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JAZZ! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz, Sintesi del corso di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea

riassunto dettagliato del libro JAZZ! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 16/12/2019

catejazz
catejazz 🇮🇹

4.4

(19)

23 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica JAZZ! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea solo su Docsity! JAZZ! Una guida completa per ascoltare e amare la musica jazz – John. F. Swzed INTRODUZIONE Una quantità di fattori sociali ed estetici hanno fatto attraversare al jazz una serie di cambiamenti che nessun altro genere ha subito n un tempo così breve. Nato come musica etnica, il jazz si è poi progressivamente spostato al centro della scena culturale, diventando la musica americana più popolare, ascoltata su tutte le radio e in tutti i juke-box, per trasformarsi subito dopo in avanguardia, nuovamente musica di minoranza, sostenuta da una combinazione di intellettuali, alternativi e appassionati di ogni parte del mondo. Tutto questo in meno di mezzo secolo. Adesso, prossimo a compiere i suoi primi cento anni, il jazz si è frammentato in molte cose diverse per persone diverse; per la maggior parte delle persone il jazz è principalmente la musica di Duke Ellington, Count Basie, Dizzy Gillespie e Charlie Parker: in altre parole, il jazz è considerato alla stregua dello swing e del bepop, musiche che hanno ben più di cinquant’anni, suonate da musicisti ormai scomparsi. Ma il jazz non ha smesso di svilupparsi negli anni cinquanta: nel 1959 era ormai evidente che nell’aria ci fosse un cambiamento decisivo. La musica di Ornette Coleman, Cecil Taylor, John Coltrane e altri era diventata l’avanguardia, quella che sarebbe stata l’ultima musica d’avanguardia riconosciuta come tale nel ventesimo secolo. Buona parte della produzione posteriore a quel periodo deve essere discussa in termini di “post-Coleman”. Per tutti gli anni sessanta ci sono stati continui cambiamenti, specialmente fusioni e alleanze con musiche folk, popolari e classiche di tutto il mondo, comprese quelle non occidentali. Molti musicisti jazz appartenenti a varie scuole diedero il via a un’intensa opera di rivalutazione dei loro predecessori. Molti avanguardisti cominciarono a fare proselitismo e a diffondere la conoscenza dei tesori nascosti del jazz delle origini. È stato un modo per ricordare che a fasi di grandi risultati artistici succedono spesso fasi di rivalutazione critica del passato. Il jazz si trova oggi stretto tra quella che Gary Giddings ha chiamato “l’elite della musica istituzionalizzata” e coloro ce seguono i gusti popolari: malgrado sia aumentato il tempo dedicato alle attività artistiche e di svago, l’accesso degli americani al jazz è stato drasticamente limitato dai radicali cambiamenti del gusto e nella collocazione e distribuzione delle risorse culturali. Il jazz è oggi molto raro nei club delle città americane, fatte salve alcune delle più grandi metropoli, e comunque molti dei suoi stili più recenti sono considerati inutilizzabili in quel contesto, dato che non si tratta di “intrattenimento” in senso stretto. Tuttavia il jazz è qualcosa di più che la musica, ed è sotto questo profilo che paradossalmente la sua influenza è più profonda. Jazz è anche una serie di concetti liberamente associati: ha una storia e una tradizione di pensiero, un immaginario e un vocabolario che gli hanno dato realtà e presenza. Il jazz è stato rappresentato in un’incredibile varietà di maniere con i mezzi più disparati; il jazz è cresciuto superando i suoi mezzi originari, muovendosi oltre la musica, per diventare quello che qualcuno potrebbe chiamare un discorso, un sistema di influenze, un punto in cui molti testi diversi convergono e molti diversi codici vengono creati. Il jazz è fore la prima forma d’arte a mettere in discussione la definizione di cultura “alta” europea come la cultura per eccellenza, la prima a sfidare il canone, l’idea dei classici come “consacrati nel tempo” e “seri”. L’arte “alta” veniva esaminata e rimodellata senza tante cerimonie, fin dai primordi (si possono citare l’incisione del 1922 di un brano della Lucia di Lammermoor da parte di Phil Specht con la Astor Orchestra, l’energetico “Beethoven Rffs On” di John Kirby del 1941, o il “Bolero in Blue” inciso nel 1956 da Larry Clinton, arrangiamento in una versione ballabile in 4/4 del Bolero di Ravel), mentre allo stesso tempo venivano rivisti e aggiornati brani della musica folk. Alla fine del suo primo secolo di vita il jazz si trova a un passaggio critico, con confini che si fanno incerti. Qualcuno potrebbe dire che questa prima forma d’arte postmoderna e multiculturale è stata vittima del suo stesso successo; anche se le cifre di vendita oggi suggeriscono che continua a trattarsi di un’arte minoritaria, la sua influenza sembra stranamente in crescita. Oggi c’è chi sostiene che non ci si debba preoccupare della popolarità, e che sia venuto il momento per il jazz di ricevere il rispetto delle università, delle sale da concerto, dei mezzi di comunicazione e degli utenti pubblici; buona parte del jazz sta già andando in questa direzione, almeno da quando critici e storici hanno cominciato a chiedere che tale musica venisse adeguatamente considerata, avviando una revisione della sua storia sulla linea della dottrina del progresso, segnando la crescita in termini di precisi periodi stilistici, definendo una tradizione e un corpus classico di opere. L’inizio di questa revisione ha luogo negli anni cinquanta, e furono anche il periodo in cui venne introdotto il disco long-playing (LP), in cui furono disponibili ristampe del jazz di tutti i periodi, e in cui si sentì il bisogno di collegare tutte le parti della sua storia in una struttura unica. Sulla stessa base ci sono oggi coloro che vogliono purificare il jazz da quanto percepiscono come debolezza, errore evolutivo o deviazione dalla tradizione. Per quelli che hanno questo atteggiamento, il jazz sta rinunciando alla sua grandezza: ciò che si deve are oggi è affermare i valori e difendere la miglior musica che sia mai stata pensata o suonata in questo paese. Il vertice di queste attività è la sezione Jazz al Lincoln Center di NY, dove si è creato un programma formativo e concertistico a molti livelli senza precedenti, progettato per dare risalto al jazz ed evidenziarne le linee di sviluppo. Altri –spesso appassionati del jazz d’avanguardia degli anni ’60-’70 o di più recenti evoluzioni- hanno denunciato questa visione come un approccio elitario paragonabile a quello che ha imbalsamato la musica classica, scoraggiando l’innovazione e restringendo la prospettiva. MUSICA SU DISCO E DAL VIVO A conoscere il jazz si arriva in molteplici modi. Nei primissimi anni il jazz si poteva ascoltare solo suonato dal vivo nelle sale da ballo, negli anni ’20 molti l’ascoltarono per la prima volta sui dischi del fonografo; negli anni trenta, quaranta e cinquanta le fonti primarie divennero la radio, i dischi, i film e le orchestre da ballo. Oggi il pubblico del jazz è ancora più segmentato: alcuni incontrano questa musica ascoltandola dal vivo nei club o ai concerti, altri l’ascoltano alla radio, come sottofondo di una pubblicità, in un corso di musica.. ma all’inizio del ventunesimo secolo le registrazioni solo le principali fonti d’informazione e quindi saranno i disch i le nostre fonti principali. Al contrario di quanto accade per la musica classica, per buona parte del jazz non ci sono partiture da poter esaminare, e anche quando ci sono il modo in cui vengono eseguite può essere molto diverso, le improvvisazione solistiche non compaiono sugli spartiti. L’unico problema dei dischi è che nel momento in cui ne discutiamo ci siamo doppiamente allontanati dalla performance originale, prima attraverso la registrazione stessa, poi perché usiamo le parole. È anche vero che per quanto le tecniche di registrazione e di ascolto possano essere perfezionate, i dischi non arriveranno mai nemmeno ad avvicinarsi all’esperienza della musica ascoltata dal vivo. È una musica viscerale, corporea, che dipende interamente dall’interazione tra musicisti e pubblico. Il rapporto tra la musica dal vivo e quella registrata è complesso e non è stato mai del tutto chiarito. All’incirca per i primi quarant’anni, la tecnologia era tale da limitare la durata del disco a circa tre minuti, con lo sviluppo dell’LP diventò possibile, alla fine degli anni ’40, registrare brani di quaranta minuti, anche se ci sono solo pochi esempi di composizioni che riempiono un intero disco, e ancora meno da quanto il CD ha portato la potenziale durata della registrazione a oltre settantacinque minuti. Quando la regola erano i dischi a 78 giri la maggior parte delle sedute di registrazione di jazz producevano due dischi singoli con un brano per facciata; durante le sedute in realtà venivano effettuate più registrazioni, chiamate “takes”, registrate o per avere un’esecuzione migliore o come copia di sicurezza in caso di danneggiamento. Per molti anni le esecuzioni scartate hanno fornito materiale a un’industria di ristampe che si rivolgeva ai collezionisti desiderosi di confrontare i loro musicisti preferiti. A ogni disco a 78 giri erano attribuiti diversi numeri: • Un numero di matrice • Un numero di presa sonora, come A o B, che segue il numero di matrice • Un numero di catalogo che identifica il disco nei cataloghi della casa produttrice Con l’avvento della registrazione multi traccia, il numero di presa sonora perse importanza, in quanto i vari elementi che formavano il brano a quel punto erano conservati su tracce o nastri separati. DEFINIRE IL JAZZ Si dice che il jazz sia una musica afroamericana, creata dai neri per i neri, improvvisata, caratterizzata dal senso ritmico chiamato swing e decisamente influenzata dal blues. Attraverso tutta la storia del jazz ci sono state persone di altre razze ed etnie coinvolte in qualche misura nella sua creazione e nella seconda parte del omettendo la fondamentale, sostituendo o inserendo note aggiuntive, ecc) per l’armonia o addirittura cambiarla, riscrivendo con piccole varianti la melodia originale o scrivendo su di essa vere e proprie variazioni. I migliori arrangiatori del jazz hanno trovato i loro modi di inserire i solisti nella cornice orchestrale, stabilendo un equilibrio tra singola voce e “tutti”. Come succede per i grandi solisti, lo stile dell’arrangiatore è sempre riconoscibile, indipendentemente dal materiale musicale che viene arrangiato; nei casi migliori è talvolta difficile per l’ascoltatore distinguere le parti arrangiate da quelle composte o improvvisate. In questo senso il jazz costituisce una rottura con il pensiero convenzionale dell’Occidente e nega la distinzione tra compositore ed esecutore, creatore e interprete, compositore e arrangiatore, solista e accompagnatore, artista e intrattenitore, e addirittura solista e gruppo. In che misura è spontanea l’improvvisazione? È davvero totalmente non pianificata? Qualche volta anche i più grandi musicisti provano e riprovano un assolo, anno dopo anno, apportando nel tempo solo minimi cambiamenti. Alcuni compositori di jazz non erano convinti che i musicisti interpreti dei loro arrangiamenti avrebbero davvero eseguito i loro assoli secondo le indicazioni dell’autore, e quindi alcuni tra i più interessanti break e assoli, come nei dischi di Jelly Roll Morton, sono stati scritti nota per nota. All’altro estremo alcuni musicisti hanno fatto ogni possibile sforzo per evitare di suonare la stessa cosa due volte. È possibile improvvisare una melodia dal nulla, lavorando sulla base di niente di più delle proprie risorse emotive e intellettuali? Si lo è anche se nella maggior parte dei casi i musicisti di jazz preferiscono improvvisare a partire da qualcosa o contro qualcosa o possono leggere un foglio guida (lead sheet), uno schema musicale che contiene la linea melodica, la struttura armonica e magari le parole della canzone. Possono alterare la melodia originale del tutto o in parte, mutando fraseggio, ritmo della melodia, intervalli. alcuni musicisti costruiscono regolarmente le loro melodie personali basandosi sulla struttura armonica di una canzone esistente, senza avvicinarsi nemmeno a parafrasare la melodia originale; oppure possono inserire una parafrasi o una citazione da un altro brano quando si adatta alla struttura armonica di base. I musicisti di jazz possono suonare anche quello che è chiamato jazz “modale”, usando per l’improvvisazione solo una scala o due; alcuni improvvisatori minimalisti sono arrivati a suonare su un solo accorso, su singole note, bordoni, o su figure ripetute chiamate “vamp”. Alcuni musicisti sono attratti dall’idea di improvvisare su canzoni che hanno un rapporto particolarmente interessante tra parole e musica, altri musicisti moderni cercano forme vecchie e nuove sulle quali improvvisare, altri improvvisano partendo da immagini, dipinti, anche soltanto da colori e forme. Altri ancora hanno fatto del virtuosismo vero e proprio la base dell’assolo, usando lo strumento in modi inediti o usando nuove tecniche, come la respirazione circolare e i “multiphonic”. I musicisti di jazz hanno spiegato l’interesse per l’improvvisazione come mezzo per superare le limitazioni di quello che può essere composto e scritto. Ci sono, naturalmente, dei limiti a ciò che può essere improvvisato, anche se in molti casi si tratta di problemi analoghi a quelli che s’incontrano nella composizione: il grado di complessità di una forma, la lunghezza cui può arrivare un pezzo e la durata dell’attenzione del pubblico. E per quanto riguarda gli errori? Durante le improvvisazioni vengono commessi sbagli –note mancate, musicisti a corto di fiato (o peggio di idee), o che perdono il ritmo – ma all’interno delle regole dell’improvvisazione una certa quantità di errori è ammessa ed è parte della performance stessa, specialmente quando un musicista sta esplorando nuove idee. Il più grande problema dell’improvvisatore è di non ripetersi, di non abbandonarsi mai alla comodità del livello espressivo raggiunto. FONTI La storia del jazz è stata in larghissima misura scritta da dilettanti, molti dei quali privi di una educazione musicale formale: e chi altro avrebbe dovuto scriverla visto che questa musica ha dovuto e deve ancora lottare per trovare una qualche accettazione fra le arti? I dilettanti sono dotati di quella miscela di zelo, e ossessione che li spinge a cercare vecchi dischi, a collezionare polverose, a tormentare i musicisti chiedendo di raccontare le loro storie, e a partecipare attivamente a tutto quello che riguarda la loro passione. I risultati di questi sforzi sono spesso straordinari: precise mappe dei quartieri del divertimento di New Orleans e Chicago, ritratti di vita quotidiana delle città americane, interviste intime a figure leggendarie, biografie di oscuri musicisti conosciuti solo da un pugno di colleghi, enormi collezioni di fotografie, e le più complete e dettagliate discografie di qualsiasi altra musica che sia stata registrata. Ma gli storici del jazz non sono musicologi, e hanno mostrato i loro limiti rivelando di avere pregiudizi oppure adottando delle generalizzazioni basate su prove molto fragili. Africa ed Europa – Anche se non si trovano musiche analoghe al jazz né in Africa né in Europa, nelle tradizioni di ambedue i continenti ci sono caratteristiche che si possono rinvenire nel jazz. Il contributo europeo è stato ben documentato: melodie diatoniche, particolari forme ritmiche e armoniche, molti degli strumenti e alcune strutture dei brani. Il contributo africano viene messo relativamente in secondo piano e quando viene trattato è spesso frainteso o sottostimato. Alcuni degli elementi africani sono: • Schemi ritmici suonati sul piatto “ride”, che servono a dirigere e organizzare musicisti e danzatori ed equivalgono al tipo di sequenza temporale suonata dagli strumenti a percussione in gran parte dell’Africa • Ritmi percussivi costruiti su un principio additivo (3+3+2 per esempio) invece che divisivo (2+2+2): questi ritmi si ascoltano nello stop-time del “charleston beat”, nel “second line beat” di New Orleans, o nel rhtym ‘n blues delle origini • Figure a chiamata e risposta che si sovrappongono, schemi di questo tipo si trovano nella prima musica di Louis Armstrong, quando comincia il suo assolo prima che l’ensemble abbia finito di suonare. • Vocalizzazione del timbro e dell’articolazione, in cui lo strumento imita la voce ripercorrendone le inflessioni, o con strumenti che “parlano” • Interscambio tra voce e strumento, con la voce che imita lo strumento, come nel canto “scat” • Entrate a scalare • Arricchimento della qualità tonale e tattile della percussione, smorzando e alterando la pelle del tamburo con un piede, una mano o un gomito; il “rim shot”, cioè colpire il bordo del tamburo o i supporti metallici della batteria, aggiungere chiodi o catene sul piatto ride per allungarne il suono, uso di carta vetrata, spazzole, percussione sulle corde del basso, Tutti questi elementi della musica africana hanno avuto un’influenza profonda sullo sviluppo del jazz e sono una delle ragioni per cui gli afroamericani sono stati molto spesso pionieri e innovatori in questo campo. Tuttavia la natura di questa fusione culturale e della sua trasformazione è generalmente fraintesa e molti studiosi di jazz hanno capovolto e deformato i fatti storici per non ammettere questa conclusione. Recentemente, alcuni tra quelli che celebrano il jazz hanno sostenuto che l’Africa c’entra ben poco, ed altri sono arrivati ad avanzare l’ipotesi che il blues abbia avuto origine in Inghilterra. Altri ancora definiscono razzista ogni tentativo di storicizzare il jazz in termini culturali, altri mettono in evidenza come il jazz sia sostanzialmente americano e lo vedono come un prodotto totalmente nuovo. In altre parole, qualsiasi sia stato il materiale arrivato dalle civiltà più antiche del nuovo mondo, le trasformazioni che ha subito sono state tali da oscurare per sempre le sue origini. Ma certamente costoro si spingono troppo avanti. Bisogna considerare che molti elementi del jazz si trovano anche nella musica religiosa afroamericana: gli schemi a domanda e risposta, la polimetria, i break, i ritmi tenuti battendo le mani, la suddivisone del beat e le entrate successive delle varie voci. ASCOLTARE IL JAZZ È ormai ovvio che il termine jazz copre una tale enorme varietà di musica che si rischia di mettersi nei guai non solo con ogni tentativo di offrire regole onnicomprensive, ma anche con modesti suggerimenti per comprendere qualcosa di più dei vari stili. Il luogo e il modo in cui si incontra il jazz possono determinare in larga misura quello che si sente e quali saranno le reazioni in quel momento. Ci sono tuttavia alcuni aspetti fondamentali comuni a ogni incontro con il jazz: uno è l’importanza del ritmo e della sezione ritmica, praticamente in tutti i gruppi di jazz la sezione ritmica è la guida e l’asse della musica; un altro elemento cui fare attenzione è la variazione. La maggior parte degli assoli di jazz, e spesso anche le parti d’insieme, variano quello che è stato già suonato, ricomponendo ogni volta la melodia e cercando di legarsi ad esse in modo nuovo. Una terza cosa da ascoltare è l’interazione, vale a dire come un musicista risponde a un altro durante una performance; anche se questo in sé non equivale necessariamente all’improvvisazione, modificare quello che si sta facendo in rapporto a quello che un altro musicista ha suonato è un aspetto fondamentale del jazz, una sorta di improvvisazione collettiva. I CLUB Il jazz è cresciuto in locali molto diversi, ma la musica si è affermata e ha continuato a crescere nei night club, quei piccoli rifugi caratterizzati da fumo e alcol, covi spesso sull’orlo del fallimento, sostenuti a volte da imprenditori locali, a volte dalla mafia e talvolta dati in concessione. Malgrado tutto ciò è stato nei piccoli club con il loro pubblico ristretto che la musica jazz è fiorita. Per quanto fossero locali puzzolenti e di dubbia reputazione, il loro ambiente raccolto era perfetto per una musica acustica e creava un’atmosfera rilassata, priva di tensioni, in cui ci si poteva muovere, ballare e avere qualche scambio di battute tra pubblico e musicisti. Questi club sono i luoghi dove maturano i musicisti, le aule dove si fanno errori, si applaudono i successi, e dove cominciano o finiscono le carriere; sono ritrovi per i musicisti, posti dove andare a sentire i propri colleghi e a volte sfidarli. Molti artisti hanno trascorso nei club la maggior parte della loro vita adulta, mangiando, bevendo, eludendo il servizio militare.. le storie e le leggende del jazz abitano quei luoghi, e sono rievocare ancora per lungo tempo dopo la loro esistenza reale. GLI STILI DEL JAZZ Sull’esempio delle storie di altre arti, anche il jazz è stato diviso in stili e periodi, a loro volta associati a musicisti e compositori ritenuti esemplari del loro momento storico. In una cronologia tipo possiamo trovare i seguenti stili (per ciascuno è specificato il periodo della sua fioritura): Pre-jazz (ragtime, vaudeville) circa 1875-1915 Jazz delle origini (jazz di New Orleans) 1910-1927 Swing 1928-1945 Bepop 1945-1953 Cool jazz/ West Coast Jazz 1949-1958 Hard bop 1954-1965 Soul/funk jazz 1957-1959 Jazz modale 1958-1964 Jazz third- stream 1957-1963 Free jazz 1959-1974 Fusion e jazz-rock 1969-1979 Neotradizionalismo 1980-oggi Ma naturalmente le cose sono molto più complicate, è successo infatti che in un anno qualsiasi i dischi prodotti sono stati di molti stili diversi che si sovrapponevano cronologicamente. L’errore più comune che si fa per gli sili del jazz è di focalizzare le loro differenze invece di cercare ciò che hanno in comune. Un secondo problema con l’organizzazione in stili della storia del jazz è la tendenza a presentarli secondo uno sviluppo storico diretto verso uno scopo predefinito o un particolare stato di complessità; così succede che grandi musicisti sono accusati di aver sbagliato qualcosa e perdono il favore del pubblico, mentre la storia della musica diventa una sorta di tragedia o un rituale in cui nuovi re e regine sono continuamente incoronati per sostituire quelli detronizzati (coloro che sorvegliano i confini e creano questi drammi rituali sono talvolta chiamati la “jazz police”). Una terza complicazione sorge a causa del numero di revival stilistici che si sono succeduti lungo tutta la storia del jazz. È importante ricordare che gli stili vengono molto spesso identificati e battezzati più dagli appassionati e dai critici che dai musicisti. In anni recenti si è fatta strada l’idea che sia stata raggiunta la fine dello sviluppo degli stili jazzistici, dato che siamo entrati nell’era del postmodernismo e tutto sembra già stato fatto. Negli anni ’50 e ‘660 i critici si chiedevano quale sarebbe stato il futuro del jazz, mentre oggi si domandano se il jazz sia morto. Per questo forse è oggi necessario riesaminare il problema degli stili del jazz. Secondo il compositore e sassofonista Anthony Braxton i cambiamenti che hanno luogo nel jazz possono essere visti nei termini da lui definiti ristrutturalisti, stilisti e tradizionalisti (restucutalists, stylist, traditionalists). I ristrutturalisti sono musicisti che cambiano la musica al punto da modificarne le caratteristiche strutturali, fino a minacciare non solo l’ordine musicale, ma anche quello sociale. Gli stilisti prendono la musica creata dai ristruttura listi e la ricodificano in modo da renderla più accettabile al pubblico. I tradizionalisti sono coloro che vivono totalmente immersi nella presenza di quello che è venuto prima e riproducono il passato, adeguandolo alla realtà contemporanea. È interessante seguire la sua conclusione, secondo cui tutte e tre queste correnti dovrebbero essere presenti in una sana cultura musicale. Il ristrutturalismo dà un senso di sviluppo e direzione, ma se non ci fossero al lavoro altre forze, produrrebbe di musiche internazionali, specialmente dell’India, e a introdurre nel suo lavoro modi e tecniche esecutive provenienti da altre tradizioni. Mentre egli esplorava nuove discipline spirituali, i suoi assoli diventavano sempre più lunghi e complessi. È stupefacente che l’intera opera registrata di Coltrane vide la luce in un periodo di dodici anni, 1955-1967, mentre molti musicisti hanno bisogno di 13 anni soltanto per trovare la propria voce, Coltrane ogni due anni creava un intero stile, una nuova concezione musicale. Ornette Coleman –Alla fine degli anni cinquanta la maggior parte dei musicisti jazz aveva fatto propria la visione musicale del mondo di Charlie Parkere usava lo stesso vocabolario e la stessa sintassi. Coleman aveva reinterpretato il linguaggio musicale di Parker che era diventato il linguaggio standard del jazz, facendolo apparire come uno dei tanti dialetti della musica, che poteva essere usato o no. Gli anni 60 sono stati un periodo in cui molti musicisti cercavano di forzare i confini della musica, ma Coleman fece un passio ulteriore. anche i suoi strumenti erano inconsueti: suonava un sassofono di plastica bianca che sembrava un giocattolo, come d’altra parte sembrava un giocattolo la tromba tascabile usata da Don Cherry. E la musica appariva ancora più strana. Coleman aveva l’obiettivo di liberare i musicisti dall’obbligo di improvvisare su schemi armonici, le strutture che creavano cicli di ripetizioni, da capo e figurazioni di chiusura, determinando quello che sarebbe stato via via eseguito. Lasciò invece ch fossero le limitazioni del suo respiro a determinare le strutture, era più interessato alla melodia che all’armonia e i suoi brani divennero così più irregolari e asimmetrici di quello che avrebbero mai immaginato i bebopper. Per quanto rivoluzionario, Coleman sembrava possedere un’idea precisa di come non andare troppo lontano, il suo riscatto, ma anche la sua condanna, fu che nel giro di dieci anni la sua musica non avrebbe più provocato reazioni schock. FREE JAZZ Una nuova musica che cominciò ad affiorare alla fine degli anni ’50, emergendo pienamente negli anni ’60, sembrava meno interessata agli sviluppi armonici; nelle sue forme estreme, rendeva il ritmo un punto di riferimento non più affidabile per l’ascoltatore; ben presto alcuni musicisti del nuovo jazz cominciarono a usare volume, timbro, grana, colore del suono e altre variabili sonore per creare interesse e varietà, richiedendo all’ascoltatore di concentrarsi soprattutto sull’apprezzamento del suono in quanto tale. A volte i risultati del free jazz e della musica classica sperimentale sembravano simili: la collettività improvvisata di Free Jazz di Coleman e Ascension di Colrane parevano convergere con Zeitmasse di Stockhausen. I musicisti di free jazz erano arrivati da tutte le parti degli USA ma fu nel Lower East Side di Manhattan, nella nuova comunità di musicisti che lì si creò all’inizio degli anni 60, che quella musica trovò la sua identità. Nel free jazz c’era una grande varietà di musiche: poteva essere suonato in maniera insistente al massimo del volume, pronto a contendere la supremazia al rock e ai suoi amplificatori, ma poteva anche essere straordinariamente dolce, acustico, quasi una musica da camera. Alcuni dei musicisti erano dilettanti e il dilettantismo era accettato, perché portava un’idea fresca di musica, ma molti dei musicisti del free jazz erano tra i maggiori virtuosi del periodo. L’apertura del free jazz a tutti i possibili codici musicali esterni ne rendeva impossibile una facile caratterizzazione. Chiamato all’inizio “the new thing”, il termine “free jazz” diventò in breve il più usato perché catturava meglio lo spirito del momento. Fin dall’inizio a molti musicisti il nome free jazz non piaceva, a volte perché sembrava sottintendere una musica troppo facile, troppo naturale, un termine che trascurava la preparazione e la riflessione necessarie per suonare questo genere di musica. Alcuni avevano lavorato gratis già anche troppo e il gioco di parole non li divertiva: si racconta ancora oggi di gente che arrivava ai concerti di “free jazz” pretendendo di entrare senza pagare. C’erano musicisti che riportavano il jazz tanto vicino alle sue origini che il risultato poteva essere definito “folk jazz”, c’era un sottogruppo di musicisti dalla profonda ispirazione spirituale o religiosa insieme ad un’ala sperimentale, quasi accademica. Nella produzione di alcuni, come Don Cherry e Jan Garbarek, c’era una convergenza tra jazz e musiche tradizionali di tutto il mondo. Buona parte di quello che del free jazz viene considerato primitivo o parodistico era in realtà un modo per onorare il passato: un maggio che prestava una serie attenzione ai dettagli e ai successi della storia del jazz. Molti suonavano i loro strumenti con la qualità vocalizzante e il fraseggio aderente alla lingua parlata del blues, del primo jazz di New Orleans e della musica di Elligton; il polistrumentismo diventò un valore importante, specie quando gli strumenti erano vecchi e in disuso, come il C-melody sax (rara variante del sassofono tenore in Do usato in precedenza) e il sassofono basso, quando erano esotici (identificati con strumenti di popoli del terzo mondo), o quando erano addirittura giocattoli (chiamati “piccoli strumenti”). Nella musica venne introdotto un nuovo tipo di fisicità, con i musicisti che si piegavano, si scuotevano, saltavano e arrivavano a danzare, come facevano nelle orchestre di rhythm’n’blues che suonavano nei bar negli anni 40 e 50. Il pubblico, abituato a un’avanguardia che faceva sembrare complicate le cose semplici, fu preso alla sprovvista da un Albert Ayler o da un Ornette Coleman che invece facevano sembrare semplici le cose complicate. I musicisti di free jazz utilizzarono anche prassi correnti in altre musiche: nella musica venne immessa un’intensità emotiva, analogamente a quello che avveniva da parte dei cantanti soul come Aretha Franklin. Altri si ispirarono ai contemporanei sviluppi del teatro, usando costumi e trucchi, insieme a letture poetiche, danze o presentazioni multimediali. anche il modo in cui i musicisti si collocavano fisicamente per le loro performance cambiò: alcuni si misero in cerchio guardando verso l’interno e lasciando fuori il pubblico, altri si dispersero sul palco o nella sala. Performance solistiche di strumenti diversi dai pianisti diventarono per la prima volta frequenti, si cominciò ad usare sempre più spesso la definizione “textural improvisation” (un’improvvisazione non basata su armonia e melodia, ma su variazioni quasi materiche di timbro e colore), venne poi ridefinito il concetto di swing e il virtuosismo strumentale divenne di importanza cruciale per alcuni musicisti, specialmente bassisti e batteristi, chiamati ad avere un ruolo melodico oltre che ritmico. Nel giro di pochi anni questi musicisti avevano messo in discussione e ridefinito molte delle convenzioni del jazz, nuove tecniche furono applicate ai vecchi strumenti e ne apparvero di nuovi: sassofoni di plastica, ance doppie di origine mediorientale, tamburi dell’Asia e dell’Africa, campane e fischietti. Vecchi strumenti come il sassofono soprano, il violoncello e il basso tuba ritrovarono nuova vita. Il free jazz era audace, rischioso e competitivo, ma dette vita anche a un sentimento comunitario a ad associazioni cooperative come l’AACM (Associazione per l’Avanzamento dei Musicisti Creativi), il BAG (Black Artists Group), la Jazz Composers’ Guild e l’Union of God’s Musicians and Artists Ascenson. L’idea di libertà espressa in queste nuove definizioni d’improvvisazione musicale avrà un’eco che andrà dalla fine degli anni 60 all’inizio degli anni 70 e ben al di là della scena musicale: nella danza, nel cinema, nella musica classica sperimentale e anche nel rock, con l’inizio degli anni 70 il nuovo jazz era diventato una sorta di internazionalismo. Istantaneamente, come se qualcuno avesse spento un interruttore, il free jazz diventò “persona non grata” nel mondo del jazz, qualcuno stabilì che era morta, si disse per colpa dei suoi stessi eccessi, della presenza di ciarlatani e della politicizzazione causata dal nazionalismo nero. Dischi cruciali vennero fatti uscire dai cataloghi, e manuali di storia del jazz cominciarono a tacere sulla musica che era venuta dopo quella di Coltrane, di Coleman, di Ayler; era adesso possibile rimettere il jazz sul binario evolutivo riportando al centro dell’attenzione l’hard bop degli anni 50. I festival jazz ben presto cancellarono i musicisti del free dai loro programmi e i club ritornarono alla politica di ingaggiare solo musicisti mainstream. Ma nell’Europa dell’est il free jazz era vivo e vegeto! Molti non si erano accorti che la nuova musica riaffermava i valori fondamentali della musica nera e ne avevano percepito solo il carattere ribelle. Alla metà degli anni 70, la febbrile riconferma dell’egemonia delle tradizioni musicali rese difficile creare e far sopravvivere in America qualsiasi stile innovativo. All’orizzonte albeggiavano la promessa eclettica del minimalismo, le fredde superfici dell’elettronica, la struttura infinita della ripetizione nella disco music, e le emozioni d’importazione del raggae, del pop africano, della salsa. Albert Ayler – Arrivò a NY nel 1963, a 27 anni, per tentare la scalata al mondo del jazz. In un periodo di musica infuocata e rivoluzionaria, Ayler parlava di rivelazione e di pace, componendo brani dai titoli come “Witches and Devils”, “Holy, Holy” e “Jesus”. I critici riconobbero in lui ogni sorta di influenze, cantati da metropolitana, musica da circo, valzer, polka, danze popolari, bebop, filastrocche infantili, canti degli indiani d’america, inni, marce e blues. Questa molteplicità di allusioni nella sua musica rese difficile renderne in parole l’essenza, ma Amiri Baraka ci riuscì quando lo definì “l’uguale che cambia”. In una vita breve, Ayler ha suonato con tutti, ed il risultato è stato che la musica venne definita ridicola, grottesca, comica, l’accusarono di aver cercato di prendere in giro il pubblico, di essere un naif e al massimo venne considerato, con il più fragile degli elogi, un artista marginale. Ayler faceva tremare le fondamenta della musica, dividendo i suoi ascoltatori in due fronti costantemente l’uno contro l’altro armati. Quando nel 1970 fu trovato morto nell’East River, cominciarono a circolare storie basate sul poco che si sapeva di lui, che ben presto lo trasformarono in una piccola leggenda. Sun Ra – Sun Ra è stato il primo a portare l’elettronica nel jazz, ma allo stesso tempo ha mantenuto in vita il repertorio pre-swing di Fletcher Henderson e Duke Ellington, ed era così appassionato della pagina scritta da scrivere e riscrivere molte volte gli arrangiamenti. Fu lui ad introdurre l’improvvisazione collettiva nelle big band del free jazz degli anni 60. Era facile restare perplessi di fronte all’afroplatonismo di Sun Ra e ridere delle sue esagerazioni, i suoi bombardamenti multimediali, che potevano arrivare a durare 6 ore, erano esperienze veramente terrificanti. La musica oscillava tra la stasi e il caos, con grida e ululati che emergevano da quella che lui chiamava “Arkestra”, con i musicisti vestiti come gli arceri di Arboria. Ballerini sfrecciavano tra il pubblico, mangiatori di fuoco e nani filavano in parata di fronte a maschere, burattini e filmati delle piramidi. A ogni minuto veniva infranta una delle regole del jazz. Da quando negli anni 50 cominciarono ad apparire i dischi di Sun Ra autoprodotti per l’etichetta El Saturn, le compagnie discografiche commerciali stavano perfezionando uno stile di produzione grazie al quale il processo di registrazione diventava trasparente e la tecnologia fonografica veniva usata per mettere a disposizione dell’ascoltatore una finestra attraverso cui si cercava di dare l’illusione di assistere alla musica nel momento della sua creazione. Sun Ra sottolineava invece la situazione opposta, registrando in ambienti strani, usando il feedback, le distorsioni, riverberi e delay lunghissimi, tagli e dissolvenze improvvise, piazzando i microfono in luoghi insoliti e usando molti altri effetti, rumori e incidenti che attiravano l’attenzione dell’ascoltatore sul processo di registrazione (inc erti dischi si può sentire il trillo di un telefono o qualcuno che cammina vicino al microfono). Cecil Taylor – A cinquant’anni di distanza dal suo primo disco si discute ancora della musica di Cecil Taylor, nei termini del suo avere o non avere swing, del suo essere o non essere un prodotto della tradizione del jazz. Alcuni insistono nell’affermare che è un musicista “classico” o “europeo”, ma è un dibattito improduttivo, a meno che non si voglia considerare Taylor una tradizione per conto suo, il jazz resta il punto di riferimento più adeguato. La sua concezione pianistica sembra richiamare molto la tradizione jazzistica. Prendiamo in considerazione una tipica procedura musicale di Taylor: espone al piano una breve figura, per farla passare poi a uno o due strumenti a fiato, a volte in successione. Secondo un ascolto europeo classico si potrebbe interpretare come un canone, un’imitazione, una forma di convenzionale disposizione polifonica. Ma allo stesso tempo, e con eguale facilità, si può sentire l’omofonia o l’”unisono libero” delle orchestre classiche di New Orleans e quindi la musica potrebbe collocarsi in una linea che discende da Messiaen per esempio, il compositore francese cui spesso Taylor è paragonato. The Art Ensemble of Chicago – La storia dell’Associazione per l’Avanzamento dei Musicisti Creativi (AACM)di Chicago è uno dei grandi trionfi della musica degli anni ’60. Chicago era per i musicisti una città molto diversa da NY: la comunità musicale era più stabile e i suoi membri si conoscevano quasi tutti fra di loro, risulta anche che fosse meno competitiva e che l’informazione potesse scorrere in modo più libero e condiviso rispetto a NY. L’AACM si occupava anche di danza, teatro e letteratura. Non c’era nessuna ortodossia, nessuna linea ufficiale, eccetto quella che dimostrava la loro apertura per tutto quello che poteva tornare utile: esperimenti dell’avanguardia europea e americana, esercizi di free jazz su scala ridotta, minimalismo e l’intera storia della musica afroamericana. Era logico che quando alcuni dei musicisti più significativi dell’AACM dettero vita all’Art Ensemble of Chicago il gruppo apparisse sui palchi europei accompagnato da uno stendardo che diceva “Great Black Music – Ancient to the Future”. Tradizione, sperimentazione, satira e serietà erano liberamente mescolate. Da loro venne l’annuncio che il jazz on sarebbe mai più stato ancorato a un singolo momento storico, a un certo tipo di ritmo o a un solo gusto estetico. TERZA CORRENTE Fu Gunther Schuller a coniare il termine “terza corrente” per indicare una musica in cui s’interfacciano elementi del jazz e della musica classica, fondendosi e influenzandosi reciprocamente. Schuller ha avuto carriere notevoli come musicista e come studioso, sia nella musica classica sia nel jazz. Alcune opere come Appalachia di Delius, Quartetto per archi op 96 di Dvorak, Gollywogg’s Cakewalk di Debussy condividono con il jazz una parte del loro albero genealogico. Concerto in sol maggiore di Ravel, Ragtime di Stravinsky, Parade di Satie, Suite 1922 di Hindemith. Tuttavia quando alla fine degli anni 50 Schuller propose per la prima volta piccole etichette indipendenti spesso anche trasferitesi all’estero, insieme alla confusione dovuta al cambiamento di formato dal vinile al CD, sono elementi che insieme concorrono a creare questa difficoltà. Una delle cose più notevoli di questo periodo è il livello delle ambizioni di musicisti e compositori. Un caso tipico è quello dell’altosassofonista Julius Hemphill, suonava una musica fermamente ancorata agli stili musicali del sud-ovest degli Stati Uniti; nel momento in cui si trasferì a NY, verso la metà degli anni ’70, aveva già fondato la sua etichetta discografica indipendente e prodotto due brillanti dischi. I brani di questi album sono composti rispettivamente per quartetto e quintetto, ma con una concezione musicale ampia, che non rinuncia ad alcuna possibile fonte d’ispirazione, raggiungendo un sound storicamente funky. Anche Anthony Davis, alta figura di compositore e brillante pianista improvvisatore giunse alla maturità in questo periodo: le sue composizioni sono ispirate alla musica classica e alle musiche orientali, e le sue opere sono orchestrate in modo molto personale e ricche di elementi tratti dalla cultura orale afroamericana. Lo scomparso John Carter è un terzo esempio: clarinettista e compositore, la sua musica scritta per ottetto, orchestra e voci si muove con facilità attraverso stili e generi, offrendo una sicura e rapida panoramica della musica americana. Questi tre compositori purtroppo non hanno mai ricevuto l’attenzione dovuta, e la maggior parte dei loro dischi sono fuori catalogo da tempo. Negli anni 90 sul NYTimes e sugli altri organi di stampa si stava costruendo un mito, quello dell’imminente morte del jazz, che ignorava la continua vitalità degli stili storici, testimoniata dall’apparizione fin dagli anni ’60 e ’70 sia dai nuovi musicisti di mainstream (Scott Hamilton, Ken Poplowski, Warren Vachè) sia di tradizionalisti (Ted Des Plantes, Vince Giordano). Anche l’avanguardia degli anni ’60 e ’70 aveva mostrato rispetto per la tradizione del jazz, tributando regolarmente omaggio ai maestri del passato, in particolare a Ellington. Ma molti critici di jazz non se n’erano accorti, o li avevano volutamente ignorati, troppo impegnati ad attaccare figure del jazz-rock o del free. Wynton Marsalis – nella storia del jazz non si era ancora mai visto nessuno come il trombettista Wynton Marsalis. Quando è emerso professionalmente nel mondo del jazz si è presentato con impeccabili credenziali: nato in una celebre famiglia musicale di New Orleans, ha studiato alla Julliard e a Tanglewood, musicista jazz con un sound dalla bellezza non comune e idee eleganti, è allo stesso tempo un interprete classico di capacità e gusto straordinari. È un difensore della tradizione con la volontà, l’energia e l’intelligenza nell’intento di riaffermare valori propri di una musica che egli vede come corrotta da ciarlatani negli ultimi quarant’anni. Dopo essere stato nominato direttore artistico del nuovo cartellone Jazz at Lincoln Center, si è trovato ad occupare l’unico posto dal quale effettivamente era possibile compiere lo sforzo più efficace per trasformare il jazz in un’istituzione. Nei primi anni 80, MArsalis ha scatenato accese discussioni sostenendo in varie occasioni che il jazz si è sviluppato su un piano diverso rispetto alla musica europea e che nel suo mondo musicale l’innovazione non è segno di progresso, dato che il primo jazz non è mai diventato datato. Egli ritiene che il supremo risultato artistico del jazz, il solo improvvisato, dovrebbe lasciare spazio alla musica d’insieme come succedeva agli inizi; sostiene inoltre che non esistono stili del jazz, ma solo grandi musicisti , e che è la loro crescita individuale a indicare il più generale progresso della musica. Il suo modo di suonare e i suoi brani si sono evoluti parallelamente allo sviluppo del suo pensiero. Nel momento in cui facciamo notare che Marsalis è una figura unica nel jazz alla fine del Novecento, va detto che ci sono altri che condividono parte de suoi valori, ma che hanno portato la musica in direzione piuttosto diversa. Dave Douglas, trombettista di grande inventiva, in modo analogo a Marsalis ha intrapreso le sue ricerche nella tradizione del jazz con Booker Little e con Mary Lou Williams, ma a differenza di Marsalis ha anche esplorato e aggiornato la musica della fine degli anni 60 e inizio 70; nuovamente in veste di collaboratore ha partecipato a progetti che mettevano per esempio insieme la musica di Mahler, il jazz e la tradizione ebraica. Don Byron, caso affascinante di giovane musicista uscito da un ambiente che qualcuno potrebbe considerare improbabile (studi in due conservatori) e che per di più suona il clarinetto, uno strumento caduto in disuso nel jazz durante gli anni 40. Byron sorprese tutti con il suo primo disco notevolmente eclettico, con brani originali che vanno dal politico, come quello che da il titolo all’album (Tuskegee Experiments), al romantico “Waltz for Ellen”, fino ai temi di Ellington e ai lieder di Schumann: il tutto è tenuto insieme dalla forte personalità di Byron e dalla autenticità del progetto. EUROPA Gli europei conoscevano il jazz fin dall’inizio, l’avevano ascoltato grazie alle partiture dei cake walk e dei rag, ai concerti durante la IGM, ai locali di Londra e Parigi dopo la IGM dove suonavano musicisti americani. Dopo la IGM, la diffusione del disco fece sì che i più famosi musicisti di jazz potessero raggiungere il grande pubblico. Nel 1919 c’erano già orchestre americane che registravano a Stoccolma e a Berlino. I primmi e i più importanti scritti furono pubblicati da europei, specialmente da artisti e critici d’arte belgi e francesi, che furono affascinati dal jazz, vedendo in esso una manifestazione musicale delle scuole di pittura futurista e fauvista. È stato in parte a causa del successo critico raccolto in Europa che gli americani hanno cominciato a rendersi conto che il jazz era un fenomeno culturale; il primo musicista europeo che presero veramente sul serio fu Django Reinhardt, il chitarrista gitano che si fece conoscere negli anni 30 come uno strumentista talmente brillante da costringere gli americani a chiedersi quale sarebbe stato l futuro del jazz. Ma fu soltanto dopo la fine della IIGM che l’Europa cominciò a contribuire in maniera sostanziale allo sviluppo del jazz, la Svezia mostrò un’immediata affinità con il bepop, invitando musicisti americani a suonare e registrare con quelli svedesi (i dischi incisi in Svezia da Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Stan Getz restano tra i loro migliori). Dopo Django la seconda figura più innovativa del jazz europeo è stato, probabilmente, il poco conosciuto alto sassofonista Joe Harriott: registrò in stile bepop, pezzi lenti con accompagnamento d’archi, creò un doppio quartetto con musicisti indiani e un quartetto con cui anticipava almeno di un paio d’anni le innovazioni tonali del free di Ornette Coleman. Il jazz europeo è però veramente maturato negli ultimi trentacinque anni. Sul finire del ventesimo secolo musicisti come il sassofonista tedesco Peter Brotzmann, il batterista olandese Han Bennink, gli inglesi Evan Parker, Tony Oxley e Derek Bailey rompevano definitivamente con alcuni aspetti della pratica improvvisata americana per creare quella che è stata definita musica “improvvisata europea” o “spontanea”. Basata sugli interessi e sulle capacità individuali, specialmente quella di improvvisare facendo praticamente a meno delle forme e degli stili esistenti (come il blues o la canzone pop) e trascurando decisamente il groove e lo swing. Questa musica fa uso di nuove tecniche strumentali come ad esempio la respirazione circolare e la contemporanea emissione di più note su strumenti monofonici come i fiati. Apparentemente sembra attingere ben poco dal jazz, ma si tratta paradossalmente di una musica intensamente collettiva, ancor più della sua controparte americana. ACID JAZZ, DRUM’N’BASS, NEO-SWING I termini acid jazz, drum’n’bass e neo-swing sono vaghi, la musica difficile da identificare, gli artisti quasi anonimi, i dischi che passano sui giradischi dei DJ e sugli scaffali dei negozi sparivano prima che ci si accorgesse di loro, e tuttavia molta della dance music venuta dopo l’hiphop deve al jazz, almeno in parte, la sua esistenza. Subito all’inizio degli anni 80 ci fu chi vide il collegamento con il jazz: i turntablist (artisti che usano come strumento il giradischi, manipolando in questo modo la musica) erano una sorta d’improvvisatori ce innestavano nuovi motivi su quelli vecchi con nuovi ritmi, come facevano i musicisti del bepop. Nato in Inghilterra, l’acid jazz ha preso il nome dall’acid house, una variante inglese della house music dei club di Detroit; all’inizio era solo un modo di remixare con i ritmi dell’hip hop dei sample estratti da dischi di jazz degli anni ’60; via via che l’idea prendeva piede , alcuni cominciarono anche usare musicisti live nei loro concerti. E in effetti alcuni gruppi, come il trio Medeski, Martin and Wood o il James Taylor Quartet, suonano dal vivo come se stessero remixando dei sample. Alri invece hanno fatto remixare i loro dischi di jazz. Il drum’n’bass è un altro fenomeno inglese, questa volta nato dall’amore per il rapporto viscerale tra gli strumenti nelle sezioni ritmiche di jazz e della “musica dub” giamaicana nel Regno Unito nelle sue varie manifestazioni. I lunghi passaggi di ritmo nudo e crudo nel drum’n’bass ricordavano il modo in cui Count Basie lasciava a lungo scoperta la propria sezione ritmica affinchè il suo sound generasse adrenalina pura. Ma la sorpresa con il drum’n’bass è che molti dei suoi esponenti sono arrivati vicini a un suono jazzistico più di quanto ci si aspettasse al momento in cui questo stile apparve. Il neo-swing , il movimento dello swing, ossia lo “swing” è un caso tipico, un’iniziativa nata sulla costa occidentale degli USA. Lo “swing” in questo genere non è la musica swing, ma qualcosa di più simile ai gruppi di rhythm’n’blues dei primi anni 40, quelli che suonavano musica “jump”. Per lo più sembra di sentire la musica di Louis Jordan, suonata da una big band di second’ordine o con mescolati un po’ di western swing, rockability e ska.
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