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Italo Svevo come scrittore atipico; valore catartico della scrittura; Una Vita e Senilità, Dispense di Italiano

Italo Svevo come scrittore atipico e "inetto"; il valore catartico e conoscitivo che attribuisce alla scrittura; la figura dell'inetto nella sua vita e nei suoi romanzi; "Una Vita" e "Senilità"

Tipologia: Dispense

2023/2024

In vendita dal 01/07/2024

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Scarica Italo Svevo come scrittore atipico; valore catartico della scrittura; Una Vita e Senilità e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! ITALO SVEVO: UNO SCRITTORE ATIPICO Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schimitz, fu uno scrittore atipico, sia per la sua formazione sia per il suo approccio stesso alla scrittura. Egli non ebbe una formazione umanistica, ma commerciale: la sua famiglia, appartenente alla borghesia mercantile triestina, era sorda alla sensibilità letteraria e, mossa unicamente dalla logica del guadagno, propria della mentalità arrivista borghese, ostacolò le ispirazioni e velleità letterarie del figlio, considerando la scrittura un’attività da perditempo. I genitori, dunque, lo iscrissero in un istituto commerciale, costringendolo a vivere la propria passione nel silenzio e con vergogna, come un vizio. Gli fu, inoltre, negata dal padre anche la possibilità di trasferirsi a Firenze per perfezionare il proprio italiano, che Ettore apprese da autodidatta, grazie alle proprie letture segrete: sapeva, infatti, parlare solo il dialetto triestino e il tedesco, studiato a scuola. Questa è una delle ragioni dell’iniziale insuccesso dei suoi romanzi, caratterizzati da un linguaggio narrativo incolore e generico o ragionieristico: una lingua artificiale che sembrava frutto di una traduzione o costruita a tavolino. Lo stesso Svevo, nell’ultimo capitolo di La coscienza di Zeno, sottolinea la difficoltà dei triestini nello scrivere in italiano rivelando che parte di quanto annotato da Zeno delle proprie vicende biografiche è in realtà una menzogna in quanto egli ha potuto raccontare soltanto ciò che era in grado di esprimere in italiano. Il successo di Svevo è dovuto, infatti, più che alla forma, al contenuto della sua opera, un originale riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo, frutto di una prospettiva culturale più diversificata e ampia rispetto a quella degli scrittori italiani a lui contemporanei e che egli volle ricordare nello pseudonimo con cui firmava i propri romanzi, Italo Svevo, nome che salda insieme le due culture di cui si sentiva figlio, quella italiana e quella austriaca. Trieste, infatti, città in cui nacque e crebbe, era una città multietnica: politicamente appartenente sino alla fine della Prima guerra mondiale all’impero austro- ungarico, era un crocevia di scambi internazionali, meta di continue ondate migratorie che la resero centro di un vivace dialogo culturale e artistico. In quegli anni si potevano incontrare tra le strade triestine autori internazionali del calibro di James Joyce e Umberto Saba, critici letterari quali Bobi Bazlen e filosofi come Sigmund Freud. LA FUNZIONE CONOSCITIVA E CATARTICA DELLA SCRITTURA: “fuori della penna non c’è salvezza” Dopo il silenzio che accompagnò i suoi primi due romanzi, Una Vita e Senilità, egli si propose di rinunciare alla scrittura, definendola “ridicola e dannosa”. Eppure, non la abbandonò mai del tutto, anche se relegandola alla clandestinità, poiché, in realtà, per lui “ridicola e dannosa” era l’esistenza senza di essa: come scrisse in un diario, “fuori della penna non c’è salvezza”. Soltanto scrivendo, secondo Svevo, si può prendere coscienza di sé e della vita, che, infatti, normalmente scorre dinanzi all’uomo in modo inintelligibile in quanto egli, nel presente, manca della distanza necessaria per scioglierne i dettagli e intuirne la logica. Per conoscersi, dunque, la vita va “letteraturizzata” in modo così da “portar a galla dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un qualche cosa che sia o non sia il puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più”. (p.138) Se per D’Annunzio la letteratura era orientata all’esibizione, alla retorica, era un “acrostico indolente”, per Svevo non è arte, ma analisi, una radiografia della condizione umana, tanto che, nello stesso diario, egli scrive “io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente”, ossia scrivere senza prestate attenzione alla forma. (CONFRONTO CON D’ANNUNZIO) La funzione conoscitiva che per Svevo assurge la letteratura, in grado di scandagliare in profondo l’animo umano, facendone emergere quelle passioni e quelle pulsioni che la memoria deforma o “fossilizza”, è emblematizzata in La coscienza di Zeno, la storia di un uomo che scrive la propria autobiografia su indicazione del suo psicanalista per far emergere le cause delle sue numerose nevrosi. UNA VITA (1892) Alfonso Nitti, giunto a Trieste dalla campagna e con alle spalle una formazione umanistica, stenta a adattarsi all’alienante lavoro in banca e al modo di fare dei colleghi. Sua unica consolazione è lo studio cui si dedica la sera, frequentando la biblioteca. Conosce la figlia del principale, Annetta, corteggiata dal brillante cugino Macario, e, con la scusa di scrivere un romanzo insieme, comincia a frequentarla. Tra i due nasce un’attrazione e lei infine gli si concede. Vittima delle sue incertezze, Alfonso inizia a tergiversare e alla fine si allontana da Trieste con la scusa di dover assistere la madre malata; al ritorno trova Annetta fidanzata con Macario e, sul lavoro, si vede relegato a un incarico umiliante. Le sue proteste provocano una sfida a duello contro il fratello di Annetta, cui Alfonso si sottrae con il suicidio. L’INSUCCESSO DELLA STORIA DI UN “ANTIEROE” Svevo pubblicò il romanzo a proprie spese dopo il rifiuto dell’editore Treves, che aveva intuito l’insuccesso: il protagonista, figura di antieroe assolutamente incapace di cogliere le occasioni per affermarsi (Un inetto era il titolo iniziale), non poteva incontrare i gusti del pubblico del tempo. L’eroe romantico era figura affascinante anche e soprattutto nella sconfitta, che sapeva affrontare con coraggio e grandezza. Se in Jacopo Ortis il suicidio è l’estremo titanico
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