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Italiano, Svevo e Pirandello, Appunti di Italiano

Il periodo del Primo Novecento, che va dal 1900 alla Prima Guerra Mondiale, e le sue caratteristiche letterarie, artistiche e scientifiche. Si parla di Avanguardie, Decadentismo, relativismo, incertezza, teoria della psicanalisi di Freud, fisica quantistica di Planck, Einstein e Bohr. Si mette in discussione la conoscenza oggettiva della realtà e si evidenzia la dimensione soggettiva della percezione del tempo. una continuità di temi fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 12/01/2022

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Scarica Italiano, Svevo e Pirandello e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! IL PRIMO NOVECENTO Il primo Novecento è un periodo che va dal 1900 agli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale. Inizia con l’anno 1900, in cui Sigmund Freud pubblica la sua opera L’interpretazione dei sogni. Per la letteratura é importante l’anno 1904, in cui D'Annunzio pubblica Alcyone. Questo periodo si conclude nel 1925, anno significativo, in quanto dal punto di vista storico, il Fascismo diventa un vero e proprio regime, segnando una svolta rispetto allo Stato Liberale. Dal punto di vista della poesia, a chiudere la stagione letteraria, troviamo l'opera Ossi di Seppia, pubblicata nel 1925, di Eugenio Montale, il quale non segue la corrente del Simbolismo. Nello stesso anno vi è l’inizio delle pubblicazioni della rivista “La ronda”, la quale segna l'abbandono dello sperimentalismo avanguardistico; anche “Ronda” è un termine militare, è la pattuglia che ha il compito di riportare l'ordine. Questo periodo viene indicato sui manuali scolastici come “età del Relativismo”; nella letteratura Anglosassone, invece, viene indicato come “età dell’Ansia” (The Age of Anxiety). Altri manuali, però, definiscono questo periodo utilizzando la definizione di “età delle Avanguardie”. “Avanguardie” è un termine militare che indica le prime file dell'esercito, le quali hanno il compito di rompere lo schieramento nemico. Dal punto di vista letterario e artistico, infatti, questo periodo è caratterizzato dalla rottura dei modelli tradizionali e dalla sperimentazione. Per quanto riguarda l’Avanguardia letteraria sono presenti il romanzo di Avanguardia e le Avanguardie storiche (movimenti precisi). In questo periodo persistono gli stessi temi dell’800 (Decadentismo): malattia fisica e mentale, solitudine, morte, critica alla società borghese e di massa, ripiegamento dell’individuo su se stesso, la crisi dell'artista e dell'uomo moderno. Possiamo vedere una continuità di questi temi fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1957 Tommasi di Lampedusa scrive “// Gattopardo” e si può notare come siano ancora presenti questi temi (considerato ancora Decadente). A questa rimanenza di temi, si aggiungono dei riferimenti culturali che evidenziano i temi dell'ansia e del relativismo. La crisi dell'oggettività Le grandi certezze e la fiducia nel progresso che avevano caratterizzato l'800, si erano indebolite verso la fine del secolo; infatti verso gli inizi del ‘900 si afferma la convinzione che la realtà non sia oggettivamente conoscibile. Di conseguenza questo periodo viene definito età dell'incertezza. Le categorie di spazio e tempo vengono messe in discussione. Nasce una maggiore consapevolezza della dimensione soggettiva, per quanto riguarda la percezione del tempo. ll filosofo francese Henri Bergson aveva formulato un concetto di tempo non riconducibile alla nozione fisico-matematica, la quale era un'idea spaziale del tempo. Egli contrappone all'idea di tempo della scienza (segmentato e misurabile), il tempo della coscienza individuale, che è un fluire ininterrotto (un flusso continuo). La conoscenza del tempo, quindi, non è qualcosa di oggettivo, ma è relativa all'esperienza individuale. La sua visione del mondo e dell'uomo è basata sulla teoria dello slancio vitale. Già nel passato, Sant'Agostino, nel libro XI delle Confessioni, presenta una concezione del tempo come coscienza e flusso; il tempo è come io lo vivo; l'uomo con il pensiero può spostarsi dal passato, al presente, al futuro secondo un flusso ininterrotto. Il tempo secondo la concezione della coscienza non è misurabile. Non è solo la filosofia a mettere in discussione la conoscenza oggettiva della realtà. Essa viene messa in discussione anche dei principali protagonisti del pensiero scientifico dell'epoca; si tratta della scienza, più precisamente dalla fisica. All’inizio del ‘900 si afferma il paradigma della fisica quantistica del tedesco Max Planck. Secondo la fisica classica galileiana la materia è costituita da particelle discontinue, microscopici corpuscoli non divisibili; essa quindi distingue tra materia quantificabile corpuscolare e energia di natura ondulatoria. Con la fisica quantistica invece l'energia era interpretata come un'onda, un flusso continuo infinitamente divisibile; di conseguenza anche l'energia è composta da quantità discrete (separate, non continue), dette “quanti”. Planck abbatte la distinzione tra materia ed energia. La fisica quantistica introduce la consapevolezza che la conoscenza della realtà è relativa ed è affidata alla probabilità più che alla certezza. Questa nuova teoria non riguarda solo la scienza, ma ha anche delle conseguenze sul rapporto dell'individuo con la propria esistenza. Questi studi vengono poi approfonditi dal tedesco Albert Einstein e dal danese Niels Bohr, i quali mettono in discussione la struttura del reale e del mondo fisico e la possibilità di conoscerlo in maniera oggettiva e sicura. Tra 1905-1916, Albert Einstein elaborò la teoria della relatività, in cui spazio e tempo cessano di essere un punto di riferimento assoluto (non si tratta di idee assolute), ma diventano dipendenti dalla condizione di chi le osserva. Di conseguenza l'essere umano si ritrova lontano dal centro dell'universo, incapace di raggiungere una verità unica; è disorientato e per questo provo angoscia e smarrimento. Niels Bohr, invece, si accorge che la luce si presenta talvolta come fenomeno corpuscolare e talvolta come fenomeno ondulatorio, elaborando così il principio di complementarietà. Il fisico tedesco Heisenberg, nel 1927, elabora il principio di indeterminazione, secondo il quale è impossibile misurare allo stesso tempo la posizione e la velocità di una particella subatomica; di conseguenza, la misurazione di un fenomeno fisico dipende dall’osservazione e quindi l'osservatore modifica il fenomeno osservato. Allo stesso tempo, nasce l'idea che i comportamenti umani non possono più essere ricondotti a cause oggettive, e si comincia pensare che l'origine delle nevrosi e dei malesseri psicologici risieda in zone rimosse della coscienza, parti sommerse dell'io che la ragione non controlla. Questa nuova concezione viene sostenuta da Sigmund Freud, che nel 1900 pubblica “L’interpretazione dei sogni”, la quale contiene tutti gli elementi principali della sua dottrina, ovvero la teoria della psicanalisi. Secondo lui, ogni individuo possiede una componente conscia, della quale è razionalmente consapevole, e una inconscia, molto più vasta. conscio è quella parte della nostra psiche che per definizione è inconoscibile e che determina i nostri comportamenti e le nostre azioni sulla base di vissuti ed esperienze che sono state elaborate, depositate e rimosse (rimozioni). La coscienza è quindi solo una piccola parte, mentre alberga in noi, nella psiche, questo lato oscuro, ovvero l’inconscio. È possibile indagare il suo funzionamento attraverso i suoi derivati, come i sogni, i ricordi e i lapsus. Secondo Freud la personalità umana è divisa in 3 entità: Es (inconscio), lo (parte conscia della psiche), Super-lo (di natura inconscia, controlla l’l0). Il disagio della civiltà: L'ideologia ottimistica della scienza del progresso è messa in crisi anche dalle trasformazioni socioeconomiche. La nascita della società di massa mostra gli evidenti limiti della filosofia positivista; essa toglie l'individualità. Queste trasformazioni hanno delle ripercussioni negative nel mondo borghese; assistiamo infatti alla massificazione della borghesia, che scivola nell'anonimato di mansioni ripetitive. Lo sviluppo delle metropoli e la civiltà delle macchine hanno determinato un progresso materiale, ma possiedono dei lati negativi. La civiltà borghese infatti vive in uno stato di disagio, che trasforma l'individuo dinamico e attivo dell'800, in un soggetto impotente e paralizzato: si tratta della figura dell'inetto, il quale non è capace a vivere nella società del suo tempo. È un individuo privo di identità e qualità (L'uomo senza qualità di Robert Musil) e senza fiducia in sé stesso, che conduce un'esistenza artificiale, estraneo al mondo. L’irrazionalismo antidemocratico In Europa: Le caratteristiche della società di massa erano evidenti già alla fine dell'800, quando molte categorie sociali avevano cominciato ad avere beni, servizi e diritti, diventando interpreti attive della Vita civile ed economica. Nel 1895, lo psicologo ed etnologo francese Gustave Le Bon, in un saggio dal titolo Psicologia delle folle, aveva analizzato il protagonismo politico del vasto blocco sociale mobilitato dai sindacati e dai partiti socialisti. Secondo lui, era nata l'era delle folle, che dava spazio a fantasie utopistiche, a ingenue idee di eguaglianza e di sovranità popolare e a impulsi ciechi e irrazionali. Si era aperta anche l'era dei meneurs, ovvero di capi di moltitudini rozze e incolte. La sua opera costituisce la tipica espressione culturale e psicologica dell'orrore aristocratico fronte alla democrazia. L'idea ego (spesso un intellettuale che racconta le proprie vicende in prima persona). In questo modo si passa da una rappresentazione oggettiva (“dal di fuori”) del mondo, ad una rappresentazione soggettiva, che si concentra sui personaggi. Il romanzo tradizionale presenta una mancanza iniziale che viene colmata nel corso della vicenda, e spesso la storia narrata si conclude con un lieto fine. Il romanzo del ’900 procede da una mancanza all'altra. Non c'è un epilogo risolutivo né una vicenda di maturazione esistenziale, ma un senso di incompiutezza e di smarrimento: al romanzo di formazione si sostituisce un romanzo di deformazione. Le tecniche narrative: Alle novità ideologiche e strutturali corrispondono alcune novità stilistiche. La frammentazione sintattica e l'affollarsi in primo piano dei particolari (Virginia Woolf); l'espansione del discorso indiretto libero (Gadda), del monologo interiore o pensiero diretto libero (Svevo) e del flusso di coscienza (Joyce), fino a giungere a giochi verbali indipendenti da ogni significato plausibile (in Joyce l'Ulisse e Finnegans Wake); la frequenza dei flashback, utili a recuperare il passato (Proust, Svevo, Joyce in Gente di Dublino); la mescolanza di narrazione e saggismo filosofico e letterario (Pirandello, Musil). In Svevo troviamo anche lo stream of consciousness. Si tratta di tecniche che consentono di restituire la complessità dell'universo interiore dei personaggi. IL ROMANZO DI AVANGUARDIA Il romanzo di avanguardia caratterizza alcuni dei romanzi del primo ‘900. Esistono diversi modelli di riferimento europeo. Alla a ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, si tratta di un ciclo di 7 romanzi in cui il protagonista, Marcel, dopo la guerra del 1923, cerca di ricostruire la propria infanzia affrontando il tema del rapporto tra memoria (ricordo) e scrittura (dei ricordi); alla fine capisce che non può ricostruire i ricordi, perché riaffiorano quando meno ce lo si aspetta; la memoria può essere classificata in razionale o du coeur, il caso di Proust è il secondo. Il tema essenziale della Ricerca è quello del tempo, il passato da ritrovare e decifrare, la memoria razionale e quella involontaria. L'altro capolavoro è l'Ulisse (1922) di James Joyce (insegna nella Berlitz School; conobbe Svevo a Trieste), un romanzo (capolavoro con cui rompe il legame con la tradizione) in cui ripercorrendo alcune delle tappe del viaggio di Ulisse nell'Odissea, presenta la descrizione di una giornata (16 giugno 1904) a Dublino del protagonista, un inetto/antieroe moderno, Leopold Bloom (ebreo irlandese). Troviamo la rivitalizzazione del mito nel romanzo moderno. Inoltre troviamo il flusso di pensieri, ovvero lo stream of consciousness. Per quanto riguarda la letteratura italiana, i romanzi sono: La coscienza di Zeno di Italo Svevo; Il fu Mattia Pascal, Uno, nessuno e centomila, Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello. Le caratteristiche del romanzo di avanguardia: se pensiamo al concetto di avanguardia come rottura o sperimentazione, si caratterizza per la rottura di 3 cardini del romanzo tradizionale (‘800, riferimento — | Promessi Sposi). Il primo cardine ad essere infranto è quello dell'arco temporale della vicenda: nel romanzo tradizionale, la vicenda ha un inizio in un determinato momento storico e si snoda nel tempo fino ad arrivare ad un altro momento più in là nel tempo, inoltre possiamo trovare dei flashback o delle prolessi, ma essenzialmente l'arco del tempo è lineare; nel romanzo di avanguardia questo arco temporale non viene più rispettato: nella Coscienza di Zeno di Svevo viene presentato il tempo misto, Zeno Cosini infatti scrive il suo memoriale riferito ad eventi della sua vita passata, ma in questa scrittura passato e presente si confondono; // fu Mattia Pascal di Pirandello offre un esempio evidente della rottura dell'arco temporale tradizionale perché la vicenda inizia dalla fine della storia di colui che fu Mattia Pascal, quindi l'arco temporale viene invertito. Il secondo cardine che viene infranto è quello dell'unità psicologica del protagonista: nel romanzo tradizionale abbiamo un solo o più protagonisti (Renzo e Lucia); nel romanzo di avanguardia, invece, il personaggio si caratterizza come un antieroe, incapace di vivere, di compiere delle scelte e di aderire alla realtà, è alla continua ricerca di risposte che però non trova, presenta una psicologia multiforme sfaccettata di cui nemmeno lui stesso riesce a venire a capo, la percezione che gli altri hanno di lui è cangiante e relativa (il protagonista del secondo romanzo d’avanguardia di Pirandello, Vitangelo Moscarda, è un uno, nessuno e centomila). Il terzo cardine ad essere infranto è quello della struttura: il romanzo tradizionale è chiaramente diviso in capitoli; il romanzo d'avanguardia presenta blocchi narrativi irrelati. ITALO SVEVO (Aron Hector Schmitz, 1861-1928) Città di frontiera, Trieste, ha sviluppato nel corso dell'800 una fisionomia e una cultura per molti versi uniche — condizione di porto mediterraneo dell'Impero austro-ungarico che l'ha resa un crocevia di scambi, una sede di imprese commerciali, navali e assicurative e la meta di continue ondate migratorie, un miscuglio di genti diverse: tutto ciò fa di Trieste una città cosmopolita, a contatto con l'area della mitteleuropea. Nel 1861 nasce Aron Hector Schmitz, a Trieste, da una famiglia ebraica della borghesia mercantile triestina: il padre Francesco è un commerciante e può permettersi di far vivere in condizioni agiate gli 8 figli; la madre si chiamava Allegra Moravia. Ettore, insieme al fratello maggiore Adolfo, parte per Segnitz sul Meno, in Baviera, per apprendere la lingua tedesca e la pratica contabile. Di nascosto (la clandestinità con cui vive le sue passioni culturali sarà una costante della sua vita) si avvicina alla letteratura e alla filosofia, leggendo Schiller, Goethe, Schopenhauer, Shakespeare e i Naturalisti francesi. AI rientro a Trieste, vorrebbe recarsi a Firenze per perfezionare la lingua italiana, dato che a casa parlava il dialetto triestino, ma il padre si oppone. Nel 1880 inizia a collaborare al quotidiano triestino "L'Indipendente", a cui invia articoli di critica letteraria e teatrale, firmando con lo pseudonimo di Ettore Samigli (nome italianizzato, era affascinato dalla lingua italiana). Ambiguità: 1 la questione della lingua (italiano, tedesco); 2 lui era un uomo d'affari, non uno scrittore. La sua vita conosce un'improvvisa cesura nel 1883: il fallimento dell'azienda paterna lo costringe a lasciare gli studi e a cercare un impiego, che troverà presso la filiale triestina della Banca Union di Vienna. Inizia a dedicarsi alla scrittura; porta a termine il suo primo romanzo, che esce nel 1892 con il titolo Una vita: sulla copertina del libro figura un altro pseudonimo, Italo Svevo, che salda le 2 culture di cui si sente figlio (italiana e tedesca) e nasconde l'identità dello scrittore, persino ai parenti stretti. Nel 1898 scrive Senilità, il suo secondo romanzo. Ettore, dopo una fugace avventura sentimentale, sposa la biscugina Livia Veneziani, figlia del proprietario di una fabbrica di vernici sottomarine. In questo modo conquista uno status sociale inattaccabile, diventa un perfetto borghese, un uomo di successo. Dopo aver abiurato l'ebraismo e ricevuto il battesimo, si reca in Inghilterra, per lavorare nella ditta del suocero. Nel presunto periodo di rinuncia alla letteratura, accadono 2 eventi. Nel 1905 incontra lo scrittore irlandese James Joyce, insegnante alla Berlitz School di Trieste. Joyce gli dà lezioni private di lingua inglese, ma il loro rapporto si trasforma in amicizia. | 2 si scambiano le proprie opere: Svevo legge / Dubliners ancora in manoscritto; Joyce legge Una vita e Senilità, da cui rimane folgorato. AI 1908 risale la conoscenza delle opere di Sigmund Freud. Il suo interesse per la psicanalisi è immediato, ma il suo utilizzo terapeutico non lo convince (un'esperienza a lui vicina conferma i suoi dubbi: un fratello tossicomane della moglie, entrato in analisi da Freud, ne esce peggiorato). Svevo crede che Freud, come Marx, sia bravo a fare le diagnosi, ma un cattivo terapeuta. Lo stesso Svevo si era sottoposto a delle cure per il vizio del fumo; si affida a degli psicologi della scuola di Nantes che curavano tramite la scrittura. Dopo lo scoppio della Grande guerra la fabbrica del suocero viene chiusa dalle autorità tedesche, e Svevo libero dagli impegni di lavoro, disoccupato, si ritrova a poter coltivare le sue passioni: il violino e la letteratura. Nel 1919 comincia a scrivere La coscienza di Zeno (opera di un autore maturo), che esce nel 1923, pubblicato a spese dell'autore: inizialmente compaiono alcune recensioni favorevoli (Valery Larbaud e Benjamin Cremieux "Le navire d'argent"), poi però cala di nuovo il silenzio; lasciava molto perplesso il suo stile di scrittura (era particolare, a volte appariva sgrammaticato). Svevo spedisce una copia del libro a Joyce, che si adopera per far conoscere agli amici l'ignoto scrittore. In Italia gli unici che avevano apprezzato l’opera furono gli Intellettuali di Solaria, molto aperti alla letteratura europea, in modo particolare il poeta Eugenio Montale, venuto a sua conoscenza tramite Roberto Bazlen. Soprattutto a Parigi il passaparola è contagioso e il “caso Svevo” cresce giorno dopo giorno: a suggellarlo è la lettera del poeta e romanziere Valéry Larbaud, importante autore francese, il quale nel 1925 scrive a Svevo come un “devoto ammiratore” che omaggia un “Maestro”. Per Svevo è un susseguirsi di soddisfazioni. Lo scrittore parla di un “miracolo di Lazzaro”: una resurrezione letteraria, ma anche esistenziale, che lo porta a una seconda ed imprevista giovinezza. Nel 1928 a Parigi, il Pen Club, un importante circolo internazionale di scrittori, organizza una serata in suo onore; subito dopo è la volta di Firenze, dove è accolto trionfalmente da un gruppo di intellettuali che si fa chiamare "Svevo's club": tra questi compaiono Montale e lo scrittore Elio Vittorini. Un enfisema polmonare, conseguenza della sua lunga pratica di fumatore, lo inquieta. A settembre del 1928 è in vacanza a Bormio, in Valtellina, per le consuete cure termali: durante il ritorno a casa, l'automobile su cui viaggia insieme alla moglie e a un nipote, slitta sul terreno bagnato e si schianta contro un albero, nei pressi di Motta di Livenza (vicino a Treviso). Svevo muore il giorno dopo l'incidente per asma cardiaco dovuto all'enfisema. LTEMI La concezione della letteratura: Dopo il silenzio che accompagna i primi 2 romanzi, Svevo si ripromette di rinunciare alla scrittura. Il proposito viene enunciato spesso; eppure, non riesce mai ad abbandonare del tutto quell'attività. La letteratura appare come un vizio. La "clandestinità" in cui Svevo relega la scrittura è un modo per non esporsi all'ostilità del proprio mondo familiare e sociale, secondo il quale la letteratura è un esercizio da perdigiorno, un passatempo improduttivo. La vocazione alla scrittura costituisce un'infrazione alla propria identità sociale di uomo di successo ben inserito nell'ambiente borghese cui appartiene. Più si è integrati, più la letteratura può assumere una valenza positiva, dirompente e rivoluzionaria, che può mettere a nudo l'uomo, privandolo delle sue corazze. Scrivere è dunque una trasgressione perché si configura come un'attività alternativa al mondo e all'educazione dei padri. Anche Svevo, sia pure senza ribellioni, attua un "rifiuto del padre", quel padre che lo vorrebbe bravo commerciante: la scelta della scrittura coincide con il rifiuto di un modello fondato sulla trasmissione autoritaria di un sistema di valori sentito come inautentico e sopraffattore. Se la letteratura va praticata con riserbo, ne consegue che essa potrà sottrarsi ai generi e alle poetiche prestabilite, liberandosi dalle mode e dai vincoli istituzionali. Non sarà esercitata come un mestiere, ma diventerà un'esigenza esistenziale, una ragione di vita. Con libertà Svevo può affondare lo sguardo nel suo mondo, nei risvolti della quotidianità borghese e nei meandri di una mentalità mercantile che egli conosce. Accade così che vita e letteratura si incontrano, fondendosi sulla pagina scritta, sul testo. Tale identificazione è stata perseguita anche da d'Annunzio, ma Svevo rovescia i termini del processo: non è la vita a essere sublimata in un mondo eroico ed estetizzato; è la letteratura a scendere sul piano dell'esistenza comune. Si tratta di una autoanalisi. Tra l'uomo d'affari Ettore Schmitz, paranoico e nevrotico, e lo scrittore Italo Svevo, corrosivo e inesorabile, non c'è conflitto. Importante è il rapporto tra letteratura e memoria. Proust si è posto questo problema: il protagonista, Marcel, vuole porre come opera letteraria la propria vita, per suscitare il ricordo. Il compito della letteratura è fissare brevi ricordi che affiorano in maniera intermittente. Anche Svevo si è posto questo problema; la Coscienza di Zeno dovrebbe essere il memoriale della vita del protagonista; secondo lui non è possibile mettere per iscritto i ricordi, perché nel momento in cui ci si accinge a farlo, il presente viene contaminato dal passato, offuscando i propri ricordi + la letteratura non può più garantire il ricordo. Questo rapporto tra vita, letteratura e memoria è importante perché tra i letterati del passato era diffusa l'idea che, grazie alla letteratura, il ricordo potesse durare in eterno; per Svevo non è così. La scrittura svolge un'azione chiarificatrice: l'esistenza può essere svelata solo se fissata sulla pagina scritta. Come una forma di terapia, la penna, fuori della quale non c'è salvezza, diviene uno strumento di igiene interiore e di conoscenza di sé. Non appare casuale che tutti i personaggi sveviani siano scrittori: Alfonso Nitti scrive poesie; Emilio Brentani è autore di romanzi; Zeno Cosini, scrive la propria autobiografia su indicazione dello psicanalista. Si potrebbe pensare che questa attività determini una condizione di superiorità, ma non è così; per Svevo è il contrario: la scrittura è posta in relazione con uno stato inferiorità, di disorientamento, di impotenza. Chi scrive lo fa perché è malato, ma almeno ha il vantaggio di essere cosciente della propria situazione. Vi è il rovesciamento del rapporto tra salute e malattia. Nitti, è un impiegato che coltiva illusioni letterarie: ha pubblicato un romanzo e ne sta scrivendo un altro, che però non riesce a portare a termine. Si interessa anche alla politica: sente di poter condividere la fede socialista in una società più giusta, ma questa inclinazione svanisce, come tutte le altre. Tuttavia non rinuncia alla propria vanità e si rappresenta come un artista incompreso, che dà lustro a una città che non lo merita. Attorno a sé ha soltanto la sorella nubile, Amalia, e lo scultore Stefano Balli, artista privo di talento ma sicuro di sé e pieno di vitalismo. Emilio, invece, a 35 anni ha già l'animo di un vecchio rassegnato. Per evadere da questa situazione, intreccia una relazione con Angiolina, una ragazza povera e di facili costumi, che egli però trasfigura e trasforma, in un gioco mistificatorio con sé stesso, in una creatura letteraria. La gente, che ne conosce la vera natura, la chiama con l'epiteto grossolano di "Giolona"; lui la idealizza come "Ange", un nome adatto a una fanciulla dello Stilnovo (come un angelo). Le attenzioni dell'amante non hanno però l'effetto sperato: stancatasi di Emilio, Angiolina non si fa scrupoli ad amoreggiare con altri pretendenti. La sorella di Emilio, abituata anch'essa a una fiacca routine senza passione, è nel folgorata dall'uomo meno adatto, il dongiovanni Balli. Incapace di manifestare i propri sentimenti, Amalia vive il proprio innamoramento come una debolezza segreta e inconfessabile, consumandosi in una lenta agonia psichica. Quando Amalia si ammala della polmonite che la porterà alla morte, Emilio scopre in un armadio le boccette di etere con il quale la donna aveva cercato consolazione dal suo amore impossibile. Dopo la morte della sorella, Emilio torna nel suo grigiore. Angiolina, fuggita a Vienna con il cassiere di una banca, è lontana, un ricordo. Cancellato ogni desiderio, archiviati errori e inganni, la vita lo condanna a una triste saggezza, senza compensi. Da un inetto giovane (Alfonso) a un inetto invecchiato (Emilio): Se in Una vita le velleità di Alfonso Nitti mostravano ancora la pretesa, da parte del personaggio, di riscattare le proprie debolezze, la figura di Emilio Brentani appare quella di un uomo imprigionato nel proprio disagio psicologico, che si guarda vivere mentre preda di sogni destinati a non avverarsi mai. Il protagonista di Una vita, pur essendo uno sconfitto e un nevrotico contemplato re del mondo, presentava nelle sue aspirazioni qualcosa di romanzesco, come il suo suicidio. Emilio Brentani invece ha coscienza di essere del tutto privo di qualità. | sogni di giovinezza a cui Alfonso tentava disperatamente di appigliarsi, sono tramontati, scacciati da una malattia incurabile, la "senilità", vale a dire la rassegnazione passiva dell'uomo che ha smarrito ogni senso di sfida nei confronti della vita, arrendendosi alla miseria e al fallimento. A differenza di Alfonso, Emilio non si uccide. Troppo cinico per farlo, egli si accontenta della propria tranquillità: per dimenticare gli insuccessi, gli basta voltare pagina e ritornare a chiudersi in sé stesso. Mentre Alfonso era inserito in una fitta trama di relazioni sociali, Emilio è prigioniero di una solitudine claustrofobica, con pochi personaggi: l'amante, l'amico, la sorella. Montale definisce questo schema di personaggi un “quadrilatero perfetto”, che comprende 4 personaggi: Emilio Brentani, Amalia, Stefano Balli e Angiolina (‘Ange”). In questo quadrilatero di personaggi che incrociano i propri destini, si può cogliere una doppia polarità: da una parte i deboli sognatori, Emilio e Amalia, dall'altra i forti realisti, Angiolina e Balli, "darwinianamente" più adatti alla vita. | primi subiscono la vita. | secondi, invece, esibiscono sicurezza, spregiudicatezza e una buona dose di vitalismo. La struttura tradizionale del romanzo non viene del tutto archiviata, ma la narrazione, condotta in terza persona, esprime il punto di vista soggettivo del protagonista. La voce narrante però interferisce, con ironia, nella ricostruzione psicologica degli eventi: i suoi commenti rivelano al lettore le menzogne di Emilio. Anche lo stile segna un’evoluzione. | residui naturalistici vengono sostituiti dal ricorso al monologo interiore e al discorso indiretto libero che trasferiscono i pensieri del personaggio direttamente, senza alcuna mediazione. LA COSCIENZA DI ZENO La coscienza di Zeno è il romanzo italiano che più di ogni altro rappresenta la crisi di certezze e di valori tipici dei primi decenni del ’900. Il suo protagonista è un testimone esemplare della dissoluzione dei fondamenti filosofici su cui si era basata la civiltà borghese del secolo precedente: intossicato dal fumo, debole e suggestionabile, soffre in realtà di un male interiore, di una sorta di patologia della volontà che tenta di vincere ripercorrendo l'inconscio. Non incontriamo più una voce esterna che smaschera e corregge le menzogne del protagonista, che lo mette a nudo e lo giudica, ma ci troviamo di fronte all'ambigua confessione di un soggetto che mescola nelle proprie affermazioni verità e bugie, secondo il flusso della propria coscienza. Zeno confeziona la propria indagine introspettiva per illuminare i moti oscuri di un'anima irrimediabilmente corrosa: nel risalire alle radici del proprio io, rivela allo stesso tempo la natura fittizia della cosiddetta "normalità" e le falsità e le ipocrisie che caratterizzano l'ordine borghese. Svevo inizia la scrittura del suo terzo romanzo nel 1919, dopo l'ingresso delle truppe italiane a Trieste, ne conclude la stesura nell'estate del 1922 e lo pubblica nel 1923. Dall'uscita dell'opera precedente Senilità (1898), sono passati più di 20 anni, un periodo nel quale l'autore ha avuto tempo per riflettere e coltivare l'interesse per la psicanalisi. La struttura: Diversamente dai primi 2 romanzi, il cui impianto era ancora quello tradizionale, La coscienza di Zeno possiede una struttura innovativa e complessa. Il testo si presenta come un lungo memoriale (memoria della sua vita) in prima persona, organizzato per nuclei tematici, che si immagina scritto per ordine di un medico, il dottor S., e in cui il protagonista, Zeno Cosini, ripercorre i momenti salienti della propria vita. Il libro è aperto da una Prefazione, firmata dal dottor S., che dichiara di pubblicare il testo di Zeno per vendicarsi della sua decisione, presa senza consultarlo, di abbandonare il trattamento psicoanalitico. La scrittura dell'autobiografia era stata richiesta a Zeno dal medico come "preludio" alla psicoanalisi. Segue un Preambolo, scritto dal protagonista stesso, il quale afferma che quelle pagine sono state composte su consiglio dello psicanalista, a cui si era rivolto all'età di circa 60, per guarire dal vizio del fumo. Entrambi ci dicono di non fidarci di quello che c'è scritto. Il memoriale quindi torna ad essere uno strumento di dubbio. Si susseguono poi 6 capitoli in cui la successione cronologica dei fatti narrati viene alterata dalla scelta di accorparli in base all'argomento su cui è incentrato ciascun capitolo. | ricordi, le sensazioni, le immagini dell'esistenza di Zeno non sono riportate secondo un ordine temporale, ma sono organizzate attorno ad alcuni fatti ritenuti importanti, che danno il titolo ad altrettanti capitoli: // fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l'amante, Storia di un'associazione commerciale, Psico-analisi. | primi 5 capitoli sono il memoriale. Psico-analisi, invece, è un memoriale scritto al presente, come un diario. | diversi episodi rievocati illustrano vari aspetti del carattere del protagonista, quindi il romanzo si pone come una sorta di "autoanalisi La trama: Zeno è un uomo bloccato nell'agire, è un inetto, cioè una persona incapace di vivere un'esistenza positiva e costruttiva: perennemente indeciso, è passato dagli studi di diritto a quelli di chimica, per poi tornare di nuovo ai primi. Il sintomo più vistoso del suo male di vivere è il vizio del fumo, di cui è succube sin da ragazzo e del quale, nonostante i numerosi tentativi, non è mai riuscito a sbarazzarsi. Alla stessa maniera non ha mai risolto il rapporto con il padre, che è un uomo diverso da lui per temperamento e non lo ha mai veramente capito: è un borghese solido e concreto, e morirà senza che si sia mai realizzata tra loro una comunicazione. Prima di spegnersi, non fidandosi del figlio, dispone per testamento che il proprio patrimonio sia messo sotto la tutela di un uomo assennato, l'amministratore Olivi: Zeno potrà vivere di rendita, mentre altri si occuperanno dei suoi affari. In seguito decide di sposarsi ma, incerto tra le diverse sorelle Malfenti (Augusta, Ada, Alberta, Anna; le donne hanno spesso un nome che inizia per A); vuole sposare Ada (la più bella), ma viene rifiutato; così prende in moglie quella che gli piace di meno, Augusta (la meno carina). In seguito trova un'amante, Carla, una ragazza del popolo appassionata di canto, che vede nel denaro dell'uomo un'opportunità per migliorare la propria condizione. Dopo 2 anni il protagonista si stancherà di lei. Il suo matrimonio con Augusta si rivela tutt'altro che infelice: la donna è saggia e buona, e Zeno trova in lei stabilità e tranquillità. Invece Ada, la sorella più giovane, si è imbruttita dopo il matrimonio, a causa di una malattia. Il marito, Guido Speier, è un uomo piacente, ma anche superficiale, nonostante la sicurezza di sé: insieme a lui Zeno fonda una società commerciale, ma la pessima conduzione degli affari da parte del cognato, che nel frattempo ha iniziato una relazione adulterina con la segretaria, la conduce sull'orlo del fallimento. Guido finge per 2 volte di volersi suicidare; la seconda volta sbaglia e muore. Zeno prende in mano le redini della società e si dimostra abile negli affari, cosa che prima nessuno (nemmeno lui) avrebbe creduto. Cosi l'inetto, il malato Zeno, appare come il vero vincitore, poiché la sua presunta debolezza si è mostrata in realtà una superiore capacità di adattarsi. L'opera termina con un ultimo capitolo composto di alcune pagine staccate dal resto della narrazione, una sorta di diario che si finge scritto mentre è in corso la Prima guerra mondiale. Zeno è deciso a interrompere la cura: dopo 1 anno ha riletto la sua autobiografia e ora manifesta la propria sfiducia verso la psicanalisi (Freud) e verso il dottor S. Non è guarito, ma lo scoppio del conflitto ha determinato un miglioramento, poiché l'amministratore Olivi, cittadino italiano, ha dovuto rifugiarsi in Svizzera. Zeno, libero dal controllo del tutore, ha potuto avventurarsi in alcune imprese commerciali, che si sono rivelate fortunate. Si sente bene: dice che ha riacquistato la salute non grazie alla cura del dottor S., ma a dispetto di questa; percepisce il piacere di sentirsi vivo e felice, immune dalla tragedia collettiva della guerra, che osserva a distanza. Allo psicanalista, che torna a farsi vivo, Zeno decide di inviare tutto quanto ha scritto per mostrargli che cosa pensa di lui e della sua cura. Lpersonaggi: Zeno è un uomo pigro e svogliato, distratto e ipocondriaco (convinto di essere affetto da tutte le malattie possibili), e di ciò ha coscienza. Egli avverte uno scarto tra sé e gli altri, tra il proprio modo di considerare la vita e quello della maggior parte delle persone, di quella che potrebbe essere definita la gente normale. É uno "straniero", come significa in greco il suo nome (da xenos). Per molti anni crede che questo sia un grave problema e prova in diversi modi a conformarsi ai modelli comuni; la decisione di sottoporsi alla terapia psicanalitica è un tentativo. Alla fine del romanzo, però, sarà orgoglioso della propria diversità, che percepirà come un elemento di forza. È un inetto in trasformazione. Diversi personaggi del romanzo possono essere ricondotti alla figura archetipica del padre, che si caratterizza al tempo stesso come un modello per raggiungere la normalità e come un antagonista. Oltre al suo vero genitore, "padri" possono essere considerati il tutore Olivi e il suocero Malfenti. La figura paterna nella psicoanalisi rappresenta quella del rivale per antonomasia. Avversario in amore è invece Guido Sp. : bello, brillante, sicuro di sé, l'esatto opposto di Zeno, il quale considera nemico anche il dottor S. che intende scrutare nei luoghi più reconditi della sua anima. Il signor S. non si basa sulla dottrina di Freud; quest'ultimo afferma che bisogna studiare le azioni di cui la coscienza non è vigile, il Signor S., invece, sostiene che bisogna far riaffiorare i ricordi con la scrittura. Nel rapporto con le donne emergono con particolare evidenza le debolezze e le contraddizioni del protagonista. Zeno afferma di essere innamorato della moglie e di provare per lei una profonda stima, ma finisce per tradirla: Augusta è una sorta di moglie-madre solida e protettiva, con la quale egli stabilisce un rapporto di tenero affetto, mentre Carla è oggetto di una passione sessuale. Ada, la sorella più giovane e più desiderabile di Augusta perde agli occhi di Zeno ogni attrattiva (dopo il matrimonio "sbagliato" con Guido e l'insorgere della malattia che la imbruttisce), perché si trasforma in una donna debole e infelice. FAMIGLIA COSINI FAMIGLIA MALFENTI Padre Madre Giovanni Malfenti Moglie Zeno Ada Augusta Alberta Anna sposa sposa Augusta Malfenti Guido Speier Alfio Antonia LTEMI Psicanalisi, malattia e menzogna: Nella Coscienza di Zeno la psicanalisi è il centro del romanzo, che viene immaginato come un quaderno scritto su indicazione del medico. Tuttavia alla fine dell'opera il protagonista esprime tutto il proprio risentimento nei confronti del dottor S., che gli ha promesso di guarirlo, ma di fatto ha soltanto aggravato la situazione, richiamandogli alla memoria episodi del passato prima sepolti nell'inconscio. Ad averlo risanato dalla malattia sono stati invece l'attività pratica, gli affari, il commercio, in cui ha ottenuto un successo insperato. Svevo è uno dei primi scrittori italiani a essersi avvicinato alla psicanalisi e si è molto discusso su quanto lo scrittore ne La presenza di questo narratore di primo grado che interviene nell'incipit destituisce il vero protagonista di qualsiasi credibilità, ponendosi quasi come un antagonista che agisce in modo vendicativo. Dopo la sua nota introduttiva, tutto ciò che il paziente racconterà nel corso del romanzo perderà, agli occhi del lettore, ogni carattere di oggettività, acquistando al contrario un valore di finzione e di ambiguità. Nel presentare il manoscritto di Zeno come un insieme di “tante verità e bugie”, il narratore di primo grado, cioè il dottor S., mette in discussione la verità di tutto ciò che da qui in poi il lettore troverà scritto nel romanzo: quindi la voce di Zeno viene presentata come quella di un narratore inattendibile. Si tratta di un modo di tradurre la sfiducia nella possibilità di una rappresentazione obiettiva del reale tipica delle poetiche post naturaliste. Preambolo: Qui parla Zeno ed inizia così il suo memoriale; afferma che se la sua luce, nel vedere la sua infanzia, non fosse tagliata da più di 10 lustri, riuscirebbe a vederla (è ultracinquantenne, come lo era Svevo). Sottolinea quindi la propria perplessità in merito alla possibilità di riuscirci. | suoi occhi sono presbiti, quindi dovrebbero vedere meglio le cose lontane che quelle vicine, ma il passato il presente si frappongono come “vere alte montagne” — esperienze pregresse, fatti ed emozioni della durata di anni o anche solo di qualche ora (idea per la quale a contare non è l'estensione cronologica misurabile delle esperienze vissute, ma il rilievo soggettivo che esse hanno assunto nella psiche individuale). Per cercare di riuscire a ricordare comprò un trattato di psico-analisi. Non era difficile da capire, ma era molto noioso, egli si annoiava a leggere i testi di psicanalisi. Egli tenta di di pensare senza che il passato offuschi i suoi pensieri. Dopo pranzo, afferra la matita e scrive, la quale impugnata da Zeno, costituisce una sorta di stimolo a resistere al sonno; comincia a vedere immagini confuse, una “locomotiva” — l’immagine qui viene presentata come casuale, tanto che lo stesso Zeno non riesce ad attribuirle alcun significato. La sua origine si chiarirà a posteriori nel quarto capitolo. Lo sbuffo del treno, che rimanda una sensazione di fatica e sofferenza, richiama il respiro affannato e rantolante del padre di Zeno in punto di morte. L'immagine di se stesso da bambino si sovrappone a quella di un bambino in fasce, il nipotino nato da poco. “Altro che ricordare la mia infanzia! lo non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell'importanza di ricordarlo a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute” — Il suo atteggiamento è piuttosto polemico, l’idea che l’uomo adulto derivi dalle esperienze infantili è investita dall’ironia del narratore. Fa riferimento al nipote inconscio, affermando che mentre avvierà la ricerca del piacere, i genitori e i parenti determineranno, senza saperlo, delle ferite psichiche che poi, nell’età adulta, saranno causa di nevrosi. Ci saranno troppe probabilità di malattia in lui, in quanto non tutti i momenti saranno puri. Se ora può essere identificato come una persona pura, la presenza dell’impurità degli adulti che l'hanno generato transiterà in lui. È scandito su 2 piani temporali: quello del presente, in cui si colloca l'atto della scrittura, è quello del passato, con riferimenti alle memorie del passato. Il ricordo del passato non riaffiora a comando, il presente si sovrappone sempre al passato; Zeno non riesce ad evocare la sua infanzia e non vuole ammettere né affrontare il problema con il padre. Troviamo il tema del rapporto tra scrittura, memoria e passato. Tema dell'infanzia: per Leopardi è il momento in cui si è in grado di illudersi e ricavare piacere; nella fase di pessimismo cosmico è, invece, il momento di illusione a cui seguirà la disillusione; per Pascoli è il poeta stesso il fanciullo; per Svevo non è più un mito, un'età felice, ma un momento in cui inizia a manifestarsi il subconscio. “La morte del padre” Tutto il quarto capitolo è incentrato sulla malattia e sull'agonia del padre, oltre che sul rapporto conflittuale che Zeno ha sempre avuto con lui. Una sera il protagonista, rincasato più tardi del solito, trova il genitore che, piuttosto irrequieto, lo ha atteso per la cena. Nel colloquio che ne segue si profilano le differenze caratteriali tra il figlio e il padre: quest'ultimo vorrebbe comunicare a Zeno alcune verità importanti, ma sembra che gli manchino le parole. Questo rapporto rappresenta la crisi dei valori della famiglia tradizionale. Dopo che entrambi sono andati a letto, quella notte stessa l'anziano è vittima di un serio malore, dal quale non si riprenderà più. Passano alcune settimane in cui alterna momenti di incoscienza ad altri di lucidità, fino alla notte in cui muore. Con questo brano si chiude il capitolo. La notte fu lunga, ma non faticosa per Zeno e per l'infermiere Carlo. Essi lasciavano fare all’ammalato quello che voleva. Una volta, quando l’infermiere, ascoltando i consigli del medico, gli impedì di alzarsi dal letto, il padre si ribellò. Il medico (dottor Coprosich) , dopo averlo visitato, disse che doveva rimanere a letto il più a lungo possibile. Il padre ascoltava solo le voci a cui era più abituato: quella di Zeno, quella di Maria (la domestica) e quella dell'infermiere. Mentre Zeno sorvegliava il padre, insieme all'infermiere, avvenne quella che lui considera una scena terribile che non dimenticherà mai; l'infermiere lo esorta ad ascoltare i consigli del medico. Allora Zeno, che fino a quel momento era rimasto adagiato sul sofà, si alza e va verso il padre, per cercare di costringerlo a restare almeno per mezz'ora nel riposo voluto dal medico. Il padre però cerca di liberarsi dalla presa del figlio. Mentre il figlio tenta di sollevarlo, con l'aiuto dell'infermiere, il padre sente la morte arrivare (“Muoio!”) e alza, nell'ultimo spasmo dell'agonia, la mano in alto, lasciandola poi ricadere sul volto di Zeno. Questo gesto non si sa a cosa corrisponda: nella prima ipotesi l'atto equivarrebbe a una punizione, per una colpa ignota; nella seconda ipotesi, si tratta di un'azione irriflessa, la psicanalisi freudiana avverte che dietro ad atti apparentemente "gratuiti", si possono celare ragioni che affondano le radici nell'inconscio del soggetto che le compie. Dunque, potrebbe darsi che il padre avesse inconsciamente qualcosa da imputare al figlio. Dopo che il padre si è accasciato privo di vita, Zeno gli dice piangendo: “Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!”. E subito dopo il narratore (cioè lo stesso Zeno, che rievoca i fatti diversi anni più tardi) aggiunge: “Era una bugia”. È vero che il medico aveva prescritto il riposo a letto, ma è anche vero che Zeno ha interpretato quella richiesta in maniera troppo energica. Il padre ormai era morto. Zeno fu allontanato dalla stanza. Il padre era morto e lui non poteva più provare la sua innocenza. Così Zeno inizia a riflettere sul gesto del padre. La prima spiegazione che Zeno dà a sé stesso, cioè che il padre si sentisse da lui impedito nei movimenti e che dunque fosse arrabbiato per questo, è soltanto un'ipotesi rassicurante, che però non elimina i suoi interrogativi. Zeno vorrebbe chiedere il parere del dottore riguardo allo “schiaffo”, ma non lo fece. Zeno aveva affermato di non condividere la terapia del medico con i salassi ed era stato accusato dal dottore di scarso affetto verso il genitore, come se avesse interesse ad accelerare la morte; per questo non vuole confrontarsi con lui. Un'altra scena terribile per lui è stata quella di sentire l'infermiere Carlo, in cucina, di sera, raccontare alla domestica Maria che il padre lo picchiò prima di morire. L'infermiere e la domestica conoscevano quell'atto, quindi anche il medico l'avrebbe saputo sua volta. Quando si recò alla stanza mortuaria, il cadavere del padre era stato vestito e i capelli erano stati pettinati. Il corpo era irrigidito, le mani grandi e potenti erano livide. Zeno non volle più vederlo. AI funerale, Zeno riuscì a ricordare il padre debole e buono come l'aveva sempre conosciuto durante l'infanzia e si convinse che quello schiaffo che gli era stato inflitto, non era stato voluto veramente. Scatta quindi la reazione tipica di chi cerca di scacciare l'angoscia attraverso un'opera tutt'altro che innocente: secondo quello che nella terminologia psicanalitica viene definito "processo di rimozione", Zeno è portato a sublimare la figura paterna, cancellando contrasti e ambiguità e confezionando il ritratto trasfigurato di un uomo “debole e buono”, alla cui superiorità il figlio ora si inchina, in un estremo e affettuoso recupero della bontà, come sognando di tornare alla condizione di sottomessa ubbidienza + “Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s'accompagno a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d'accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte”. Dopo la morte del padre, Zeno si rivolge alla “religione dell'infanzia” — si dedica alle pratiche religiose, che erano care al padre e verso le quali il figlio era sempre stato contro. Egli immaginava che il padre lo sentisse e voleva dirgli che la colpa non era stata sua, ma del dottore. Zeno davanti a tutti rideva di ogni pratica religiosa, anche se ogni giorno raccomandava l'anima del padre ad un'istanza superiore, a un Dio non formalizzato in una pratica religiosa definita. Alla fine fa riferimento alla religione vera, quella religione che non occorre professare ad alta voce e di cui non si può fare a meno. La conclusione del brano è aperta. Lio di Zeno che scrive nel presente e l’io di Zeno che visse l'episodio nel passato sono mescolati e non distinti (tempo misto). All'inizio del capitolo, Zeno dichiara che la morte del padre è stata «l'avvenimento più importante della sua vita». Il rapporto tra Zeno e il padre era stato per molti anni di indifferenza. Nel momento del trapasso, esso acquista importanza agli occhi del protagonista: il decesso del genitore lo trasporta dal piano della quotidianità a quello degli echi profondi. Finché il padre era vivo, l'inettitudine di Zeno, che ancora si percepiva come "figlio", poteva apparire come immaturità, ma con la sua morte essa si rivela nella sua essenza di sostanziale inadeguatezza alla vita e di inguaribile deficit esistenziale. Il rapporto è tra 2 personalità antitetiche: solido e borghesemente sereno il padre, nevrotico e inconcludente il figlio. In Svevo il dissidio conserva qualcosa di ambiguo e di irrisolto: potrebbe essere quello che Freud ha chiamato "complesso di Edipo", vale a dire il desiderio inconscio del bambino di sbarazzarsi della figura del padre per non avere rivali nell'ottenere l'amore della madre. Zeno non ha la natura del ribelle che reclama libertà e autonomia, ma ha la consapevolezza di essere un debole e un incapace. Ciò che gli rende ostile la figura paterna è la stessa ragione per cui diffida di chiunque: lo considera giudice del proprio operato, un avversario sempre pronto a scrutarlo e colpevolizzarlo. Nella contrapposizione affiorano l’egocentrismo di Zeno e la sua tendenza all'autocommiserazione che lo porta a nutrire, sensi di colpa, aggressività, autoaccuse e giustificazioni che sono scuse non richieste. “La vita attuale è inquinata alle radici” Nell'ottavo e ultimo capitolo cambia la struttura narrativa del testo: il romanzo si presenta qui come un diario contenente annotazioni che vanno dal 3 maggio 1915 al 24 marzo 1916 (non è più un memoriale). L'attenzione del narratore è incentrata più sulle conseguenze dello scoppio della Grande guerra che non sulle proprie vicende personali, come avveniva nei capitoli precedenti. A causa degli eventi bellici, Zeno ha dovuto fare a meno del proprio amministratore: gli Olivi, in quanto italiani, sono costretti a lasciare Trieste, che nel 1915 era ancora sotto l'Impero austro-ungarico. Deve quindi occuparsi in prima persona degli affari della ditta. Inoltre, mentre lui, cittadino austriaco, è rimasto a Trieste, tutta la sua famiglia, di nazionalità italiana, si è rifugiata a Torino. Libero da tutti i vincoli parentali, Zeno ha potuto agire a modo suo e ha trovato nell'attività commerciale la propria guarigione. Dice di aver compreso che la dimensione della malattia segna tutta la realtà, essendo connaturata alla vita stessa, e che la civiltà moderna, allontanando l'uomo dalla natura, lo ha reso più debole e "malato" 24 Marzo 1916: Con la ripresa della scrittura dopo una lunga interruzione, Zeno rivela i suoi pensieri. Zeno non aveva più scritto sul suo quaderno, richiesto dal dottor S., dal Maggio dell’anno prima. Il dottor S. gli scrive dalla Svizzera, chiedendogli di mandargli quello che aveva annotato; lui non ha nulla in contrario a farlo, per fargli comprendere cosa pensa di lui e della sua terapia. Se non ha mai creduto fino in fondo all'utilità della terapia (psicoanalisi), adesso la rifiuta completamente. Innanzitutto ritiene di essere guarito (“lo sono guarito!”), ma non grazie all'analisi dei propri sintomi; per Zeno la malattia non è un dato oggettivo della realtà, ma una condizione psicologica, quindi il malato non deve essere guarito, ma persuaso di non esserlo. Dolore e amore fanno parte della vita, quindi soffrire è lecito. Zeno è guarito perché ha finalmente sperimentato la necessità di un impegno concreto, che poi è stato coronato da successo + “Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia”. Questa volta Zeno ha fatto la scelta giusta dal punto di vista economico (“Allora cominciai a comperare”): poiché durante le guerre il rischio di inflazione è molto alto, egli ha deciso di impiegare gran parte della propria liquidità per acquistare merci di tutti i tipi, in modo da poterle rivendere a prezzi sensibilmente maggiorati quando la domanda lo consentirà. Di conseguenza, ebbe successo negli affari. Inoltre, il suo amministratore, l’Olivi non era a Trieste, quindi decise di approfittarne. Il suo primo acquisto fu apparentemente una sciocchezza: l'incenso; secondo lui, in mondo di miseria, l'incenso avrebbe potuto sostituire la resina. In secondo luogo, Zeno raggiunge la consapevolezza di essere guarito nel momento in cui comprende che la malattia riguarda non solo lui come singolo, bensì la vita umana le radici. La vita è la malattia, non il personaggio; non è lui ad essere malato, ma è la vita ad essere una malattia mortale. La vita è sempre mortale e non sopporta cura. Per Svevo l’inetto è un essere in evoluzione che cerca di adattarsi alla vita, l’inettitudine non è una malattia, quelli che si ritengono sani sono in realtà malati (considerata malati colore che sono aggravato dalla reazione di Antonietta: colta da paralisi alla notizia del disastro, la donna, già fragile psicologicamente, non si riprenderà più, sprofondando in una spirale di follia in cui rischierà di essere trascinato anche lo scrittore. Per sopperire alle difficoltà economiche e alleviare le angustie familiari, le assurde scenate di gelosia e le crisi ossessive della moglie, Pirandello si getta nel lavoro, in un'attività frenetica che lo libera da una tensione altrimenti insostenibile. Nel 1904 viene pubblicato // fu Mattia Pascal, romanzo sperimentale in cui, attraverso il tema dominante della morte-rinascita del protagonista, emergono istanze autobiografiche e sogni di evasione partoriti al capezzale della moglie malata. La convivenza con la follia di Antonietta non è facile: la donna verrà internata in una casa di cura quando lo scrittore si convincerà che l'affetto, la comprensione e la pazienza non possono nulla contro un disturbo mentale incurabile. Negli anni che precedono la guerra vedono la luce i romanzi / vecchi e i giovani (1909, 1913) e Suo marito (1911); celebri novelle come La giara (1909) e Pensaci, Giacomino! (1910); opere teatrali come Lumie di Sicilia e La morsa (1910). Nello stesso periodo inizia la collaborazione con la compagnia di Nino Martoglio a Roma, nella quale recita un celebre attore siciliano, Angelo Musco, che contribuisce al successo delle prime opere teatrali dell'autore. Alle soglie della Prima guerra mondiale, in nome dei suoi ideali patriottici, appoggia la causa degli interventisti, sposandone la visione del conflitto come naturale compimento dei moti risorgimentali. All'entrata in guerra dell'Italia, nel 1915, il figlio Stefano parte volontario, ma viene subito fatto prigioniero dagli austriaci e internato in un campo di concentramento per 3 anni. Anche l'altro figlio Fausto è chiamato alle armi, ma è presto congedato per malattia; a queste preoccupazioni si aggiunge la morte della madre, verso cui non era mai venuto meno il tenero affetto dello scrittore. Tuttavia, nonostante le sue convinzioni interventiste, le opere del triennio 1915-1918 non recano segni di entusiasmo bellico; al contrario, si possono trovare in diverse novelle immagini di sofferenza collettiva nelle figure di padri e madri in apprensione per la vita dei figli soldati. Nel 1915 pubblica sulla "Nuova Antologia" il romanzo Si gira..., poi ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Da questo momento, la produzione teatrale prende il sopravvento, sostenuta da un crescente consenso di pubblico. Lo scambio di idee e di personaggi tra il corpus delle novelle e la produzione teatrale è continuo e proficuo; è ormai autore ricercato e le sue rappresentazioni accendono spesso un coro di polemiche e discussioni che stimolano ulteriormente la ricerca e l'innovazione del linguaggio drammaturgico. Con la messa in scena di Sei personaggi in cerca d'autore la fama dello scrittore valica i confini nazionali; la prima al Teatro Valle di Roma, nel 1921, provoca reazioni contrastanti, persino furibonde, tra accaniti sostenitori e detrattori spietati. L'anno seguente ottiene uno strepitoso successo a Londra, New York e Parigi. Nel 1924 aderisce ufficialmente al fascismo, chiedendo pubblicamente di essere iscritto al Partito nazionale fascista, dal quale riceverà appoggi e tributi. Ormai celebre, fonda la Compagnia del Teatro d'Arte di Roma, finanziata dal regime e attiva dal 1925 al 1928, mentre tutte le capitali europee si contendono l'esclusiva di una sua opera. Abbandonato l'insegnamento, inizia a seguire le compagnie teatrali nelle tournées in Europa e America; in questi anni si lega sentimentalmente alla giovane attrice Marta Abba, per la quale scrive vari drammi e a cui invia centinaia di lettere. Gli anni successivi, trascorsi fra impegni internazionali e una continua produzione di drammi e novelle, conducono lo scrittore alle vette del successo, fino al conferimento nel 1934 del premio Nobel per la letteratura. Tuttavia Pirandello non smette di sperimentare e rinnovarsi, approdando con le ultime novelle e con l'opera teatrale incompiuta | giganti della montagna alle sponde di una letteratura assai complessa. Mentre sta assistendo, a Cinecittà, alle riprese di un film tratto da /l fu Mattia Pascal, si ammala di polmonite. Muore il 10 dicembre 1936 nella sua casa di Roma, a 69 anni. Il giorno prima era uscita sul "Corriere della Sera" la sua ultima novella, Effetti di un sogno interrotto; i funerali si svolgono in forma privata e in semplicità. Le sue ceneri, custodite in un'urna greca, riposano ad Agrigento, là dove era nato. LE OPERE: La sua creatività attraversa tutti i generi letterari, con uno scambio continuo di materiale narrativo e drammatico. L'arte infatti non sopporta limiti di genere. La produzione di Pirandello si suddivide in 3 parti: novelle, romanzi e teatro, ma scrive anche poesie. Le poesie fanno parte della sua passione giovanile, ma non lo seguiranno nella maturità. Le principali raccolte poetiche sono Mal giocondo, Elegie renane, Zampogna, Fuori di chiave. Viene influenzato dai grandi autori tedeschi, conosciuti durante gli studi in Germania. 1- Le novelle fanno parte di un'immensa produzione, che è la più costante nella sua attività letteraria. Questo genere risale a Boccaccio (origine), è tipicamente meridionale (Verga, D'Annunzio) ed è caratterizzato dalla poetica del realismo. Pirandello però abbandona questa idea di realtà, allontanandosi da Realismo e Naturalismo. Le novelle pirandelliane sono distinte in novelle di ‘ambientazione siciliana (Ciàula scopre la luna) e quelle di ambientazione romana (// treno ha fischiato); ritraggono il tipico ambiente borghese, l'alienazione del lavoro impiegatizio e il matrimonio come trappola; l'elemento irrazionale e illogico porta i protagonisti a rendersi conto della realtà (come se si squarciasse il velo di maya di Schopenhauer). = Novelle per un anno: Inizia a scriverle a partire dalla metà degli anni 80 dell'800, poi vengono raccolte in volumi autonomi: il primo, Amori senza amore, è del 1894; seguono Beffe della morte e della vita (1902), Quand'ero matto... (1902), Berecche e la guerra (1919). La sistemazione di un materiale così abbondante subisce continui rimaneggiamenti fino al progetto di Novelle per un anno, pubblicate in 15 volumi fra il 1922 e il 1937. In questo lavoro Pirandello assembla un corpo frammentario e disorganico, privo di una cornice che, come accadeva nella novellistica classica, doni coerenza all'eterogeneità del contenuto. Nemmeno l'idea iniziale di proporre una novella per ogni giorno dell'anno si realizza a causa della morte dell'autore. La mancanza di struttura della raccolta riflette una visione pirandelliana del mondo come insieme caotico e disgregato. In molte novelle appare chiara l'influenza del Verismo, reinterpretato però in forma del tutto personale. Descrivendo la società contadina siciliana o l'ambiente della borghesia impiegatizia romana, infatti, Pirandello non si ferma al dato documentario. Il suo è un naturalismo soltanto apparente: l'obiettivo è osservare la "propria" Sicilia attraverso una lente personale e caricaturale che ne svela però la natura più ancestrale e profonda. Nelle novelle, inoltre, la caratterizzazione dei personaggi prevale sulla descrizione del contesto. Da una società spesso appena tratteggiata emergono personaggi eccessivi, volutamente stravolti nelle fattezze del volto e contraddistinti da una gestualità repressa o enfatica. Si delinea così una galleria di maschere, una sfilata di tipi umani varia quanto le infinite forme in cui si presenta la vita. 2- | romanzi in tutto sono 7. = L'esclusa: Il primo romanzo, scritto nel 1893 con il titolo Marta Ajala, viene pubblicato a puntate nel 1901 sul quotidiano romano "La Tribuna" e poi rivisto e stampato in volume nel 1927. L'influenza di Luigi Capuana è evidente nella denuncia di un ambiente sociale avvelenato da convenzioni arcaiche e provinciali, che fa da sfondo alla figura della giovane protagonista, Marta, una donna intelligente e sensibile accusata ingiustamente di tradimento. La causa motrice della narrazione è qualcosa di irreale, una colpa inesistente, che ha però conseguenze reali. Fino alla conclusione spiazzante: Marta è perdonata proprio quando diviene davvero un'adultera. A dominare la vicenda non è il nesso di causa-effetto, tipico del naturalismo, ma una situazione assurda e caotica; al principio di causa-effetto, quindi, si sostituiscono la fatalità e l'assurdità del caso, l'amara constatazione che le azioni umane hanno esiti imprevedibili e che la menzogna vale più della verità. Ha una struttura a chiasmo: Marta è scacciata quando è innocente e riaccolta quando è colpevole. = Il turno: Il secondo breve romanzo, scritto nel 1895, viene pubblicato nel 1902. Pirandello abbandona l'ambientazione naturalista, concentrandosi sull'idea che sia il caso a dominare le vicende umane. Vi si narra la storia di un giovane pretendente, Pepè Alletto, che aspetta il suo "turno" per sposare la donna amata. Smantellando uno dei capisaldi del Naturalismo, l'impersonalità, Pirandello rende visibile la presenza del narratore, come ad avvertire il lettore che qualcuno sta inventando ciò che viene raccontato, e che questa è la "sua" visione delle cose, la "sua" verità. L'oggettività dei fatti è negata in favore di una visione del reale soggettiva. = I vecchi e i giovani: Si tratta dell'unico esempio di romanzo storico pirandelliano, pubblicato in parte nel 1909 e poi in modo completo nel 1913. L'autore sceglie la narrazione eterodiegetica, quella cioè in cui il narratore non è un personaggio della storia, per tracciare un quadro storico delineato entro precise coordinate spazio-temporali. Nella Sicilia post-risorgimentale, sullo sfondo della rivolta popolare dei Fasci siciliani e dello scandalo politico-finanziario della Banca Romana, si svolgono le vicende della famiglia Laurentano e di una serie di personaggi secondari. Il conflitto generazionale, suggerito dal titolo, tra i vecchi protagonisti del Risorgimento e i giovani corrotti della nuova realtà unitaria viene filtrato da ricordi personali, che compongono una sorta di autobiografia pubblica da cui emerge un'analisi della crisi di fine secolo. L'impianto narrativo, che ricorda i Viceré di De Roberto (emerge il problema dell’infeudamento del risorgimento al Sud, ci si approfittava non curandosi degli strati più bassi della popolazione, ma con il solo scopo di conservare il proprio potere) e il modello manzoniano, lascia parlare la Storia come se fosse un personaggio carico di esperienze distribuite tra la folla delle comparse. = Quaderni di Serafino Gubbio operatore: Edito nel 1915 con il titolo Si gira..., il romanzo verrà poi rivisto e ripubblicato nel 1925 con questo titolo. Siamo agli albori della cinematografia, infatti, Pirandello se ne interessa. L'operatore cinematografico (cameraman) Serafino Gubbio racconta in prima persona, in un diario costituito da 7 quaderni, la straniante esperienza vissuta dietro la macchina da presa. Ne risulta una testimonianza, problematica e disincantata, di una diffidenza verso i congegni omologanti della modernità, della quale Serafino-Pirandello dà un'interpretazione lucida e inquietante. La vicenda narra dell'arrivo di Serafino a Roma e del suo lavoro all'interno di una troupe cinematografica che sta girando un film. Della troupe fa parte anche l'attore Aldo Nuti, che ha lasciato la fidanzata per seguire l'attrice russa Varia Nestoroff, "donna fatale" di cui si è innamorato. Il meccanismo narrativo pare seguire la fredda concatenazione degli in ingranaggi di una macchina, sviluppando una serie di prese tra loro separate e prive di logica consequenziale. L'ultima di queste sequenze contiene il tragico epilogo della vicenda: invece che uccidere la tigre portata sul set per girare la scena, Nuti, preso da un momento di gelosia, spara alla Nestoroff. A sua volta, poi, viene ucciso dall'animale. Serafino, incaricato delle riprese, non smette di filmare: condannato a girare la manovella della cinepresa come un automa alienato, continua a registrare la tragica scena fuori copione, ma, per lo choc subito, rimane muto, evidenziando come la macchina induca la realtà a un meccanismo. Non può più partecipare in veste di uno spettatore innocente. Contro l'alienazione e la mercificazione della civiltà moderna, l'unica risposta possibile dello scrittore sembra essere il silenzio. Impazzendo per questa vicenda, alla fine, decide di scrivere 7 diari. = Uno, nessuno e centomila: Dopo una pausa decennale in cui si dedica al teatro, nel 1926 esce il suo romanzo "testamentario", che conclude e insieme inaugura una forma narrativa "frantumata" La vicenda prende avvio da un episodio di estrema banalità di cui è protagonista Vitangelo Moscarda: una mattina, mentre si guarda allo specchio, scopre, per un'osservazione della moglie, che il suo naso non è dritto, come egli aveva sempre creduto che fosse, ma pende leggermente a destra. Il fatto, di per sé privo di importanza, dà luogo a una vera e propria crisi d'identità del personaggio e della coscienza, che si rende conto di non essere "uno", ma "centomila", e quindi sceglie di essere "nessuno", a seconda della prospettiva da cui lo osservano gli altri. Egli è sempre stato intrappolato in un ruolo, in quello di marito, di usuraio e quello della società. Da una semplice constatazione, scaturisce una crisi esistenziale che porta Vitangelo a compiere gesti folli, volti a cancellare ricordi, esperienze e persino il nome che lo identifica. Dopo aver liquidato i suoi beni all'ospizio dei poveri ed essere stato abbandonato dalla moglie, egli finisce con il vivere in un ospizio, senza più un nome né un'identità definita, abbandonando tutto (diverso da “il fu Mattia Pascal). Considerato pazzo dagli altri (nelle opere di Pirandello la follia è una via di fuga dalla trappola della realtà), si sente in realtà finalmente felice: abbandonata la civiltà, con le sue forme e le sue convenzioni, si trova per la prima volta immerso nel fluire continuo della vita e nella natura. Troviamo il rapporto tra forma e vita. 3- Il teatro possiede diversi fasi stilistiche. Gli esordi: dopo il dramma borghese: Dopo una prima esperienza regionale in dialetto siciliano, lo scrittore torna alla lingua italiana e mostra di voler spingere fino al paradosso e all'assurdo i temi consolidati del teatro borghese dell'epoca, per poterli denunciare. rende conto che la vecchia imbellettata appare il contrario di quello che dovrebbe essere. Se si pensa alle ragioni nascoste del suo comportamento (al fatto che forse la donna non è a suo agio, ma lo fa solamente per compiacere un marito più giovane), nasce un senso di compassione, ovvero il “sentimento del contrario”. Per sostenere questa tesi, l'autore propone altri riferimenti, ad esempio il Don Chisciotte di Cervantes. Il sentimento del contrario consiste nella capacità di vedere il lato tragico di una situazione comica, oppure, viceversa, l'aspetto ridicolo di una vicenda drammatica. Questo atteggiamento implica il dubbio e la consapevolezza della pluralità dei giudizi possibili su ciò che ci circonda; implica una lettura della realtà improntata al relativismo, una visione non univoca del mondo. Il concetto di verità viene quindi messo in discussione. L'umorismo è una presenza costante nelle opere di Pirandello. Disarmonia del reale: coglie la disarmonia tra soggetto e realtà, ma anche all’interno del soggetto stesso coglie la scissione. ILrelativismo conoscitivo: Secondo lui, la realtà non si può conoscere. Basandosi su questo concetto scrive “Così è (se vi pare)”. Egli crea una sorta di teatro nel teatro, di dramma nel dramma, in cui la dimensione scenica è in bilico tra realtà e finzione. Egli evidenzia il concetto dell'inconosci ‘a della realtà. Nessuno può sfuggire alla condanna dell'incomunicabilità, derivante dal contrasto tra forma e vita. ILvitalismo: Si tratta del rapporto tra idea e forma, viene influenzato dall'idea di tempo di Henri Bergson (slancio vitale) e da Georg Simmel. Secondo la concezione filosofica di Pirandello, che definiamo vitalismo, la vita non sopporta limiti e costrizioni: essa si manifesta in modo mutevole, in una varietà di forme mai uguali a sé stesse, e scorre come un immenso fiume, continuo e magmatico. Le convenzioni sociali inducono l'individuo a fissare la vita, incostante e relativa, in forme stabili e durature, ma si tratta di apparenze fit derivanti dall'ilusione di poter fermare la corrente, alla ricerca di un'unica verità. Dare una forma stabile e cristallizzata alla vita significa farla morire. | tentativi di costruirsi un ruolo preciso nella famiglia e nella società fanno prevalere l'apparire sull'essere, e costituiscono una fonte di equivoci e di falsità, destinati a trasformarsi in una prigione che gli individui edificano attorno a sé. Tali ruoli sono maschere indossate per recitare una parte. La trappola: Viene rappresentata dall'indennità, dal ruolo sociale, dalla famiglia, dal matrimonio. Le istituzioni della famiglia e del lavoro vengono spesso identificate come una trappola. Probabilmente condizionato dalle esperienze personali, lo scrittore non si riferisce quasi mai ai rapporti sociali e familiari con un senso di fiducia. Nessun nido familiare, reale o immaginario, protegge (come avveniva in Pascoli). In tutta la sua opera narrativa e teatrale mostra un'insofferenza profonda verso i ruoli imposti dalla società. La follia: Prigioniero della famiglia (Mattia Pascal), di un lavoro meccanico (Serafino Gubbio), di un'immagine in cui non si riconosce più (Vitangelo Moscarda), di una società falsa e meschina (Enrico IV) o di una parte teatrale che non trova realizzazione (i Sei personaggi), l'uomo pirandelliano non si rassegna, ma cerca invano di evadere dalle angustie della “forma in cui il destino ha voluto calarlo”. L'unica soluzione è porsi fuori dagli schemi, ai margini della società, oppure oltre il confine della razionalità, là dove si può ancora percepire il fluire della corrente vitale. Il regredire all'infanzia oppure l'oltrepassare la soglia della "normalità" psicologica, rifugiandosi nell'immaginazione o nella pazzia, rappresentano le uniche possibili vie di fuga. La salvezza può giungere così da un "altrove" fantastico, immaginato, oppure dalla follia (Enrico IV). Il folle, adattandosi alla sua condizione sospesa di “forestiere della vita” (Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda), può così osservare dall'alto e dall'esterno l'esistenza insensata degli altri, estraniandosi. Considerato pazzo dalla gente comune, chiuso nel suo isolamento irraggiungibile, egli torna a immergersi nel flusso del vitalismo, ritrovando quell'istintiva dimensione del vivere che si è persa in mezzo alle convenzioni sociali e ai ruoli prestabiliti. La pluralità degli io nello stesso individuo: Nel pensiero comune il nome proprio rappresenta l'unicità dell'individuo: è il simbolo stesso della sua identità. Pirandello smonta questa convinzione ilusoria di coerente unitarietà dell'io e giunge alla frantumazione totale del soggetto. Nell'opera pirandelliana lo specchio è elemento centrale da cui spesso scaturisce la crisi dell'identità individuale: di fronte alla sua superficie "riflettente" è possibile “vedersi vivere”, cogliendo l'immagine che di noi appare all'esterno. L'uno diventa doppio (l’io è iso) e non si riconosce più, proprio per la difficoltà di far coincidere l'immagine mentale del proprio io con ciò che lo specchio restituisce. Influenzato dalle teorie dello psicologo francese Alfred Binet, Pirandello arriva a elaborare una sorta di teoria della coesistenza di opposte personalità, concepite non solo in progressivo mutamento attraverso fasi successive (oggi sono diverso da come ero ieri), ma esistenti anche nello stesso istante in una singola individualità. La costruzione di un ruolo si dissolve di fronte a ciò che gli altri pensano di noi. Annullandosi nella corrente del vitalismo, l'individuo può superare la solitudine di sapersi “nessuno”, cioè l'inquietante percezione della nullità del proprio essere in relazione al continuo fluire della vita. Ci si potrà allora riconoscere moltiplicati in ogni essere vivente del cosmo, fino a essere “centomila”. La civiltà moderna, la macchina e l’alienazione: Egli rifiuta la civiltà moderna, il cui luogo e simbolo è la città moderna. AI centro della civiltà moderna, a guidare la corsa senza fine al progresso, si erge la macchina. Prodotto della tecnologia che dovrebbe aiutare l'uomo, in realtà la macchina ha il carattere inquietante e minacciosa di un essere vampiresco e parassitario, che si ribella al suo creatore. infatti Pirandello insiste sull'analogia macchina-mostro, è un elemento di alienazione (come Quaderni di Serafino Gubbio operatore, rimane scioccato, tanto da non riuscire a reagire e rimane muto, reagisce solamente scrivendo i quaderni). “Il segreto di una bizzarra vecchietta” (umorismo) È un saggio, in cui è centrale è il passo della “vecchia imbellettata”, seguito da considerazioni più ‘ampie sulla funzione della riflessione e sull'identità plurima dei personaggi della vita reale e della letteratura. Esce per la prima volta nel 1908. Vi è una prima parte, quella storica che si riferisce a Pirandello che riassume il percorso dell’arte degli antichi —> arte storica, romantica e umoristica; questa suddivisione indica anche 3 modi d'essere, categorie sempre presenti che si possono trovare in momenti diversi. La seconda parte si dedica a definire che cosa sia l’arte umoristica — l’arte che presenta una discordanza tra soggetto e realtà, una frantumazione del soggetto. Vengono messi in evidenza i contrasti; l'umorismo è il “sentimento del contrasto”. In questa pagina troviamo la distinzione tra comicità (percezione del contrasto) e umorismo (sentimento del contrasto). L'opera d'arte, che rappresenta l’arte classica (soggetto-oggetto) o romantica (soggetto), viene creata dal libero movimento della vita interiore, che organizza idee e immagini che si corrispondono e che vengono coordinate dall'idea-madre; durante la sua concezione, la riflessione non resta inattiva; si tratta di un'immagine sempre armoniosa. Per l'umorismo non è così: nelle opere umoristiche, la riflessione non resta invisibile, non si nasconde, non è una “forma del sentimento”, non è uno specchio in cui si riflette, ma l'immagine viene scomposta; l'arte umoristica quindi coglie il “sentimento del contrario”, ovvero del contrasto. Troviamo quindi delle differenze tra la riflessione nell'opera d'arte classica e in quella umoristica. Poi l’artista descrive una vecchia signora con i capelli unti e tinti, vestita come una giovane. Guardandola può apparire comica e ridicola (“Mi metto a ridere”); si avverte il contrasto tra come si presenta (giovane) e come realmente è (triste e vecchia) — “Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signore dovrebbe essere”; quindi si tratta di un'impressione comica, ovvero un “avvertimento del contrario”. Ma se pensiamo al perché, con l'intervento della riflessione, scopriamo il risvolto doloroso della sua condizione (avvertire non è sentire): probabilmente a lei non piace vestirsi in quel modo, ma soffre e lo fa solo per piacere al marito, più giovane di lei. All’inizio non percepisco, poi rifletto e capisco, rendendomi conto del contrasto; a questo punto la situazione cambia, perché la riflessione mi fa andare oltre a quel primo avvertimento e mi fa provare compassione + “Ecco che io non posso più riderne come prima”. Dall'avvertimento del contrario (comico) si passa al sentimento del contrario (umoristico) + l’umorista è più sensibile. Il sentimento del contrario non cancella il riso, né annulla la prima impressione, ma la corregge. In un’opera d'arte, la riflessione è una “forma del sentimento”, come uno specchio in cui il sentimento si riflette. Nell'arte umoristica la riflessione è uno specchio, ma si tratta di uno specchio andato in frantumi, i cui frammenti non possono ricomporre l'immagine originale e che ci dicono che la realtà è multiforme; troviamo quindi la deformazione, lo specchio riflette come se si specchiasse nell'acqua gelata, perché il fuoco della vita scalda e scioglie e quindi deforma. La condizione del soggetto rappresentato nell'arte umoristica è sempre stonata + “fuori di chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso”; troviamo l’idea di polifonia — l’arte umoristica presenta più punti di vista (come il cubismo che presenta una figura di fronte e di lato). Il comico, l'ironico e il satirico sono distinti tra loro. Punto di vista comico + per ridere e basta; satirico + per indignarsi; umoristico — per mettere in evidenza gli aspetti dolorosi che si celano dietro. L'arte in genere “astrae e concentra”, cioè coglie e rappresenta individui e cose; per l'umorismo ciò semplifica la natura e rende troppo ragionevole o coerente la vita. L'arte non tiene conto delle cause vere che muovono gli uomini ad agire; secondo l'umorista le cause non sono mai logiche e ordinate come nelle opere d'arte. Dentro ognuno di noi troviamo più anime in lotta tra loro: istintiva, morale, affettiva, sociale. In ogni individuo ci sono più personalità, si mostrano in lotta elementi diversi. Un poeta epico o drammatico, per creare il suo eroe, prende degli elementi e compone il suo carattere in modo coerente. L'umorista fa il contrario: egli scompone il carattere nei suoi elementi; il personaggio è scisso (si scompone). Lui, il mondo, lo vede, se non nudo, in camicia. Gli scrittori di solito non si curano dei particolari, mentre gli umoristi ne fanno tesoro. L'arte umoristica mette in evidenza anche gli aspetti più impuri, le incongruenze e tutti i particolari più intimi e minuti (ad esempio la follia stessa della novella “il treno ha fischiato”). “Ciàula scopre la luna” È uno dei testi pirandelliani più noti delle Novelle per un anno. Lo sguardo del narratore si concentra su una vicenda della Sicilia rurale, prendendo come scenario quello di una cava di zolfo. La novella viene pubblicata per la prima volta nel 1907. In questa novella, Pirandello concentra la propria attenzione su Ciàula, un personaggio sfruttato e maltrattato, vittima di un ambiente sociale primitivo e ingiusto, dove chi è povero deve sottostare a un padrone che ha il «diritto» di trattarlo come una bestia. Se poi è anche «diverso» dagli altri, subisce quotidianamente soprusi e cattiverie persino dai suoi compagni di fatica. Ma è proprio la sua «diversità» a renderlo unico: un'innocenza assoluta che gli consente di provare la meraviglia senza limiti di un bambino davanti allo spettacolo della luna candida nel cielo notturno. Egli non l'aveva mai vista prima, perché usciva dalla miniera di zolfo, ubriaco di fatica, sempre a giorno fatto. Ma quando la Luna gli si rivela all'improvviso, bella come una dea, per lei non può che provare una dolcissima adorazione. L'ambiente richiama il clima veristico e troviamo anche delle somiglianze con la novella Rosso Malpelo di Verga. Il narratore non è “dentro” al mondo dei solfatari, ma si colloca all’estero di esso (narratore esterno), guardando dall’alt: essendo di una classe sociale diversa, riesce a proporre il proprio giudizio (mentre per Verga il narratore non ha il diritto di giudicare); il narratore ha bisogno di conservare la propria identità per poter intervenire; possiamo così osservare come, nel rendere un'esperienza irrazionale, Pirandello non rinunci alla mediazione della razionalità. Quella sera, i picconieri volevano smettere di lavorare senza aver finito di estrarre tutte le casse di zolfo, che sarebbero servite per il giorno dopo “a caricare la calcara”. Cacciagallina, il soprastante, si mise contro di loro, “davanti alla buca della Cace”, per impedire che uscissero, in modo da fargli finire il lavoro. Alla fine, con gomitate e spallate, uscirono tutti, tranne uno. Si tratta di Zi” Scarda, un pover'uomo, cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare il gradasso. Gli si scagliò contro, come un leone, e gli urlò in faccia, scrollandolo. Egli si lascia scrollare pacificamente, senza ribellarsi, in modo da poter far sfogare quel povero galantuomo. Infatti anche lui aveva qualcuno di può debole sul quale sfogarsi, ovvero Ciàula, il suo caruso. Gli altri si allontanavano giù per la strada che conduceva Comitini; ridevano e gridavano. Zi’ Scarda, con un sorriso d’indulgenza, fece una smorfia, come per burlarsi di Cacciagallina o della gioventù dei compagni, pieni di allegria. In realtà, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Si trattava di quel solito verso con cui si scaccia in bocca la lacrima che gli colava dall'occhio buono, la quale aveva un sapore di sale. Mentre lavorava, aveva sempre la bocca arida, e quella lacrima, per la sua bocca, era d'aiuto (“Era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè” — tabacco); era un gusto e un riposo. Quando sentiva che l'occhio era pieno di lacrime, posava per un attimo il piccone, riposandosi, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettare che la lacrima colasse giù. Le altre persone avevano il vizio del fumo o del vino, mentre lui aveva il vizio della sua lacrima. Questa descrizione può apparire come una rappresentazione comica e ridicola, ma in realtà è umoristica e dietro ad Mattia-Adriano si trasferisce prima a Milano, poi a Roma, prendendo una stanza in affitto nella casa di un bizzarro personaggio, Anselmo Paleari (filosofo dilettante). Qui trascorre le giornate fra le sottili disquisizioni del suo logorroico ospite e le attenzioni amichevoli della figlia di lui, Adriana (lei è come se fosse il suo alter ego). Ben presto comincia a sentire l'inconsistenza di questa assoluta libertà, il vuoto di una non-esistenza che lo condanna alla totale estraneità dal consesso umano. Innamoratosi della giovane Adriana, si rende conto che non potrà mai sposarla, perché si è auto costretto a vivere come un “forestiere della vita”: per la legge egli non esiste, se non come un nome (un «fu») sulla lapide del cimitero di Miragno, e così non può nemmeno denunciare un furto o accettare una sfida a duello, quando se ne presenta l'occasione. La vera identità di un individuo è quella che gli viene conferita dal lo stato civile: fuori dalla trappola della società c'è solo la solitudine. L'unico modo per uscire dai lacci di questa ragnatela è inscenare un secondo suicidio, quello di Adriano Meis: la morte appare di nuovo come l'occasione privilegiata per rientrare nella vita. Lasciato un biglietto sull'argine del Tevere, torna a Miragno, deciso a farsi riconoscere da tutto il paese e con il preciso intento di vendicarsi della moglie e della suocera, verso le quali nutre un forte risentimento. Ma una brutta sorpresa lo attende: la moglie Romilda si è risposata con Pomino, un suo vecchio amico d'infanzia, e ha avuto da lui una figlia. Mattia non è più nessuno: sebbene ancora vivo, è un escluso dalla vita, così, convintosi a non rivendicare il suo posto a fianco della moglie, “si acconcia a fare il morto” definitivamente. Si ritira nella sua biblioteca (prima premessa), dedicandosi alla stesura di una sorta di memoriale privato e recandosi di tanto in tanto al cimitero per deporre un fiore sulla propria tomba. A chi gli chiede notizie sulla sua identità risponde: “lo sono il fu Mattia Pascal”, un uomo che non esiste per la società, un nome vuoto. Troviamo gli elementi tipici del romanzo d'avanguardia/sperimentale: lo scardinamento dell'arco temporale (inizia dalla fine); la scissione del protagonista (Mattia-Adriano); il venir meno degli elementi del naturalismo causa-effetto (la natura non può rappresentare la realtà). I personaggi: La persona, secondo Pirandello (in generale, non solo questo romanzo), si definisce soltanto entro una trama di relazioni sociali e familiari che, se da una parte la costringono e ne ostacolano la libertà, dall'altra le conferiscono un'identità. Mattia, nella sua vicenda, perde per 2 volte la propria identità personale, perché per 2 volte recide i vincoli che lo legano al contesto sociale. Dopo essere diventato inesistente come persona, egli rinasce come personaggio, nello spazio e nel tempo che la letteratura offre in sostituzione della vita. Questa trasformazione avviene prima che il romanzo cominci; quando inizia l'atto della scrittura,la metamorfosi è già compiuta: la sua vita si è trasformata in letteratura. Il fatto che Mattia cominci a narrare la sua vicenda quando è diventato un “fu”, e non prima, è significativo: la scrittura, simboleggiata metaforicamente dall'occhio strabico del personaggio, è per Pirandello l'atto di straniamento per eccellenza. Se la persona è protagonista della vita, regno della verità e del realismo, il personaggio lo è della letteratura, luogo di finzione e illusioni. La trama del romanzo non costituisce nulla di assurdo e artificioso. Come l'autore stesso spiega nell'Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, rispondendo all'accusa di aver costruito una vicenda "inverosimile" e ai limiti dell'assurdo, il confine tra realtà e finzione è labile, poiché la vita è in sé stessa casuale e imprevedibile e nella sua paradossalità, supera i prodotti della fantasia. Nell'opera, un peso fondamentale ha il rapporto fra il nome e i personaggi. Il protagonista non vuole abbandonare il suo nome, nemmeno se accompagnato da quel “fu”: egli non vuole rinunciare a un'identità. Neanche la morte può cancellare ciò che si è stati, perché il nome ricevuto alla nascita e riconosciuto dalla società cui si appartiene continua a esistere. Nel romanzo il cambiamento del nome non consente al protagonista di acquistare davvero una nuova identità; l'etichetta nominale che assegna a ciascuno il proprio ruolo non può essere modificata; l'unico modo di negarla sarebbe cancellarla del tutto, senza essere più nessuno, perché dietro le false spoglie di un'identità alternativa c'è in realtà un'altra “trappola”. Entrambe le identità del protagonista nascondono una rete di allusioni a personaggi storici tese a esprimerne le rispettive caratteristiche e aspirazioni. Il cognome Pascal, scelto con allusione all'attitudine raziocinante del personaggio, rievoca il filosofo e matematico francese Blaise Pascal, autore dei Pensieri, ma è anche un riferimento a uno scrittore meno conosciuto: il teosofo Théophile Pascal, di cui nel romanzo viene citata un'opera (Les sept principes de l'homme), e la teosofia. Il nome Mattia significa matto", come alla fine del romanzo confermerà il fratello del protagonista. Mattia Pascal può essere definito con una dittologia: matto e filosofo. L'identità costruita a tavolino per la forzata rinascita del protagonista, quella di Adriano Meis, deve invece il cognome a un filosofo positivista, Camillo De Meis, citato nel romanzo da alcuni compagni di viaggio sul treno verso Torino, e il nome all'imperatore romano vissuto nel Il secolo d.C. LTEMI Lo smarrimento dell’identità: Nella vicenda di Mattia Pascal si manifesta il dissidio irrisolvibile tra vita e forma. Mattia vorrebbe un'esistenza alternativa alla meschinità della famiglia, all'anonimato del lavoro, alla grettezza del suo ambiente, ma è condannato al fallimento. Alla fine di tutto, egli si troverà in una condizione addirittura peggiore di quella iniziale, avendo perso i legami affettivi e sociali senza aver guadagnato nulla in cambio. Il tentativo di Mattia Pascal è un azzardo, una scommessa perduta, il cui risultato sarà l'esclusione dalla vita e un'emarginazione non desiderata. Questo maldestro tentativo di mascherarsi viene presentato in un'ottica umoristica: all'inizio, si è portati a vedere gli aspetti più comici; a poco a poco, subentra la riflessione sul significato che essi hanno in relazione alla condizione esistenziale del protagonista, sempre più solo e smarrito, tanto che la pietà diviene il sentimento dominante nel lettore. La famiglia e il matrimonio sono visti come una trappola. Mattia è un inetto e un escluso. La morte e il doppio: La vita doppia di Mattia Pascal è resa possibile dalla cesura della morte, anch'essa "raddoppiata" nella trama del romanzo, strumento liberatorio per eccellenza che permette di entrare e uscire dalle identità, abbandonando la scena senza preavviso e troncando ogni legame con il passato. Il tema del doppio, allucinazione di un uomo diventato un'ombra d'uomo, lega Pirandello alla letteratura europea dell'800 (Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson o Il ritratto di Dorian Gray di Wilde). Nella vicenda compaiono diversi possibili alter ego del protagonista: un uomo di mezza età che si suicida a Montecarlo, davanti al casinò, anticipando la presunta morte di Mattia; Anselmo Paleari, teosofo ed esperto di spiritismo, voce filosofica del romanzo con la quale l'autore sembra spesso identificarsi; Adriana Paleari, omonima del protagonista nella sua seconda identità (Adriano Meis). Mattia sembra entrare e uscire da questi personaggi: vorrebbe essere un filosofo distaccato dalla vita e dalle passioni, ma non ci riesce; vorrebbe l'ingenua fede religiosa di Adriana, ma usa l'acquasantiera che è appesa sopra il suo comodino come posacenere; pensa al suicidio, ma non lo mette davvero in atto, limitandosi a inscenarlo. La modernità: Una dopo l'altra cadono le convenzioni della narrativa naturalistica: l'eroe positivo diventa un uomo tormentato dai dubbi, e il personaggio coerente con sé stesso si frantuma assumendo mille sfaccettature diverse. La sensazione del protagonista di non essere mai al posto giusto (“fuori di chiave”), lo sguardo distaccato con cui contempla il mondo, la sua incoerenza sono tutti atteggiamenti tipici dell'eroe moderno, cioè dell'antieroe incline all'insoddisfazione, allo smarrimento, alla solitudine. Egli percepisce la piccolezza di questo mondo e degli esseri insignificanti che lo popolano; ha coscienza della propria fragilità, ma è costretto a rinunciare a ogni illusione consolatoria e a ogni maschera: scoperta la nuova situazione familiare della moglie, rifiuta di farsi riconoscere, scegliendo di fissare la propria esistenza nel momento in cui l'ha perduta e diventando per sempre il “fu Mattia Pascal”. Lo spiritismo: Pirandello si era avvicinato alla teosofia, dottrina diffusa tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, secondo la quale tutte le religioni del mondo conservano residui di un’antica verità divina conosciuta nelle varie epoche da un ristretto numero di persone; secondo questa dottrina, tutto l'esistente procede dall’Uno, concepito come supercoscienza, verso il quale l'uomo tende a tornare, dopo aver attraversato, in un processo di continuo perfezionamento, molte esistenze. LE TECNICHE NARRATIVE: La narrazione inizia a vicenda conclusa, con un flash back la cui funzione è giustificata dal narratore nelle 2 Premesse. La struttura circolare consente al lettore di identificare senza difficoltà una trama dai contorni precisi, filtrata dalla voce narrante; inizia in una libreria polverosa e finisce in un cimitero polveroso. A essa si sovrappone un gioco di corrispondenze incrociate: all'iniziale falsa morte di Mattia segue, la nascita del personaggio nessuno Adriano, mentre in chiusura il finto suicidio di Adriano Meis prelude alla rinascita di Mattia Pascal (che non avverrà). Da un vero suicidio, si passa a un falso suicidio attivamente organizzato. La narrazione assume profondità e prospettiva grazie alle interferenze tra le voci narranti (ci sono 2 “io”): l'io narrante (il Mattia che si chiude in biblioteca per stendere le sue memorie) si sovrappone all'io-attore (il personaggio che vive dall'interno i fatti accaduti, a sua volta scisso nelle 2 identità di Mattia e Adriano). A questi si aggiunge la presenza della voce dell'autore, espressa da alcuni personaggi (in particolare dal "filosofo" Anselmo Paleari). Anche se tutta la narrazione è condotta in prima persona, il romanzo non ha l'aspetto di un memoriale scritto a vicenda conclusa, in cui chi racconta sa tutto dei fatti e, guardandoli dall'esterno, li giudica come un narratore onnisciente. L'autore utilizza una focalizzazione interna, mostra cioè le cose così come le vede Mattia-attore nel loro svolgersi, e raramente con la consapevolezza del Mattia-narratore. La soggettività del punto di vista conferisce alla narrazione un carattere instabile e mutevole: nessuno può stabilire la veridicità del racconto; non ci sono testimoni né narratori esterni onniscienti, ma soltanto il filtro della memoria di Mattia Pascal. A complicare l’inattendibilità della vicenda si aggiunge il sistema delle Premesse, sorta di prefazioni metanarrative che inquadrano la materia entro una cornice straniante: avvertendo il lettore che l'ordine con cui verranno presentati i fatti è arbitrario, il narratore confessa di aver manipolato la verità a suo piacimento; il risultato è un'interpretazione soggettiva che contribuisce a restituire il senso della relatività del reale. A risultare inaffidabile è lo stesso autore. Pirandello pare giocare con gli elementi tradizionali del romanzo naturalistico, ammettendo di scrivere per distrazione, per rifugiarsi in quel mondo lusioni, sogi certezze che il Positivismo aveva escluso dalla letteratura. “Maledetto fu Copernico!” Si tratta della Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa, che rappresenta la giustificazione teorica, o la scusa, che insinua perplessità e dubbi sul senso della letteratura. Secondo lui, dopo Copernico non è più possibile scrivere opere che rappresentino la realtà, perché dopo Copemico è nata la relatività. La seconda premessa del romanzo segue i principi del codice umoristico, a partire dal titolo, dove il ricorso alle parentesi, ridimensionando il riferimento alla filosofia, suona autoironico, ma allo stesso tempo suggerisce il valore metaforico dell'opera. Con l'espediente delle parentesi l'autore sottrae il capitolo alla severità del pensiero accademico. Dietro i toni leggeri, emerge l'esigenza di riflettere sull'atto stesso della scrittura e dell'arte. Il dialogo tra Mattia e don Eligio è costituito da brevi battute che si accavallano. Lo stile è incerto e smarrito. L'idea di Mattia Pascal di scrivere il suo memoriale è nata grazie al suo amico don Eligio Pellegrinotto, che è il custode dei libri della biblioteca Boccamazza del comune di Miragno. Egli ha intenzione di affidare a lui il suo manoscritto quando sarà finito. La chiesa sconsacrata adibita a biblioteca, piena di polvere e di topi, è lo scenario d'apertura del romanzo (cui fa da contraltare, in chiusura, quello del cimitero). Mattia sta scrivendo al lume di una lanterna; don Eligio invece sbuffa mentre mette in ordine i libri. Si pensava che i libri fossero tutti di materie religiose, ma in realtà trattano di temi vari. La confusione e la promiscuità di libri di cui nessuno conosce il contenuto è la prima metafora. Ricordando una biblioteca di Agrigento che aveva frequentato da giovane, Pirandello costruisce un'immagine di desolante trascuratezza, nella quale trova modo di introdurre il tema del doppio. Tra le pile di libri accatastate, un volume di ars amatoria si trova per caso attaccato a una Vita e morte di un beato. | 2 libri si rivelano “specularmente sdoppiati tra cielo e inferno, sublime e comico, come le vie dell'umorismo, capricciose, illogiche”. L'immagine affronta uno dei problemi fondamentali del razionalismo occidentale: il superamento dialettico dei contrari. La dualità appare come una fusione, una compenetrazione analoga alla coincidentia oppositorum ("coincidenza degli opposti") dei mistici. Secondo don Eligio, Mattia dovrebbe scrivere sul modello di quei libri che ci sono nella biblioteca; ma Mattia non è d'accordo. Dietro l’esclamazione di Mattia (“io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!”) vi è un rimpianto per la grandezza epica del mondo del
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