò non significa che vi sia in essa un’adesione di tipo veristico all’oggettività del dato: i particolari fisici sono filtrati attraverso la peculiare visione soggettiva del poeta e in tal modo si caricano di valenze allusive e simboliche, rimandano sempre all’ignoto di cui sono messaggi misteriosi e affascinanti. Anche la precisione botanica e ornitologica con cui pascoli designa i fiori assume poi ben diverse valenze: il termine preciso diviene la formula magica che permette di andare al cuore della realtà, di attingere all’essenza segreta delle cose. Dare il nome alle cose è come scoprire per la prima volta, con gli occhi vergini e stupiti. Si instaurano così legami segreti fra le cose, che solo abbandonando le convenzioni possono essere colti. La conoscenza del mondo avviene attraverso strumenti interpretativi non razionali che trasportano di colpo nel cuore profondo della realtà. Tra io e mondo esterno non sussiste quindi per Pascoli vera distinzione. La sfera dell’io si confonde con quella della realtà oggettiva, le cose acquistato una fisionomia antropomorfizzata. La visione del mondo pascoliana si colloca a buon diritto entro le coordinate della cultura decadente e presenta cospicue affinità, al di là delle difformità di tono, con la visione dannunziana. IL FANCIULLINO La poetica pascoliana trova la sua formulazione più compiuta e sistematica nell'ampio saggio "Il fanciullino". Il poeta coincide con il fanciullo che sopravvive nel fondo di ogni uomo, un fanciullo che vede tutte le cose come per la prima volta con ingenuo stupore e meraviglia. Il fanciullino dà il nome alle cose e in presenza del mondo novello usa una novella parola cioè un linguaggio che si sottrae ai meccanismi della comunicazione abituale e che riesce ad andare all'intimo delle cose, per scoprirle nella loro freschezza originaria. L'atteggiamento irrazionale e intuitivo del fanciullino consente una conoscenza profonda della realtà e permette di cogliere l'essenza segreta delle cose senza mediazioni. Il fanciullino scopre nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose cioè quelle corrispondenze misteriose tra quello che è la realtà è quello che va al di là di essa. Il poeta spinge lo sguardo oltre le apparenze sensibili. LA POESIA “PURA” Per Pascoli la poesia è pura, non deve avere fini estrinseci, pratici. Il poeta deve cantare solo per cantare e non si propone obiettivi civili, morali, pedagogici o propagandistici. La poesia è fine a sé stessa, è spontanea e disinteressata e proprio grazie a questa sua caratteristica può ottenere effetti di utilità morale e sociale. Grazie al sentimento poetico gli odi e gli impulsi violenti propri degli uomini vengono limitati e la voce del fanciullino che si esprime nella poesia, induce alla bontà, all'amore e alla fratellanza tra gli uomini e alla distruzione delle barriere che li separano. I TEMI DELLA POESIA PASCOLIANA IL CANTORE DELLA VITA COMUNE Pascoli nella sua poesia rivela una sensibilità decadente. Tuttavia, Pascoli è opposto al decadentismo che rifiuta la normalità borghese. Lui incarna in modo esemplare l'immagine del piccolo borghese chiuso nella sfera limitata e protettiva degli affetti domestici, del lavoro di insegnante, nella pace raccolta del "nido" ricostruito entro le mura della sua casetta. Una grossa parte della sua poesia è destinata proprio alla funzione di proporre quella visione della vita, in nome di intenti pedagogici, moralistici e sociali. In questo ambito di poesia ideologica e pedagogica rientra l'invito ad accontentarsi del poco, l'ideale di una società in cui ogni ceto viva entro i propri confini, senza conflitti con gli altri ceti. in un clima di concordia fraterna. IL POETA UFFICIALE Pascoli assume anche la funzione di poeta vate che canta le glorie della patria, che indica gli obiettivi ed esalta il compito di assicurare la coesione nazionale dell'esercito. Pascoli aggiunge nel pubblico la fede in alcuni valori fondamentali come la proprietà, la famiglia, la devozione e la fedeltà ai morti, l'accontentarsi del poco, la pietà per i sofferenti e i derelitti. IL GRANDE PASCOLI DECADENTE Accanto al Pascoli cantore delle idealità piccolo borghesi, si affiancava un Pascoli tutto diverso: inquieto, tormentato, morboso e visionario che ben si inserisce nel panorama del contemporaneo Decadentismo europeo. È il Pascoli che va alla ricerca del mistero che è al di là delle cose più usuali, che entra in questa seconda dimensione caricando gli oggetti più comuni, le "piccole cose", di sensi allusivi e simbolici. Proietta nella poesia le sue ossessioni più profonde, portando alla luce le zone oscure e torbide della psiche. Sente ovunque, in ciò che lo circonda, la presenza della morte. Trasforma i dati oggettivi, offerti dalle sensazioni, in un gioco di parvenze illusorie. Il modo nuovo di percepire il reale si traduce, nella poesia pascoliana, in soluzioni formali fortemente innovative, che aprono la strada alla poesia novecentesca. MYRICAE Il titolo è una citazione virgiliana tratta dall'inizio della IV bucolica. Pascoli assume le umili piante proprio come simbolo delle piccole cose che egli vuole porre al centro della poesia. Si tratta di componimenti molto brevi che si presentano come quadretti di vita campestre ritratti con un gusto impressionistico. Ma in realtà essi si caricano di sensi misteriosi e suggestivi, che alludono ad una realtà ignota e inafferrabile. Spesso le atmosfere evocano l'idea della morte; ed uno dei temi più presenti è il ritorno dei morti familiari, che vengono a riannodare i legami spezzati dall'uccisione del padre e dai tanti lutti successivi. ARANO In questa poesia, con l'arrivo dell'autunno, prima di tornare in città, il poeta compie un'immaginaria ultima passeggiata nella campagna toscana, dove coinvolto nella natura egli possa dimenticarsi dei suoi affanni. La lirica si apre con una serie di impressioni visive, come il colore rosso delle foglie di vite, o come la rugiada sui cespugli. Poi, con il termine "arano", il quadro descritto dal poeta diventa più minuzioso e si popola di figure umane e animai in movimento, descrive i gesti lenti e ripetitivi dei contadini, coloro che compiono un lavoro tranquillo ma di grande utilità sociale. Si coglie un po' di malinconia però, dato sia dalla nebbia che sale, ma anche dall' echeggiare delle voci sperdute dei contadini nella campagna brulla d'autunno, e dai gesti ripetitivi che compiono, o ancora dagli uccelli esperti che spiano dai rami già spogli del gelso in attesa di poter beccare qualche semente, trovando la sua fonte di vita nel lavoro faticoso dei contadini. Con la quartina finale, il punto di vista diventa quello del pettirosso crea un’immagine molto particolare in quanto paragona il suo cinguettio, il suo sottile tintinnio a uno strumento divino, che riporta alla sua memoria i suoi cari che non ci sono più. All'inizio della terza strofa ritorna l'immagine della luce lunare. L'incertezza e l'ambiguità sono di nuovo sottolineate da una domanda, come nella prima strofa, che ipotizza il valore simbolico di questo suono: le invisibili porte sono plausibilmente quelle della morte. In questa strofa troviamo infatti i sistri che erano strumenti sacri alla egiziana Iside il cui culto prometteva la resurrezione dopo la morte. Ma se per il poeta le porte della morte non si aprono più, si comprende l'angoscia che pervade tutte le sensazioni del notturno lunare: è l'angoscia della morte che non consente la rinascita della vita, non permette il ritorno dei cari scomparsi. In chiusura della strofa e della poesia il verso dell'assiolo si concreta in un pianto di morte. L'atmosfera inquietante, angosciosa e funebre che pervade tutto il componimento assume nella sua conclusione una fisionomia più precisa: riaffiora alla memoria del poeta il pensiero della sua tragedia personale, l'idea che i suoi morti non possono più tornare e della morte che incombe anche su di lui. I POEMETTI Una fisionomia diversa possiedono i poemetti, che nella veste finale, è divisa in due raccolte distinte, primi poemetti e nuovi poemetti. Si tratta di componimenti più ampi di quelli di Myricae. Anche qui, però, assume rilievo dominante la vita della campagna. All’interno delle due raccolte si viene a delineare un vero e proprio “romanzo georgico”, cioè la descrizione di una famiglia rurale di Barga, colta in tutti i momenti caratteristici della vita contadina. La narrazione è articolata in veri e propri cicli, che traggono il titolo delle varie operazioni del lavoro dei campi. Questa raffigurazione della vita contadina si carica di scoperti intenti ideologici: il poeta vuole celebrare la piccola proprietà rurale, presentandola come depositaria di tutta una serie di valori tradizionali e autentici, in contrapposizione alla negatività della realtà contemporanea. La vita del contadino, scandita dal ritorno ciclico delle stagioni e dall’avvicendarsi sempre eguale dei lavori dei campi, appare al poeta come un rifugio rassicurante, un baluardo contro l’incombere di una realtà storica minacciosa. Pascoli si sofferma sugli aspetti più quotidiani, umili e dimessi in quel mondo, designando con precisione gli oggetti e le operazioni del lavoro dei campi, ma anche questa precisione non ha nulla di naturalistico, al contrario risponde all’intento di ridare la sua vergine freschezza originaria alla parola, per esprimere una spina meraviglia dinanzi alle cose. Il poeta vuole mettere in rilievo quanto di poetico è insito anche nelle realtà umili per cui le più consuete attività quotidiane della vita di campagna sono da lui trasfigurate in una luce di epos, mediante il ricorrere di formule tratte dagli antichi poeti. DIGITALE PURPUREA Durante gli anni trascorsi da lei come educanda in convento, un giorno le fanciulle, durante una passeggiata, avevano scorto una pianta con una bella spiga di fiori rossi. La curiosità le spinse ad avvicinarsi, ma la madre maestra intimò loro di non farlo. Quel fiore infatti " emanava un profumo venefico così penetrante che faceva morire". Le fanciulle indietreggiarono impaurite e Maria rimase per un pezzo con il timore della digitale purpurea, standone sempre alla lontana. All'inizio della poesia si delineano due figure: una ragazza bionda "verginea" e l'altra bruna dagli occhi ardenti. Gli occhi ardenti sin dall'antichità sono sempre stati indizio inequivocabile di qualcosa di sinistro e misterioso, testimoniano la disposizione luciferina di chi è pronto a infrangere divieti e a tentare esperienze trasgressive. La contrapposizione simbolica tra donna bionda e donna bruna, donna angelo e donna demoniaca è un motivo ricorrente nella poesia decadente. La fanciulla bionda, dalle vesti semplici e dallo sguardo modesto, è immagine di innocenza e di purezza (Maria, la sorella che fedelmente ha accettato di condividere la sua vita con il pocta): l'altra bruna, dagli occhi che ardono è immagine di una sensualità inquieta (è Rachele che si sposerà ed abbandonerà la casa-nido di Castelvecchio). Nella prima delle tre parti il dialogo tra le due ragazze rievoca l'atmosfera del convento e della fanciullezza, creando un clima di candore di innocenza. I particolari che lo connotano sono innanzitutto la nota di bianco riferita alle suore. Al clima verginale si contrappone la presenza perversa del fiore della morte col suo profumo insidioso. Nella parte seconda, attraverso un 'analessi il passato lontano nel ricordo si materializza nel presente. Pure qui si ripropone l'atmosfera di innocenza come, ad esempio, la purezza del cielo, il libro buono che le fanciulle leggono. Però tutto quel candore cova un segreto fermento: lo preannuncia la formula "sentor d'innocenze e di mistero" con i due sostantivi a contrasto e lo evidenzia l'episodio del colloquio in parlatorio che rivela le inquietudini erotiche delle ragazze, che fanno pensare al sacro e profano. Nella parte finale tra le ragazze torna il motivo dell’innocenza, ma per la terza volta il clima di candore viene spezzato dal motivo perverso del fiore. Al momento del congedo Rachele confessa all'amica il segreto dell'esperienza del fiore proibito. Si ha una nuova analessi che fa rivivere il passato ma l'atmosfera è cambiata: non più il candore del convento ma un clima sospeso, percorso da segrete inquietudini. Ad essa si intona lo stato d'animo della fanciulla che sta per compiere il gesto trasgressivo. Quello che la spinge a tentare la trasgressione di assaporare il profumo del fiore velenoso è il " fermento" lasciato nel suo animo da un sogno erotico, uno stimolo rimasto inconsapevole nell'anima e per questo più eccitato e morboso. IL VISCHIO La pianta da frutto invasa dalla pianta parassita è evidentemente proposta come simbolo di un doloroso destino personale: la sventura e la sofferenza hanno bloccato nel poeta la fioritura della vita, lo hanno isterilito, impedendogli la vita normale, la famiglia e la procreazione, calore del «nido» domestico, condannandolo ad una desolata solitudine, che ha come unica prospettiva la morte. Ma, al di là delle immediate intenzioni del poeta, l'immagine del vischio suscita echi più vasti e più profondi. Nella poesia si viene a creare, grazie all'insistenza ossessiva della descrizione, un clima allucinato, sinistro, quasi da incubo, che rovescia il clima iniziale di innocenza e candore. E come se la mostruosa creatura nata dal connubio affascinasse il Pascoli, evocando misteriosi, perturbanti significati, che richiamano le atmosfere "nere" e orrorose tanto diffuse nella letteratura romantica e decadente. Anche qui, sotto forme vegetali, si ha un "mostro", una sorta di vampiro, che si insinua in un altro organismo succhiandogli la vita, inoculandogli i germi del male, oppure si può riconoscere il motivo del "doppio", dell'essere mostruoso che a nostra insaputa si annida in noi. Questi motivi vagamente "neri" si fondono poi con un altro grande simbolo decadente, quello della vegetazione deforme, malata e maligna, che Pascoli propone anche in un altro poemetto, Digitale purpurea. I "fiori del male" sono la trascrizione metaforica dell'inconscio, che il Decadentismo si affaccia affascinato ad esplorare, del suo proliferare maligno di impulsi oscuri, perversi, inconfessabili, della popolazione di "mostri" che lo abita, dell’”altro" inquietante che vive in noi. Nell'immagine della pianta nata dal tristo connubio Pascoli proietta le due anime che sente in sé: quella protesa al bene e alla bellezza, ad una vita serena, equilibrata e felice all'interno del «nido» familiare, confortata dall'esercizio poetico, in concordia fraterna con gli altri uomini stretti in società, e l'anima "malata", tormentata, torbida, inquieta, decadente. L'immagine è anche la perfetta definizione della sua ispirazione, del carattere problematico e scisso della sua poesia: da un lato la poesia del «fanciullino», candida, ingenua, amorosamente attenta alle piccole cose, alle realtà gentili e delicate, agli affetti familiari, tutta pervasa di dolcezza e di bontà sino al sentimentalismo e alla melensaggine, dall'altro la poesia più torbida e decadentemente "malata", colma di inquietudini e angosce, di perversi veleni, visionaria, onirica, ipnotica. I CANTI DI CASTELVECCHIO Nel 1895, dopo il matrimonio di Ida, Pascoli abbandonò la città e prese in affitto una casa a Castelvecchio di Barga, nella campagna lucchese. Qui, con la fedele sorella Mariù, trascorreva lunghi periodi, lontano dalla vita cittadina che detestava, a contatto con il mondo della campagna che ai suoi occhi costituiva un Eden di serenità e pace, tutto chiuso nella cerchia dei suoi studi, della sua poesia, degli affetti familiari. Una vita esteriormente serena, ma in realtà turbata nell'intimo da oscure angosce e paure, paure per l'addensarsi di incombenti cataclismi storici. Anche qui ritornano immagini della vita di campagna e ricompare una misura più breve, lirica anziché narrativa. Ancora una volta il ciclo naturale si presenta come un rifugio rassicurante e consolante. Ricorre il motivo della tragedia familiare e dei cari morti. Vi è il rimando continuo del paesaggio di Castelvecchio. Non mancano i temi più inquieti e morbosi che danno corpo alle segrete ossessioni del poeta: l'eros e la morte. IL GELSOMINO NOTTURNO Il componimento poetico evidenzia l'angoscioso tremore del Pascoli di fronte al mistero dell'amore, che pure egli si proponeva di celebrare in occasione del matrimonio dell'amico Briganti; esso risulta pertanto ben lontano dalle caratteristiche giocose degli antichi epitalami. La tematica dell'amore richiama quella dell'irrisolta e drammatica condizione dell'uomo su cui incombe, anche nei momenti che dovrebbero essere di relativa felicità, un senso di smarrimento di fronte ad una natura indecifrabile che nasconde segreti ed oscure presenze. Il sentimento di mistero e sospensione che riquadra l'uomo nel suo rapporto con la vita e la natura, viene accresciuto di ardite metafore sinestetiche. Ne deriva un'atmosfera di trepidazione e di angoscia, che tuttavia è in qualche misura attenuta dalla percezione della casa come luogo di protettiva rigenerazione della vita e del nido come possibilità di ritorno alle origini della vita e di rifugio dalle angosce del mondo. La vita e la morte assieme sono pertanto avvolte da un mistero, che solo il poeta, tornando alle origini di fanciullo che rimpicciolisce le cose grandi ed ingrandisce le piccole, può intuire, anche se resta irrimediabilmente escluso da qualsiasi possibile felicità. La celebrazione del matrimonio dell'amico e la possibile generazione di una nuova vita, aspetto che troviamo già in Catullo, è pertanto il filo conduttore su cui si articola, attraverso immagini metaforiche e suggestioni fonosimboliche, il complesso mondo interiore del poeta. ITALO SVEVO Italo Svevo nacque il 19 dicembre 1861 a Trieste da una famiglia borghese. UNA VITA Il romanzo una vita è un romanzo tardo verista che tratta la storia di un vinto, un nuovo sconfitto dalla perenne lotta della vita. Alfonso Nitti, venuto dalla campagna a Trieste, si impiega in una banca e vede le sue ambizioni sociali e letterarie frustrate nella meschinità dell'ambiente di lavoro e nel luogo su alterno a cui è condannato dalla nascita. Una breve relazione con la figlia del principale sembra aprirgli prospettive diversi, ma sconfitto nel rapporto con la ragazza, sfidato a duello dal fratello di lei e ferito dalla morte della madre si uccise dopo aver capito che dentro di lui vi era qualcosa che gli rendeva insopportabile e dolorosa la vita. Il tema di questo romanzo consiste nello smascheramento dei compromessi, degli autoinganni, con cui illudiamo noi stessi. Svevo rappresenta il mondo interiore di Alfonso con una lucidità spietata, la stessa che usa per gli altri personaggi del romanzo. LE ALI DEL GABBIANO Nel brano le ali del gabbiano l'autore presenta l'opposizione tra Macario, il lottatore, e Alfonso netti, il contemplatore. Mentre Macario si dimostra sicuro di sé è in grado di far avanzare la barca Alfonso appare timido e timoroso. Macario fa notare ad Alfonso netti il volo del gabbiano: il gabbiano gli dice è fatto per essere un predatore perché ha un cervello piccolo e ha lo scopo di aggredire i pesci, in questo caso l'azione di aggredire identifica il ruolo del lottatore mentre i pesci sono i contemplatori. Il gabbiano ha le ali perché è nato con esse, ma chi non è nato con le ali non può averle anche volendo. Il messaggio che gli sottintende e che Alfonso Nitti può compiere solo voli pindarici (inutili in concreto). vie dunque l'opposizione tra l'intellettuale, ovvero il contemplatore che si nutre di cose astratte, e in lottatore, che si ciba di cose concrete. SENILITÀ il romanzo tratta la storia d'amore tra Emilio Brentani e Angiolina. Emilio vive un'esperienza monotona con la sorella Amalia, fin quando incontra la giovane Angiolina, di cui si innamora. La donna in realtà si innamora di Stefano balli, amico di Emilio di cui è innamorata pure Amalia. Il legame tra Emilio e la giovane si dimostra invece complesso, poiché Angiolina (donna opportunista e infedele) controlla i sentimenti di Emilio. Questo, geloso della sorella e di balli, allontana l'uomo dalla casa. Amalia si ammala di polmonite e muore. Emilio interrompe la relazione con Angiolina, non cessando di amarla. in seguito, scopre che la donna è scappata da Vienna con un cassiere di una banca. protagonista ritorna a vivere la sua esistenza grigia e mediocre in solitudine, ricordando le donne amate, Amalia e Angelina, unendo nella memoria l'aspetto dell'una con il carattere dell'altra. Si tratta di un romanzo introspettivo che mette in luce la vita interiore ad Emilio. C'è una sorta di ironia nei confronti del personaggio principale, Emilio Brentani, e la sua inettitudine è messa in risalto. La figura di Angiolina è l'opposto di quella di Brentani è sempre pronta all'azione e al miglioramento, non voglio rimanere ferma e vuole essere l'artefice del suo destino. con la morte della sorella, l'esistenza di Brentani è messa a rischio, ma nel romanzo si avverte la totale mancanza di presa di coscienza da parte del protagonista della storia. I personaggi sono divisi tra lottatori e contemplatori in un romanzo che mette in risalto le contraddizioni dell'intellettuale borghese. la “senilità” come “una vita” preannunciano i romanzi della crisi, pur essendo naturalisti. IL RITRATTO DELL'INETTO Alfonso inaugura un tipo di personaggio, l’inetto, che ritornerà regolarmente in Svevo. L'inettitudine è sostanzialmente un'insicurezza psicologica, che rende l'eroe incapace alla vita. Alfonso è un piccolo borghesi, declassato da una condizione originariamente più elevata, ed è un intellettuale, ancora legato a un tipo di cultura esclusivamente umanistica. il combinarsi di questi due fattori sociali lo rende un diverso nella solida società borghese triestina, i cui unici valori riconosciuti sono il profitto. L'impotenza sociale diviene impotenza psicologica. Alfonso sente quindi il bisogno di crearsi una realtà compensatoria, che trova nella cultura umanistica e nella vocazione letteraria; mentre nei sogni da megalomane si costruisce una maschera fittizia, un'immagine consolatoria che lo risarcisce delle frustrazioni reali. Dissesto economico, follia e prigione familiare diventano allora temi centrali delle sue opere le difficoltà economiche lo portano a intensificare l'attività di scrittore e nascono i suoi romanzi più famosi. I romanzi di Pirandello ottengono grande diffusione in Italia ma sarà il suo teatro a portarlo al successo internazionale. La crisi dei valori del positivismo, che accompagna l'affermazione della società di massa e caratterizza la cultura tra ottocento e novecento, porta alla crisi del primato della scienza e della razionalità come strumento di comprensione della realtà. Riflette sulla possibilità di una conoscenza oggettiva della realtà, che induce a mettere in dubbio il concetto stesso di realtà. Pirandello elabora una concezione Relativistica del reale in cui appare evidente il contrasto tra forma (ciò che appare) e vita (ciò che è); la realtà è inconoscibile dall'uomo, perché ha un perenne mutare dominato dal caso. Questo conflitto si evidenzia nell'individuo, che vive il contrasto tra ciò che sembra è ciò che afferma di essere; l'identità della persona non è univoca, perché l'anima si muove in un perenne divenire vitale. Anche nella società la contraddizione tra forma e vita si evidenzia nel contrasto tra le convenzioni sociali e le istituzioni storiche. Costretto a indossare maschere ipocrite e soffocanti, corrispondenti ai diversi ruoli che di volta in volta i copre o è costretto a ricoprire, l'uomo si illude di poter assumere un'identità definitiva, che in realtà non avrà mai. L'unitarietà psicologica dell'individuo finisce pertanto con lo sgretolarsi, motivo per cui i personaggi pirandelliani non possono che adeguarsi passivamente alle maschere o, in alternativa, vivere drammaticamente il contrasto tra vita e forma. Questo porta la crisi dei valori, e alla perdita di identità si innesca così il meccanismo della maschera ma tolta questa maschera non c'è un volto ma c'è un eterno fluire. Le maschere sono dunque delle trappole: Þ trappola della famiglia = la famiglia ci dà una forma che in realtà non è quella che vogliamo Þ trappola della società = nega la libertà del singolo Þ trappola del lavoro = e la parte economica della società Mentre con il vitalismo di Pirandello ci racconta cos'è la vita, con la teoria dell'umorismo ci dice come porci verso di essa. Per Pirandello il nostro atteggiamento davanti alla negatività del mondo deve essere di tipo umoristico e ci spiega in cosa l'umorismo si distingue dal comico. Þ Il comico = è un avvertimento del contrario, vedo che qualcosa è contrario come dovrebbe essere e rido Þ l'umorismo = è il sentimento del contrario, Vedo qualcosa che è contrario a come dovrebbe essere il rifletto sulle ragioni profonde di quella diversità su quello che c'è dietro la maschera Nel primo caso sia una risata nel secondo un sorriso amaro, consapevole della tragicità del mondo La letteratura per lui ha allo stesso tempo una funzione consolatoria, proponendosi come gioco umoristico, e opprimente, in quanto rappresenta la lotta continua tra vita e forma. tale scontro diventa uno scontro tra la realtà e la finzione, dal momento che la letteratura e di per sé è una finzione, qualcosa che non esiste. Pirandello allora decide di svelare questa funzione, facendo metaletteratura. In conclusione, possiamo dire che Pirandello vede un mondo claustrofobico e paradossale. Un mondo nel quale l'uomo non può veramente mai essere sé stesso perché non c'è un sé stesso, non c'è un solo io, ma tante forme e maschere in cui l'uomo è imprigionato. L'uomo non può realizzarsi, è un essere incomprensibile a sé stesso e agli altri. diremo allora che Pirandello è un pessimista. tuttavia, egli non si ferma alla constatazione del male, ma decide di coglierne gli aspetti più divertenti creando una nozione di umorismo che non esclude la riflessione, ma nemmeno sorriso. NOVELLE Le caratteristiche più evidenti delle novelle di Pirandello sono la brevità della narrazione, il piglio incalzante e l'essenzialità. I suoi racconti nascevano per essere pubblicati su giornali e riviste, una destinazione che esigeva forte concisione espressiva. Il genere stesso della novella richiede ai narratori di concentrarsi su un caso particolare che attira immediatamente l'attenzione. Tutto ciò che dice Pirandello rifiuta l'onniscienza del narratore tradizionale, sceglie piuttosto una visuale soggettiva, il sapere scarso e confuso del personaggio. Pirandello supera così il realismo e il verismo ottocenteschi. Se la narrativa realistica evidenziava un unico punto di vista, Pirandello vuole invece denunciare l'irrazionalità del reale. Viene meno perciò, in lui la fedeltà al vero ed esplode l'assurdo: è il trionfo del relativismo. Le novelle si distinguono in Þ quelle d'ambiente siciliano, con protagonisti e situazioni entrati dal mondo contadino Þ quelle d'ambiente romano, incentrate sulla disamina della triste esistenza del ceto medio impiegatizio. LA TRAPPOLA la novella si sviluppa come un discorso che il protagonista rivolge ad un interlocutore anonimo, probabilmente un suo amico. Fabrizio e convinto che la vita sia una trappola che conduce inevitabilmente alla morte. Le persone si danno una forma fissa e una consistenza che altro non sono che costruzioni artificiali, maschere che nascondono altre realtà, sempre diverse. Secondo Fabrizio gli uomini si pregiano di considerarsi pieni di carattere e di non cambiare mai idea di fare deriva soltanto dalla paura di scoprirsi diversi da quello che si è realmente. L'uomo sceglie volontariamente di non vedere, di non accendere le luci su ciò che significa davvero vivere di regola perché ciò che scoprirebbe potrebbe spaventarlo come spaventano i fantasmi notturni. Gli uomini sono già tutti morti perché fissi nei loro ruoli sotto le loro maschere, ma non vivono davvero, non partecipano di quel flusso vitale che appunto l'esistenza. addirittura, paragona i bambini ha dei piccoli morti e vorrebbe egli stesso non essere mai nato, compiacendosi di non avere mai conosciuto la propria madre. Fabrizio sostiene che le donne sono strumenti diabolici, congeniati per intrappolare gli uomini al fine di mettere al mondo altri infelici. l'uomo conclude invitando l'amico a guardare il padre nel letto un uomo che ormai non parla più e non sembra capire cosa gli accade intorno, e manifesta l'intenzione di voler presto liberare lui, ma anche sé stesso, dalla sofferenza del vivere. CIÀULA SCOPRE LA LUNA La vicenda è interamente ambientata in una miniera in Sicilia in cui, una sera, il sorvegliante obbliga i minatori a lavorare tutta la notte in modo da finire il carico della giornata. Ciàula ha paura del buio e non voglio uscire dalla miniera di notte. La figura di ciula è una figura umoristica dato che il ragazzo che stava in miniera aveva un ritardo mentale ed era criticato da tutti (contatto col rosso malpelo, lavora anche lui in una miniera ed era criticato da tutti). una sera però decide di uscire e rimanere incantato dalla bellezza della luna, trova conforto nella notte e si sente sollevato, la luna dà una possibilità di rinascita. All'interno della novella c'è il tema del fanciullino che si sorprende alla vista delle piccole cose, è un momento di Epifania e di rivelazione della verità. Risolviamo però delle divergenze tra Rosso Malpelo e Ciàula: Þ rosso = portatore di una coscienza lucidissima e studia con scientifico impegno le leggi del meccanismo sociale elaborando una essenziale ma rigorosa teoria sulla lotta per la vita (eroe intellettuale) Þ Ciàula = è un minorato mentale, che vive una vita puramente istintiva quasi a livello animalesco Ciò che interessa Pirandello non è dunque riprodurre velisticamente il funzionamento del meccanismo sociale nel riflesso della lucida coscienza di una vittima, ma descrivere un'esperienza irrazionale: per questo sceglie come terreno di indagine un'anima elementare, primordiale, sprovvista di consapevolezza, ai confini dell'animalità. Nonostante l'ambiente i personaggi, non ritroviamo un terreno veristico, ma in un ambito decadente: la realtà popolare non è scelta a fini di riflessione sociale, ma in quanto portatrice del primitivo, dell’irrazionale, del mito, tutte realtà che affascinano il decadentismo. IL FU MATTIA PASCAL Il protagonista del romanzo di Luigi Pirandello e Mattia Pascal, un uomo umile che vive a Miragno. Alla morte del padre, il patrimonio della famiglia Pascal viene gestito dal disonesto batta malagna, che deruba la famiglia giorno dopo giorno. Mattia Pascal e quindi costretto a lavorare come bibliotecario. Un giorno il protagonista incontra la nipote di malagna, Romilda, che si innamora di lui. Questa rimane incinta di Mattia e i due sono costretti a sposarsi. Il protagonista si trova così a essere impoverito dalla cattiva gestione del patrimonio del padre, a dover lavorare come bibliotecario e a vivere con una moglie che non ama e una suocera che lo disprezza. Già provato da tale situazione la frustrazione del protagonista si amplifica dopo la perdita di entrambe le figlie Mattia decide quindi di partire in direzione di Montecarlo è arrivato al casinò, vince una cospicua somma di denaro. Deciso a tornare a Miragno, per riscattare il suo nome e vendicarsi dei soprusi il protagonista si mette sul treno di ritorno, dove però legge sul giornale della sua presunta morte. Nonostante un primo momento di sconvolgimento, Mattia capisce che quella è l'occasione per cambiare finalmente vita e con il nome di Adriano Meis, si stabilizza poi a Roma, in affitto dal signor Paleari qui però il protagonista si rende conto che non possedendo documenti, né un'identità riconosciuta, si trova ad affrontare i nomi difficoltà. Infatti, si innamora della figlia del padrone di casa, Adriana, ma non può sposarla. Successivamente subisce un furto da Terenzio Papiano, che non può denunciare. Nuovamente esasperato, in scena suicidio di Adriano Meis, e, deciso a riprendere la vecchia vita, torna a Miragno. Qui però il protagonista capisce che tutto è cambiato si è risposata e ha avuto una figlia, e Mattia Pascal è stato dimenticato. Alla fine, il protagonista prende una decisione dura: di non essere ufficialmente dichiarato vivo. Per questo motivo si ritira in biblioteca dove lavorerà e comincia a scrivere la sua storia, e di tanto in tanto si reca al cimitero alla tomba del fu Mattia Pascal. Le principali tematiche del romanzo sono: Þ Identità Þ cambio di vita Þ tema del passato Þ trappola UNO, NESSUNO E CENTOMILA Il protagonista è Vitangelo Moscarda, figlio scansafatiche di un banchiere usuraio dal quale ha ereditato la banca che gli permette di vivere di rendita. La vicenda prende avvio da un evento insignificante: la moglie gli fa notare che il suo naso pende verso destra. Egli non aveva mai notato questo particolare. La scoperta del difetto del naso e poi anche di altri difetti (attaccatura delle orecchie, diversità gamba destra e sinistra) scatenano in lui una crisi di identità. Moscarda si rende conto che la moglie e le persone intorno a lui hanno un’immagine della sua persona completamente diversa da quella che egli si è fatto di sé stesso. Moscarda decide quindi ci cambiare vita per scardinare l’immagine che hanno gli altri di lui, alla ricerca della sua vera identità. Lui non si era mai occupato della banca decide di gestire direttamente la banca e i beni paterni. Sfratta un certo Marco di Dio da una casa di sua proprietà per poi regalargli l’appartamento. Poi, per liberarsi dalla nomea che gli è stata attribuita dai compaesani di figlio dell’usuraio, si ripropone di liquidare la banca. La moglie di Moscarda, i famigliari e gli amministratori della banca, per impedirgli di dilapidare tutte le sue sostanze, lo vogliono interdire per infermità mentale. Moscarda riceve la visita di Anna Rosa, amica della moglie, inviata per cercare di ricondurlo alla ragione. La donna, sconvolta dal suo modo di ragionare e presa da un inspiegabile raptus gli spara un colpo di pistola. Al processo però, anche grazie alla deposizione di Moscarda viene assolta. Vitangelo devolve tutti i suoi beni per la costruzione e la gestione di un manicomio dove lui stesso si ritira a vivere. Nell’ ospizio si sente finalmente libero da ogni regola e dalla prigione dell’identità attraverso l’immersione della natura, vive come un elemento della natura, come un animale, è diventato nessuno, è senza nome, identità e pensieri, immerso nel fluire della vita. NESSUN NOME La conclusione di Uno, nessuno e centomila è l'approdo estremo della parabola iniziata con il Fu Mattia Pascal: vi tocca cioè il punto più alto la critica dell'identità, che è uno dei filoni centrali dell'opera pirandelliana. Mattia Pascal, come si ricorderà, dopo aver commesso due fondamentali errori (essersi dato una nuova identità fittizia dopo la liberazione dalla «trappola», ed aver poi cercato di rientrare nella vecchia identità abbandonata) assumeva coscienza dell'impossibilità dell'identità individuale. Distruggeva l'identità, ma non proponeva un'alternativa. Restava cioè in una fase di transizione, interlocutoria. Tale era anche la sua condizione esistenziale, sospesa in un vuoto assoluto, priva di contatti con la realtà. La condizione puramente negativa era testimoniata anche dal suo rapporto col nome: l'eroe, non avendo alternative da proporre, restava ancora legato al suo nome, sia pure solo come termine di riferimento negativo, preceduto da quella sorta di segno "meno" che era la particella «fu»: «Io sono il fu Mattia Pascal». L'eroe di Uno, nessuno e centomila va più a fondo nelle sue scelte, vede in definitiva più chiaro. Non si limita a confessare di non sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler più essere nessuno, di rifiutare totalmente ogni identità individuale. Rifiuta cioè di chiudersi in qualsiasi forma parziale e convenzionale e accetta di sprofondare nel fluire mutevole della «vita», morendo e rinascendo in ogni attimo, identificandosi con le presenze esterne occasionali, senza poter più dire «io». Per questo arriva a negare anche il proprio nome, che è il segno che sancisce il rapprendersi della «vita» nell'individualità singola. Questo vivere di attimo in attimo, in una perenne mutazione, è una condizione esaltante, gioiosa. IL CREPUSCOLARISMO Il termine crepuscolarismo si riferisce a una serie di esperienze letterarie con caratteristiche comuni sviluppatisi in Italia all'inizio del 900. Il termine è stato coniato dal critico Giuseppe Antonio borgese nel 1910, il termine crepuscolarismo da allora è usato per indicare un gruppo di poeti che proviene principalmente dalle città di Roma e Torino. I due maggiori esponenti del crepuscolarismo sono Þ Sergio corazzini, di Roma Þ Guido Gozzano, di Torino Il ruolo della poesia nella società: i poeti crepuscolari mettono in discussione il ruolo civile e pubblico della poesia, fortemente incoraggiato dai loro predecessori, non credono che la poesia possa partecipare attivamente alle dinamiche del mondo moderno e avvertono la frattura tra Þ i valori classicisti Þ i valori borghesi Anche l'arte secondo i crepuscolari è in grado di proporre valide alternative sociali e di porsi in contrasto con la realtà La poesia e l'arte dunque sono in crisi, faticano ad adeguarsi alle velocità accelerate dell'inizio del ventesimo secolo. Non si può più pensare al poeta o all'artista come a una guida. I crepuscolari si rivolgono verso realtà intime silenziose e piccole; ad esempio per Guido Gozzano la poesia costituisce un luogo riparato lontano da prospettive ambiziose slegato dai grandi movimenti storici. La formazione del poeta è segnata dall'influenza d’Annunziata ma Gozzano avverte la falsità delle pose gloriose e le supera per ripiegare su versanti più dimessi. I crepuscolari si rivolgono ad una realtà quotidiana quasi banale, svuotata da ogni possibile simbolismo. Scoprono la poesia di ciò che è comune. Provenienti dalla classe borghese, non ne esaltano i valori e la propensione verso il futuro, ma ne dipingono gli aspetti minori, quotidiani e incerti che si collocano al di fuori dei grandi movimenti della storia. Il poeta crepuscolare si considera precario e fragile ma guarda a se stesso con ironia, anche per questo non era pensabile per questi autori riconoscersi in un movimento guidato da un programma artistico ben preciso. Uno dei temi affrontati è quello della malattia, privato però di qualunque aura romantica. I modelli del crepuscolarismo sono da ricercare nella scapigliatura, nelle opere non civili di pascoli e nel poema paradisiaco di D'Annunzio. I crepuscolari, però, fanno un passo avanti, non guardano le cose con compiacimento estetico e non fanno differenziazioni tra oggetto poetico e non poetico. I poeti crepuscolari sono distanti dal futurismo e dalle esperienze delle avanguardie loro contemporanee, ma non bisogna dimenticare che anche la loro poesia è una risposta al disagio che gli artisti e i poeti vivono nella nuova società di inizio 900. Il rifiuto della tradizione del pathos dell'ufficialità e il loro sguardo ironico verso il ruolo a cui la poesia aspirava fino a qualche tempo prima, sono tutte caratteristiche che possiamo definire avanguardistiche. UMBERTO SABA Egli rappresenta una voce poetica piuttosto particolare nella lirica del Novecento, poiché non si è mai identificato con nessuna delle correnti e delle mode poetiche dominanti nel secolo. , soprattutto si è sempre opposto alla moda ermetica, dal momento che per lui la poesia deve «fare chiarezza» e quindi non può e non deve essere complicata e troppo ricca di metafore astruse. Non fa parte della cosiddetta corrente «novecentista», occupata da poeti che, seguendo le avanguardie, rinnovano profondamente il discorso poetico. Saba, nato a Trieste nel 1883, aveva origini ebraiche, il suo vero nome era Umberto Poli. La madre era ebrea; il padre, veneziano, abbracciò l’ebraismo per potersi sposare, ma abbandonò ebraismo e moglie non appena nacque il figlio. I fondamenti della poetica: Þ Verità = Saba prende le distanze dalla concezione estetizzante dominante in quel periodo e si propone di fare non tanto bella poesia, ma della poesia onesta, volta a fare chiarezza dentro di sé e nei rapporti con gli altri Þ Temi della quotidianità = conseguenza diretta del voler fare una poesia forgiata sulla verità, i temi ricorrenti saranno la moglie, gli animali della campagna, la città Þ ricerca profonda della verità = lui vuole andare al di là delle apparenze indagare il senso segreto che sta dietro alle cose. Si propone di cercare una verità terrena in particolare riguarda l'uomo e le motivazioni profonde del suo agire, che nelle loro ragioni ultime sono identiche per tutti gli uomini Þ psicoanalisi = è lo strumento privilegiato per comprendere la realtà umana, la scoperta della verità più profonda può infatti assumere una funzione terapeutica (la poesia è nutrita dalla conoscenza di Freud) Þ influenza di Nietzsche = costui aveva smascherato le ipocrisie della morale corrente per svelare gli aspetti più nascosti inquietanti della psiche umana; infatti, Saba non rimane affascinato dal suo superuomo ma dalla psicologia contenuta nel suo pensiero IL CANZONIERE L'edizione definitiva dell'opera risulta divisi in sezioni, che sono a loro volta raggruppate in tre volumi, che corrispondono ai più ampi archi di sviluppo temporale della giovinezza, della maturità e della vecchiaia. L'opera ha un carattere unitario in quanto narra la storia di una vita, i componimenti sono collegati da un punto di vista tematico e ogni parte acquista significato alla luce dell'insieme. Non è però un mero resoconto della sua vita perché stava trasferisce tali eventi su un piano di riflessione che riguardano la condizione più generale dell'uomo e della vita. I temi principali sono: Þ Amore per la vita = la sua intenzione di cantare la città o la donna in se stesse non indica un intento di mimesi del reale, quanto l'amore per la vita che il poeta sente o di cui cerca di riappropriarsi Þ la città (Trieste) = nelle poesie dedicate all'ambiente triestino si vede lo sforzo di superare un isolamento che nasconde in sé tracce di angoscia e dolore, Trieste infatti amata per la sua vivacità ma anche per i luoghi in cui lui si può isolare Þ rapporto con la donna = riguarda il problema della maternità e più in generale della famiglia la situazione difficile vissuta durante l'infanzia (abbandono del padre e durezza della madre), nella moglie egli cerca anche un sostituto dell'immagine materna mentre altrove la figura femminile sembra ricalcare quella della donna amante e della donna fanciulla Þ componente autobiografica = è fondamentale, tanto da fare il titolo ad una sezione della raccolta. L'infanzia in particolare assume un'importanza decisiva, come un momento centrale della formazione dell'individuo. Dall'infanzia poi si dipartono i principali motivi sviluppati nel canzoniere: l'eros come elemento della natura e il riconoscimento delle pulsioni inconsce, che può avere una funzione terapeutica Þ legame tra gioia e dolore = i due momenti possono anche scindersi: al godimento della gioia, all'amore, può sostituirsi nell'angoscia più pura, il poeta continua a vivere in questo sdoppiamento: gioie e dolori e sono considerati entrambi elementi costitutivi e compresenti nell'esistenza individuale e collettiva. Anche la sua idea di umanità nasce dal dolore, dalla malattia psicologica che affonda le sue radici nell'infanzia del poeta: da qui il motivo della sua sincerità e del bisogno di fare chiarezza. CARATTERISTICHE FORMALI Þ Rifiuto delle tendenze contemporanee = egli scrive basandosi prevalentemente sui libri della tradizione scolastica e ignorando le sperimentazioni contemporanee del primo 900. È questo il limite della sua poesia: Negli anni delle avanguardie egli adotta schemi poetici del passato come l'uso della metrica regolare, la ripresa delle rime e il linguaggio quotidiano caratterizzato da costrutti tradizionali e termini desueti Þ distanza da Ungaretti e Montale = la poetica dell'ermetismo gli rimarrà sostanzialmente strane a un'espressione di difficile; il poeta si propone di cogliere Gli Stati d'animo e le impressioni delle cose che descrive, andando alla ricerca di significati più profondi utilizzando però chiarezza espressiva e un lessico volutamente povero e comune Þ linea anti-novecentista = pur vivendo nel cuore del 900, la sua poesia è stata definita anti-novecentista in quanto rifiuta le più vistose innovazioni della ricerca poetica del proprio tempo A MIA MOGLIE In questa lirica l'amore per la moglie Lina si esprime in modo davvero insolito, attraverso una serie di paragoni con le femmine di alcuni animali: la gallina, la giovenca, la cagna, la coniglia, la rondine, la formica, l'ape. La stessa moglie del poeta in un primo tempo si sentì quasi offesa da tali accostamenti; in realtà il componimento è pervaso da un sentimento di intensa tenerezza e dolcezza, accentuata entrambe da un tono apparentemente ingenuo, quasi infantile: il poeta guarda al mondo della natura nei suoi aspetti quotidiani con occhi semplici, avvertendo in essa le migliori qualità e la condizione di maggiore vicinanza Dio. L'andamento della poesia dalla stessa una decadenza da inno religioso il collegamento al divino è esplicitato nella prima e ultima strofa, quelle più impresse di significato dal poeta, dove stava canta la moglie come creatura capace di avvicinare a Dio, cioè all'essenza è all'origine stessa della vita. La donna è il tramite fra l'uomo e Dio idee capaci di elevare l'anima dell'uomo che la ama. I paragoni suggeriscono atteggiamenti e gesti precisi, volti ad illustrare le qualità fisiche e morali della donna: la scrittura di Saba si propone di cogliere con proprietà le cose, senza alludere o eludere. Gli animali perdono ogni funzione di tipo rigidamente sentenzioso o allegorico morale. Equivalenti della persona femminile, e si vivono anche nella loro configurazione autonoma: in questo modo l'uomo trova nella natura lo specchio di se stesso, accostandosi a Dio attraverso il libro aperto della creazione. Il poeta, come il fanciullo ama gli animali che per la semplicità e la nudità della loro vita, ben più degli uomini, obbligati dalla necessità sociali e continui in, avvicinano a Dio, alle verità cioè che si possono leggere nel libro aperto della creazione. Lo sguardo del fanciullo, in altri termini, non finge uno stupore innocente ma presuppone la presenza di un adulto, che osserva le cose nella loro concreta immediatezza senza reticenze e inibizioni. TRIESTE In questa lirica il poeta Umberto Saba risale una delle colline che circondano Trieste, per sedersi su un muricciolo e, solitario, contempla da lontano la città che si affaccia sul mare. Umberto Saba ama la sua città e la senti vicina, nella sua bellezza è un po scontrosa, alla sua sensibilità di uomo e di poeta. Trieste ha un omaggio alla città natia in cui il poeta scopre della propria storia. In questa limpida sequenza di immagini cittadine, su cui si riflette la discreta soggettività del poeta (si veda l'alternanza fra la prima e la terza persona), risalta subito l'immediatezza del legame stabilito, attraverso fresche impressioni e notazioni, con la realtà rappresentata. S'abbassa accogliere gli umori dell'esistenza, quelle discontinuità che presentano per lui l'essenza della vita, attraverso la compresenza di elementi dissonanti. Come accadeva per la moglie, anche Trieste è la città materna, che permette al poeta di assaporare l'aria natia, di sentire la dolcezza non priva di tormento e di trovare sulle sue colline un cantuccio, ossia una difesa o un riparo il protettivo per la sua vita pensosa e schiva. BERTO Il componimento si presenta come un poemetto narrativo che mette in scena un incontro impossibile, il reale, fra il poeta e il se stesso bambino. Questo confronto diventa l'impietoso referto di un fallimento che non solo impedisce di ricostruire il legame fra il presente del passato, ma nega ogni forma di compensazione, di assoluzione nei confronti dell'adulto, accusato di non aver saputo corrispondere alle attese di un tempo. Il ricordo degli affetti infantili e dei legami traumatici corrisponde ai desideri inappagati, che è adulto non è stato in grado di realizzare. la lacerazione del dissidio dà luogo a una sorta di sdoppiamento fantasmatico che è alla base di un altro tale in comunicabilità, sottolineata dalle risposte di vaganti del bimbo, che in realtà non rispondono alle richieste del poeta, ma diventano a loro volta delle domande a cui l'adulto non riesce a rispondere. Si tratta di uno scavo in profondità, a indagare le oscure ragioni dell'inconscio per scoprire quella che Saba, in un altro componimento, ha chiamato la verità che giace al fondo ovvero una verità che è tutta del congedo lapidario, che segna nel brutale momento dell'abbandono e del distacco, l'impossibilità di sanare la lacerazione, di medicare una ferita rimasta ancora aperta e destinata a rimanere tale per sempre. ULISSE A partire dal capolavoro di Joyce nella letteratura del 900, è diventata spesso il simbolo dell'inquietudine morale e filosofica dell'uomo contemporaneo, accompagnandosi in genere ai motivi del viaggio e della ricerca della verità. non la scelta di una meta precisa Oriente in sala la navigazione ma l'esigenza di non illudere i rischi birla di rimanere vigili al proprio posto. Se il mare è una metaforica rappresentazione della vita, lo spingersi al largo testimonia le scelte più coraggiose avventurose, mentre il porto FRATELLI da un incontro casuale avvenuto al fronte, il poeta elabora una riflessione valida per tutta l'umanità: di maggior sofferenza, l'unico sentimento che può salvare l'uomo dalla fragilità e dell'esistenza è la fratellanza. Dal testo si evincono immediatamente le sensazioni di cui hai pervaso un soldato al fronte in piena guerra: Þ sentimento di solidarietà con i commilitoni che condividono la stessa sorte e di conseguenza al senso di appartenenza all'umanità. È in questo sentimento che il poeta trova la forza di andare avanti Þ paura se non certezza che da un momento all'altro la morte potrà arrivare VEGLIA Giuseppe Ungaretti prese parte alla Prima guerra mondiale e questa poesia fu proprio scritta durante questo conflitto, a pochi giorni dal giorno di Natale. Il tema trattato è la sofferenza patita in guerra, la caducità della vita, l'angoscia della morte che incombe. Ha trascorso un'intera nottata a fianco a un compagno massacrato con la bocca deformata rivolta verso la luna piena e con le dita delle sue mani rigide e gonfie per la morte, che lasciano un profondo senso di sgomento in lui e, mutolito, non può fare altro che restargli accanto. In questo momento il poeta ha sentito l'esigenza di scrivere lettere d'amore (per il bisogno di dichiarare affetto ai suoi cari) e qui, di fronte alla tragedia della morte rivela che non si era mai sentito così tanto attaccato alla vita. Avviene cioè quella che i greci chiamavano Eros e thanatos: quanto più ti senti vicino alla morte tanto più ti senti legato alla vita e all'amore. E per quanto possa essere ingiusta la vita vale certamente la pena di viverla pienamente. SONO UNA CREATURA È ambientata nel Monte di San Michele, presso Gorizia alle pendici del quale gli eserciti italiani erano schierati nell'agosto del 1916 in attesa dell'imminente conquista della città. iniziamo col dire che in Ungaretti l'acqua è sempre un elemento positivo, mentre l'idea di morte è spesa con termini di eredità. In questa poesia vi è uno scenario duro e arido: da una parte il pianto, segnali di dolore ma anche di vita dall'altra la pietra in cui il pianto stesso si è ridotto, pietrificando. Non è sparito il dolore: solo è penetrato nell' intimo dell'anima e non lascia più tracce all'esterno. L'aridità delle rocce, carsiche, però è solo apparente: in profondità l'acqua scorre. Alla pietra prosciugata del caso corrispondono gli occhi asciutti del poeta. Era poesia triste quasi come il paesaggio del Carso così arido e freddo la sofferenza del poeta Ungaretti è così tale che non ha più le lacrime per piangere, o per meglio dire, si tratta di un pianto nascosto, intimo. Il suo dolore lo possiamo paragonare a quella pietra così senza vita. vivere è uguale a soffrire, la sofferenza è uguale solo alla morte. I FIUMI La lirica di Ungaretti è una sorta di ricordo: dalle proprie origini, infanzia, gioventù ed infine si viene catapultati nel paesaggio della guerra raffigurato dalla figura del fiume Isonzo. Ungaretti sta riposando e sta fissando la luna, e dal momento più giusto per scrivere e riflettere sulla sua vita il poeta, unico superstite, si sente comunale liquida con servata in un'urna d'acqua che rievoca il sacramento del battesimo e quindi il momento della nascita; dopo essersi alzato cammina in come farebbe un acrobata è simbolo di precarietà e fragilità. Si immerge nelle acque del fiume e dopo si avvicina ai suoi vestiti sudici di guerra. Infine, l’Isonzo e il fiume in cui il poeta si riconosce fino in fondo e si riconosce come una parte piccolissima dell'universo. i fiumi ripercorrono alcuni dei momenti che hanno segnato la vita di Ungaretti: Þ il Serchio = indica le origini e dove i genitori abitavano prima di emigrare per ragioni di lavoro come numerosi italiani dell'epoca Þ il Nilo = racconta la sua infanzia e adolescenza, è un'età di sogni ma non sia ancora la consapevolezza di cosa sia in grado di fare o meno Þ la Senna = indica Parigi cioè il luogo dove Ungaretti studio, ha conosciuto intellettuali ed ha capito di essere un poeta Þ l’Isonzo = dove Ungaretti si trova attualmente ed immergendosi gli regala orario momenti di felicità il poeta torna alla realtà, nostalgico e triste e pensa alla precarietà della sua vita. SAN MARTINO DEL CARSO Il tema fondamentale è la spaventosa realtà della guerra e della morte che è spesso attraverso un'analogia, le macerie del paese di San Martino diventano il simbolo del cuore del poeta e del suo dolore. Lo strazio per l'orrore della guerra è espresso dalle case, metaforicamente ridotte a qualche brandello di muro, di tanti soldati uccisi non è rimasto neppure un brandello del corpo, ma tutti sono vivi nell'animo e nel ricordo del poeta. Questa lirica si basa sull'idea tra il cuore straziato del poeta e all'istruzione di San Martino. Ungaretti rappresenta la devastazione del paese attraverso la metafora qualche brandello di muro, mentre dicendo ma nel cuore nessuna croce manca, ci comunica che il ricordo degli amici morti e presenti in lui e rimarrà per sempre vivo, proprio come in un grande cimitero. Come tante altre, anche questa poesia nasce dalla devastante esperienza della Prima guerra mondiale, che viene presentata come una violenza che non risparmia niente: nelle case, nelle vite umane e neanche il cuore, dove colpo lascia una piaga insanabile. MATTINA Tale componimento poetico e l'esito estremo della ricerca poetica di Ungaretti: i versi brevissimi privi di punteggiatura rappresentano infatti il culmine dell'ermetismo ungarettiano. il testo poetico è ridotto e semplificato in maniera estrema lasciando aperto un varco verso il silenzio e l'assoluto. il poeta si sente investito di una luce accecante che si ripercuote in tutto lo spazio circostante. L'individuo si identifica con il tutto, fa parte dell'immenso, dell'infinito e dell'eterno. I limiti dello spazio si dilatano conferendo una sensazione di vitalità e pienezza di vita portando ad uno stato di beatitudine. Il titolo crea il carattere momentaneo di un'improvvisa folgorazione: fra il titolo e il testo se infatti una corrispondenza analogica riguardanti i legami fra tempo ed eternità. SOLDATI È tra i componimenti più brevi Ungaretti, raro esempio di essenzialità e di purezza lirica. Le parole valgono non in sé, ma per le immagini che evocano, per la loro forza allusiva. Nelle poche, ma intensissime parole di questa brevissima lirica, è espressa la drammatica provvisorietà del vivere dei soldati in trincea. La poesia fa un paragone tra le foglie in autunno e di soldati in guerra: le foglie sono così deboli nella stagione autunnale che basta un lieve soffio di vento per farle cadere mentre i soldati basta un colpo di fucile per essere uccisi. In entrambi i casi le due vite sono attaccate a un filo rendendo meglio il concetto di precarietà della condizione umana durante la guerra. Il poeta soldato rinnova qui tale similitudine inserendo una nel contesto della guerra e anche mediante lo stile. Una fase più semplice ricevi infatti una veste nuova e più ricca. Il poeta spezza la frase in quattro unità di minime, ciascuna coincidente con un verso, altra poi la normale disposizione mettendo in evidenza, attraverso un'inversione sintattica, le foglie. Tale elemento vuole rappresentare la condizione di precarietà fisica ed essenziale degli uomini in guerra. SENTIMENTO DEL TEMPO In Sentimento del tempo si va incontro ad una evoluzione in cui si articola il tema della percezione dello scorrere del tempo e il rapporto tra la finitezza dell'uomo e il senso dell'assoluto, della morte inconoscibile, con innestata una riflessione sulla dolorosa condizione dell'essere umano, si assiste ad un'importante rivoluzione stilistica della poesia ungarettiana, che va verso il recupero delle forme tradizionali della lirica nell'intento di continuare la linea rappresentata da Petrarca e Leopardi. Il "ritorno all'ordine" spinge Ungaretti a scegliere una sintassi più elaborata. Dal punto di vista del lessico, si passa dalla realtà scabra della prima raccolta ad un vocabolario di elevata ascendenza letteraria. E’ un ritorno ad una antica forma di classicismo, ma tale classicismo ungarettiano è rivisitato e riammodernato con tematiche facenti riferimento alla modernità; inoltre, decisivo per questo cambio di rotta è stato l'entrare in contatto con il Barocco di Roma: Ungaretti riscopre il fascino di una realtà, quale quella dei Seicento, ostracizzata in quanto contralto troppo estremo del tradizionalismo classico; dalle briciole di questa realtà esplosa sarà possibile ricostruire il vero. Così, qui Ungaretti unisce le forme del tradizionalismo classico ai frammenti esplosi del Barocco, nelle sue tematiche e nelle sue forme decadenti ed eminentemente espressive; tale commistione darà vita ad una nuova forma poetica, ad un nuovo corso della lirica italiana. DI LUGLIO Il sentimento del tempo e del suo inevitabile trascorrere riguarda in questa lirica la stagione estiva, vista come un momento che corrode e distrugge implacabilmente la stessa natura. Questa poesia contiene un esempio significativo di “barocco” ungarettiana, come ricerca di uno stile ricco e ridondante, per esprimere un’idea della natura come azione e mutamento continuo. In tale ambito rientra anche il motivo della metamorfosi. Nella rappresentazione di una natura animata e mitica, lo stile di Ungaretti sembra adesso avvicinarsi a quello della poesia dannunziana, ma il panismo di d’Annunzio si sostituisce qui il prevalere di un destino di dissoluzione e morte. L’elemento decisivo risulta quello di sostanziale incertezza di fronte al mistero delle cose e del loro inesorabile fluire. IL DOLORE La raccolta comprende tre sezioni dedicate ai drammi personali del poeta (in modo particolare la morte del fratello e del figlio) e tre dedicate al dramma collettivo della Seconda guerra mondiale. Le poesie oscillano fra il disperato tormento per le perdite subite e la certezza cristiana della risurrezione e della vita eterna. Gli eventi bellici sono letti come conseguenza dell'allontanamento dell'uomo dalla legge divina; permane tuttavia la speranza cristiana della misericordia di Dio, unita a un profondo bisogno di redenzione. Le poesie dedicate ai lutti familiari riprendono il lessico immediato e l'andamento diaristico della prima produzione; più criptici appaiono i testi in cui il poeta medita in termini metafisici sulla morte. Nelle poesie dedicate alla guerra il poeta adotta un insolito registro di alta eloquenza per richiamare i propri simili. NON GRIDATE PIÙ La poesia è stata scritta subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ed è proprio questo il tema principale. L'odio scatenato dalla guerra che continua a crescere inesorabilmente, l'odio degli uomini verso le loro vittime, che nonostante siano ormai morte, uccidono ancora, con le grida. L'ignoranza dell'uomo che invece dovrebbe stare in silenzio ed ascoltare il loro debole messaggio, debole al tempo stesso essenziale per avere una possibilità di salvezza. La lirica è composta, nella prima quartina, da novenari; nella seconda da un endecasillabo, due settenari e un novenario. Nel primo verso è presente una analogia molto suggestiva, che "identifica" i vivi ai morti, e negli ultimi versi, una similitudine. Leggendo la lirica si può notare che è divisa in due parti, che trattano gli stessi argomenti, ma con due sfumature diverse: 1. La prima parte sottolinea le brutalità dell'uomo verso i suoi simili. 2. La seconda parte, invece, sottolinea la civiltà distruttrice dell'uomo, che non risparmia nessuno, ed è riconosciuta anche dalla natura EUGENIO MONTALE GLI OSSI DI SEPPIA Il libro è diviso in quattro sezioni: movimenti ossi di seppia, Mediterraneo, meriggi e ombre. Nella raccolta si possono cogliere i legami con il contesto culturale del tempo: Þ Filosoficamente = l'influenza del pessimismo di Schopenhauer, ravvisabile nell'idea che la realtà sensibile si apparenza ingannevole Þ Letterariamente = legame con la poesia d'annunziana montare l'attraversa e la supera poiché ne rifiuta l'abbandono sensuale, il vitalismo panico, l'intonazione aulica e sublime. È evidente anche la lezione di pascoli, sia per la scelta di trattare oggetti poveri sia per alcuni procedimenti stilistici. Montare guarda anche l'esperienza crepuscolare, nel rifiuto dell'aulicità della tradizione poetica, nell'adozione di oggetti umili e di soluzioni antiliriche e prosastiche Gli ossi di seppia sono i residui calcarei dei molluschi che il mare deposita sulla riva. Includono quindi a una condizione vitale impoverita, prosciugata. Al tempo stesso gli ossi sottolineano una sua condizione che non può più attingere al sublime ma deve ripiegare sulle realtà minime, sui detriti che la vita lascia dietro di sé puntando su una dizione spoglia e secca, priva dell'ornamento sontuoso proprio della lirica tradizionale.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved