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Italo Svevo Italiano, Appunti di Italiano

Vita Italo Svevo e le sue opere

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 14/04/2021

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antonio-scarfo-1 🇮🇹

4.8

(8)

12 documenti

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Scarica Italo Svevo Italiano e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Italo svevo Il vero nome di italo svevo è Ector Schmitz, e decide di cambiare nome in onore delle sue due patrie: l’Italia e la Germania . Nasce a Trieste nel 1861 , quando era ancora austriaca : una città di confine multietnica . tutte le imprese e le banche tendevano a trasferirsi lì , per questo la città assume un carattere AFFARISTA : per indole, i cittadini erano dediti all’ accumulo di guadagno . il padre aveva una fabbrica di vetro: manda i figli a studiare in Germania per far imparare loro le tecniche del mestiere . tornato a Trieste, egli vorrebbe trasferirsi a Firenze per migliorare la propria conoscenza della lingua italiana , ma il padre lo farà iscrivere , contro la sua volontà, ad un istituto commerciale, ma Italo non rinuncerà alla passione di scrittore. Quando la fabbrica del padre fallisce , per aiutare la famiglia , Svevo si impegna in banca. Sin da ragazzino era attratto dalle opere letterarie , ma non sapeva esprimersi a causa dello schermo della famiglia . è autodidatta come Verga , ma più raffinato di quest’ultimo . I primi scritti pubblicati non hanno molto successo, quindi continua a scrivere per 25 anni senza pubblicare. Pubblica poi le proprie opere a sue spese: una vita , senilità e la coscienza di zeno, che non risentono successo in quanto molto innovativi. Incontra e sposa una donna ricchissima di cognome Veneziani , dopodichè diverrà manager dell’azienda di famiglia , deve imparare l’inglese e si affida a James Joyce . Conosce personalmente Freud in quanto il cognato soffre di nevrosi , ma le sue condizioni peggiorano anziché migliorare e per questo Svevo non crede nella psicoanalisi . Una vita Viene pubblicata nel 1892 con il titolo “ un’inetto ”. Il romanzo racconta la storia di Alfonso Nitti, un modestissimo impiegato di banca originario di un paesino e lavoratore a Trieste. È goffo,inpacciato,sbaglia spesso e viene ignorato dai colleghi. È costretto a trascorrere le sue giornate in biblioteca o nella propria casa. Non può vivere nella propria società , vive una vita senza colori,grigia. L’occasione per cammbiare la propria vita arriva quando il direttore della banca lo invita a frequentare il salotto della figlia,Annetta,circondata ad ammiratori. Avendo ambizioni in campo letterario,la ragazza chiede ad Alfonso di aiutarla nella stesura del romanzo. Lui se ne innamora ,ma quando arriva la possibilità di sposarla,lui,per sottrarsi alla responsabilità torna dalla madre ammalata. Tornato in città,isolato da tutti, viene a sapere che Annetta sta con u altro. Così si suicida avvelenandosi con del gas. L’ inetto sveviano nasce con impulsi per vivere,ma non ha la forza di raggiungere i propri obiettivi, e vive con questo contrasto. Svevo utilizza il discorso indiretto liber e c’è uno scarso approfondimento psicologico degli altri personaggi . Alfonso Nitti rappresenta una nuova tipologia di “vinto” . Il suo fallimento non si può attribuire a ragioni sociali o estreme, ma al suo modo di essere. È uno sconfitto in partenza. Continua fotocopie Filosofia Kant e il Criticismo Biografia Immanuel Kant nacque nel 1724 a Königsberg, capoluogo della Prussia orientale, da una famiglia scozzese. Educato nel Collegium Fridericianum al pietismo, nel 1740 studia matematica, filosofia e teologia all’Università di Königsberg. Si avvicinò alla fisica newtoniana grazie a Martin Knutzen, suo insegnante. Terminati gli studi fu precettore presso case patrizie. Nel 1755 ottenne la libera docenza presso l’Università di Königsberg dove insegnò varie discipline per quindici anni. Nel 1766 divenne sottobibliotecario alla Biblioteca Reale, e nel 1770 fu nominato professore ordinario di logica e metafisica. Criticismo Il pensiero di Kant è detto criticismo: contrapponendosi al dogmatismo, accettazione passiva, si propone di vagliare la conoscenza tramite la critica filosofica. Si propone infatti di interrogarsi circa l’esperienza umana per chiarirne: la possibilità, la validità ed i limiti. In particolare su quest’ultimi riflette Kant, stabilendo un confine invalicabile entro il quale è possibile indagare e fare esperienza, ed è nei limiti che trovano fondamento e legittimità le facoltà umane: l’impossibilità di trascendere l’esperienza permette la Critica alla ragion pura, l’impossibilità di raggiungere la santità, la Critica alla ragion pratica, e l’impossibilità di subordinare la natura all’uomo, la Critica del giudizio. Il criticismo può essere storicamente contestualizzato come figlio della rivoluzione scientifica e della crisi progressiva delle metafisiche tradizionali. Kant si trovava in questo modo davanti il grande problema di legittimare l’etica, tradizionalmente fondata sulla metafisica. Critica della Ragion Pura Il problema generale La Critica della ragion pura è un’analisi critica dei fondamenti del sapere, che si propone di indagare circa la scienza e la metafisica. Ai tempi di Kant la metafisica aveva perso il ruolo importante che aveva un tempo, penalizzata dalle continue dispute tra i pensatori ed in qualche modo offuscata dai successi della scienza. Anche quest’ultima però aveva minati i suoi fondamenti dalla filosofia di Hume, che ne criticò il principio di causalità, risvegliando così Kant a suo dire dal sonno dogmatico e spingendolo ad una ricerca di una nuova legittimazione della scienza. Kant era dunque convinto della necessità di un riesame della struttura e della validità della conoscenza. Il filosofo rifiuta lo scetticismo scientifico di Hume, e si limita a condividerne quello riguardo la metafisica, di cui si dichiara un innamorato deluso, poiché nonostante la disposizione naturale che spinge l’uomo ad indagarla non si potrà mai verificarla. I giudizi sintetici a priori Nel corso del seicento si erano distinte due correnti filosofiche che indagavano riguardo la scienza e con cui Kant è costretto a confrontarsi: da un lato i razionalisti, che proponevano di fondare la conoscenza su giudizi1 analitici a priori, che Hume identificava nelle proposizioni matematiche, universali e necessarie (a priori), il cui predicato, non ricorrendo all’esperienza, esplicita una caratteristica già contenuta nel soggetto (predicati esplicativi, non fecondi/sintetici ma analitici); dall’altro gli empiristi, che fondavano la conoscenza su giudizi 1 Per giudizio si intende, da un punto di vista logico- filosofico, il connettere un predicato con un soggetto. sintetici a posteriori, basandosi sull’esperienza (a posteriori) riescono ad aggiungere con il loro predicato qualcosa di nuovo al soggetto (predicati ampliativi, fecondi e cioè sintetici) ma mancano dell’universalità. La Scienza, pur derivando in parte dall’esperienza, si fonda su principi universali e immutabili, che sono uguali in tutti gli uomini (per esempio la proposizione “Tutto ciò che accade ha una causa”). Kant li chiama giudizi sintetici a priori, poiché non derivano dall’esperienza ma sono propri della mente di ogni uomo (a priori), ma nonostante ciò sono ampliativi (sintetici). Superando le interpretazioni precedenti Kant identifica una scienza fondata sia sull’esperienza, che le garantisce la fecondità della materia, che sui giudizi sintetici a priori, fecondi nella forma e universali e necessari.  Scienza = esperienza + principi sintetici a priori L’accusa che viene rivolto a Hume, nella visione kantiana, è quella di aver confuso i giudizi sintetici derivati dall’esperienza ed il principio di causalità, che è un giudizio sintetico a priori, e che è un concetto innato nell’uomo ed universalmente valido. La Rivoluzione Copernicana Individuati i giudizi sintetici a priori come di fatto fondanti la scienza, a Kant spetta di spiegare da dove derivano se non dall’esperienza. Ovvero di dimostrare se il quid facti del loro uso sia positivo, è l’oggetto di un’intuizione non sensibile, conoscenza a noi preclusa e possibile solo ad un ipotetico intelletto divino dotato di un’intuizione intellettuale, ovvero un intuito che coincide con la creazione delle cose stesse.  In senso negativo è il concetto di una cosa in sé come di una x inconoscibile, che non potrà mai essere oggetto della nostra intuizione sensibile. La dialettica trascendentale Se nell’Estetica e nell’Analitica Kant porta a termine la dimostrazione di come sia possibile il sapere scientifico, la sua ricerca non può che proseguire chiedendosi se la metafisica possa costituirsi come scienza nella Dialettica trascendentale. Kant ritiene che la metafisica sia frutto della ragione, a sua volta frutto dell’intelletto, la facoltà logica di unificare i dati sensibili tramite le categorie: così resta portato all’unificazione dei dati anche quando questi mancano dall’esperienza. In particolare la metafisica è frutto di tre idee trascendentali proprie della ragione, che è portata per costituzione ad unificare:  I dati del senso interno mediante l’idea di anima, totalità assoluta dei fenomeni interni;  I dati del senso esterno mediante l’idea di mondo, inteso come totalità assoluta dei fenomeni esterni;  I dati interni ed esterni mediante l’idea di Dio, inteso come totalità di ogni totalità e fondamento di tutto ciò che esiste. L’errore della metafisica, conclude Kant, è quello di trasformare in realtà queste tre esigenze della ragione. Critica della ragion pratica La ragione serve a dirigere - per Kant - non solo la conoscenza ma anche l’azione, egli pone accanto alla ragione teoretica anche una ragione pratica. Il filosofo distingue quest’ultima in una ragion pura pratica, che opera indipendentemente dall’esperienza e dalla sensibilità, e una ragion empirica pratica, che opera basandosi sull’esperienza e sulla sensibilità. La ragion pura pratica corrisponde alla morale, ed è su questa che si propone di indagare la Critica della ragion pratica. Non è quindi una critica della ragion pura pratica, poiché nella sua parte pura (cioè universale e a priori) non necessita di essere sottoposta ad esame, mentre nella sua parte pratica, legata all’esperienza, può darsi delle massime, delle forme di azioni, e perciò potrebbe essere immorali. Morale La Critica della ragion pratica si basa sulla tesi che esista una legge morale a priori, valida per tutti e per sempre, propria dell’uomo. Similmente a quanto avveniva per le conoscenze scientifiche a priori della Critica alla ragion pura, nella seconda critica Kant è convinto dell’esistenza di una legge etica assoluta, ed il compito del filosofo non è dedurla, né inventarla, ma semplicemente constatarla. Dunque non ha dubbi che esista una legge morale assoluta o incondizionata, presupponendo una ragion pratica pura (a priori), comune a tutti gli uomini, capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile. L’assolutezza e l’incondizionatezza della morale implica due convinzioni di fondo strettamente connesse tra loro: la libertà dell’agire, essendo la morale incondizionata dall’esterno lascia all’uomo la facoltà di autodeterminarsi oltre l’istinto; ed essendo indipendente da condizionamenti esterni è sempre uguale a se stessa in ogni tempo ed ogni luogo, ed è dunque universale e necessaria. Nonostante la morale sia slegata dall’istinto, non può tuttavia prescinderlo: può infatti decondizionarsi da esso tramite la ragione, pur rimanendo sempre inesorabilmente legata alla sensibilità (animalità e impulso). Se infatti l’uomo fosse ragione pura sarebbe in uno stato di santità etica, di perfetta adeguazione alla legge, in cui la morale non avrebbe senso di esistere. È in questo che si concretizza l’agire morale, in una lotta continua tra ragione ed egoismo (impulsi sensibili), non esistendo tra legge morale e volontà una spontanea coincidenza, è necessario che la prima si presenti come imperativo, ovvero un comando che richieda il sacrificio delle proprie inclinazioni sensibili, e che l’uomo, per la sua natura imperfetta, potrebbe anche trasgredire. Principi Kant nello scrivere la Critica non mette in discussione, consapevole della finitezza umana, la forza condizionante che de facto i desideri e gli impulsi (istintuali) esercitano sulla volontà, ma avendo essi un carattere soggettivo e mutevole non possono fondare la morale, che deve essere invece universale. L’etica kantiana si configura non come descrittiva, non spiega infatti come l’uomo si comporta, ma prescrittiva e deontologica, ponendo attenzione su come l’uomo dovrebbe comportarsi. Inoltre non riguarda la materia, ovvero un oggetto desiderato, ma la forma, ovvero qualcosa degno di essere desiderato, e quindi morale, indipendentemente dalla verificabilità empirica. I principi pratici, le regole che disciplinano la nostra volontà, sono distinti da Kant in massime, prescrizioni di valore puramente soggettivo, ed imperativi, prescrizioni di valore oggettivo, valide per chiunque. A loro volta gli imperativi sono divisi in:  Ipotetici, prescrivono come fare per raggiungere determinati fini, nella forma del se … devi … a loro volta suddivisi in regole dell’abilità, norme tecniche per raggiungere uno scopo, e consigli della prudenza, mezzi per ottenere benessere e felicità.  Categorici, che ordinano in modo incondizionato il dovere, a prescindere dallo scopo, nella forma del devi. Imperativi categorici Per Kant la legge morale non può essere contingente, ovvero legata ad impulsi sensibili soggettivi (massime) o circostanze mutevoli (i. ipotetici): l’unica forma che può assumere è dunque quella dell’imperativo categorico, che si imponga indipendentemente dalla persona cui si rivolge, dall’obbiettivo che si prefigge e dalla circostanza in cui si agisce. La legge deve essere un comando con valore perentorio per ogni persona ed in tutte le circostanze. Posto che la legge debba avere per forma l’imperativo categorico, universale ed incondizionato, Kant spiega quale deve essere il suo contenuto: l’agire in modo tale che la massima, la prescrizione soggettiva, che muove l’azione sia universalizzabile, ovvero possa essere resa oggettiva, generalizzata e valida per tutti. Ogni azione dovrebbe essere in qualche modo sottoposta ad un “test della generalizzabilità”. I. “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale” (Critica della ragion pratica, A 54) A questa formula, contenuta nella Critica della ragion pratica, Kant aggiunge nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785) una seconda ed una terza formula: II. “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo.” (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67) III. “La volontà in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.” (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 76) La seconda formula intima di rispettare la dignità propria e degli altri, invitando a non ridurre nessuno come mezzo del proprio egoismo o per soddisfare le proprie passioni. Con fine si intende la caratteristica della persona umana di essere scopo a se stessa, ovvero di essere soggetto e non oggetto. La terza formula infine, che ripete in parte la prima, sottolinea l’autonomia della volontà che è essa stessa, spontaneamente, a produrre il comando morale, non frutto di qualcosa di esterno e schiavizzante, o di altri scopi diversi dal bene per il bene: non sarebbe pienamente morale cioè compiere il bene perché ciò mi rende felice o mi fa sentire buono. La formalità e il dovere Peculiare caratteristica dell’etica kantiana è che la legge morale non spiega cosa bisogna fare, ma come, supera cioè l’etica della materia e propone una forma, universale, entro la quale dovrebbero essere svolti tutti i comportamenti dai soggetti stessi: è il formalismo. L’imperativo categorico viene quindi proposto come motore su cui fondare ogni norma morale. Taluni hanno identificato nell’imperativo categorico una potenziale contraddizione nel sistema etico di Kant: sembrerebbe che il ragionare sulle conseguenze di un’azione – sottoponendola al test della generalizzabilità – significherebbe in qualche modo giudicarla secondo criteri utilitaristici. In realtà il “test” è solo di tipo logicoformale, e non si propone di giudicare le conseguenze quanto la razionalità della massima generalizzata. Nel suo sistema Kant impone di eliminare da ogni azione le emozioni ed i sentimenti ed ogni fine che non sia il dovere (Pflicht, necessità di un’azione nel rispetto della legge) stesso: è il rigorismo del dovere-per-ildovere. Da questo ragionamento viene escluso ogni altro obiettivo che spingerebbe a compiere un’azione (felicità, utile, Dio, ecc.) ponendosi in un’ottica materiale e finalistica. I postulati pratici Nella Dialettica della ragion pura pratica Kant prende in considerazione l’assoluto morale (o sommo bene). La felicità, premette Kant, non può erigersi ad obbiettivo del dovere, perché in tal caso comprometterebbe l’incondizionatezza della legge etica; ma la virtù, l’intenzione morale in lotta (il dovere), che pure è l’obbiettivo del dovere e costituisce il bene supremo, non appaga l’essere umano (per esempio nell’aspirazione alla felicità), che tende invece ad un bene più grande, il sommo bene. Questo, cui appunto la natura umana tende irresistibilmente, è l’unione di virtù + felicità. Non si pensi che Kant, introducendo il concetto di sommo bene, abbia spostato l’obbiettivo della morale, il bene supremo, piuttosto si limita a constatare un bisogno dell’uomo che, pur agendo virtuosamente, non può reprimere in lui il bisogno della felicità. In questo mondo tuttavia la virtù e la felicità non possono mai essere congiunti, essendo gli sforzi per raggiungerle opposti, e costituiscono l’antinomia etica per eccellenza. Gli antichi, nota Kant, avevano tentato di scioglierla proponendo la felicità nella virtù (gli Stoici) o la virtù nella felicità (gli Epicurei). L’unico modo per uscirne fuori, conclude Kant, è di postulare l’esistenza di un mondo dell’aldilà, dove sia possibile far coincidere la virtù con la felicità. Kant nell’usare il termine postulato si rifà alla matematica classica: i postulati, distinti dagli assiomi che sono le verità auto-fondate poiché evidenti, sono principi indimostrabili necessari per rendere possibili determinate entità o verità geometriche. Così i postulati della ragion pura pratica kantiani sono proposizioni non dimostrabili che permettono l’esistenza e la possibilità della legge morale, non sono dunque dogmi ma presupposizioni necessarie nella pratica. I postulati di Kant sono:  l’immortalità dell’anima; poiché solo la santità permette il sommo bene, ed essa non è realizzabile in questo mondo si deve postulare un tempo infinito che renda possibile all’uomo di progredire all’infinito verso la santità;  l’esistenza di Dio, una volontà santa e onnipotente, che renda possibile la corrispondenza tra felicità e virtù, ovvero il raggiungimento del sommo bene;  la libertà, che è condizione stessa dell’etica nel momento in cui, prescrivendo il dovere, si deve necessariamente ammettere la possibilità di agire o meno in conformità ad esso (devi dunque puoi). Come possono coesistere però il determinismo della prima Critica con la libertà della seconda? Una stessa azione diventa in Kant determinata nel mondo sensibile e libera in quanto atto morale, nel mondo fenomenico infatti essa ha una causa nel passato che la determina, ma nel mondo noumenico è stata frutto di una libera scelta, e avrebbe potuto essere evitata. Inoltre là dove nella Critica alla ragion pura l’uomo non poteva risultare libero poiché la sua ragione si scontrava con il limite (esterno) dell’esperienza, nella seconda critica si supera poiché la libertà è postulata nel mondo noumenico (metafisico). Kant infine sostiene il primato della ragion pratica sulla pura, poiché essa riesce con i postulati ad ipotizzare nel metafisico quello che nella prima critica era completamente precluso all’indagine. Non si pensi tuttavia che i postulati abbiano un valore teoretico, questione che Kant ci tiene a precisare, ma costituiscono piuttosto una ragionevole speranza. E la non certezza assoluta dell’esistenza di Dio viene intesa dal filosofo tedesco come quello spazio necessario alla libertà. Critica del Giudizio La Critica del Giudizio parte da un dualismo instauratosi con le prime due Critiche: da un lato infatti la Critica della ragion pura mostrava un mondo fenomenico e deterministico conosciuto dalla scienza, dall’altro la Critica della ragion pratica indicava un mondo noumenico e finalistico postulato dall’etica. Nella Critica del Giudizio Kant studia il sentimento, così come nella prima critica aveva analizzato la conoscenza e nella seconda la morale. Esso viene proposto come una terza facoltà, che chiama genericamente giudizio, quella mediante cui l’uomo fa esperienza di quella finalità del reale esclusa dalla prima Critica nel fenomeno, e postulata dalla seconda nel noumeno. Kant identifica due tipi di giudizi sentimentali: i giudizi determinanti, quelli conoscitivi e scientifici studiati nella Critica della ragion pura, e i giudizi riflettenti, che si limitano a riflettere su una natura conosciuta tramite i giudizi determinanti e appresa tramite le nostre esigenze universali di finalità e di armonia. È di questo tipo di giudizi che Kant si occupa nella sua terza Critica, i giudizi sentimentali puri, derivanti cioè a priori dalla nostra mente, e che distingue a loro volta in due gruppi secondo il diverso rimando al finalismo: il giudizio estetico, con cui viviamo immediatamente o intuitivamente la finalità della natura, che pensiamo essere bella per noi, ed è soggettivo; ed il giudizio teleologico, con cui pensiamo tramite (mediatamente) la nozione di fine alla finalità di un oggetto o di un fenomeno presente in natura. Questa divisione dei giudizi sentimentali puri viene ripresa nella struttura stessa dell’opera, divisa in due parti Critica del giudizio estetico e critica del giudizio teleologico, entrambe a loro volta divisi in Analitica e Dialettica. Il giudizio estetico Il giudizio estetico risponde ad un esigenza di finalità come se la natura fosse bella apposta per noi, è frutto della proiezione nell’oggetto di quell’armonia tra le parti propria del soggetto. Infatti secondo Kant il bello non è una proprietà ontologica dell’oggetto ma il frutto dell’incontro tra soggetto e oggetto. Il giudizio estetico è caratterizzato dall’essere disinteressato, ciò che è bello lo è perché bello, universale e necessario, poiché in questo giudizio ognuno ha una pretesa di universalità essendo esso fondato sulla comune struttura della mente umana. La tesi kantiana dell’universalità del giudizio estetico può apparire “strana” o infondata, ma nel sostenerla si basa su una constatazione: “In tutti i giudizi coi quali dichiariamo bella una cosa, noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio sopra concetti, ma soltanto sul nostro sentimento” (Critica del Giudizio, par. 22) Per comprendere meglio la tesi bisogna considerare che Kant distingue nettamente il piacevole, ciò che piace ai sensi della sensazione, che dà luogo ai giudizi estetici empirici ed è legato alle inclinazioni individuali, dunque è soggettivo e vale la massima de gustibus non est disputandum; ed il piacere estetico, che muove lo spirito più che il corpo, e si concretizza nei giudizi estetici puri, causati dalla sola contemplazione della forma di un oggetto e sono i soli ad avere la pretesa di Viceversa, con la seconda parte della formula, Hegel intende affermare che la realtà non è una materia caotica, ma il dispiegarsi di una struttura razionale (l’Idea o la Ragione) che si manifesta in modo inconsapevole nella natura e in modo 2 consapevole nell’uomo. Per cui, con il suo aforisma, Hegel non esprime la semplice possibilità che la realtà sia penetrata o intesa dalla ragione, ma la necessaria, totale e sostanziale identità di realtà e ragione. Tale identità implica anche l’identità fra essere e dover-essere, in quanto ciò che è risulta anche ciò che razionalmente deve essere. Tant’è vero che le opere di Hegel sono costellate di osservazioni piene di ironia e di scherno a proposito dell’ “astratto” e moralistico dover-essere che non è, dell’ideale che non è reale. E tutte quante insistono sul fatto che il mondo, in quanto è, e così com’è, è razionalità dispiegata, ovvero ragione reale e realtà razionale - che si manifesta attraverso una serie di momenti necessari che non possono essere diversi da come sono. Infatti, da qualsiasi punto di vista guardiamo il mondo, troviamo ovunque, secondo Hegel, una rete di connessioni necessarie e di “passaggi obbligati” che costituiscono l’articolazione vivente dell’unica Idea o Ragione. In altri termini, Hegel, secondo uno schema tipico della filosofia romantica, ritiene che la realtà costituisca una totalità processuale necessaria, formata da una serie ascendente di “gradi” o “momenti”, che rappresentano, ognuno, il risultato di quelli precedenti ed il presupposto di quelli seguenti. c) La funzione della filosofia Coerentemente con il suo orizzonte teorico, fondato sulle categorie di totalità e di necessità, Hegel ritiene che il compito della filosofia consista nel prendere atto della realtà e nel comprendere le strutture razionali che la costituiscono: “Comprendere ciò che è è il compito della filosofia, poiché ciò che è è la ragione”. A dire come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi; giacché sopraggiunge quando la realtà ha compiuto il suo processo di formazione. Essa, afferma Hegel con un paragone famoso, è come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, cioè quando la realtà è già bell’e fatta. La filosofia deve dunque “mantenersi in pace con la realtà” e rinunciare alla pretesa assurda di determinarla e guidarla. Deve soltanto portare nella forma del pensiero, cioè elaborare in concetti, il contenuto reale che l’esperienza le offre, dimostrandone, con la riflessione, l’intrinseca razionalità. Questi chiarimenti delineano il tratto essenziale della filosofia e della personalità di Hegel. L’autentico compito che Hegel ha inteso attribuire alla filosofia (e ha cercato di realizzare con la sua filosofia) è la giustificazione razionale della realtà, della presenzialità, del fatto. Questo compito egli l’ha affrontato con maggiore energia proprio là dove esso sembra più rischioso: cioè nei confronti della realtà politica, dello Stato (infatti può sembrare ovvio che il mondo naturale sia razionale, in quanto regolato da leggi necessarie, mentre è più difficile riconoscere che qualsiasi costruzione storica dell’uomo sia l’espressione di una necessità razionale, e che quindi debba essere accettata così com’è) d) il dibattito critico intorno al “giustificazionismo” hegeliano Hegel in un passo dell’Enciclopedia ha precisato che la sua filosofia non può essere scambiata per una banale accettazione della realtà in tutti i suoi aspetti, perché non vanno inclusi nel concetto di “realtà” gli aspetti superficiali e accidentali dell’esistenza (ma come possa esistere l’accidentale in una realtà razionale e necessaria resta oscuro). A partire da questa precisazione taluni critici hanno negato il carattere giustificazionista della filosofia hegeliana: un filone interpretativo che va da Engels a Marcuse (pensatori della “sinistra rivoluzionaria”), pur ammettendo gli aspetti conservatori del pensiero hegeliano, ha tuttavia cercato di mostrare come esso possa venir letto in modo dinamico e rivoluzionario. Infatti secondo tali autori l’aforisma di Hegel significherebbe in sostanza che il reale è destinato a coincidere con il razionale, mentre l’irrazionale è destinato a perire (si tratterebbe insomma dell’affermazione di un progresso necessario). Ora, questa lettura di Hegel rappresenta, più che un’interpretazione, una correzione di Hegel alla luce degli ideali rivoluzionari dei suoi autori. In conclusione ci sembra che i testi di Hegel documentino in modo chiaro e inequivocabile il suo atteggiamento fondamentalmente giustificazionista nei confronti della realtà. 5. Idea, Natura e Spirito. Le parti della filosofia Hegel ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto passi attraverso i tre momenti dell’Idea “in sé” (tesi), dell’Idea “fuori di sé ” (antitesi) e dell’Idea che “ritorna in sé ” (sintesi). Tant’è vero che il disegno complessivo dell'Enciclopedia hegeliana è quello di una grande triade dialettica. L’Idea “in sé” o Idea “pura” è l’Idea considerata in se stessa, a prescindere dalla sua concreta realizzazione nel mondo. Da questo angolo prospettico, l’Idea, secondo un noto paragone teologico di Hegel, è assimilabile a Dio “prima della creazione della natura e di uno spirito finito”, ovvero, in termini meno equivocanti (visto che l'Assoluto hegeliano è un infinito immanente, che non crea il mondo, ma è il mondo) al programma o all’ossatura logico-razionale della realtà. L’Idea “fuori di sé” o Idea “nel suo esser altro” è la Natura, cioè l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio-temporali del mondo. L’Idea che “ritorna in sé” è lo Spirito, cioè l’Idea che dopo essersi fatta natura torna “presso di sé” nell’uomo. Ovviamente, questa triade non è da intendersi in senso cronologico, come se prima ci fosse l’Idea in sé e per sé, poi la Natura e infine lo Spirito, ma in senso ideale. Infatti 3 ciò che concretamente esiste nella realtà è lo Spirito (la sintesi), il quale ha come sua coeterna condizione la Natura (l’antitesi) e come suo coeterno presupposto il programma logico rappresentato dall’Idea pura (la tesi). A questi tre momenti strutturali dell'Assoluto Hegel fa corrispondere le tre sezioni in cui si divide il sapere filosofico: 1) la logica, che è “ la scienza dell’Idea in sé”, cioè dell’Idea considerata nel suo essere implicito (= in sé) e nel suo graduale esplicarsi, ma a prescindere, come si è visto, dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito; 2) la filosofia della natura, che è “ la scienza dell’Idea nel suo alienarsi da sé”; 3) la filosofia dello spirito, che è la scienza dell’Idea, che dal suo alienamento ritorna in sé”. Ecco un primo schema generale (cui seguiranno altri più analitici): 1. dottrina dell'essere 1. meccanica Logica 2. dottrina dell'essenza Filosofia della natura 2. fisica 3. dottrina del concetto 3. organica a) antropologia 1. soggettivo b) fenomenologia c) psicologia a) diritto Filosofia dello Spirito 2. oggettivo b) moralità c) eticità a) arte 3. assoluto b) religione c) filosofia 6. La Dialettica Come si è visto, l'Assoluto, per Hegel, è fondamentalmente divenire. La legge che regola tale divenire è la dialettica, che rappresenta, al tempo stesso, la legge (ontologica) di sviluppo della realtà e la legge (logica) di comprensione della realtà. Hegel non ha offerto, della dialettica, una teoria sistematica, limitandosi, per lo più, ad utilizzarla nei vari settori della filosofia. Ciò non esclude la possibilità di fissare qualche tratto generale di essa. Nel par. 79 dell'Enciclopedia Hegel distingue tre momenti o aspetti del pensiero: a) l'astratto o intellettuale; b) “ il dialettico o negativo- razionale”; c) “ lo speculativo o positivo-razionale”. Il momento astratto o intellettuale consiste nel concepire l’esistente sotto forma di una molteplicità di determinazioni statiche e separate le une dalle altre. In altri termini, il momento intellettuale (che è il grado più basso della ragione) è quello per cui il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, limitandosi a considerarle nelle loro differenze reciproche e secondo il principio di identità e di non-contraddizione (secondo cui ogni cosa è se stessa ed è assolutamente diversa dalle altre). Il momento dialettico o negativo-razionale consiste nel mostrare come le sopraccitate determinazioni siano unilaterali ed esigano di essere messe in movimento, ovvero di essere relazionate con altre determinazioni. Infatti, poiché ogni affermazione sottintende una negazione, in quanto per specificare ciò che una cosa è bisogna implicitamente chiarire ciò che essa non è, risulta indispensabile procedere oltre il principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le determinazioni opposte (ad es. il concetto di “uno”, non appena venga smosso dalla sua astratta rigidezza, richiama quello di “molti” e manifesta uno stretto legame con esso. E così dicasi di ogni altro concetto: il particolare richiama l’universale, l’uguale il disuguale, il bene il male ecc.). Il terzo momento, quello speculativo o positivo-razionale, consiste invece nel cogliere l’unità delle determinazioni opposte, ossia nel rendersi conto che tali determinazioni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li ri-comprende o sintetizza entrambi (ad es. si scopre che la realtà vera non è né l’unità in astratto né la molteplicità in astratto, bensì un’unità che vive solo attraverso la molteplicità). Globalmente e sinteticamente considerata, la dialettica consiste quindi: 1) nell’affermazione o posizione di un concetto “astratto e limitato”, che funge da tesi; 2) nella negazione di questo concetto come alcunché di limitato o di finito e nel passaggio ad un concetto opposto, che funge da antitesi; 3) nella unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi positiva comprensiva di entrambe. Sintesi che si configura come una ri-affermazione potenziata dell’affermazione iniziale (tesi), ottenuta tramite la negazione della negazione intermedia (antitesi). Riaffermazione che Hegel focalizza con il termine tecnico di Aufhebung il quale esprime l’idea di un “superamento” che è, al tempo stesso, un togliere (l’opposizione fra tesi ed antitesi) ed un conservare (la verità della tesi, dell’antitesi e della loro lotta). 4 6.1 Puntualizzazioni circa la dialettica l) Come si può notare, la dialettica non comprende soltanto il secondo momento (quello che Hegel chiama dialettico in senso stretto) ma la totalità dei tre momenti elencati. 2) La dialettica non fa che illustrare il principio fondamentale della filosofia hegeliana: la risoluzione del finito nell’infinito. Infatti essa ci mostra come ogni finito, cioè ogni spicchio di realtà, non possa esistere in se stesso (poiché in tal caso sarebbe un Assoluto, ovvero un infinito autosufficiente) ma solo in un contesto di rapporti. Infatti, per porre se stesso il finito è obbligato ad opporsi a qualcos’altro, cioè ad entrare in quella trama di relazioni che forma la realtà e che coincide con il tutto infinito di cui esso è parte o manifestazione. E poiché il tutto di cui parla Hegel, ovvero l’Idea, è una entità dinamica, la dialettica esprime appunto il processo mediante cui le varie parti o determinazioni della realtà perdono la loro rigidezza, si fluidificano e diventano “momenti” di un’Idea unica ed infinita. Detto altrimenti, la dialettica rappresenta la crisi del finito e la sua risoluzione necessaria nell’infinito: “ogni finito ha questo di proprio, che sopprime se medesimo. La dialettica forma, dunque, l’anima motrice del progresso scientifico... in essa, soprattutto è la vera, e non estrinseca elevazione sul finito” . 3) La dialettica ha un significato globalmente ottimistico, poiché essa ha il compito di unificare il molteplice, conciliare le opposizioni, pacificare i conflitti, ridurre ogni cosa all’ordine e alla perfezione del Tutto. Molteplicità, opposizione, conflitto sono senza dubbio reali secondo Hegel, ma solo come momenti di passaggio. In altri termini, il negativo, per Hegel, sussiste solo come un momento del farsi del positivo e la tragedia, nella sua filosofia, è solo l’aspetto superficiale e transeunte di una sostanziale commedia (nel senso letterale di vicenda avente un epilogo positivo). 4) Appurato che pensare dialetticamente significa pensare la realtà come una totalità processuale che procede secondo lo schema triadico di tesi, antitesi e sintesi, ci si può chiedere se la dialettica hegeliana sia a sintesi aperta o a sintesi chiusa. Infatti, poiché ogni sintesi rappresenta a sua volta la tesi di un’altra antitesi, cui succede un’ulteriore sintesi e così via, sembrerebbe, a prima vista, che la dialettica esprima un processo costitutivamente aperto. In verità, Hegel pensa che in tal caso si avrebbe il trionfo della “cattiva infinità” ossia un processo che, spostando indefinitamente la meta da raggiungere, toglierebbe allo spirito il pieno possesso di se medesimo. Di conseguenza, egli opta per una dialettica a sintesi finale chiusa, cioè per una dialettica che ha un ben preciso punto di arrivo: “Mentre nei gradi intermedi della dialettica prevale la rappresentazione della spirale, nella visione complessiva e finale del sistema prevale la rappresentazione del circolo chiuso, che soffoca la vita dello spirito, dando al suo progresso un termine, al di là del quale ogni attività creatrice si annulla, perché, avendo lo spirito realizzato pienamente se stesso, non gli resta che ripercorrere il cammino già fatto... L’impetuosa corrente sfocia in uno stagnante mare, e nell’immobile specchio trema la vena delle acque che vi affluiscono ... ” (Guido De Ruggiero). 5) E in effetti, tutti i filosofi che si sono rifatti in qualche modo all’hegelismo (da Engels a Croce e ai neomarxisti) hanno criticato l'idea di uno “stagnante epilogo” della storia del mondo, recuperando invece l’idea di un processo che risulta costitutivamente aperto. Inoltre, più che sul momento della “conciliazione” o “sintesi”, tali filosofi hanno insistito sul momento dell’ “opposizione” e della “contraddizione ”, ossia su ciò che Hegel, nella Fenomenologia, chiama “il travaglio del negativo”. 7. La critica alle filosofie precedenti Dopo aver definito in positivo i capisaldi dell’hegelismo, è venuto il momento di illustrarli in negativo, ossia di vedere a quali filosofie esso storicamente si contrapponga. a) Hegel e gli illuministi La filosofia di Hegel implica un oggettivo rifiuto della maniera illuministica di rapportarsi al mondo. Infatti gli illuministi, facendo dell’intelletto il giudice della storia, sono costretti a ritenere che il reale non è razionale, dimenticando così che la vera ragione (= lo Spirito) è proprio quella che prende corpo nella storia ed abita in tutti i momenti di essa. Invece la ragione degli illuministi esprime solo le esigenze e le aspirazioni degli individui: è una ragione finita e parziale, ovvero un “intelletto astratto”, che pretende di dare lezione alla realtà e alla storia, stabilendo come dovrebbe essere e non è, mentre la realtà è sempre necessariamente ciò che deve essere. (...) e “servo” (che corrisponde, nella storia, alla civiltà antica), che Hegel descrive in pagine divenute famosissime, e che è effettivamente fra le cose più profonde e più belle della Fenomenologia. Il “padrone” ha rischiato nella lotta la sua vita e nella vittoria è diventato, di conseguenza, padrone. Il “servo” ha avuto timore della morte e, nella sconfitta, per aver salva la vita fisica, ha accettato la condizione di schiavitù ed è diventato come una “cosa” dipendente dal padrone. Il padrone usa il servo e lo fa lavorare per sé, limitandosi a “godere” delle cose che il servo fa per lui. Ma, in questo tipo di rapporto, si sviluppa un movimento dialettico, che finirà col portare al rovesciamento delle parti. Infatti il padrone finisce col diventare “dipendente dal servo”, perché può appropriarsi delle cose solo attraverso il lavoro del servo (il padrone rimane inerte). Il servo invece, per mezzo del lavoro, finisce per diventare indipendente, perché impara a dominare se stesso (autodisciplina) e impara a dominare le cose trasformandole, imprimendo in esse una forma che è il riflesso dell’autocoscienza. La figura della dialettica Padrone-Servo è stata apprezzata soprattutto dai marxisti, i quali hanno visto in essa un’intuizione dell’importanza del lavoro e della dialettica della storia, nella quale, grazie all’esperienza della sottomissione, si generano le condizioni per la liberazione. Resta tuttavia una differenza fondamentale tra Marx ed Hegel: infatti la figura hegeliana non si conclude con una rivoluzione sociale o politica, ma con la coscienza dell’indipendenza del servo nei confronti delle cose e della dipendenza del padrone nei confronti del lavoro servile. Un’altra figura celebre dell’Autocoscienza è quella della Coscienza infelice, che descrive la condizione della coscienza tipica della religione ebraica e del Cristianesimo medievale. La coscienza infelice è la coscienza che vive se stessa come coscienza finita, mortale, che per esistere deve ancorarsi a una realtà assoluta, infinita, del tutto estranea alla coscienza stessa ( = Dio trascendente). In questa figura c’è quindi una profonda scissione tra l’autocoscienza dell’uomo (finita , mutevole) e l’oggetto della coscienza, la realtà vera, assoluta, infinita, a cui la coscienza tende senza mai poterla raggiungere. Nella figura della Coscienza infelice ogni 7 accostamento dell’uomo alla Divinità trascendente significa una mortificazione, un’umiliazione, un sentire la propria nullità, e da ciò deriva appunto l’infelicità. Nel Cristianesimo si cerca poi di rendere accessibile il Dio trascendente per mezzo del Dio incarnato (Gesù Cristo); tuttavia, secondo Hegel, la pretesa di cogliere l’Assoluto in una figura storica è destinata al fallimento, perché Cristo, vissuto in uno specifico e irripetibile periodo storico, risulta pur sempre lontano, e quindi per la coscienza rimane separato, estraneo. Di conseguenza, anche con il cristianesimo, la coscienza continua ad essere infelice e Dio continua a configurarsi come un “irraggiungibile al di là che sfugge”. RAGIONE: L’autocoscienza era il momento in cui la coscienza aveva preso se stessa come oggetto, ma il suo culmine nella coscienza infelice mostra l’impossibilità di comprendere se stessa restando entro i limiti di sé. La Ragione nasce nel momento in cui la Coscienza, abbandonato il vano sforzo di unificarsi con Dio, si rende conto di essere lei stessa Dio, il Soggetto assoluto, in altri termini acquisisce “la certezza di essere ogni realtà”. E’ questa la posizione propria dell’idealismo: l’unità di pensiero ed essere. Questa “certezza di essere ogni realtà” sorge nel Rinascimento, si sviluppa durante l’età moderna e ha il suo culmine nell’Idealismo. Il “cammino”della Ragione si conclude con il superamento del punto di vista individuale: la coscienza comprende che ogni atto della vita individuale si situa dentro una realtà storico-sociale che lo fonda e lo rende possibile, e quindi la ragione si realizza concretamente nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e dello Stato; ma con questo entriamo nel mondo dello Spirito, per il quale, come abbiam già detto, rimandiamo alla Filosofia dello Spirito esposta nelle opere successive. IL SISTEMA Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio troviamo l’esposizione sistematica di tutti i momenti costitutivi dell’assoluto, nel loro ordine necessario. La Fenomenologia dello Spirito ci ha mostrato come la coscienza empirica giunge al Sapere assoluto. Il sistema ci mostra l’Assoluto visto da quel punto di vista che la Fenomenologia ha guadagnato. Su questo piano è tolta ogni differenza tra certezza (elemento soggettivo) e verità. L’esposizione segue il ritmo triadico di tesi (Idea in sé), antitesi (Idea fuori di sé, cioè natura), sintesi (Idea che ritorna in sé, cioè Spirito) e si divide in Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito. 9. La Logica In quanto “scienza dell’idea pura, cioè dell’Idea nell’elemento astratto del pensiero”, la Logica (alla quale Hegel ha dedicato l’opera Scienza della logica e la prima parte della Enciclopedia delle scienze filosofiche) prende in considerazione la struttura programmatica o l’impalcatura originaria del mondo. Tale “impalcatura” si specifica in un organismo dinamico di concetti o di categorie i quali, in virtù della identità fra pensiero ed essere, costituiscono altrettante determinazioni della realtà. La logica di Hegel quindi è molto diversa dalla logica tradizionale, di derivazione aristotelica: infatti quest’ultima veniva presentata come “organon”, puro strumento o metodo del pensiero, a cui era giustapposta la realtà esterna; la logica di Hegel invece esprime la realtà stessa nella sua essenza. Pertanto risulta evidente come la logica (= lo studio del pensiero) e la metafisica (= lo studio dell’essere) siano per Hegel la stessa cosa (la posizione antimetafisica dell’Illuminismo e di Kant viene quindi respinta da Hegel) . Hegel afferma anche che la logica é «l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura»; i termini Dio e creazione vanno però intesi diversamente rispetto a ciò che essi significano nel contesto della dottrina cristiana: infatti la creazione per Hegel è il processo in cui Dio stesso si trasforma e si arricchisce, e il “Dio dopo la creazione” (di cui si occuperà la filosofia dello Spirito) è qualcosa di superiore rispetto al “Dio prima della creazione”. L’Idea di cui tratta la Logica in ogni caso non è da concepire come una sorta di realtà unica e compatta, ma come Sviluppo e Processo dialettico. I concetti o categorie esposti nella Logica sono successive definizioni dell’Assoluto, progressivamente più ricche, e l’Idea è la totalità dei concetti determinati e dei nessi che li legano e il loro passare dall’uno all’altro in cerchi sempre più alti . La Logica hegeliana si articola dialetticamente in dottrina dell’essere, dottrina dell’essenza e dottrina del concetto; ognuna di queste articolazioni presenta ulteriori triadi interne, che non è possibile trattare analiticamente. Prendiamo quindi in considerazione solo l’incipit della Logica, la triade “Essere, Nulla, Divenire”: il punto di partenza della logica è il concetto dell’essere, il concetto più generale perché assolutamente indeterminato, astratto, privo di ogni possibile 8 contenuto. Ma appunto perché privo di determinazioni , l’essere richiama il suo opposto, il nulla, e fa tutt’uno con esso. La sintesi di questa prima opposizione , di essere e nulla, è il divenire: nel divenire infatti ciò che non è viene ad essere e viceversa (già gli antichi definivano il divenire come passaggio dal nulla all’essere). Il divenire tuttavia non unisce l’essere e il nulla in un’identità astratta ma in un rapporto dialettico, in cui ciascuno dei due passa nell’altro. Tutte le categorie della logica (sia della logica classica, sia della logica trascendentale kantiana) vengono ricostruite con questo procedimento dialettico. Per concludere prendiamo in esame la discussione (contenuta nella Dottrina dell’essenza) dei principi logici di identità (A = A) e di non-contraddizione (A non è non-A) di cui Aristotele aveva fornito la prima enunciazione: secondo Hegel questi principi rappresentano il punto di vista dell’intelletto astratto e unilaterale, ma non il punto di vista della ragione, che è il solo punto di vista della verità. La vera identità, secondo Hegel, non è A = A, ma deve essere intesa “come identità che include le differenze”, vale a dire come sintesi che dialetticamente si realizza togliendo l’opposizione e conservando in sé gli opposti. Quanto al principio di non-contraddizione Hegel obietta che la contraddizione inerisce necessariamente alla concretezza e alla vita: «Il muoversi non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione (...) Qualcosa è dunque vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione» (tutto ciò naturalmente rimanda alla Dialettica) 10. LA FILOSOFIA DELLA NATURA Il testo fondamentale della filosofia della natura di Hegel è la seconda parte dell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Come abbiamo già detto (vedi sopra, a pag. 4 , Le partizioni della filosofia) la Natura è l’Idea “fuori di sé” o Idea “nel suo esser altro”, cioè l’estrinsecazione o l’alienazione dell’Idea nelle realtà spazio-temporali del mondo. Ispirandosi a Fichte, Hegel afferma che anche la natura è Idea, cioè qualcosa che è compreso in quella totalità processuale (in divenire) che è l’Assoluto; non è una realtà estranea, irriducibile allo Spirito. Tuttavia la Natura è “l’idea nella forma dell’essere altro”, nella forma dell’esteriorità che è inadeguata all’Idea. Pertanto Hegel insiste molto sul momento di negatività costituito dalla Natura: “La natura, considerata in sé, nell’idea, è divina; ma nel modo in cui essa è, l’essere suo non risponde al suo concetto: essa è, anzi, la contraddizione insoluta. Il suo carattere proprio è questo, di esser posta, di esser negazione; e gli antichi hanno infatti concepito la materia in genere come un “non ens”. Così la natura è stata anche definita come la decadenza dell’Idea da sé stessa, poiché l’Idea, in quella forma dell’esteriorità, è inadeguata a se stessa.” Hegel parla anche di una “impotenza della natura” che pone dei limiti anche alla comprensione filosofica della natura stessa. Quindi Hegel non condivide l’entusiasmo dei Rinascimentali e soprattutto dei Romantici per la natura. Alla tesi secondo cui in un piccolo evento naturale come in un fiore o in una pagliuzza possono farsi conoscere la verità e Dio, Hegel contrappone la tesi secondo cui il più piccolo evento dello Spirito ci fa conoscere la verità e Dio in modo incomparabilmente superiore, e che perfino il male compiuto dall’uomo è addirittura infinitamente superiore ai moti degli astri e alla innocenza delle piante, in quanto il male è un atto di libertà, la quale costituisce l’essenza dello Spirito. La filosofia della Natura si articola in: 1) meccanica, che studia lo spazio, il tempo, la materia e il movimento; 2) fisica, ove dalla rigidità dei corpi inerti si passa ai fenomeni magnetici, elettrici e chimici; e 3) organica, che tratta della natura vegetale e animale. Nell’esposizione della filosofia della Natura Hegel attinge alle conoscenze della scienza dei suoi tempi, tuttavia essa rappresenta un ritorno ad una concezione pre-galileiana della scienza, alla persuasione di poter cogliere l’essenza dei fenomeni naturali, in forte polemica con la “riduzione al quantitativo” attuata da Galileo, Cartesio e Newton. 11. LA FILOSOFIA DELLO SPIRITO La filosofia dello Spirito è lo studio dell’Idea che, dopo essersi estraniata da sé, sparisce come natura, cioè come esteriorità e spazialità per farsi puro spirito, autocoscienza e libertà. Lo Spirito è l’idea che ritorna a sé dalla sua alterità. L’Idea, intesa come “impalcatura logica del mondo”, era una possibilità astratta, lo Spirito è la vivente attualizzazione e autoconoscenza dell’Idea. Come momento dialetticamente conclusivo, ossia come risultato del processo dell’Assoluto, lo Spirito è la più alta manifestazione dell’Assoluto. Scrive Hegel: “L’assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell’assoluto. Trovare questa definizione e comprenderne il significato e il contenuto è stata la tendenza di ogni cultura e di ogni filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza; solo questo impulso spiega la storia del mondo”. 9 Anche la filosofia dello Spirito è strutturata in maniera triadica, e quindi divisa in tre momenti: 1) un primo in cui lo Spirito è sulla via della propria autorealizzazione e autoconoscenza: Spirito soggettivo, 2) un secondo in cui lo Spirito si autorealizza pienamente come libertà: Spirito oggettivo, 3) un terzo in cui lo Spirito si autoconosce pienamente e si sa come principio e come verità di tutto, ed è come Dio nella sua pienezza di vita e di conoscenza: Spirito Assoluto. 12. LO SPIRITO SOGGETTIVO Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale (dell’uomo singolo, ancora legato alla finitudine), considerato nel suo lento e progressivo emergere dalla natura, attraverso un processo che va dalle forme più elementari di vita psichica alle più elevate attività conoscitive e pratiche. La filosofia dello spirito soggettivo si divide in tre parti: antropologia, fenomenologia e psicologia. Nella antropologia viene considerata quella fase aurorale della vita cosciente che nell’uomo si manifesta come carattere, temperamento, disposizioni psicofisiche connesse all’età e al sesso, abitudini: la vita spirituale è ancora “invischiata” nella natura e ne conserva in gran parte la meccanicità, la passività. Nella fenomenologia viene riproposto il percorso “Coscienza”, “Autocoscienza”, “Ragione” già visto nell’opera La fenomenologia dello Spirito (cfr.) Nella psicologia vengono studiate le attività proprie dello spirito, cioè la conoscenza (attività teoretica), l’attività pratica e il volere libero. Il volere libero rappresenta il culmine dello Spirito soggettivo: l’anima dell’uomo realizzazione e di libertà, perché in esse può identificarsi: può viverle come proprie, pur mantenendo esse il loro rigoroso carattere di oggettività. Le istituzioni dell’eticità cui si riferisce Hegel sono la famiglia, la società civile e lo Stato. LA FAMIGLIA La prima istituzione dell’eticità è la famiglia, che permette la libertà per i suoi membri nella sfera della vita privata. Nella famiglia l’aspetto naturale (la “relazione dei sessi”) viene elevato alla sfera spirituale, infatti gli impulsi naturali vengono conciliati con i dettami razionali e la volontà individuale viene conciliata con le leggi dello Stato (quindi si realizza la sintesi tra diritto e moralità, infatti la famiglia è sintesi di un moto interiore, l’amore, che si realizza esteriormente in una struttura giuridica, il matrimonio). L’elemento fondante della famiglia è l’amore, la famiglia poi si articola nei momenti del matrimonio, del patrimonio e dell’educazione dei figli. L’abbandono della famiglia da parte dei figli costituisce la negazione della famiglia, da cui scaturisce la società civile. LA SOCIETA’ CIVILE Il secondo momento dell’eticità è la società civile, cioè quell’insieme di istituzioni nelle quali l’individuo può entrare in relazione con altri uomini sulla base del proprio interesse (che è l’elemento fondante della società, come l’amore lo era della famiglia). Nella società civile gli uomini trovano soddisfazione ai propri bisogni, pur restando estranei gli uni agli altri e pur essendo la società civile essenzialmente antagonistica e conflittuale. La società civile svolge quindi una funzione di mediazione dei bisogni e degli interessi contrapposti, permette cioè che l’incontro-scontro di interessi individuali porti alla soddisfazione dei bisogni di tutti i soggetti sociali (per esempio il mercato permette che i bisogni contrapposti dei venditori e dei compratori trovino soddisfazione proprio incontrandosi); scrive Hegel: «l’egoismo soggettivo si converte nel contributo all’appagamento dei bisogni di tutti gli altri, - nella mediazione dell’individuo per mezzo dell’universale, in quanto movimento dialettico; così che, poiché ciascuno acquista, produce e gode per sé, appunto perciò, produce e acquista per il godimento degli altri.» La società è costituita dai rapporti economico-sociali ma anche dal sistema giuridico-amministrativo che permette di coordinare le attività e gli interessi individuali. Hegel analizza molti aspetti della vita sociale, quali la divisione del lavoro e la divisione della popolazione in classi sociali, l’amministrazione della giustizia e il diritto pubblico, la polizia e la sicurezza sociale, le corporazioni di mestiere. LO STATO La famiglia e la società civile sono entrambe istituzioni parziali, che permettono la soddisfazione del bisogno etico dell’uomo solo in ambiti particolari (nella sfera privata la famiglia, nella sfera pubblica, ma conflittuale, la società civile). Entrambe non possono tuttavia sussistere come istituzioni se non all’interno dello Stato, che per Hegel è la sintesi globale dell’eticità. Lo Stato infatti è una specie di “famiglia in grande” in cui l’uomo può realizzare pienamente la sua libertà. Lo Stato infatti non si limita a coordinare gli interessi particolaristici (come avveniva nella società civile) ma pone un principio di unità e di appartenenza superiore, e perciò convoglia tutti i particolarismi verso un bene collettivo; in altri termini possiamo dire che lo Stato è l’istituzione in cui la libertà dell’uomo viene realizzata non perché l’uomo vi trova il soddisfacimento dei propri bisogni individuali ma perché vi riconosce un valore superiore (l’ethos del popolo), e condivide il riconoscimento di questo valore superiore con tutti i suoi concittadini. Questa concezione etica dello Stato, visto come incarnazione suprema della moralità sociale e del bene comune, si differenzia nettamente dalla teoria liberale dello Stato (vedi Locke) come strumento indirizzato a garantire la sicurezza e i diritti degli individui. Infatti per Hegel una teoria di questo tipo comporterebbe una confusione tra società civile e Stato, ovvero una riduzione dello Stato a semplice tutore degli interessi particolaristici della società civile. Lo Stato di Hegel si differenzia anche dal modello democratico, vale a dire dalla teoria della sovranità popolare (vedi Rousseau), in quanto il popolo, al di fuori dello Stato, è soltanto una moltitudine informe. A simili “astrazioni”, Hegel contrappone la teoria secondo cui la sovranità dello Stato deriva dallo Stato medesimo, perché lo Stato non è fondato sugli individui, ma sull’idea di Stato, ossia sul concetto di un bene universale: pertanto non sono gli individui a fondare lo Stato, ma lo Stato a fondare gli individui, sia dal punto di vista storico-temporale (lo Stato è “prima” degli individui, che nascono nell’ambito di uno Stato già esistente), sia dal punto di vista ideale, in quanto lo Stato è superiore agli individui (così come il tutto è superiore alle parti che lo compongono; in termini hegeliani lo Stato è una realtà “concreta” e la persona singola è una realtà “astratta”). Detto questo, risulta chiaro perché Hegel rifiuta anche la teoria contrattualistica (secondo cui la Stato deriverebbe da un contratto scaturito dalla volontà degli individui), e la teoria giusnaturalistica (secondo cui i diritti naturali esisterebbero prima e oltre lo Stato: per Hegel il diritto esiste solo nello Stato e grazie allo Stato). Lo Stato hegeliano è assolutamente sovrano, ma non per questo è dispotico: infatti Hegel ritiene che lo Stato debba operare solo per mezzo delle leggi, debba essere, quindi, uno Stato di diritto; inoltre identifica la “costituzione razionale” dello Stato con la monarchia costituzionale moderna. Tuttavia Hegel non intende costruire un modello politico di Stato, quanto piuttosto rendere ragione della natura profonda dello Stato, che resta tale indipendentemente dalle realizzazioni concrete degli Stati e dalle loro eventuali imperfezioni e inadempienze. Leggiamo il testo di Hegel: «Lo Stato, in sé e per sé, è la totalità etica, la realizzazione della libertà; ed è finalità assoluta della ragione, che la libertà sia reale. Lo Stato è lo Spirito che sta nel mondo, e si realizza nel medesimo con coscienza, mentre, nella natura, esso si realizza soltanto in quanto altro da sé, in quanto spirito sopito. Solamente in quanto esistente nlla coscienza, in quanto consapevole di se stesso, come oggetto che esiste, esso è lo Stato. (...) L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà. Nell’idea dello Stato non devono tenersi presenti Stati particolari, istituzioni particolari; anzi, si deve considerare per sé l’idea, questo Dio reale. Ogni Stato, lo si dichiari anche cattivo secondo i principi che si professano, si riconosca questo o quel difetto, ha sempre in sé, specialmente se appartiene alla nostra epoca civile, i momenti essenziali della sua esistenza. Ma poiché è molto più facile scoprire un difetto, che intendere l’affermativo, si cade facilmente nell’errore di dimenticare, al di sopra dei suoi singoli aspetti, l’organismo interiore dello Stato stesso. Lo Stato non è un’opera d’arte; esso sta nel mondo, e quindi nella cerchia dell’arbitrio, dell’accidentalità e dell’errore; un comportamento cattivo lo può svisare da molti lati. Ma l’uomo più odioso, il reo, un ammalato e uno storpio, sono sempre ancora uomini viventi; l’affermativo, la vita, esiste, malgrado il difetto; e questo affermativo importa, qui.» Emerge da questa pagina una esplicita divinizzazione dello Stato; come vita divina che si realizza nel mondo, lo Stato non può trovare nelle leggi della morale un limite o un impedimento alla sua azione; inoltre non può esistere un organismo superiore allo Stato che possa giudicare le pretese degli Stati e regolare i rapporti tra gli Stati. Il solo giudice o arbitro fra gli Stati è lo Spirito universale, cioé la Storia, la quale ha come suo momento strutturale la guerra. Muovendosi in un orizzonte di pensiero completamente diverso dal cosmopolitismo pacifista dell’Illuminismo, Hegel attribuisce alla guerra non solo un carattere di necessità e inevitabilità, ma anche un alto valore morale. Infatti come «il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole», così la guerra preserva i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace perpetua. 14. LA FILOSOFIA DELLA STORIA Se lo Stato è la Ragione che fa il suo ingresso nel mondo, la Storia, che nasce dalla dialettica degli Stati, è il dispiegarsi di questa stessa Ragione nel tempo; nella storia si realizza la coincidenza fra reale e razionale: tutto va come deve andare. Certo dal punto di vista degli individui le cose spesso non vanno come dovrebbero, ma la filosofia della storia non va pensata dal punto di vista degli individui bensì dell’assoluto, e allora si capisce che la storia si svolge secondo un disegno razionale. Hegel dice che la razionalità della storia coincide con il concetto cristiano di Provvidenza, cioè di un governo divino del mondo. Tuttavia la Provvidenza cristiana ha un’origine trascendente e non può essere completamente decifrata e compresa dall’uomo. Invece la razionalità dello storia hegeliana è immanente e la ragione filosofica può comprenderne il fine e i mezzi. Il fine della storia del mondo è che «lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente, manifesti oggettivamente se stesso». Questo spirito che si manifesta e realizza in un mondo esistente, cioè nella realtà storica, è lo spirito del mondo che si incarna, si particolarizza negli spiriti dei popoli (e quindi negli Stati) che si succedono all’avanguardia della storia. Infatti nella competizione fra i popoli ottiene la vittoria quel popolo (e quello Stato) che ha concepito il più alto concetto dello Spirito (come abbiamo detto sopra, il solo giudice o arbitro fra gli Stati è lo Spirito universale, cioé la Storia, la quale ha come suo momento strutturale la guerra). Abbiamo detto che lo Spirito oggettivo è la progressiva realizzazione della libertà. Questa libertà si realizza nello Stato: quindi il fine supremo della storia è una realizzazione sempre più perfetta della libertà per mezzo dello Stato, realizzazione che avviene in tre momenti: 13 1) il mondo orientale, nel quale uno solo è libero, 2) il mondo greco-romano, nel quale alcuni sono liberi, 3) il mondo cristiano-germanico, nel quale tutti gli uomini sono liberi . I mezzi della storia sono gli individui con le loro passioni: Hegel ammette l’esistenza di individui cosmico-storici o eroi, come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone, capaci di “fare la storia”, tuttavia questi uomini agiscono per fini particolari, ma c’è un’ astuzia della ragione che si serve delle loro passioni irrazionali e particolari per realizzare un progresso universale: non loro hanno fatto la storia, in realtà, ma in essi è vissuto lo Spirito e ha utilizzato la loro azione per il proprio obiettivo universale (e quando essi hanno realizzato il loro compito, vengono “scartati” dallla storia: Giulio Cesare ucciso, Napoleone esiliato a Sant’Elena ecc.) Commento: Lo storicismo perfetto di Hegel intende il divenire come un progresso continuo in cui la forma successiva è per forza migliore di quella precedente. E’ evidente che la storia così concepita diventa un “tribunale” in cui chi prevale ha sempre ragione; col risultato di giustificare ogni cosa: il male è cancellato, così come è cancellata la responsabilità individuale. E le lacrime e il sangue dei vinti? Finiscono, per usare un’espressione di Lenin, nella “pattumiera della storia”, come un momento dialettico necessario ma destinato ad essere superato dal potere vincente. E il criterio di giudizio storico non sarà il bene o il male, ma l’essere “contro la storia” o “nel senso della storia”, cioè essere ultimamente dalla parte del vincitore. 15. LO SPIRITO ASSOLUTO Lo Stato è “l’ingresso di Dio nel mondo”, il culmine dello Sprito oggettivo, ma esso rimane pur sempre un elemento parziale, finito, del Tutto. Occorre ancora giungere alla comprensione dello Spirito come Totalità. Lo spirito assoluto è il momento il cui l’Idea giunge alla piena coscienza della propria infinità o assolutezza (cioè del fatto che tutto è Spirito e che non vi è nulla al di fuori dello Spirito). Ma questo auto-sapersi dello Spirito non è un’intuizione mistica, ma un processo dialettico rappresentato dall’arte, dalla religione e dalla filosofia. Queste sono, dunque, tre attività attraverso le quali noi conosciamo l’Assoluto e l’Assoluto conosce se stesso. Sono però tre attività poste su livelli diversi. Infatti soltanto la filosofia può ambire al sapere assoluto, perché essa sola utilizza lo strumento adeguato all’oggetto da conoscere: la razionalità dialettica. L’arte e la religione hanno lo stesso contenuto della filosofia, lo Spirito assoluto, ma lo presentano in forma inadeguate: l’arte nella forma dell’intuizione sensibile e la religione nella forma della rappresentazione. L’ARTE Hegel attribuisce all’arte una funzione conoscitiva (come i Romantici), l’arte permette infatti di arrivare, attraverso le forme sensibili, all’intuizione dell’Assoluto. Infatti l’esperienza estetica è l’esperienza di un’unità profonda tra soggetto e oggetto; pertanto l’arte, attraverso la mediazione di un elemento sensibile (qualcosa di materiale, come una statua, un quadro, un suono) coglie intuitivamente quell’identità tra Spirito e Natura che la filosofia idealistica afferma concettualmente. Il limite dell’arte consiste nel fatto che la forma dell’intuizione sensibile non è in grado di render conto del dispiegarsi dialettico dell’Assoluto. Hegel dialettizza la storia dell’arte in tre momenti: arte simbolica, arte classica e arte romantica. L’arte simbolica (tipica dei popoli orientali) è caratterizzata dallo squilibrio tra contenuto e forma, nel senso che la forma prevale sul contenuto. L’arte classica è caratterizzta da un arminco equilibrio tra contenuto spirituale e forme sensibili. L’arte romantica è caratterizzata da un nuovo squilibrio tra forma e contenuto, nel senso che il contenuto prevale sulla forma, qualsiasi forma spirituale viene ormai avvertita come insufficiente a esprimere la ricchezza dello Spirito. Per questo l’arte romantica prelude alla Morte dell’arte, cioè all’abbandono dell’arte per trovare una più adeguata espressione della spiritualità nella religione e nella filosofia; la “morte dell’arte” non significa l’estinzione di qualsiasi attività vivere e per continuare a vivere: è questa l’unica crudele verità Non esiste un Dio provvidente, l’ assoluto è la Volontà Oggettivazioni della Volontà: 1° livello: IDEE, forme aspaziali e atemporali, archetipi della realtà 2° livello: le cose molteplici disposte in gradi ascendenti, dalla materia inorganica all’uomo cosciente IL PESSIMISMO la volontà di vivere è bisogno, desiderio, e quindi è mancanza, sofferenza, dolore PIETRO VERRI “Discorso sull’indole del piacere e del dolore”: il piacere è cessazione momentanea del dolore, il piacere deriva dal dolore ma il dolore non deriva dal piacere La vita è un pendolo che oscilla tra desiderio-dolore e sazietà- noia inoltre la volontà di vivere è un impulso egoistico assoluto che tende a realizzarsi in ogni individuo e quindi provoca una lotta crudele di tutti contro tutti (“formica gigante d’Australia”) l’individuo è uno strumento per la vita della specie - attraverso tutte le manifestazioni della vita la volontà di vivere perpetua se stessa – e il dolore Anche l’amore è solo uno strumento per perpetuare la vita -- l’essenza dell’amore è la procreazione (esempio della mantide). Della sessualità ci si vergogna perché la procreazione è un delitto ; l’unico amore apprezzabile non è l’eros ma la pietà Critica degli OTTIMISMI: Negazione di un Dio provvidente -- Negazione di una ragione immanente -- Negazione della storia come progresso (il destino dell’uomo non cambia) Negazione della bontà e socievolezza dell’uomo L’ottimismo è una copertura del mondo escogitata dalla viltà. 3 LE VIE DELLA LIBERAZIONE La conoscenza del dolore di cui è costituita l’esistenza conduce l’uomo, attraverso la dura esperienza, a non volere più la vita. Sorge così l’esigenza della liberazione dalla Volontà di vivere, o della Redenzione. Il suicidio non è vera liberazione: 1) è ancora un atto della Volontà , è negazione di una vita e non della Volontà di vivere; 2) il suicidio sopprime un individuo, manifestazione fenomenica della Volontà di Vivere, ma lascia intatta la cosa-in-sé, la Volontà di vivere Vera liberazione è la conversione dalla Volontà di vivere alla non-volontà = Noluntas Com’è possibile per l’uomo liberarsi dalla Volontà se questa costituisce l’essenza dell’uomo e di tutto l’universo ?!?! Schopenahuer non dà una giustificazione teorica di questo passaggio veramente problematico, ma constata l’esistenza di individui eccezionali capaci di tale conversione (geni dell’arte, santi, mistici) La liberazione si realizza attraverso tre tappe: arte - morale della compassione (giustizia e carità) - ascesi ARTE Nell’arte la nostra conoscenza non è più asservita alle esigenze pratiche della Volontà, ma è conoscenza disinteressata, pura contemplazione. L’oggetto della conoscenza artistica sono le Idee, essenze immutabili dei fenomeni molteplici. Le arti corrispondono ai gradi di oggettivazione della Volontà, dall’architettura alla Tragedia. La Musica è l’arte suprema perché non riproduce le Idee ma la stessa Volontà. La liberazione dell’arte è sempre provvisoria: breve incantesimo, conforto non redenzione MORALE morale (o etica) = superamento dell’egoismo e della lotta. Come per Kant il disinteresse è il carattere essenziale della moralità, ma non nasce da un imperativo della ragione, ma dal sentimento della compassione, per cui sentiamo nostre le sofferenze altrui, e conosciamo l’unità profonda degli esseri, superando il principium individuationis “attraverso la compassione conosciamo” “questo vivente sei tu” Giustizia: non fare il male, rinunciare all’egoismo Carità (o agàpe): fare il bene del prossimo, per pietà ASCESI “…deliberato infrangimento della volontà, mediante l’astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l’espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà…” tecnica per estirpare il proprio desiderio di esistere: castità perfetta, digiuno, umiltà, povertà, sacrificio Se la Volontà è vinta in un individuo essa svanisce totalmente, perché la Volontà è unica La soppressione della Volontà di vivere per mezzo dell’ascesi è l’unica libertà possibile, perché fin che siamo in balia della Volontà di vivere siamo fenomeni completamente determinati da fenomeni L’esito della liberazione (definito grazia, estasi, nirvana nel linguaggio religioso) dal punto di vista mondano (e filosofico) è il nulla. Ma l’asceta giunge a capire che il mondo è nulla. La filosofia non può definire l’esito della liberazione, può solo accennare all’esperienza dei mistici e degli asceti: “…quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell’assoluta quiete dell’animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia..” Søren Kierkegaard (Copenahagen 1813-1855) “Scrittore cristiano”: questa è la definizione che K. dà di se stesso, rifiutando i titoli, più istituzionali e accademici, di Filosofo o di Teologo. Kierkegaard fa parte di quel vasto movimento della filosofia ottocentesca che reagisce all’idealismo, e in particolare alla filosofia hegeliana, rifiutandone l’astrattezza, la lontananza dall’esistenza concreta degli uomini. Di questo movimento fanno parte pensatori molto diversi, come Schopenauer, Feuerbach, Marx: ognuno di essi critica l’idealismo con una voce diversa, da una prospettiva sua propria. Kierkegaard rifiuta l’idealismo di Hegel, che dissolve l’individuo nell’universale, in nome dell’originalità e dell’irriducibilità del singolo. L’esistenza concreta di ogni singolo uomo, segnata dal dramma della libertà e dell’angoscia, dal rischio della dissipazione e della disperazione, dalla speranza della salvezza, costituisce l’oggetto della riflessione del filosofo danese; l’opera di Kierkegaard, poco conosciuta nel suo secolo, è stata riscoperta dopo la Prima guerra mondiale, ed è stata valorizzata soprattutto dalla filosofia esistenzialista del Novecento, che ha riconosciuto in lui un precursore. LA VITA. E’ vissuto nella prima metà dell’Ottocento in Danimarca, in un’area culturale vicina al mondo tedesco Dal padre, mercante di fede protestante, riceve una rigida educazione religiosa. Nel 1840 ottiene la licenza in teologia e si fidanza con Regina Olsen. Non diventa però pastore protestante. Il padre, morendo, gli lascia un consistente patrimonio, che gli permette di scegliere di praticare il “mestiere” di “scrittore cristiano”, libero da precisi impegni di lavoro. Ma le scelte del giovane Kierkegaard sul proprio futuro sono particolarmente travagliate: dopo un anno, nonostante l’affetto che prova nei suoi confronti, rompe il fidanzamento con Regina, sentendo che gli sarebbe impossibile adattarsi alla comune esistenza di uomo sposato. Nel 1841 è in Germania, a Berlino, dove frequenta le lezioni del vecchio Schelling (idealista), che inizialmente lo entusiasmano, ma che ben presto finiranno per deluderlo. Negli anni successivi la vita di Kierkegaard – che morirà a 42 anni – si svolge tutta a Copenhagen, priva di avvenimenti esteriori di rilievo, eccettuata la violenta polemica che lo oppone alla Chiesa luterana danese, da lui accusata di essersi trasformata in un’istituzione burocratica e di aver abbandonato l’autentico messaggio evangelico. La sua esistenza tuttavia è segnata da un radicato senso di colpa e da eventi personali e familiari non ben identificati vissuti come oscure minacce. Le sue opere fondamentali sono Aut-aut, Timore e tremore, Il concetto dell’angoscia, Briciole filosofiche, La malattia mortale, Esercizio di cristianesimo. IL PENSIERO. I l Singolo. Il pensiero kierkegaardiano è anzitutto – e strutturalmente – la filosofia di un solitario. Per lui centrale è la categoria del singolo, e questo contrappone il suo pensiero alla tradizione moderna: la filosofia moderna, da Cartesio fino agli idealisti, tende a risolvere il rapporto tra l’individuo e l’universalità (o l’assoluto) a favore della forte predominanza della Totalità sul singolo. Ciascun uomo ritrova il proprio valore, le proprie ragioni di vita, la propria identità personale, all’interno di un principio superiore – Dio, Società, Storia o Assoluto che sia1. In particolare, la più emblematica di queste filosofie sistematiche, che è per Kierkegaard 1 In Cartesio, in Kant, in Hegel, quando si parla dell’uomo si parla sempre di ciò che caratterizza l’uomo in generale: la Res Cogitans, l’Io Penso, la Ragione (o lo Spirito): non si considera mai l’uomo nella sua individualità, non si considera il fatto che ogni uomo, pur appartenendo al genere umano, è sempre unico e irripetibile, quindi l’individualità, la particolarità di ogni individuo, è annullata nel genere. Kierkegaard respinge quest’annullamento affermando che l’individuo è superiore al genere. Inoltre la spiegazione e la soluzione che viene data ai problemi umani dal punto di vista del genere (del tutto) , molto spesso non è valida per l’individuo. Per esempio Hegel giustifica la guerra dicendo che essa è necessaria e benefica per il progresso dell’umanità: questa soluzione forse è accettabile per l’umanità in generale, ma non è una soluzione valida per il singolo individuo che muore sotto le bombe! Ricordiamo a tal proposito lo scrittore russo Dostoevskij: “Io ho creduto e voglio vedere anch’io, e, se allora fossi già morto, mi si risusciti, perché se tutto dovesse avvenire senza di me, sarebbe una cosa troppo ingiusta. Io non ho mica sofferto per concimare col mio essere, con le mie colpe e le mie sofferenze, la futura armonia in pro di qualcuno. Io voglio vedere coi miei occhi il daino ruzzare accanto al leone e l’ucciso alzarsi ad abbracciare il suo uccisore. Io voglio essere presente quando tutti apprenderanno di colpo perché tutto sia stato così.” (F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Rizzoli, Milano 1998, pp. 326-327.) 2 quella di Hegel, tende a risolvere tutti i problemi del singolo riproponendoli al livello della razionalità dialettica del tutto. Per questo l’hegelismo (con la sua affermazione dell’identità di reale e razionale) è visto da Kierkegaard come una filosofia “tranquillizzante”: per tutti i problemi umani ci sono un senso e un’interpretazione chiara, razionalmente comprensibile. Ma per Kierkegaard quest’annullamento del singolo nella totalità è impossibile e illusorio, occorre restituire l’uomo singolo al dramma della sua responsabilità e al rischio della sua condizione (il rischio di un’esistenza inautentica, incompiuta). Per Kierkegaard la filosofia ha inizio nel singolo, che deve prendere una decisione su come comportarsi e non può sfuggire alla scelta, anche se non sa che cosa deve scegliere. Da questo non sapere nasce la filosofia, intesa non più come scienza dell’Assoluto, ma dei rapporti tra il singolo uomo e il suo mondo. E tale posizione non è data dal fatto che Kierkegaard non avverte il problema dell’Assoluto (è anzi vero il contrario), ma perché contesta la possibilità di collocarsi dal punto di vista del tutto, di conoscere la realtà in termini di ragione universale. Nell’affrontare la vita e le responsabilità che essa comporta, l’uomo si trova nel punto di vista più lontano dall’Assoluto: nella sua esistenza è radicalmente un singolo. Egli è solo nella scelta, e porta la responsabilità di ciò che farà. “Che fare?” Di fronte al singolo si aprono delle possibilità, e la scelta è sempre tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, il suo comportamento esclude radicalmente altri modi di comportarsi, altre possibilità etiche. La categoria della possibilità, e non quella hegeliana della necessità, caratterizza – secondo Kierkegaard – l’esistenza dell’uomo. Kierkegaard esprime la assoluta radicalità che è implicita in qualsiasi scelta con l’espressione latina aut-aut (o questo o quello!) che si oppone all’ et-et hegeliano, vale a dire la sintesi dialettica, la conciliazione degli opposti nella sintesi. Gli stadi della vita: L’analisi delle scelte che contraddistinguono l’uomo esistente getta luce sul significato dell’esistenza stessa, e permette di coglierne la verità e il valore; Kierkegaard esemplifica le possibilità di scelta attraverso tre stadi (modi, momenti qualitativamente diversi) di vita: lo stadio estetico, lo stadio etico e lo stadio religioso. A)Don Giovanni e la vita estetica. Di fronte alla vita ci si può comportare come Don Giovanni (il personaggio dell’opera di Mozart), interpretandola come una continua seduzione. Egli si muove nel mondo senza metter mai radici, interponendo tra sé e gli altri un sottile velo di immagini seducenti. Il seduttore non mostra mai se stesso: mostra sempre un’immagine cangiante, in modo da potersi nascondere dietro di essa e apparire come la donna che corteggia vuole che egli sia, senza in realtà essere mai nessuna delle maschere di cui si riveste. Il Costituenti crosta terrestre I minerali sono i costituenti fondamentali delle rocce, i veri «mattoni» da cui risulta edificato il pianeta. Dovremo sostituire l’immagine tradizionale dei minerali (come oggetti da decorazione o come sostanze per impiego industriale) con quella più generica di strutture complesse, frutto di un ordine rigoroso a livello degli atomi. Scopriremo così il mondo dei cristalli che offre, dietro il rigore dei precisi rapporti chimico-fisici, una grande fantasia di forme e colori. E saranno proprio i meccanismi attraverso cui si formano i cristalli a fornirci la chiave per entrare nel multiforme mondo delle rocce. Se i minerali sono i «mattoni», formati dalle varie combinazioni degli elementi chimici diffusi nell’Universo, le rocce sono gli «edifici» cui i minerali danno origine e che costituiscono, in definitiva, la struttura della crosta. Lo studio delle rocce inizia dove possono essere osservate, cioè sulla superficie terrestre, che offre due importanti fonti di informazioni: gli ambienti in cui si stanno formando oggi nuove rocce e i vari tipi di processi chimici, fisici e biologici che caratterizzano i singoli ambienti; le rocce che si sono formate in passato e sono state via via sepolte da altre rocce, ma che ora i processi erosivi fanno affiorare anche molto tempo dopo la scomparsa degli ambienti in cui si sono generate. Le analisi e le interpretazioni dei due tipi di dati sono tra loro strettamente collegate. L’osservazione degli ambienti e dei processi attuali permette di comprendere l’origine delle rocce e ciò consente di ricostruire ambienti del passato a partire dall’esame delle rocce che affiorano oggi in superficie (figura ► 2 ). Lo studio delle rocce ha messo in evidenza che molte di esse si sono formate in profondità, all’interno della crosta, e ha permesso di ricostruire processi interni della Terra, non osservabili, ma di grande importanza. Classificare le rocce in base ai processi litogenetici (i processi che danno origine alle rocce) significa poter disporre di uno strumento di indagine per ricostruire la storia della Terra e per cominciare a comprendere come «funziona» il nostro pianeta. Dietro la molteplicità di tali processi e l’eterogeneità dei prodotti che ne derivano scopriremo le linee fondamentali del ciclo litogenetico, un processo che riguarda tutta la crosta, i cui minerali risultano in perenne trasformazione. Le rocce, infatti, continuano a formarsi da miliardi di anni, ma vengono ampiamente «riciclate», per cui la crosta si rinnova continuamente, tanto che le testimonianze di eventi molto antichi sono diventate rare e lacunose. A fianco dell’aspetto conoscitivo, lo studio delle rocce offre anche aspetti applicativi. I diversi processi litogenetici sono all’origine delle risorse naturali non biologiche, il cui impiego ha accompagnato tutto il cammino dell’uomo, dalla raccolta di selce per le punte delle frecce all’estrazione di materiali radioattivi per l’energia nucleare. I materiali da costruzione, le materie prime per la produzione di metalli, i combustibili fossili (petrolio e carbone) sono minerali e rocce, e la loro ricerca, come la valutazione della loro disponibilità, si basa sulle conoscenze dei processi litogenetici. 2.1 Elementi, composti e miscele I chimici definiscono «sostanza» un campione di materia con composizione chimica definita e dividono le sostanze in elementi e composti. Un elemento è una sostanza formata di atomi tutti uguali, cioè tutti con lo stesso numero atomico. Un composto si forma quando due o più atomi diversi si legano insieme. Per esempio, l’acqua è un composto, in cui un atomo di ossigeno è «chimicamente legato» a due atomi di idrogeno. Gli atomi in un composto sono presenti in un rapporto preciso e costante: per esempio, l’acqua contiene sempre due atomi di idrogeno per ogni atomo di ossigeno. Ricordiamo che la più piccola particella di una sostanza (elemento o composto) che ne conserva tutte le caratteristiche è la molecola e che una molecola può essere formata da un solo atomo o da più atomi. In natura difficilmente si trovano sostanze pure, cioè con una composizione definita in ogni loro parte; più spesso si trovano miscele, cioè materia di composizione variabile, formata da due o più sostanze che conservano ognuna le proprie caratteristiche. Esse si possono distinguere in miscugli e soluzioni. Il miscuglio è una miscela eterogenea, in cui le singole sostanze componenti rimangono separate, anche se vengono mescolate. Un esempio di miscuglio è una sabbia formata da granuli diversi. Le soluzioni sono miscele omogenee, in cui non è possibile distinguere le singole sostanze componenti e che, pertanto, presentano le stesse caratteristiche in ogni loro parte. Non sono tuttavia sostanze pure, perché la loro composizione può variare entro limiti anche ampi, come quando si fa sciogliere del sale nell’acqua. 2.2 Stati di aggregazione della materia La materia che ci circonda si presenta secondo tre diversi «modi di essere», che vengono definiti stati di aggregazione: solido (come le rocce), liquido (come l’acqua) e gassoso (come l’aria). I materiali allo stato solido hanno forma e volume proprio. Nei solidi, le molecole sono reciprocamente legate da forze intense e occupano posizioni mediamente fisse una rispetto all’altra. I materiali allo stato liquido hanno anch’essi volume proprio, ma assumono la forma del recipiente che li contiene. Nei liquidi le molecole sono legate da forze meno intense, per cui sono libere di scorrere l’una contro l’altra. I materiali allo stato gassoso non hanno volume proprio e, liberi da ostacoli, tendono ad espandersi occupando tutto lo spazio disponibile. Nei gas, infatti, le forze di attrazione tra le singole molecole sono deboli. Lo stato di aggregazione non è una caratteristica fissa di una sostanza: l’acqua può assumere lo stato solido (ghiaccio), liquido o gassoso (vapore acqueo). Ogni sostanza, infatti, può cambiare di stato assorbendo o liberando energia sotto forma di calore (figura ► 3 ). Il passaggio da solido a liquido prende il nome di fusione e assorbe energia; il processo inverso è detto solidificazione e libera energia (calore latente di fusione) Il passaggio da liquido a gas si chiama evaporazione e assorbe energia; il passaggio inverso è la condensazione (o liquefazione) e avviene con liberazione di energia (calore latente di condensazione). Il termine sublimazione indica invece il passaggio diretto dallo stato solido a quello gassoso: un esempio di tale processo è il vapore che si libera dal «ghiaccio secco» (che è anidride carbonica allo stato solido). Infine, con brinamento si indica il passaggio diretto da gas a solido. 3.1 La composizione chimica dei minerali I minerali che costituiscono la crosta terrestre sono formati dalla combinazione degli stessi elementi chimici che si ritrovano in tutto l’Universo. Alcuni minerali, come l’oro e l’argento, sono formati da un solo tipo di elemento, ma la maggior parte sono il risultato della combinazione di più elementi, legati tra loro in un composto chimico. Non tutti gli elementi chimici noti in natura hanno però la stessa importanza nella composizione dei minerali della crosta terrestre. La tabella ►1 riassume l’ordine di abbondanza, in percentuale, dei principali elementi chimici nella crosta di tipo continentale, cioè della parte di crosta terrestre che corrisponde alle terre emerse e alla loro prosecuzione sotto il mare fino a comprendere gran parte della scarpata continentale. I dati sono stati ottenuti dall’analisi di numerosi campioni raccolti in tutte le aree continentali, sia in superficie sia fino a una certa profondità. La tabella mostra che oltre il 98% in peso della crosta è formato da soli 8 elementi, con netta prevalenza dell’ossigeno e del silicio che, da soli, costituiscono il 75% della crosta terrestre continentale. Il resto della crosta terrestre, la parte più ampia, che si estende sotto gli oceani e che è detta per questo oceanica, è composta dagli stessi elementi, ma in proporzioni diverse, e ciò ha portato a composti chimici differenti e, quindi, a minerali diversi. Crosta continentale e crosta oceanica sono, quindi, profondamente diverse, a partire dalla natura delle rocce che le costituiscono. 3.2 La struttura cristallina dei minerali Per potersi orientare tra le circa 4000 tra specie e numerosissime varietà di minerali oggi note è necessario ricorrere a una classificazione che tenga conto delle caratteristiche fondamentali dei minerali: struttura del reticolo cristallino (che dà origine all’abito cristallino); composizione chimica. Le unità base di questa classificazione sono le specie minerali, ognuna delle quali comprende tutti gli individui minerali che hanno lo stesso tipo di reticolo strutturale e composizione chimica uguale (o variabile entro limiti ben precisi). Uno schema molto semplificato di questa classificazione è riportato nella tabella ► 3 , nella quale i minerali sono distribuiti in 8 classi (alle quali si aggiunge una nona classe per le sostanze organiche). A parte la prima classe, che comprende gli elementi nativi (che formano cristalli con un solo tipo di elemento), tutte le altre raccolgono ossidi e sali «costruiti» intorno a una serie di anioni. Non tutte le specie di minerali oggi note hanno la stessa importanza nella composizione della crosta terrestre; le specie veramente abbondanti sono una ventina ed è dalla loro combinazione che prendono origine le rocce. Il gruppo più diffuso e numeroso di minerali è quello dei silicati. Essi sono costituiti essenzialmente da ossigeno e silicio, i due elementi chimici più abbondanti nella crosta, che si combinano tra loro per formare diverse strutture di base, alle quali si aggiungono vari altri elementi. I minerali che ne risultano costituiscono da soli l’80% dei materiali della crosta terrestre. I silicati rappresentano per il mondo inorganico l’analogo dei composti del carbonio per il mondo organico per la varietà di strutture che vi si incontrano. La chiave di tale varietà è nel modo in cui il silicio attrae a sé (coordina) l’ossigeno: ogni ione silicio coordina 4 ioni ossigeno e il gruppo silicatico [SiO4]4- che ne risulta ha la forma tridimensionale di un tetraedro (figura ► 7 ). Ma i tetraedri possono anche legarsi direttamente tra di loro, originando catene di tetraedri oppure lamine e reticoli tridimensionali, secondo un processo detto polimerizzazione (ben noto nel campo dei composti organici del carbonio). I cationi che più frequentemente si legano alle strutture silicatiche sono il sodio, il potassio, il calcio, il magnesio, il ferro (ferroso e ferrico). Diverso, invece, è il comportamento dell’alluminio, che può sostituire parte del silicio nei tetraedri, originando così gli alluminosilicati, molto importanti perché comprendono, tra gli altri, i feldspati, il gruppo più numeroso dei minerali della crosta terrestre. In base al diverso modo di legarsi tra loro dei tetraedri, i silicati si suddividono in quattro gruppi, la cui struttura è schematizzata nella figura ► 8 , nella quale sono riportati anche i nomi dei minerali più rappresentativi e più diffusi in ogni gruppo. I minerali non silicatici sono invece molto meno abbondanti, ma tutt’altro che trascurabili, se non altro perché comprendono molti minerali di rilevante importanza economica. Nella costituzione di rocce, i soli di una certa importanza sono i minerali carbonatici, formati dall’anione (CO3)2- legato a uno o più cationi. I minerali più comuni sono la calcite, CaCO3, e la dolomite, CaMg(CO3)2, che sono i componenti essenziali delle rocce sedimentarie carbonatiche (calcàri e dolòmie). Abbastanza frequenti sono anche minerali come il salgemma, NaCl, e il gesso, CaSO4 · 2H2O (solfato di calcio idrato) che si formano per precipitazione chimica a seguito dell’evaporazione di acqua salata, come quella del mare 3.5 Come si formano i minerali I minerali sono il risultato di una serie di reazioni chimico-fisiche che si possono riassumere nel processo di cristallizzazione, cioè nel passaggio da un insieme di atomi disordinati a porzioni di materia rigorosamente ordinata. Ogni specie minerale dipende, perciò, dalle caratteristiche dell’ambiente naturale in cui si forma: temperatura, pressione e concentrazione dei diversi elementi chimici presenti. La presenza di un minerale, quindi, fornisce informazioni sull’ambiente di formazione della porzione di crosta terrestre che lo contiene. Vediamo quali sono i principali processi di formazione di un minerale. Cristallizzazione per raffreddamento di un materiale fuso (per esempio la lava eruttata da un vulcano). Gli atomi o i gruppi di atomi si aggregano per formare i reticoli cristallini tipici dei composti chimici che possono formarsi a seconda della natura del fuso. Precipitazione da soluzioni acquose calde in via di raffreddamento. Al diminuire della temperatura, si formano via via cristalli di specie mineralogiche diverse, a seconda della composizione chimica della soluzione. Sublimazione di vapori caldi. Le esalazioni vulcaniche, per esempio, possono determinare la formazione di cristalli su superfici relativamente fredde vicine alla zona di fuoriuscita dei vapori (figura ► 9 ). Evaporazione di soluzioni acquose, soprattutto acque marine. Attività biologica, che porta alla costruzione di gusci o apparati scheletrici. Trasformazioni allo stato solido di minerali già esistenti prodotte da variazioni di temperatura o di pressione (o di entrambe). Tali variazioni generano profondi cambiamenti e danno origine a specie mineralogiche diverse da quelle di partenza: sono diffuse soprattutto in profondità, entro la crosta 4.1 Lo studio delle rocce Nella maggior parte dei casi una roccia è un aggregato naturale di diversi minerali, talvolta anche di sostanze non cristalline, di solito compatto, che forma una massa ben individuabile, distinta da altre masse analoghe. Le rocce sono in prevalenza eterogenee, costituite, cioè, da più specie di minerali. Talvolta si incontrano rocce omogenee, formate da un solo minerale (monominerali), come un ammasso di calcàre o di gesso. Se si esaminano su grande scala, però, anche le rocce omogenee contengono, diffuse, delle tracce di altri minerali che tolgono alla roccia quella uniformità chimica che di norma caratterizza un minerale. Lo studio di una roccia comincia sul terreno, con la semplice osservazione di alcune caratteristiche macroscopiche: aspetto omogeneo o alternanza di livelli diversi, presenza o assenza di stratificazione, colore, durezza, presenza di minerali particolari o di fossili, rapporti con le rocce circostanti. Per la definizione precisa di una roccia è però necessario identificare il tipo e il numero di minerali presenti e per questo si ricorre a prove di laboratorio quali: osservazioni al microscopio, esame ai raggi X, analisi chimiche qualitative e quantitative ecc. Lo studio dei minerali e delle rocce ha portato allo sviluppo di vari rami delle scienze geologiche, tra cui Mineralogia, Petrologia, Sedimentologia, Giacimentologia, Geochimica ecc. 4.2 I processi litogenetici Le masse rocciose di cui è costituita la crosta si originano ed evolvono in condizioni molto varie. È possibile individuare tre principali processi litogenetici, cioè «generatori di rocce»: il processo magmatico, il processo sedimentario, il processo metamorfico. Essi sono tra loro chiaramente distinti, anche se non mancano passaggi e sovrapposizioni. Il processo magmatico è caratterizzato dalla presenza iniziale di un materiale fuso, chiamato genericamente magma. Il magma risale dall’interno della Terra ad alta temperatura, da parecchie centinaia al migliaio di gradi, in condizioni di pressione molto varie. La progressiva diminuzione della temperatura porta alla cristalizzazione del fuso e quindi alla formazione di aggregati di minerali che costituiscono le rocce magmatiche, anche chiamate ignee (figura ► 15 ). Il processo sedimentario inizia con l’alterazione e l’erosione dei materiali rocciosi che affiorano in superficie ad opera dei cosiddetti agenti esogeni (acqua, vento, ghiaccio) e si completa con il trasporto e l’accumulo dei materiali erosi. 5.2 Classificazione dei magmi I magmi (e le lave che ne derivano) possono avere composizioni chimiche diverse, per cui la cristallizzazione può portare a rocce che differiscono tra loro per i tipi di minerali in esse aggregati. La distinzione tra i vari tipi di magmi si basa sul loro contenuto in silice. La silice è il composto chimico SiO2 e può cristallizzare come silice libera formando il minerale quarzo. La silice combinata indica invece, nelle analisi chimiche dei minerali silicatici, la quantità totale di silicio e di ossigeno che, legati in tetraedri, si combinano con altri elementi e formano la struttura dei silicati. Su tale base, i magmi si dividono in: magmi acidi (ricchi in silice); magmi neutri; magmi basici; magmi ultrabasici (poverissimi in silice). I magmi acidi, ricchi in Si (silicio) e Al (alluminio), danno origine a rocce con densità intorno a 2,7 g/cm3, povere di silicati, ricche di alluminosilicati e di una certa quantità di silice libera (SiO2), che solidifica in granuli di quarzo. In totale, la silice arriva a oltre il 65% in peso. Tali rocce sono dette acide o sialiche (dalle iniziali di silicio e alluminio). I magmi neutri hanno una composizione intermedia (dal 52 al 65% in peso di silice) e danno origine a rocce neutre: la loro densità è superiore a quella delle rocce acide e mostrano un rapporto equilibrato fra alluminosilicati e silicati. I magmi basici (figura ► 21 ) hanno una quantità bassa di silice (inferiore al 52%) ma sono relativamente ricchi in Fe (ferro), Mg (magnesio) e Ca (calcio). Essi danno origine a rocce in genere scure (dal verde al grigio scuro e al nero), con densità prossima a 3 g/cm3, ricche di silicati e prive di silice libera. Tali rocce sono dette basiche o femiche (dalle iniziali di ferro e magnesio). Nei magmi ultrabasici la percentuale di silice è inferiore al 45% in peso. Le rocce cui danno origine sono dette ultrabasiche o ultrafemiche: sono tutte di colore molto scuro, hanno densità elevata (3 o superiore) e sono formate essenzialmente da silicati di Fe e Mg. Analogamente alle rocce, i minerali ricchi in Si ed Al sono detti sialici; quelli ricchi di Fe, Mg e Ca sono detti femici. La tabella ► 4 elenca i minerali, con la rispettiva formula chimica, che con la loro abbondanza o scarsezza (o assenza) caratterizzano i vari tipi di rocce magmatiche. 5.3 Classificazione delle rocce magmatiche Esaminiamo le principali famiglie di rocce magmatiche, tenendo presente la tabella 4 per orientarci sui tipi di minerali che le caratterizzano: famiglia dei graniti (rocce acide); famiglia delle dioriti (rocce neutre); famiglia dei gabbri (rocce basiche); famiglia delle peridotiti (rocce ultrabasiche); famiglia delle rocce alcaline (rocce particolarmente ricche in sodio e potassio). Famiglia dei graniti. Queste rocce intrusive acide sono di gran lunga il tipo più diffuso tra tutte le rocce ignee intrusive. Esse contengono molti granuli di quarzo, molti cristalli di feldspati e pochi minerali femici (vedi ancora la figura 18). Le rocce ricche di quarzo sono tipicamente i graniti; quelle più povere di quarzo vengono distinte come granodioriti e, come vedremo, sono il tipo più abbondante nella parte superiore della crosta. Le masse fuse di tipo granitico sono generate a qualche decina di km di profondità e danno origine ad ammassi di rocce durissime, lunghi anche migliaia di km e larghi centinaia di km. Questi corpi (chiamati, come già detto, batoliti) si sono formati in quei settori di crosta in cui sono sorte grandi catene montuose. Col tempo, vengono messi in luce dai fenomeni erosivi. Questa famiglia comprende anche le rocce effusive aventi la stessa composizione chimica di quelle intrusive, ma che hanno subìto una diversa modalità di cristalizzazione e presentano pertanto struttura porfirica. Ricorderemo le rioliti o lipariti, che talvolta, per via della rapidità del raffreddamento, possono assumere l’aspetto vetroso delle ossidiane. Famiglia delle dioriti. Queste rocce derivano da magmi neutri, che danno luogo a una miscela equilibrata di composti sialici (abbondanti plagioclasi) e di composti femici (pirosseni o anfiboli). I corrispondenti effusivi delle dioriti tipiche, di regola con fenocristalli abbondanti e ben cristallizzati, sono le andesiti (vedi ancora la figura 20). Le andesiti caratterizzano l’attività degli allineamenti di vulcani che fiancheggiano le grandi fosse abissali, come la catena di vulcani delle Ande, da cui queste rocce hanno preso il nome. Famiglia dei gabbri. I magmi basici danno rocce intrusive scure, con plagioclasi ricchi di calcio associati a pirosseni, anfiboli e olivina. Le corrispondenti rocce effusive sono i basalti, il tipo più diffuso tra tutte le rocce effusive, che formano, tra l’altro, il «pavimento» di tutti gli oceani. Le rocce basaltiche sono di grande interesse teorico: secondo molti studiosi, infatti, il globo terrestre nei primi tempi della sua vita avrebbe avuto una crosta superficiale (priva di acque perché ancora troppo calda) omogenea e simile al basalto. Anche le rocce lunari possiedono in buona parte la stessa composizione. Famiglia delle peridotiti. Sono rocce che derivano da magmi ultrabasici e sono formate in gran parte da olivina (nota anche con il nome di peridoto). Le più note sono le peridotiti, rocce nere, pesanti e spesso interessate da giacimenti minerari di alto valore, come i composti del cromo. Esse hanno distribuzione limitata sui continenti, mentre sono il costituente fondamentale della parte superiore del mantello. Famiglia delle rocce «alcaline». I magmi particolarmente ricchi di elementi alcalini, come Na (sodio) e K (potassio), originano abbondanti feldspati, a scapito degli altri minerali. Anche in questa famiglia si riconoscono rocce neutre e basiche: le rocce alcaline neutre comprendono le sieniti (intrusive), prive o poverissime di quarzo e ricche di ortoclasio, e le loro corrispondenti effusive, le trachiti; le rocce alcaline basiche comprendono le leucititi, comuni in Lazio e Campania (spesso indicate erroneamente come basalti), caratterizzate da fenocristalli biancastri di leucite (un silicato di potassio) in una pasta di fondo grigia (figura ► 22 ). 6.1 Un solo magma o tanti magmi? Le frequenze con cui si ritrovano in natura i singoli tipi di rocce ignee non sono simili: tra le rocce intrusive il 95% presentano composizione acida (graniti e granodioriti), mentre tra quelle effusive il 98% sono rocce basiche o neutre (basalti e andesiti). Tale distribuzione non è un caso, ma dipende dalla provenienza del magma. Se la fusione avviene a profondità di oltre 35 km, cioè nel mantello (la cui natura, come vedremo in seguito, è ultrabasica), essa porta alla formazione di un magma primario di composizione prossima a quella del basalto (figura ► 23 ). Ad alta temperatura (la temperatura di fusione per le rocce del mantello è 1200-1400 °C), il magma è molto fluido, tanto da poter risalire fino in superficie prima di cristallizzarsi e dare origine a gran parte delle rocce effusive. Se la fusione avviene a minori profondità, all’interno della crosta continentale, essa porta alla formazione di magma anatettico. Questi fusi acidi si formano attraverso il processo di anatessi, cioè per la fusione della crosta continentale alla profondità di qualche decina di km. In queste zone la temperatura raggiunge valori abbastanza elevati (tra i 600 e i 700 °C) da provocare, almeno in certe condizioni, la fusione dei minerali sialici, ampiamente presenti in questo tipo di crosta. Se la fusione non è completa e il miscuglio fluido-solido si raffredda, la parte fluida torna a cristallizzarsi e si formano tipiche rocce, denominate migmatiti (figura ► 24A ). Se, invece, prosegue la fusione per aumento della temperatura, si completa il processo di anatessi e si forma un nuovo magma, che dà origine a una roccia magmatica intrusiva, del tutto simile alle rocce granitiche (figura ► 24B ). I magmi anatettici hanno elevata viscosità, poiché sono costituiti da una porzione fusa che avvolge e permea molti residui ancora solidi, costituiti da minerali a più alto punto di fusione. Essi si muovono perciò con notevole difficoltà, non risalgono molto entro la crosta e tendono a cristallizzarsi in profondità, formando batoliti granitici. Qualunque tipo di roccia, sedimentaria o ignea, trasportato abbastanza in profondità da movimenti entro la crosta, finisce per subire in qualche grado tale processo di fusione e i suoi elementi vengono «riciclati» come magma anatettico. Sottolineiamo ancora la differente viscosità dei magmi, che ne influenza la mobilità. A parità di altre condizioni (temperatura, pressione), i magmi acidi sono molto più viscosi di quelli basici. A titolo di esempio, le lave riolitiche hanno una viscosità 10000 volte maggiore di quella delle lave basaltiche e ben un milione di volte maggiore della viscosità dell’olio lubrificante per macchine. In definitiva, mentre i magmi basici, che nelle eruzioni danno origine ai basalti, risalgono fino in superficie da zone molto profonde e sono una specie di «distillato» del mantello, i magmi acidi, che danno origine a rocce simili ai graniti e alle granodioriti (o alle corrispondenti rocce effusive: rioliti e andesiti) rappresentano una rielaborazione locale delle rocce della crosta continentale. La cementazione è prodotta invece da acque che circolano nei sedimenti sfruttando la presenza dei pori e che portano in soluzione alcune sostanze. Col tempo tali sostanze possono precipitare chimicamente e riempire i pori, cementando i granuli. Tra i cementi più comuni ricordiamo la calcite e la silice. Le rocce sedimentarie vengono suddivise in tre grandi gruppi, che riuniscono ciascuno quelle che si formano in modi simili: rocce clastiche (o detritiche); rocce organogene (o biogene); rocce chimiche. 7.2 Le rocce clastiche o detritiche Sono rocce formate da frammenti (clasti) di altre rocce che si accumulano in genere in zone ribassate, quando il mezzo che li trasporta (acqua, vento, ghiaccio) perde la sua energia. Per risalire all’ambiente di formazione si considera la dimensione dei clasti, che riflette l’energia dell’ambiente in cui si sono deposti: quanto più sono piccoli, tanto più «tranquillo» doveva essere il mezzo (in genere l’acqua) da cui si sono sedimentati. Altra caratteristica importante è il grado di arrotondamento dei granuli, che esprime l’usura subìta dal clasto e dà un’idea dell’intensità del processo di trasporto in cui è stato coinvolto. Le rocce costituite da clasti con dimensioni maggiori di 2 mm sono dette conglomerati, e derivano dalla lenta cementazione delle ghiaie. I conglomerati formati da ciottoli spigolosi sono detti brecce (figura ►27). Esse hanno subìto un trasporto modesto, come accade ai detriti caduti ai piedi dei versanti montuosi. I conglomerati formati da ciottoli arrotondati sono detti puddinghe (figura ►28). Esse hanno subìto un lungo trasporto come, ad esempio, i depositi alluvionali lasciati dai fiumi e dai torrenti. Le rocce costituite da clasti più piccoli (tra 2 mm e 1/16 di mm) sono chiamate arenarie, sabbie cementate che possono essere ricche di granuli di quarzo o di altra natura (figura ►29). Derivano da sabbie desertiche, dune litorali, sabbia fluviale o lacustre o deltizia, sabbie costiere o di bassifondi marini. In Cina, in Russia ed in altre distese continentali vi sono tipici depositi giallastri di sabbia fine, trasportata su lunghe distanze dal vento, che prendono il nome di loess (pronuncia löss). Le rocce formate da clasti finissimi (meno di 1/16 di mm) sono dette argille. Esse si depositano in prevalenza sul fondo dei grandi laghi, o al largo dei delta, o, ancora, in mare aperto e in pieno oceano. Quando tali sedimenti, a causa della diagenesi, perdono la loro tipica plasticità e diventano più compatti, vengono distinti con il nome di argilliti. Le rocce clastiche comprendono anche le marne, rocce che derivano da una mescolanza di argille e di calcàre di origine detritico-organogena (vedi oltre) o chimica, secondo varie proporzioni. Le marne sono la materia prima per la preparazione del cemento usato per l’edilizia. Sono ritenute rocce clastiche anche le piroclastiti, depositi di materiali di varie dimensioni (da ceneri a lapilli) emessi da esplosioni vulcaniche. I frammenti hanno seguìto in aria o lungo le pendici del vulcano percorsi più o meno lunghi, prima di «sedimentare» su altre rocce o in mare. Per questa ragione le rocce piroclastiche vengono considerate come sedimentarie, anche se i materiali che le costituiscono sono di origine ignea. 7.3 Le rocce organogene Nelle rocce clastiche si trovano frequentemente resti fossili di organismi viventi che sono stati trasportati e accumulati, spesso in frammenti, insieme ad altri clasti. Esiste però un vasto gruppo di rocce formate quasi solamente dall’accumulo di sostanze legate a un’attività biologica. Sulla base del modo in cui si è formato l’accumulo si distinguono in tre categorie, che riflettono diversi ambienti di origine. Rocce bioclastiche, formate da semplici accumuli di gusci e apparati scheletrici (ad esempio gli ammassi di conchiglie che si osservano anche oggi lungo le coste). Rocce biocostruite, formate da ammassi di organismi «costruttori», i cui apparati scheletrici esterni possono saldarsi l’uno all’altro (ad esempio le scogliere e gli atolli costruiti da spugne e coralli in mari tropicali). Depositi organici, formati da accumuli di sostanza organica vera e propria, vegetale o animale, in mare o su terre emerse, dalla cui trasformazione nel tempo prendono origine depositi particolari (carboni e idrocarburi). In ogni caso, la presenza di resti fossili consente di risalire all’ambiente in cui la roccia si è formata. In base alla loro natura chimica prevalente, le rocce organogene sono classificate in più gruppi. Rocce organogene carbonatiche. Le rocce carboniche comprendono i calcàri organogeni, che derivano dall’accumulo di gusci calcarei spesso immersi in una matrice fine (figura ► 30 ). I gusci sono costituiti da carbonato di calcio (CaCO3), minerale noto come calcite. I calcàri organogeni si formano anche dall’attività di organismi costruttori che impiegano la calcite per rivestirsi di parti scheletriche, come i coralli (figura ► 31 ). Gli organismi che formano gusci calcarei sfruttano l’abbondanza di ioni calcio (Ca+2) e di ioni bicarbonato (HCO−3) sciolti nell’acqua di mare, dove vengono trasportati dai fiumi, come prodotti della degradazione meteorica dei calcari e delle rocce ricche di minerali silicatici contenenti calcio. Associate ai calcàri, ma meno abbondanti, si trovano spesso le dolòmie, formate da un minerale chiamato dolomite, la cui formula è CaMg(CO3)2(carbonato doppio di calcio e magnesio). Tali rocce si formano per un processo di diagenesi in rocce calcàree interessate da circolazione di soluzioni acquose ricche di magnesio: la dolomitizzazione (vedi Approfondimento, Dolomiti: giardino di coralli ). In genere i sedimenti carbonatici si formano nelle piane marine abissali e sono costituiti dai gusci calcitici di un numeroso gruppo di foraminiferi, minuscoli organismi unicellulari che vivono innumerevoli nelle acque superficiali. Alla morte di quegli organismi i gusci scendono come una pioggia impalpabile sul fondo dell’oceano, dove si accumulano a formare fanghi calcarei. Vasti accumuli di sedimenti carbonatici, che con il tempo si trasformano in calcàri e dolòmie, si formano, però, anche in corrispondenza delle piattaforme carbonatiche. Le piattaforme carbonatiche sono fondi marini, piatti e poco profondi, estesi per decine o anche centinaia di km, sui quali si depositano carbonati, sia di origine organica (gusci) sia inorganica (precipitazione chimica, forse facilitata da microrganismi). Tali aree comprendono vasti banchi coperti da qualche metro d’acqua (lagune), in cui si accumulano fanghi calcarei finissimi, mentre lungo il margine della piattaforma si sviluppano scogliere organogene, che formano ammassi rocciosi costituiti dagli apparati scheletrici di vari tipi di organismi costruttori, primi fra tutti i coralli coloniali. Esempi attuali di queste grandi strutture sono le Isole Bahamas, al largo della Florida, o le Isole Dahlac, nel Mar Rosso e numerose altre che popolano i mari tropicali. Nel passato, con organismi costruttori diversi al passare del tempo, strutture analoghe hanno dato origine a imponenti accumuli di calcàri, ognuno con spessori di migliaia di metri, i cui resti si trovano anche sulle Alpi meridionali e formano l’ossatura di gran parte dell’Appennino centro-meridionale. Rocce organogene silicee. L’accumulo di gusci di organismi che utilizzano la silice invece della calcite, porta alla formazione di rocce organogene silicee. Tra queste la più diffusa è la selce, una roccia dura, formata da SiO2 (silice, in forma di quarzo o di altre varietà, come il calcedonio o l’opale), che può presentarsi in strati regolari, in genere di modesto spessore (figura ► 33 ), o può essere contenuta entro masse calcàree in forma di lenti, noduli e masserelle sferoidali. Depositi organici: carboni fossili e idrocarburi. I carboni fossili sono rocce organogene che derivano dalla fossilizzazione di grandi masse di vegetali (alberi, piante acquatiche, alghe) per progressivo arricchimento di carbonio e perdita degli altri elementi chimici dei vegetali. Gli idrocarburi sono invece miscele di composti del carbonio e dell’idrogeno cui si aggiungono piccole quantità di composti ossigenati, azotati e fosforati. In natura si trovano idrocarburi solidi (asfalti, bitumi), liquidi (petrolio) e gassosi (fra i quali predomina il metano). Gli idrocarburi impregnano molti strati di rocce porose (come fa l’acqua quando riempie i pori di una spugna) e derivano dalla decomposizione di sostanze organiche (microrganismi vegetali e animali), che si sono accumulate su fondali marini poco ossigenati, mescolandosi a fanghi finissimi. La decomposizione si deve principalmente all’azione dei batteri anaerobi, microrganismi in grado di vivere in assenza di ossigeno. 7.4 Le rocce di origine chimica Questo terzo ed ultimo gruppo di rocce sedimentarie comprende tutte quelle che si sono deposte, e si depongono tuttora, per fenomeni chimici. Il più evidente tra questi è la precipitazione, sul fondo di bacini acquei, di composti chimici che si trovano sciolti nell’acqua del mare o dei laghi. Se la quantità dei sali disciolti raggiunge la saturazione, essi precipitano formando così le rocce evaporitiche o evaporiti. Altri sedimenti 8.1 Il metamorfismo di contatto Quando un magma risale attraverso la crosta, o si ferma all’interno di questa, provoca un forte aumento di temperatura nelle rocce con cui viene a contatto. Si parla in tal caso di metamorfismo di contatto, dovuto essenzialmente all’alta temperatura e caratterizzato da basse pressioni: intorno alla massa di magma incandescente si forma un’aureola di contatto – il cui spessore varia da qualche cm (intorno ai piccoli corpi intrusivi) al km (in prossimità dei grandi ammassi batolitici) – nella quale le rocce subiscono modificazioni nella composizione dei minerali. Le trasformazioni, tanto più intense quanto più si è vicini alla massa incandescente, si attenuano con la distanza, fino a che si passa a rocce non metamorfosate. I calcàri, per esempio, formati di minuscoli frammenti di CaCO3, sono trasformati in marmi, costituiti da un mosaico di grossi cristalli di CaCO3 (delle dimensioni dei granuli dello zucchero), accompagnati, eventualmente, da altri minerali di nuova formazione, che si costruiscono a spese di impurità (silicati con ferro e/o magnesio) contenute nei calcari (figura ►36). 8.2 Il metamorfismo regionale Il processo più imponente per volume di rocce coinvolte è il metamorfismo regionale, che avviene quando movimenti della crosta terrestre fanno sprofondare per kilometri masse di rocce sedimentarie o magmatiche, che vengono sottoposte non solo ad alte temperature ma anche a forti pressioni. Queste pressioni sono dovute sia al peso delle rocce sovrastanti (pressione di carico), sia a spinte tra masse rocciose contigue (pressione orientata). Quando prevale l’azione di forti pressioni si formano di preferenza minerali appiattiti o lamellari (come le miche), orientati tutti perpendicolarmente alla direzione della pressione. In tal caso le rocce che ne derivano presentano una tipica scistosità, la proprietà di suddividersi facilmente in lastre secondo piani paralleli (piani di scistosità). Man mano che sprofondano, i minerali continuano a modificarsi, per adattarsi a nuovi valori di temperatura e pressione. Le trasformazioni metamorfiche risultano, perciò, più o meno forti a seconda della profondità raggiunta. Il metamorfismo non può proseguire in modo indefinito: oltre certi valori di temperatura e di pressione si può arrivare alla fusione di una parte del materiale della roccia che si sta trasformando (in queste condizioni si possono formare le migmatiti; si riveda la figura 24A). Quindi se il processo avanza, la parte fusa aumenta sempre più e si passa ai magmi anatettici, dalla cui cristallizzazione derivano grandi batoliti granitici. Questi processi di ultrametamorfismo segnano perciò un collegamento tra rocce metamorfiche e rocce ignee. Ciclo litogenetico I processi magmatico, sedimentario e metamorfico fanno parte di un unico ciclo litogenetico, del quale rappresentano diversi stadi successivi (figura ►41). Un primo stadio comprende l’intero processo magmatico, con l’intrusione e l’effusione di materiali fusi in risalita nella crosta. Uno stadio successivo si individua nel processo sedimentario, che porta all’accumulo di sedimenti. Il trasferimento di rocce dalla superficie in profondità e il loro coinvolgimento nei movimenti della crosta porta a un terzo stadio, quello del processo metamorfico, che, attraverso i fenomeni di fusione (anatessi), ci riporta al processo magmatico. Nella realtà intervengono però numerosi elementi di complicazione. Ad esempio, una roccia intrusiva o effusiva può venire metamorfosata senza prima essere demolita dal processo sedimentario; una roccia sedimentaria può venire esposta in superficie subito dopo la sua formazione; una roccia metamorfica può venire sollevata ed esposta in superficie, senza prima subire fenomeni di rifusione. Inoltre il ciclo non è perfettamente chiuso, come è messo in evidenza da quanto accade al magma basaltico primario che risale dal mantello ed entra nel ciclo. Sebbene gran parte delle rocce originate da tale magma ritorni per fusione al mantello (come conseguenza di movimenti della parte più esterna della Terra) una parte resta all’interno della crosta continentale. Il ciclo non è chiuso nemmeno nei confronti di perdite verso l’esterno: l’idrosfera e l’atmosfera, infatti, si sono accumulate e continuano a farlo grazie ai processi vulcanici, anche se, nei processi di alterazione in superficie, l’idrosfera e l’atmosfera «cedono» alla litosfera acqua e anidride carbonica. Il ciclo litogenetico rappresenta solo un aspetto dei meccanismi attraverso cui il nostro pianeta si è trasformato e si trasforma: incontreremo cicli di portata ancora maggiore, nei quali il ciclo litogenetico è solo una delle componenti. Per ora fissiamo alcune idee fondamentali. La crosta terrestre è formata da un mosaico di rocce prodotte da processi dinamici, governati da parametri, come temperatura e pressione, che variano nel tempo. Rocce dei diversi tipi si sono formate nel corso del tempo e si formano tuttora, ma nessuna si è formata «una volta per tutte». Ogni roccia che arriva ad affiorare in superficie finisce prima o poi per fornire materiale per la formazione di nuove rocce. La classificazione delle rocce è un potente strumento di indagine, che permette di ricavare informazioni sull’ambiente in cui la roccia si è formata e sul tempo trascorso da quando si è formata. Con queste chiavi in grado di farci penetrare nell’«archivio» della crosta terrestre, possiamo ricostruire la storia della Terra e cominciare a scoprire «come funziona».
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