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Johan Huizinga, "L'autunno del medioevo", riassunto., Schemi e mappe concettuali di Storia Medievale

RIassunto dettagliato del volume "L'autunno del Medioevo" di Huizinga.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 23/05/2022

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lorenzo-bruscaglioni 🇮🇹

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Scarica Johan Huizinga, "L'autunno del medioevo", riassunto. e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Johan Huizinga – L’Autunno del Medioevo Prefazione Nella prefazione, l’autore sottolinea come spesso, nell’indagine storica, cerchiamo nel passato i germi e le origini del futuro. Così si è fatto indagando il medioevo che, seppur considerato un’era desolata e decadente, pullulava di sintomi di “mondo nuovo”. Tuttavia, sia nella vita che nella storia, la vita va di pari passo con la morte: vecchie civiltà tramontano mentre contemporaneamente altre sorgono. Huizinga cerca in questo libro di considerare il XIV e il XV secolo non come alba del mondo moderno, ma come tramonto del medioevo. Il punto di partenza è stato il bisogno di approfondire l’arte dei Van Eyck e dei loro seguaci. L’autore voleva prendere in considerazione la cultura della Borgogna, tuttavia le conclusioni hanno assunto un carattere più generale: solo in senso ristretto; infatti, era possibile teorizzare una cultura strettamente borgognona e pure “l’altra Francia” richiedeva attenzioni. Così si è passati a un confronto tra Francia e Paesi Bassi. Gli storici citati con maggior frequenza sono Froissart e Chastellain, tra i poeti Eustache Deschamps, tra i teologi Jean Gerson e Dionigi il Certosino, tra i pittori Jan van Eyck. Questo perché per la ricchezza e l’acutezza delle loro opere rispecchiano in modo eccellente lo spirito del loro tempo secondo l’autore. 1. La veemenza della vita Nel medioevo tutti i casi della vita avevano più veemenza. Tutti i casi della vita erano accompagnati da mille benedizioni, cerimonie e usanze. Alle calamità si trovavano meno sollievi rispetto ad oggi. La malattia si differenziava più nettamente dalla salute. Onore e ricchezza si godevano più intimamente e più avidamente, perché erano spiccatamente differenti dalla povertà. Tutte le cose della vita avevano un’eco fastosa e crudele. Ogni classe, ogni ordine, ogni mestiere era riconoscibile dall’abito. Anche nell’aspetto esteriore, città e campagne erano molto caratterizzate: le città non si disperdevano in sobborghi disordinati, ma erano raccolte in mura ben definite e al suo interno svettavano torri e chiese. la città moderna, per esempio, non conosce più il buio assoluto e il silenzio totale. La vita quotidiana emanava un’eccitazione che si manifestava in mutevoli stati d’animo tra i quali oscillava la vita cristiana medievale: rozza esuberanza, violenza, crudeltà e sincera tenerezza. C’era un suono che riusciva sempre a sovrastare tutto: il suono delle campane che annunciavano ora lutto, ora gioia, ora ansia, ora riposo, ora chiamavano a raccolta, ora esortavano. Anche le processioni dovevano essere di grande efficacia. Se i tempi erano pieni d’angoscia esse si susseguivano giorno dopo giorno per settimane intere. C’erano poi le entrate trionfali e le esecuzioni capitali. La crudele eccitazione e la rozza compassione suscitata dal patibolo costituivano un elemento di gran peso nel nutrimento spirituale del popolo. Era uno spettacolo con una morale. Contro misfatti atroci la giustizia ideò punizioni atroci. Spesso le vittime erano gran signori; allora il popolo godeva della severità della legge e del severo ammonimento sulla caducità della fortuna. Più rari erano i sermoni dei predicatori, che di tanto in tanto venivano a scuotere il popolo con le loro parole. I predicatori popolari riuscivano a toccare molto profondamente l’animo della gente parlando della passione del giudizio finale, ma soprattutto della lotta contro il lusso e la vanità. Sia Fra Riccardo che Fra Tommaso (importanti predicatori) fecero divampare i roghi della vanità, così come, anni dopo, avrebbe fatto a Firenze Savonarola con danni irreparabili per l’arte. Sia in Francia che in Italia, nel XV secolo, questi falò erano un elemento costante nel gran fermento provocato dai predicatori. Erano il cerimoniale nel quale si concretizzava l’avversione dei penitenti per le vanità e per i piaceri. Si deve tener presente la suscettibilità e l’emotività d’animo: in quei tempi un lutto pubblico aveva ancora l’aspetto di una calamità. Tuttavia, non è solo l’emozione per un gran lutto, per una predicazione o per i misteri della fede a far piangere a dirotto. Anche le solennità mondane provocano fiumi di lacrime. C’è naturalmente dell’esagerazione in quelle descrizioni. C’è naturalmente una sostanziale differenza di sensibilità esistenze tra il XV secolo e il nostro tempo. La storia scientifica moderna del Medioevo attinge notizie preferibilmente da documenti ufficiali che ci fanno comprendere poco la differenza coi nostri tempi. Essi trascurano il veemente pathos che caratterizza la vita medievale. Di tutte le passioni, i documenti ne testimoniano soltanto due di solito: l’avidità e la combattività. Solo mettendo in relazione queste passioni con la passionalità collettiva riusciamo a comprenderli. La vita aveva ancora il colore della fiaba. Se i cronisti di corte non sanno descrivere i personaggi illustri sotto una forma che non sia arcaica e ieratica, che cosa non deve essere stato per l’immaginazione popolare lo splendore della regalità! Mentre i meccanismi governativi hanno già assunto forme complicate, la politica si proietta nell’immaginario popolare in figure semplici e fisse. Le idee politiche più diffuse sono quelle espresse dalla canzone popolare e dal romanzo cavalleresco. Il principe può essere nobile e giusto, fuorviato da consigli maligni, vendicatore della sua stirpe o caduto in disgrazia. Le questioni politiche si riducono per il popolo ai casi narrati nelle favole. Spesso la vita condotta dai principi aveva aspetti fantastici. Talvolta, nel bel mezzo di azioni politiche ben calcolate, costoro si comportano con un’impetuosità temeraria che mette in pericolo, per un capriccio personale, la loro vita e la loro opera. La politica, comunque, non è ancora ancora racchiusa entro i confini della burocrazia e del protocollo; in ogni momento il principe vi si può sottrarre. Così i principi del XV secolo si consigliano frequentemente per gli affari di stato con visionari e asceti. Verso la fine del XV secolo gli animi dovevano essere pervasi dall’idea che nelle corti si svolgessero solo orribili tragedie piene dei più impressionanti crolli di troni e onori. A tutto ciò si aggiungono anche i turchi che avanzano sempre più minacciosi. Si consideri infine la cristianità lacerata dal grande scisma che dura già da un quarto di secolo: due papi si proclamano tali, ognuno sostenuto con convinzione appassionata da una parte dei paesi occidentali; e presto, quando il concilio di Pisa del 1409 fallisce, saranno in tre a considerarsi papi. Si aggiravano inoltre in quei secoli per le corti principesche molti re detronizzati, per lo più in ristrettezze. Aleggiava nella vita dei principi un’atmosfera di avventura e di passione. L’uomo moderno non ha idea della stravaganza e dell’infiammabilità dell’uomo medievale. Nel XV secolo l’emozione immediata si esprime ancora nell’azione politica in modo tale che i calcoli utilitaristici vengono continuamente elusi. L’attaccamento al principe aveva un carattere infantile e impulsivo. Il tardo medioevo è l’età delle grandi lotte di parte. Queste lotte non sono spiegabili solamente con i parametri economico-politici (che comunque hanno un peso determinate). Occorre portare avanti anche un’analisi sociologica. Nel periodo feudale si vedono liti particolaristiche e circoscritte. Tuttavia, non si tratta solo dei beni, ma anche dell’onore. Orgoglio di famiglia e sete d’onore sono predominanti. Da ogni pagina della storia medievale si comprende con quale intensità potessero agire i sentimenti di fedeltà al principe. Anche lo scisma si trasforma da subito in una questione di parte. Il carattere molto forte dei sentimenti di appartenenza a un partito era ancora accresciuto dalla grande suggestione che emanava dalle varie insegne, colori, emblemi, motti, grida che si susseguivano in modo variopinto. Il senso del diritto era ancora per tre quarti pagano: era soprattutto bisogno di vendetta. La Chiesa aveva cercato di mitigarlo, ma non c’era riuscita. Al contrario, l’aveva esasperato, aggiungendo al bisogno di risarcimento l’odio contro il peccato. La fine del Medioevo divenne la sbalorditiva stagione in cui fiorirono la giustizia impietosa e la crudeltà giudiziaria. Non si dubitava neanche per un attimo che il criminale avesse meritato la sua pena. C’era un’intima soddisfazione per atti di giustizia eseguiti dallo stesso principe in modo adeguato. Ciò che colpisce nella crudeltà di questo sistema non è la perversità morbosa, ma la gioia bestiale e ottusa che il popolo ne traeva, un diletto da fiera. A quali risoluzioni portasse proprio la commistione di pene e desiderio di vendetta, lo dimostra la consuetudine di rifiutare ai condannati a morte non solo il viatico, ma anche la confessione. Nella giustizia medievale esistono due poli senza sfumature: la colpevolezza piena o la grazia. Il contrasto netto tra crudeltà e pietà domina i costumi anche al di fuori della giustizia. Da un lato la disumanità più spietata verso i bisognosi e i disabili, dall’altro una infinita tenerezza, un profondo sentimento di fraternità per i malati, i poveri e i matti, unito alla crudeltà. Ma nella durezza di quei tempi c’è qualcosa di ingenuo che ci fa morire la condanna sulle labbra. Così cruda e così variopinta era la vita, che si potevano sopportare insieme l’odore del sangue frammisto a quello delle rose. Il popolo oscilla tra angosce infernali e i divertimenti più infantili, tra crudeltà atroce e tenerezza singhiozzante, come un gigante della testa di bimbo; vive tra gli estremi, tra la totale rinuncia a tutte le gioie mondane e un attaccamento folle ai beni e ai piaceri, tra l’odio cupo e la bonarietà più allegra. I peccati di cui si aveva più coscienza erano l’orgoglio e l’avidità. L’orgoglio è un peccato simbolico e teologico. All’avidità manca il carattere simbolico e teologico dell’orgoglio; essa è il peccato naturale e materiale, un istinto puramente terrestre; è il peccato dell’epoca in cui la circolazione del denaro ha trasformato e sciolto dai vincoli precedenti le condizioni dello sviluppo del potere. Nello sperpero l’avidità si perché il modo di vivere dei nobili ha conservato il suo ascendente sulla società, anche quando la nobiltà aveva perso ormai da tempo il suo ruolo predominante come classe sociale. Il concetto della divisione della società in classo sociali permea nel medioevo tutte le considerazioni teologiche e politiche. Non si limita alle solite tre, clero, nobiltà e terzo stato. Il concetto di classe non ha solo un valore maggiore, ma anche una portata molto più ampia. In generale ogni gruppo, ogni funzione, ogni mestiere viene visto come una classe. Nel pensiero medievale il concetto di “stato” o di “ordine” è legato all’idea che ogni gruppo rappresenta un’istituzione divina, una parte del sistema cosmico, essenziale e rispettabile gerarchicamente come i troni celesti e le potenze nelle gerarchie angeliche. A ognuna delle classi era attribuita una funzione, non secondo la sua provata utilità ma secondo il suo grado di santità o la sua magnificenza. L’immagine medievale della società era statica. Dio ha creato il popolo perché lavori, coltivi la terra, provveda mediante il commercio al sostentamento materiale; il clero per le opere della fede; la nobiltà per innalzare la virtù e mantenere la giustizia, affinché gli altri si facciano specchio delle azioni e dei costumi delle persone ragguardevoli. Tutti i più alti compiti dello stato, la protezione della Chiesa, la diffusione della fede, la difesa del popolo, la lotta alla violenza e alla tirannia, Chastellain li assegna alla nobiltà. Attraverso l’intera opera di Chastellain si comprende come egli in realtà veda gli avvenimenti della sua epoca con lenti deformanti. La sottovalutazione della borghesia deriva dal fatto che lo stereotipo con cui l’immaginario si rappresentava il terzo stato, non era affatto modellato sulla realtà, era semplice e conciso come una miniatura del calendario o un bassorilievo raffigurante le opere dell’anno: l’agricoltore che sgobba, l’artigiano operoso o il mercante indaffarato. La figura del potente patrizio che soppianta il nobile, il fatto che la nobiltà traesse linfa vitale e forza dalla borghesia, non trovavano posto tra quelle immagini lapidarie. Nell’idea di terzo stato borghesia e classe operaia sono indistinte fino alla Rivoluzione francese. Si comprende così che un uomo come Chastellain attribuisca le più alte qualità alla nobiltà e solo virtù meschine e servili al terzo stato. I cittadini ricchi sono ancora chiamati da Chastellain “vilains”. Egli non ha la minima idea di quel che può essere l’onore borghese. Malgrado questa scarsa considerazione per il terzo stato, è presente nell’ideale cavalleresco stesso e nell’esercizio delle virtù e dei compiti prescritti alla nobiltà, un duplice elemento contenente un’idea del popolo meno sprezzante. Accanto alla derisione del popolano c’è nel Medioevo un filone che esprime sentimenti opposti, di compassione per il povero popolo che se la passa così male. Il tono dei lamenti è sempre uguale: il popolo vessato dalle guerre, spremuto dai funzionari, vive in miseria e inveisce contro l’autorità: il signore lo ricondurrà alla calma e alla ragione. Rimane tuttavia una compassione stereotipata e negativa, molto lontana da un qualsiasi programma. Non c’è traccia di alcuna riforma sociale. I sostenitori dell’ideale cavalleresco tardomedievale approvano queste manifestazioni di pietà nei confronti del popolo: del resto lo stesso dovere cavalleresco di proteggere i deboli lo esigeva. Altrettanto tipica dell’ideale cavalleresco, e altrettanto stereotipata, è la concezione che la vera nobiltà sia fondata solo sulla virtù, e che in fondo tutti gli uomini siano uguali. Il significato storico-culturale di questi due sentimenti viene sopravvalutato. In realtà queste idee erano luoghi comuni della stessa letteratura di corte come lo furono poi nei salotti dell’ancien regime. L’immagine “che la nobiltà nasce da un cuore puro” era già diffusa nel XII secolo, sia nella poesia latina sia in quella dei trovatori. Rimase sempre una considerazione di stampo morale e prima di qualsiasi effetto sociale. La premessa a tutto queste idee è questa: la nobiltà è chiamata, adempiendo all’ideale cavalleresco, a sostenere e purificare il mondo. La retta via e la virtù dei nobili sono il rimedio ai mali del mondo; da esse dipendono il benessere e la pace della Chiesa e del regno, il rispetto della giustizia. L’attribuzione della stessa dignità alla cavalleria e alla scienza, evidenziata anche dalla tendenza a riconoscere al titolo di dottore e al titolo di cavaliere gli stessi diritti, testimonia l’alto contenuto etico dell’ideale cavalleresco. Si onora una forma superiore di volontà e di coraggio accanto a una forma superiore di sapere e di potere; c’è l’esigenza di elevare l’uomo a una sfera più alta, che cerca di esprimersi nella precisa forma di due consacrazioni, di pari dignità, a compiti superiori. Ma, dei due, l’ideale cavalleresco aveva un’efficacia molto più forte e generale, poiché in esso agli elementi etici si univano tanti elementi estetici accessibili a ogni mente. 4. L’idea di cavalleria Il pensiero medievale è attraversato e arricchito in tutti i suoi elementi da concezioni religiose. Allo stesso modo, le idee di quel gruppo più ristretto che vive nella sfera della corte e della nobiltà sono imbevute dell’ideale cavalleresco. Le grandi speranze che si riponevano nel senso di dovere della nobiltà ci permettono forse di definire meglio le idee politiche relative ai suoi compiti? Sì, e cioè l’aspirazione alla pace universale, fondata sulla concordia tra i re, la conquista di Gerusalemme e la cacciata dei turchi. Quell’immagine di una società guidata dall’ideale cavalleresco dà una tinta sorprendente al mondo, ma non resiste a lungo. Chiunque si prenda in considerazione tra i noti cronisti francesi del XIV e XV secolo, tutti, dichiarano pomposamente di scrivere per esaltare la virtù e le più illustri gesta. È come se lo spirito di questi scrittori, uno spirito superficiale, adoperasse la funzione cavalleresca per correggere gli aspetti incomprensibili della loro epoca. Nella realtà sia le guerre sia la politica dei loro tempi erano strettamente informi e apparentemente incoerenti. La guerra era per lo più un processo cronico di scorrerie isolato su un grande territorio, la diplomazia uno strumento molto complicato e difettoso. Incapace di rintracciare in questo le cause dovute a un reale sviluppo della società, la storiografia si servì della finizione dell’ideale cavalleresco per ridurre tutto a un bel quadro fatto di onore principesco e virtù cavalleresca, un bel gioco di nobili regole, e creò l’illusione dell’ordine. La storia si riduce a una relazione di fatti d’arme belli e cerimonie politiche solenni. In quanto ideale di vita nobile, il pensiero cavalleresco si configura in modo singolare. È, nella sua essenza, un ideale estetico, formato da un fantasia variopinta e da un’emozione edificante. Ma vuole essere un ideale etico: la mentalità medievale poteva dare un ruolo nobile a un ideale di vita solamente ponendolo in relazione con la pietà e la virtù. Riguardo a questa funzione etica la cavalleria fallisce sempre; la sua origine peccaminosa la sminuisce. Perché il nocciolo dell’ideale resta l’orgoglio elevato a bellezza. Stilizzato ed esaltato dall’orgoglio, è nato l’onore, polo della vita nobiliare. Mentre nelle relazioni sociali dei ceti medi e inferiori la molla principale, secondo Taine, è l’interesse, il grande movente dell’aristocrazia è l’orgoglio. Taine ha la tendenza a idealizzare l’aristocrazia. La vera storia delle aristocrazie offre dovunque un’immagine in cui l’orgoglio è associato a un egoismo senza limiti. Ciò nonostante, le parole di Taine sono efficaci. Ambizione personale e desiderio di gloria sono stati raffigurati da Burckhardt come peculiarità dell’uomo del Rinascimento. Egli contrappone all’onore e all’orgoglio di classe un universale e umano sentimento di onore e gloria, al quale tende lo spirito italiano da Dante in poi, sotto la forte influenza del mondo classico. Si tratta di un caso in cui Burckhardt ha reputato troppo grande la distanza che separa il Medioevo dal Rinascimento, l’Europa occidentale dall’Italia. Quel desiderio rinascimentale di gloria e di onore è sostanzialmente simile all’ambizione cavalleresca di un tempo. Il desiderio appassionato di essere lodato dai posteri non è estraneo al cavaliere di corte del XII secolo o alla rozza soldataglia francese o tedesca del XIV secolo. La ricerca cavalleresca di gloria e di onore è connessa in modo inseparabile a un culto degli eroi in cui confluiscono elementi medievali e rinascimentali. 5. Il sogno di gesta eroiche Dovunque si professi con coerenza l’ideale cavalleresco, si accentua il suo elemento ascetico. Al suo primo fiorire, negli ordini cavallereschi religiosi dell’età delle crociate, si associò spontaneamente all’ideale monastico. Man mano che la realtà smentì quell’ideale, questo si ritirò sempre di più nelle sfere della fantasia, per conservarvi l’aspetto di una nobile ascesi, raramente riscontrabile nella società. Il cavaliere errante è povero e libero da legami terreni. La compassione, la giustizia, la fedeltà, legami tra l’ideale cavalleresco e altri elementi della coscienza religiosa non sono dunque artificiali o superficiali; tuttavia, non sono questi a fare della cavalleria la forma di vita bella per eccellenza. Il profondo tratto ascetico proprio dell’ideale cavalleresco è strettamente legato alla matrice erotica di questo modo di vivere e forse è solamente la rielaborazione in chiave etica di desideri insoddisfatti. Non è solo nella letteratura e nelle arti figurative che il desiderio d’amore trova espressione. L’esigenza di dare una forma e uno stile nobili all’amore trova un campo fertile per svilupparsi anche nello stesso modo di vivere, nelle abitudini cortesi, nei giochi di società. In ciò la vita imita la letteratura, ma questa alla fine trae tutti i modelli dalla vita stessa. L’aspetto cavalleresco dell’amore è nato non nella letteratura ma nella vita, dove il tema del cavaliere e dell’amata era già presente. Il cavaliere e l’amata è il motivo primario che spunta e spunterà dappertutto. Essa scaturisce direttamente dal bisogno di mostrare il proprio coraggio al cospetto della donna. la manifestazione e la realizzazione del desiderio, che sembrano irraggiungibili, vengono sostituiti dall’azione eroica compiuta per amore. Con ciò la morte si pone subito come alternativa alla piena soddisfazione, e l’appagamento è assicurato in entrambi i casi. Il gesto eroico deve consistere nella liberazione o nel salvataggio della donna stessa dal pericolo imminente. Prima è lo stesso protagonista che vuol soffrire per la donna, ma presto a questo si associa il desiderio di salvare dalle pene proprio la donna desiderata. In ogni caso compare qui il motivo erotico-cavalleresco per eccellenza: il giovane eroe che libera la vergine. La liberazione della vergine è il motivo romantico più antico e sempre presente. Alle volte tale motivo scompare per qualche tempo dalla letteratura, a causa della sua ripetitività, ma poi ritorna in forme nuove. La figura del nobile salvatore, che deve soffrire per l’amata, esprime in primo luogo l’idea che l’uomo vuole avere di sé. La tensione del suo sogno di liberatore è accresciuta dal suo agire in incognito e dal riconoscimento che avviene solamente dopo il gesto eroico. La società medioevale ha coltivato questi motivi romantici primitivi con un ardore giovanile. L’estasi del sentimentalismo amoroso non andava ricercata solo nella letteratura ma anche recitata e contemplata. Questo spettacolo può avvenire in due modi: la rappresentazione drammatica e lo sport. Nel medioevo quest’ultimo è di gran lunga più importante. Il dramma era ancora a carattere religioso. Lo sport medievale, e in primo luogo il torneo, era di per sé drammatico ed erotico. Lo sport conserva, in qualsiasi periodo, una carica erotico-drammatica. Ma mentre lo sport moderno è tornato a una semplicità naturale, quasi ellenica, il torneo medievale è uno sport sovraccarico di ornamenti e pesanti drappi, in cui l’elemento drammatico e romantico è stato volutamente sviluppato in modo da adempiere direttamente la funzione stessa del dramma. Il tardo Medioevo è uno di quei periodi finali nei quali la vita culturale delle classi superiori si è trasformata quasi completamente in un gioco di società. Poiché la realtà è impetuosa, dura e crudele, la si riconduce al bel sogno dell’ideale cavalleresco e su questo si ricostruisce il gioco della vita. In tutta la cultura cavalleresca del XV secolo c’è un equilibrio labile tra la serietà sentimentale e lo scherno garbato. Ogni concetto cavalleresco di onore, fedeltà e nobile amore viene trattato con la massima serietà, tuttavia di quando in quando quel fare compassato si lascia andare a una risata. La nobilitazione dell’amore nella letteratura e nella vita di società ci sembra spesso fatua e ridicola. È il destino di ogni forma romantica logorarsi come strumento della passione. Nel lavoro di molti autori, nei versi artificiosi, la passione non risuona più; risuona ancora solamente nella voce di pochissimi poeti veri. Ci si può rendere conto dell’importanza che ha avuto tutto quel lavoro come ornamento della vita solo infondendovi nuovamente la stessa viva passione. Gli sport guerreschi medievali si differenziano da quelli greci e dall’atletica moderna per la loro limitata naturalezza. Per aumentare la tensione dello scontro ci si avvale dell’orgoglio e dell’onore aristocratico, dell’erotismo romantico e dello sfarzo ricercato. Esso è sovraccarico di fasto e di ornamenti, pieno di una splendida fantasia di colori. È, oltre che gioco ed esercizio fisico, anche letteratura applicata. I desideri e i sogni poetici cercano una rappresentazione drammatica. La realtà non era affatto bella, era dura, crudele; nella carriera militare e in quella di corte c’era poco spazio per sentimenti di coraggio appassionato, ma l’anima ne è piena, si cerca di suscitarli e di creare una vita migliore con giochi raffinati. 6. Ordini e voti cavallereschi L’ordine cavalleresco non può essere distinto dalle classi maschili dei popoli primitivi. Nella mentalità cavalleresca, l’elemento cristiano è così forte, che anche un’interpretazione esclusivamente religiosa e politica, strettamente medievale, potrebbe essere convincente, se non si sapesse che esistono paralleli primitivi universalmente diffusi. I primi ordini cavallereschi, i tre grandi ordini della Terra Santa e i tre Spagnoli, erano stati generati dall’unione degli ideali cavallereschi e monastici. Si erano sviluppati come grandi istituzioni politiche ed economiche. La loro utilità politica aveva messo in secondo piano sia il loro carattere religioso sia l’elemento torneo, e il loro arricchimento rese nulla a sua volta la loro utilità politica, e gli ordini furono organizzazioni di classe di grande importanza. Però, nel XIV e nel XV secolo, la cavalleria non era più che una forma di vita superiore, e così era riapparso negli ordini cavallereschi successivi l’elemento del nobile gioco. Non che fossero diventati semplicemente un gioco. Idealmente sono ancora pervasi da grandi aspirazioni etiche e politiche. Ma si tratta di illusione e di sogno, di vani progetti. Un curioso idealista, Philippe de Mézières, vede il rimedio ai male del tempo in un nuovo ordine cavalleresco, che ha chiamato Ordre de la passion, in cui vuole accogliere tutte le classi. Nella parola “Ordre” c’erano, in modo confuso, una quantità di significati, dalla santità più elevata alla coscienza di classe più prosaica. tratta dall’antichità. E da Petrarca fino a Lorenzo de’ Medici il canto d’amore ripercorre la strada della sensualità naturale che comprendeva anche i modelli antichi tanto ammirati. Il tema dell’amor cortese, elaborato con così grande arte, era stato nuovamente abbandonato. In Francia la svolta era avvenuta in modo diverso. Lo sviluppo dell’idea erotica è meno semplice. le forme del sistema conservano la loro validità, ma acquistano un altro spirito. Lì aveva infuso nuovo contenuto alle forme d’amore cortese. Non si potrà mai valutare secondo la sua reale importanza il fatto che la classe dominante di un intero periodo ha attraversato una sorta di ars amandi. In nessun’altra epoca l’ideale della cultura mondana si è amalgamato a tal punto con quello dell’amore per la donna come in quella tardomedievale. Nella rappresentazione delle forme d’amore si concentrava tutta l’aspirazione alla vita bella. Il desiderio di stilizzare l’amore era più che un gioco vano. Era la violenza stessa della passione a spingere questa veemente società tardomedievale a elevare la vita amorosa a un bel gioco con nobili regole. In fondo, però, la vita amorosa rimase particolarmente volgare. Tuttavia, la rozzezza non implica solo un venir meno dell’ideale. In materia di fantasie amorose una società raffinata, come quella tardomedievale, eredita molti motivi antichissimi. Radici molto più antiche e altrettanto vitali dell’amor cortese aveva la forma primitiva di erotismo che esalta la stessa relazione sessuale. La celebrazione del matrimonio e le feste nuziali erano state un unico grande mistero che aveva il suo fulcro nell’accoppiamento. Poi era subentrata la chiesa riservandosi gli aspetti sacri e il mistero, trasferendoli nel sacramento del matrimonio. Gli accessori di mistero permanevano con maggior dissolutezza e la Chiesa era impotente a reprimerli. Solo l’individualismo moderno ha infranto questo costume. È chiaro che tutto ciò non è avvertito come una violazione del decoro. Esiste qui un contrasto che non può essere chiarito considerando semplicemente un’ipocrisia le forme nobili e il grande senso del pudore che il medioevo mostra in altri campi, né, tantomeno, l’incidenza è una dissolutezza saturnale. Sarebbe ancora più sbagliato considerare le oscenità epitalamiche un segno di decadenza aristocratica. I doppi sensi, i giochi di parole osceni, le omissioni lascive sono di casa nello stile epitalamico, vi sono da sempre; diventano comprensibili quando li si considera come resti del simbolismo fallico primitivo. In netta opposizione alla pietà e allo spirito cortese, negli usi nuziali le fantasie sessuali si mantenevano in tutta la loro esuberanza. Si può, volendo, considerare tutto il genere comico, il racconto, la farsa, la canzone, come una serie di germogli selvaggi nati dal tronco dell’epitalamio. Tuttavia, il nesso con tale possibile origine si è perso nel tempo e si è sviluppato un genere comico. Solo la natura della comicità è ancora la stessa dell’epitalamio: essa si basa, in genere, su allusioni simboliche a cose sessuali, o sul travestimento dell’amore sensuale in conetti propri di qualche professione. Nel Medioevo si esprimeva in termini religiosi la vita sessuale con naturalezza straordinaria. Per diventare cultura, l’erotismo doveva cercare a tutti i costi uno stile che lo racchiudesse. L’intero genere, che uno spirito grossolano può facilmente ritenere un naturalismo erotico, in cui gli uomini sono instancabili e le donne sempre disponibili, è, al pari dell’amore cortese più elevato, una finzione romantica. Anche qui si manifesta un grande impulso culturale: l’aspirazione alla vita bella, il bisogno di sognare una vita migliore di quella reale, e quindi forzare la vita amorosa dentro la forma di un desiderio fantastico, ma questa volta l’esagerazione implica l’animalità. La realtà, in tutte le epoche, è sempre stata peggiore e più brutale di come la vedeva il raffinato ideale letterario, ma anche più pura e casta di come la raffigurava lo scialbo erotismo, che passa generalmente per naturalismo. Come fonte di letteratura e di cultura l’intero genere epitalamico, con tutte le sue propaggini e diramazioni, doveva rimanere sempre in secondo piano; suo tema principale è l’estremo e completo appagamento dei sensi, è erotismo immediato. In perfetto accordo con la mentalità del basso medioevo è il Roman de la Rose che aveva dato all’intera cultura erotica una forma così variopinta da diventare come un tesoro di liturgia, dottrina e leggende profane. Ed è proprio il suo carattere ambiguo a renderlo accessibile come bibbia della cultura erotica, in quanto vi si trovano testi utilizzabili per scopi diversi. Guillarme de Lorris, il primo poeta, coltivava ancora l’antico ideale cortese. Poi, molto tempo dopo, è venuto Jean de Meung, e ha proseguito il lavoro con un seguito molto più esteso dandogli una conclusione. Ma ciò che è davvero importante è che egli si mostrò così disinvolto, freddamente scettico e cinico, quale il Medioevo raramente produsse, e oltretutto maneggiò la lingua francese come pochi. Malgrado la sua grande influenza sugli spiriti, il Roman non riuscì a soppiantare del tutto la più antica concezione dell’amore. Accanto all’esaltazione del flirt resisteva anche l’ideale dell’amore puro, fedele e capace di sacrifici, elemento essenziale dell’ideale cavalleresco. 9. Le convenzioni dell’amore Tramite la letteratura conosciamo le forme in cui l’amore viene espresso in una data epoca e che poi dobbiamo immaginare nella vita stessa. Esisteva un vero e proprio sistema di forme convenzionali per riempire la vita di un giovane aristocratico. Tanti simboli, tante figure dell’amore sono state abbandonate a poco a poco nei secoli seguenti. C’era poi il significato sottile dei colori dei vestiti, dei fiori e dei gioielli. Il simbolismo dei colori aveva un posto importante. Gli anelli, i veli, tutti i gioielli e i regali dell’amore avevano la loro funzioni particolare, con i loro motti ed emblemi misteriosi che degeneravano spesso nei rebus. C’erano poi gli indovinelli amorosi. Un ruolo importante nelle conversazioni a corte era svolto dalla casistica dell’amore. Era, per così dire, l’elevazione della curiosità e della calunnia a forma letteraria. Ogni caso amoroso veniva esaminato secondo norme rigorose. Conosciamo tutte queste convenzioni amorose solo grazie alle loro ripercussioni letterarie, ma esse facevano parte della vita reale. Quel codice di concetti, regole e forme cortesi non serviva solo a verseggiare, ma anche a metterle in pratica, se non proprio nella vita, almeno nella conversazione aristocratica. Però è molto difficile scorgere la vita dell’epoca tra i veli della poesia, perché anche la descrizione più minuziosa era falsata dall’ideale vigente. Il sottile legame delle belle forme dell’ideale dell’amore cortese con la realtà del fidanzamento e del matrimonio faceva sì che l’elemento del gioco, della conversazione, del divertimento letterario potesse estrinsecarsi più liberamente in tutto quello che riguardava la raffinata vita amorosa. L’ideale dell’amore, la bella finzione della fedeltà e del sacrificio non trovavano posto nelle considerazioni materiali che portavano al matrimonio, soprattutto fra nobili. Esso poteva essere vissuto solo sotto sembianze di un gioco affascinante. Il torneo dava a quel gioco dell’amore romantico una forma eroica. L’idea pastorale forniva la forma idilliaca. 10. La visione idilliaca della vita La forma di vita cavalleresca era troppo carica di ideali e di virtù. Considerandola con spassionato senso della realtà, tutta questa decantata cavalleria appare inutile e falsa. Era ancora più debole il lato etico, ovvero la realizzazione della virtù cui l’ideale cavalleresco ambiva. Anche se la vita cavalleresca alle volte sembrava desiderabile ai borghesi, tra la nobiltà stessa aleggiava una grande stanchezza e insoddisfazione. Quel bel gioco era così falso da far desiderare a fuga da quell’arte di vivere. Due vie si allontanavano dall’ideale cavalleresco: quella che conduceva alla vita reale e attiva e al moderno spirito di ricerca, e quella che conduceva alla fuga dal mondo. Quest’ultima via si biforcava come la Y di Pitagora: la linea principale era quella della vera vita spirituale, la linea laterale si teneva ai margini del mondo con i suoi piaceri. L’aspirazione a una vita bella era così forte che pareva ancora possibile una via d’uscita: quella della bellezza terrena, di un sogno ancora più soave e luminoso. L’antica illusione della vita pastorale rifulgeva ancora come una promessa di felicità naturale. L’elogio della vita semplice era un tema che la letteratura medievale aveva già ereditato dall’antichità. Nel genere pastorale si descrive il contrasto positivo con la vita di corte. Verso il 1400, la cerchia nella quale il tema della condanna della vita si corte viene coltivato è quella del primo Umanesimo francese, strettamente legato al partito riformatore dei grandi concili. Sicurezza, quiete e indipendenza sono le cose buone per cui si vuol fuggire la corte per condurre una vita semplice, laboriosa e frugale in mezzo alla natura. Questo è il lato negativo dell’ideale. Il lato positivo non è però costituito tanto dalla gioia del lavoro e della semplicità, quanto dal piacere dell’amore naturale. La pastorale è qualcosa di più di un genere letterario. Non si tratta di descrivere la vita dei pastori con i suoi piaceri semplici e naturali, ma di riviverla. È una imitatio. Si voleva credere che nella vita pastorale si fosse realizzato l’amore nella sua indisturbata naturalezza. Ogni volta l’ideale pastorale è servito da rimedio per liberare gli spiriti dagli spasmi di un amore troppo dogmatico e stilizzato. Il tardo Medioevo è, però, ancora così autenticamente aristocratico e così inerme di fronte a una bella illusione, che l’entusiasmo per la vita a contatto con la natura non può ancora condurre a un forte realismo, ma rimane limitato, in pratica, a un abbellimento artificioso dei costumi di corte. C’è una sola forma poetica che rappresenta la transizione tra la vera pastorale e la realtà, ossia la Pastourelle, il poemetto che canta la facile avventura del cavaliere con la forosetta. Una volta divenuta un ideale aulico, la vita pastorale assume il carattere di una mascherata. Ogni cosa viene travestita alla moda bucolica. I mondi fantastici della pastorale e del romanticismo cavalleresco si confondono. Il bel gioco dell’amore come forma di vita continuò alla maniera cavalleresca, pastorale e secondo l’ingegnoso scenario dell’allegoria della rosa, e anche se da ogni parte risonava il ripudio di tutte quelle convinzioni, quelle forme conservarono comunque la loro valenza nella vita e nella cultura per molto tempo, sopravvivendo al medioevo. Perché le forme di cui l’ideale dell’amore deve pur sempre cingersi sono poche ed eterne. 11. L’immagine della morte Nessun’epoca ha inculcato l’idea della morte con tanta enfasi quanto il XV secolo. Senza sosta risuona il grido del memento mori. La fede aveva impresso anche prima negli animi il costante pensiero della morte. Solo quando, con il fiorire degli ordini mendicanti, si affermò la predicazione popolare, quell’ammonimento crebbe fino a diventare un coro minaccioso che risuonò per il mondo con l’intensità di una “fuga”. Tre erano i temi che fornivano la melodia all’interminabile lamento sulla fine di ogni gloria terrena. Anzitutto c’era il motivo: dove sono ora coloro che una volta riempirono il mondo del loro splendore? Poi c’era il motivo dello spettacolo raccapricciante della putrefazione di tutto ciò che una volta era stato bellezza umana. Infine, il motivo della Danza macabra, della morte che trascina con sé uomini di ogni condizione e di ogni età. Che cosa rimane di tutte le bellezze e glorie umane? Ricordi, un nome. Ma la malinconia di quel pensiero non basta a soddisfare il bisogno di inorridire davanti alla morte. Perciò quell’epoca fa in modo di specchiarsi in un orrore più visibile, la fugacità a breve termine: la decomposizione del cadavere. Al violento ribrezzo della dissoluzione del corpo terreno si contrappone la grande importanza che si attribuisce all’incorruttibilità delle spoglie di alcuni santi. C’era l’abitudine di comporre, subito dopo la morte, il viso di un illustre defunto, affinché non fossero visibili tracce di decomposizione prima dei funerali. La figura stessa della Morte aveva assunto da secoli, nelle rappresentazioni plastiche e letterarie, più di una sembianza. Nel XIV secolo compare la sorprendente parola macabre. È un nome proprio, qualunque sia l’etimologia della parola, molto discussa. Solo molto più tardi è stato estrapolato da La danse macabre l’aggettivo, che ha assunto per noi un significato ben definito. La concezione macabra della morte oggi si può ancora trovare nei cimiteri di campagna, dove se ne sente l’eco nelle iscrizioni e nelle figure. Alla fine del medioevo essa è stata una grande idea. Era sopraggiunto, nella rappresentazione della Morte, un nuovo, toccante, fantastico elemento, un brivido che sorgeva dalla coscienza, dalla zona dell’agghiacciante terrore degli spettri e del sudore freddo. L’idea religiosa, che dominava su tutto, lo trasformò subito in morale, la ricondusse al memento mori, servendosi però volentieri della raccapricciante suggestione che il carattere spettrale della rappresentazione racchiudeva. In origine la Danza Macabra mostrava solo uomini. L’intento di associare all’ammonimento sulla fugacità e la vanità delle cose terrene la lezione dell’uguaglianza sociale mise naturalmente in primo piano gli uomini, poiché incarnavano le professioni e le dignità. La Danza macabra non era solo un’esortazione pia, ma anche una satira sociale. Mancava ancora un’immagine nella terrificante raffigurazione del morire: quella dell’ora della morte. Il terrore di quel momento non poteva essere impresso negli spiriti in modo più acuto che ricordando Lazzaro: questi, si diceva, dopo la resurrezione non aveva conosciuto che un miserabile ribrezzo della morte, che aveva già subito una volta. In nessun luogo tutto quello che evocava l’immagine della morte era riunito un modo così efficace come nel cimitero degli Innocenti di Parigi. Là lo spirito poteva godere pienamente i brividi del macabro. Ogni cosa contribuiva a conferire a quel luogo la santità tetra e l’orrore multiforme tanto desiderati nel tardo medioevo. Nella smania di una raffigurazione immediata della morte, che portava all’abbandono di tutto ciò che non si poteva raffigurare, furono impressi nelle coscienze solo gli aspetti grossolani della morte. Nella visione macabra della morte manca quasi del lutto per la perdita dei cari, bensì del rammarico per la propria imminente morte, vista solo come disastro e orrore. Il pensiero religioso del tardo Medioevo conosce solo i due estremi: il lamento per la fugacità, per la fine della potenza, dell’onore e del piacere, per lo svanire della bellezza, e il giubilo per l’anima salvata nella sua beatificazione. Tutto il resto rimane inespresso. In una simile raffigurazione della Danza macabra e del terrificante scheletro l’emozione si pietrifica. 12. La raffigurazione del sacro C’è un enorme bisogno di raffigurare il sacro, di dare una forma compiuta a ogni rappresentazione di carattere religioso, per far sì che essa si esprima come un’immagine nitida nel cervello. In questa tendenza figurativa tutto ciò che è sacro è continuamente esposto al rischio di assumere una forma rigida ed esteriore. La vita della cristianità medievale è pervasa e satura di rappresentazioni religiose. Tutto è orientato verso una un uomo o di creare in letteratura certe immagini ideali di una determinata forma di vita. È degno di nota il fatto che questo romanticismo della santità si compiaccia molto di più dei fantasiosi, stimolanti estremi dell'umiltà e dell'astinenza, che delle grandi gesta che innalzano la cultura religiosa. Si diventa santi non per meriti ecclesiastico-sociali, per quanto grandi, ma per una devozione miracolosa. Lo spirito del quindicesimo secolo ha un atteggiamento ambiguo nei confronti delle somme manifestazioni della fede medioevale. 14. Emozione religiosa e immaginario Dal XII secolo lo spirito era pervaso in misura sempre crescente da una soave emozione per la Passione; era permeato e saturo di Cristo e della Croce. Nella prima infanzia l'immagine del crocifisso veniva inculcata nei fragili animi così grande fosca da adombrare con la sua severità tutte le emozioni. Così pieno di Cristo era lo spirito che l'analogia più remota di un'azione o di un pensiero con la vita o con la passione del Signore ne faceva immediatamente vibrare la voce. Il quindicesimo secolo mostra la sua forte sensibilità religiosa in duplice forma. Essa si manifesta da una parte nei profondi turbamenti che di tanto in tanto prendevano il popolo No quando un predicatore girovago infiammava con le sue parole tutte le energie spirituali. Dall'altra, la sensibilità è avviata, da alcuni, in un alveo calmo, normalizzata in una nuova forma di vita, quella dell'intimità. Della considerevole influenza della predicazione solo pochi elementi duraturi sono passati nella cultura spirituale. Sappiamo che ciò che turbava il popolo è sempre stato il quadro impressionante dei castighi infernali, la tonante minaccia della punizione dei peccati, tutte le effusioni liriche sulla passione e l'amore divino, e conosciamo quali mezzi usavano i predicatori: nessun effetto era troppo grossolano, nessun salto dal riso al pianto troppo improvviso. Ma in realtà possiamo intuire gli shock che provocavano dal racconto sempre uguale di come le città si contendessero la promessa di una predicazione, di come i magistrati e il popolo andassero incontro ai predicatori con grande pompa, come per un principe, di come il predicatore talvolta dovesse interrompersi a causa dei pianti e delle grida della folla. L'emozione spasmodica delle masse, provocata dalla parola del predicatore, è sempre svanita senza potersi fissare nella tradizione scritta. La vita contemplativa presenta grandi pericoli, dice Gerson; in molti a causato malinconia o pazzia. Egli sa quanto facilmente un digiuno troppo persistente possa portare alla follia e alle allucinazioni; sa anche quale ruolo giochi il digiuno nelle pratiche della magia. Quest'uomo, che sapeva scorgere con tale acutezza l'aspetto psicologico nelle manifestazioni di fede, dove poteva fissare il limite tra ciò che era sacro e lecito e ciò che andava a rigettato? Egli stesso sentiva che la sua ortodossia in questo caso non gli bastava; era abbastanza facile condannare, da dotto teologo, tutti i casi in cui le deviazioni del dogma erano palesi; ma esistevano poi molti casi in cui erano il suo giudizio etico sulle manifestazioni della devozione, il suo senso della misura e il suo buon gusto a dovergli suggerire la sentenza. Se già per Jean Gerson l'unico criterio decisivo per la distinzione tra devozione vera e falsa non era più quello dogmatico, a maggior ragione per noi i tipi di emozione religiosa non corrispondono più alle linee della loro ortodossia o eresia, ma alla loro natura psicologica. Anche la stessa gente dell'epoca non distingueva le linee dogmatiche. Ascoltava con la stessa edificazione l'eretico fra Tommaso e San Vincente Ferrer, ingiuriava Santa Colette e i suoi seguaci, chiamandoli begardi e ipocriti. La chiesa diveniva vigile non appena le struggenti emozioni della mistica si mutavano in convinzioni ben formulate o in applicazioni nella vita sociale. Finché ci si limitava a raffigurazioni appassionate di natura simbolica è stato legava qualunque esuberanza. 15. Il simbolismo sfiorito La fede commossa di quel tempo voleva tradursi immediatamente in una raffigurazione variopinta e ardente. Lo spirito credeva di comprendere il miracolo vedendolo. Il bisogno di adorare sotto segni visibili l'inesprimibile creava figure sempre nuove. Nel quattordicesimo secolo la croce e l'agnello non sono più sufficienti a fornire un oggetto visibile al traboccante amore per Gesù: vi si aggiunge il culto del nome di Gesù, che minaccia persino di offuscare il culto della Croce. Esso apparve sospetto alle autorità ecclesiastiche: si parlò di superstizione e di idolatria, nacquero dei tumulti a favore e contro l'uso e Papa Martino V proibì l'usanza. Però il bisogno di adorare il signore in modo visibile riuscì a realizzarsi ben presto in modo legittimo; l'ostensorio esponeva all'adorazione l'ostia consacrata stessa. Il luogo della forma di torre l'ostensorio ebbe ben presto quella del sole raggiante, simbolo dell'amore divino. L'ordine di idee simbolistica si affianca, autonomo e in sé di pari valore, al genetico. Quest'ultimo, ossia il concepire il mondo come un'evoluzione, non era così estraneo al medioevo come si immagina abitualmente. Però la derivazione di una cosa dall'altra veniva ancora vista unicamente sotto l'ingenua figura di una procreazione diretta o di una ramificazione. Il simbolismo è come un cortocircuito spirituale. Il pensiero non cerca il legame tra le due cose seguendo le spirali nascoste della loro connessione causale, ma lo trova all'improvviso con un salto, non come un rapporto di causa ed effetto, ma di significato e scopo. In altre parole: ogni associazione basata su qualche somiglianza si può trasformare immediatamente nella coscienza di un rapporto essenziale e mistico. Il pensiero primitivo è caratterizzato da una debolezza nel percepire confini di identità tra le cose; incorpora nella rappresentazione di una determinata cosa tutto ciò che con essa ha un qualche rapporto di somiglianza o di appartenenza. La funzione simboleggiante vi è strettamente connessa. Il simbolismo perde tuttavia quell'apparenza di arbitrarietà e di incompiutezza non appena ci si rende conto che esso è indissolubilmente legato a quella concezione dell'esistente che nel medioevo si chiama un realismo e che noi, in fondo con minore esattezza, chiamiamo idealismo platonico. Ogni realismo, in senso medioevale, è in fondo antropomorfismo. Quando il pensiero, che ha attribuito all'idea un’esistenza indipendente, vuole apparire, non può che ricorrere alla personificazione. Questo è il trapasso dal simbolismo e dal realismo all'allegoria. L'allegoria è il simbolismo proiettato verso l'immaginazione superficiale, l'elaborazione intenzionale, e con ciò anche lo svuotamento, di un simbolo, la riduzione di un grido appassionato a una frase grammaticalmente corretta. L'allegoria ha dunque già in sé il carattere della normalizzazione scolastica, e nello stesso tempo quello di un'assimilazione, un dissolvimento del pensiero nell'immagine. E tuttavia non si creda che l'allegoria e la personificazione medievali mancassero di autenticità e di vitalità. Del resto, se non avessero posseduto queste qualità, come avrebbe potuto la civiltà medievale coltivarle con tanta perseveranza e con tanto favore? Nel complesso questi tre modi di pensare, il realismo, il simbolismo e la personificazione hanno illuminato lo spirito medievale come un flusso di luce. Il valore che l'interpretazione simbolica dell'esistente aveva per la vita era incalcolabile. Il simbolismo creò una concezione del mondo contraddistinta da una unità più rigorosa e da un legame più intimo rispetto al pensiero causale-naturalistico. Abbracciava con forza tutta la natura e tutta la storia creandovi un ordine impeccabile. Nel pensiero simbolico c'è spazio per una smisurata molteplicità di rapporti tra le cose. Perché ogni cosa può, con le sue diverse qualità, essere il simbolo di molte altre, e può anche significare con la stessa qualità diverse cose. Il simbolismo rese possibile apprezzare e godere comunque il mondo, che pure era in sé abietto, e anche nobilitare le occupazioni terrene. Il medioevo declinante mostra tutto questo mondo di idee nella sua ultima fioritura. Il mondo era completamente spiegato in quel simboleggiamento universale e i simboli diventavano dei fiori pietrificati. Da tempo il simbolismo aveva posseduto la tendenza a diventare puramente meccanico. La forma di pensiero simboleggiante era ormai logora. Cercare simboli e allegorie era diventato un gioco vano, una fantasticheria superficiale. Il simbolismo con la sua ancella, l'allegoria, era diventato un passatempo cerebrale; il sensato divenne insensato. La mentalità simbolistica ostacolava lo sviluppo del pensiero causale-genetico. Non che questo venisse escluso dal simbolismo; il rapporto causale-genetico delle cose aveva il suo posto accanto a quello simbolico, ma rimase irrilevante, finché l'interesse non si spostò dal simbolismo allo sviluppo naturale. Il simbolismo non riuscì a esprimere adeguatamente delle connessioni sentite come certe, come quelle di cui talvolta siamo coscienti ascoltando della musica. Si sapeva di guardare in un enigma e tuttavia si cercava di distinguere le immagini nello specchio, si spiegavano delle immagini con altre immagini. L'intero mondo era rappresentato con figure autonome: fu una stagione di maturazione eccessiva e di sfioritura il pensiero dipendeva ormai troppo dalla raffigurazione; la tendenza visiva, così peculiare della fine del medioevo, era diventata preponderante. Tutto ciò che poteva essere pensato era diventato plastico e pittorico. La concezione del mondo aveva raggiunto la pace di una cattedrale al chiaro di luna, in cui il pensiero poteva mettersi a dormire. 16. Il realismo e la capitolazione della raffigurazione nella mistica. L’abitudine di dare un senso a tutte le cose e di porle in relazione con l’eterno teneva vivo lo splendore di colori sbiaditi. Quando la funzione simboleggiante viene a mancare o è diventata puramente meccanica, allora il grandioso edificio delle derivazioni voluto da Dio si trasforma in una necropoli. All'infuori delle regole della logica astratta non c'è alcun correttivo che possa indicare un errore nella classificazione, e in tal modo lo spirito è tratto in inganno circa il valore del suo lavoro intellettuale, e la solidità del sistema viene sopravvalutata. Ogni nozione, ogni concetto sta immobile come una stella nel firmamento. È questa riduzione di ogni cosa al generale che il Lamprecht ritiene prerogativa per antonomasia dello spirito medioevale. Essa è una conseguenza di quel bisogno dello spirito di subordinare che trova origine dall'idealismo radicato. Si cerca in ogni cosa proprio impersonale, il valore esemplare, la norma. L'attività per eccellenza dello spirito medioevale consisteva nello scomporre l'intero mondo e l'intera vita in idee indipendenti e nell'organizzare quelle idee in grandi e numerosi rapporti di sudditanza nell'ambito di gerarchie di pensieri. Questo spiega quell'inclinazione dello spirito medievale a separare ogni qualità, nella sua sostanza essenziale, dal complesso di un caso. Ne risulta un'instancabile meditazione su tutte le cose. Nessun campo invitava quella elaborazione quanto quello delle virtù e dei peccati. Ogni peccato ha il suo numero fisso di cause, di specie, di figlie e di effetti dannosi. La gravità del peccato deve essere considerata da 7 punti di vista: dal punto di vista di Dio, da quello del peccatore, della materia, delle circostanze, dell'intenzione, della natura del peccato stesso, e delle conseguenze. Questa anatomia del peccato potrebbe facilmente indebolire la coscienza del peccato deviandola sull'analisi minuziosa della classificazione, se nel contempo non venisse decisamente esasperata la fantasia del peccato ela raffigurazione del castigo. Ogni peccato, anche il più insignificante, coinvolge l'universo. Non occorre dimostrare né spiegare che la paura del tormento eterno viene presentata ogni volta come il motivo di conversione e di pietà. L'uomo del medioevo è come un malato assuefatto a medicine troppo forti. Reagisce solo agli stimoli più potenti. L'esigenza di godere l'eccellenza della virtù a dosi così forti e a sua volta in relazione con l'idealismo dominante. Considerare la virtù un'idea sottraeva, per così dire, alla sua considerazione il fondamento della vita reale; La sua bellezza veniva vista nella sua essenza autonoma come estrema perfezione, non nella sua faticosa pratica quotidiana, tra alti e bassi. Il realismo medievale, ossia un iper-idealismo, va considerato un atteggiamento spirituale primitivo. Anche se la filosofia aveva sublimato, chiarificato e rarefatto il realismo come atteggiamento spirituale, esso rimase il modo di vivere dell'uomo primitivo, che attribuisce essenza e sostanza a tutte le cose astratte. Se sono le gioie celesti, o la maestra di Dio, che si vogliono esprimere, se hanno solamente grida parossistiche del pensiero. L'espressione della gioia celeste resta sempre estremamente primitiva. Il linguaggio umano non può fornire una visione della felicità vemente come quella del terrore. Ma a cosa serviva ammucchiare superlativi assoluti, rappresentazioni di altezza, ampiezza, incommensurabilità, e inesauribilità? Restavano pur sempre delle immagini. Ogni sensazione, una volta espressa, perdeva la sua immediatezza, così ogni qualità che si attribuiva a Dio gli toglieva qualcosa della sua immensità. C'erano anche altre strade che scendevano dalle altezze solitarie della mistica individuale, priva di forme e di immagini. Quelle altezze si raggiungevano soltanto passando attraverso il diletto del mistero liturgico- sacramentale: solo l'aver sentito appieno il miracolo simbolico-estetico dei dogmi e dei sacramenti rendeva in grado di respingere tutte le forme figurate e di salire fino alla contemplazione, priva di concetti. Dell’Uno- Tutto. Ma allo spirito non poteva godere quella chiarezza quando voleva; non erano che rari momenti di grazia, e poi c'era pur sempre la chiesa in attesa, con il suo saggio e parsimonioso sistema di misteri. La chiesa tollerava serenamente i trasporti più fioriti della mistica estetica, ma temeva la mistica vera, impetuosa. La mistica intensiva significa Il ritorno a una vita spirituale preintellettuale. 17. Le forme di pensiero nella vita pratica Per comprendere lo spirito medievale nella sua interezza si devono studiare le forme fondamentali del suo pensiero anche nella saggezza quotidiana e nella banale vita pratica. L’uomo del medioevo, nella vita di tutti i giorni e nella sua teologia, pensa nelle stesse forme. Il fondamento è quell’idealismo architettonico che la Scolastica chiamava realismo: l’esigenza di isolare tutte le nozioni e di dare loro forma come un’entità, collocandole in un contesto gerarchico. Tutto ciò che acquista un posto fisso nella vita rientra in un disegno universale divino. In ogni cosa si cerca “la moralità”, ossia la lezione che vi è racchiusa, il significato morale. Ogni vicenda storica o letteraria tende a cristallizzarsi in una parabola. Ogni argomentazione seria si fonda volentieri su un testo, come punto di riferimento e di partenza. L’esigenza di rappresentare ogni caso della vita come un esempio morale e di estrapolare da ogni giudizio una sentenza, per farne qualcosa di sostanziale e di intangibile, ovvero il processo di cristallizzazione del pensiero, trova la sua manifestazione più generale e naturale nel proverbio. Il proverbio ha, nel pensiero medievale, una precisa funzione. Ne circolano a centinaia ogni giorno, quasi tutti pungenti e calzanti. La saggezza che emana dal proverbio è spesso spicciola, talvolta benevola e profonda; il tenore del proverbio è spesso ironico, l’accento per lo più bonario e sempre rassegnato. È sorprendente la quantità di proverbi in forme, tesse una trama per ogni dettaglio, una contro linea per ogni linea. Era un moltiplicarsi incontrollato della forma sull'idea; il dettaglio decorato tocca tutti i piani e tutte le linee. Regna in quest'arte un horror vacui che forse è un sintomo di periodi spirituali declinanti. La decorazione non serve più a esaltare la bellezza naturale, ma la aggredisce e minaccia di soffocarla. La scultura, finché si limita a creare figure isolate, non presta il fianco alla degenerazione formale, ma non appena la scultura assume un ruolo decorativo eccede anch'essa in un’inquieta sovrabbondanza. L'arte della tessitura, per via della sua tecnica obbligata, non può sottrarsi alle esasperate esigenze ornamentali; gli arazzi sono sovraccarichi di figure e di colori e conservano forme arcaiche. Se ci si allontana ancora di più dall'arte figurativa pura se arriva all'abbigliamento. Anch'esso è indubbiamente arte, ma qui il fasto e l'ornamento prevalgono sulla bellezza pura, e inoltre la superbia attira l'arte dell'abbigliamento nella sfera passionale e sensuale, dove le qualità che costituiscono l'essenza della grande arte scompaiono. La bizzarria mostrata dall'abbigliamento tra il 1350 e il 1480 non sia più vista nella moda delle epoche successive. Tuttavia, siamo portati qui ingrandire l'abisso tra i due estremi dell'arte: quella sacra e quella della festa di Corte. Innanzitutto, bisogna rendersi conto della funzione che aveva la festa in quella società. La festa conservava ancora qualcosa della funzione che ha tra i popoli primitivi, cioe quella di manifestazione sovrana della cultura. L'uomo moderno è libero di cercare individualmente il più puro godimento della sua gioia di vivere. Il quindicesimo secolo e invece un'epoca terribile di depressione di radicato pessimismo. La povera umanità non aveva bisogno solo della quotidiana promessa della salvezza e della provvidenza e bontà di Dio; di tanto in tanto occorreva anche una solenne affermazione della bellezza della vita punto la festa popolare aveva le sue originali in fonti di bellezza nella canzone e nella danza appunto per la bellezza dei colori e delle forme essa si riallacciava la festa religiosa. La festa religiosa Papa quello stile in virtù della liturgia stessa, in cui era presente l'impressionante raffigurazione di una idea sublime in un gesto collettivo. La festa di Corte prendeva il suo stile dell'ideale cavalleresco, ma pretendeva di più. Questa voleva raffigurare fino in fondo il sogno della vita eroica. Qui lo stile veniva meno: lo spirito cavalleresco era diventato troppo letterario e si compiaceva di un romanticismo ormai vuoto e logoro. Tuttavia, non vi è dubbio che nelle feste accanto a molto sfarzo smodato imbecille vi sia stata più di un'opera d'arte. Tra tutte le arti la scultura sepolcrale è la più strumentale. Il compito degli scultori che dovevano costruire monumenti funerari non era una libera creazione di bellezza, ma l'esaltazione della grandezza del soggetto. Questo compito è stabilito molto più rigorosamente è prescritto molto più meticolosamente di quello dei pittori: lo scultore dell'epoca ha poca libertà di movimento. La mancanza di libertà di quest'arte vincolata dal committente principesco, è a un tempo tragica ed edificante, edificante per la grandezza con cui l'artista si sottraeva alle limitazioni imposte dall'incarico. Forse però, ammettendo una simile disarmonia tra committente e artista, andiamo già troppo oltre. La distinzione, richiesta dal nostro senso artistico, che l'opera distruttrice del tempo ci ha aiutato a fare, tra tutti quei bizzarri fronzoli scomparsi senza lasciar traccia e i pochi capolavori ancora conservati, quasi non esisteva per i contemporanei. La vita artistica dell'epoca borgognona era ancora tutta racchiusa nelle forme della vita di società. L'arte serviva. Aveva in primo luogo funzione sociale. Il fatto che nell'arte sacra la magnificenza abbia lo scopo di innalzare i pensieri sacri e che il donatore si metta in mostra spinto dalla devozione non cambia la sostanza. D'altro canto, la natura della pittura profana non è sempre quella così esageratamente superba che si addice alla tronfia vita di Corte. Perciò le poche opere d'arte nelle quali si manifesta qualcosa della vita all'infuori di queste due sfere sono così importanti per noi. Una eccelle tra le altre: il ritratto dei coniugi Arnolfini. Qui abbiamo l'arte del quindicesimo secolo nella sua forma più pura; qui ci accostiamo più che mai alla personalità di Jan Van Eyck. Questa volta egli non doveva esprimere la splendida maestà del divino, né servire l'alterigia dei grandi signori; questa volta egli doveva rappresentare i suoi amici in occasione del loro matrimonio. Qui ritorna improvviso quel tramonto del medioevo che conosciamo e che tuttavia cerchiamo così spesso invano nella letteratura, nella storia e nella vita religiosa di quei tempi: il felice, nobile, sereno e semplice medioevo dei canti popolari e della musica sacra. Siamo lontanissimi dal riso fragoroso e dalla passione sfrenata. E allora la nostra fantasia forse scorge un Jan van Eyck al di fuori della vita ovviamente e variopinta del suo tempo. Se non fossimo ammoniti da episodi come questo saremmo portati ad assegnare all'arte dei Van Eyck un posto sbagliato nella vita del quindicesimo secolo. In quel tempo il nostro sguardo e individua due sfere nettamente distinte da una parte la cultura della Corte della nobiltà e della ricca borghesia, millantatrice, ambiziosa e avida. Dall'altra la sfera tranquilla, monotona e grigia della devotio moderna. Questa è la sfera alla quale, per la nostra sensibilità, si addice l'arte dei Van Eyck. E invece il suo posto è piuttosto nell'altra. I devoti moderni erano ostili alla grande arte che si sviluppava ai loro tempi. Si opponevano alla musica polifonica e perfino agli organi. I protettori della musica del tempo sono i borgognoni amanti del lusso. L'ambiente nel quale e per il quale lavorano gli artisti era completamente diverso da quello della devotio moderna. Anche se la fioritura della pittura, al pari di quella della fede, ha le sue radici nel tessuto urbano, l'arte dei Van Eyck e dei loro seguaci non può più essere definita borghese. La Corte e la nobiltà l'avevano tratta a sé. I committenti della grande pittura, per quel che ne sappiamo, sono stati quasi senza eccezione i rappresentanti del grande capitalismo di quei giorni. La pittura del quindicesimo secolo opera nella sfera in cui gli estremi del misticismo e del grossolano materialismo si toccano. La fede che essa esprime è talmente immediata che nessuna raffigurazione terrena è troppo sensuale o pesante per essa. Però anche se quella fede è molto immediata e salda non è per questo primitiva. La denominazione di primitivi per i pittori del quindicesimo secolo racchiude il pericolo di un equivoco. Primitivo in questo caso può avere solamente il significato di primo in ordine di tempo, in quanto non ci è nota una pittura anteriore, un termine puramente cronologico dunque. Di solito però si è portati a supporre che lo spirito di quegli artisti fosse primitivo. E ciò è completamente sbagliato. Lo spirito di quell'arte è lo stesso che abbiamo già descritto nella vita religiosa: Un'estrema elaborazione di tutto ciò che è fede mediante la raffigurazione. Così il naturalismo dei Van Eyck, che gli storici interpretano di solito come un elemento che annuncia il Rinascimento, va piuttosto considerato l'ultima forma dello sviluppo dello spirito tardo medioevale. Nell'arte dei Van Eyck il contenuto è ancora interamente medioevale. Essa non esprime idee nuove, è il punto culminante, finale. Il sistema concettuale medioevale nella sua compiutezza arrivava fino al cielo; non restava che vivacizzarlo e abbellirlo. Nella sua ammirazione per la grande pittura e il contemporaneo dei Van Eyck si rendeva conto di due cose: dell'efficacia rappresentazione del soggetto è inconcepibile abilità, della mirabile perfezione dei dettagli, delimitazione fedele della natura. Quando, un secolo dopo, si sono affermate le concezioni estetiche del Rinascimento, si condanna nell'arte fiamminga come difetto capitale proprio quell’elaborazione eccessiva del singolo dettaglio. Nelle Fiandre si dipinge soprattutto per riprodurre ingannevolmente l'aspetto esteriore delle cose, e preferibilmente soggetti che colpiscano o che siano irreprensibili, come santi e profeti. Di regola dipingono ciò che si suole chiamare un paesaggio e lo riempiono di figure. Sebbene ciò sia piacevole da vedere, in realtà non c'è né arte né ragione; non vi è né simmetria né proporzione né scelta né grandezza, in una parola: quest'arte è senza forza e magnificenza, vuole raffigurare alla perfezione molte cose contemporaneamente, una sola delle quali sarebbe sufficiente per impegnare tutte le forze. 19. Il senso estetico La consapevolezza di un piacere estetico e la sua espressione verbale sono maturate tardi. L’uomo del XV secolo dispone di termini che ci attenderemmo da un borghese stupito. Ancora non conosce il concetto di bellezza artistica! Se la bellezza che irradia l’arte lo contagia egli trasforma immediatamente questo fremito in un senso di comunione con Dio o in gioia di vivere. Il pensiero medievale riconduceva sempre il concetto di bellezza a concetti di perfezione, proporzione e splendore. Non c’è da stupirsi che, con un’idea di bellezza così cerebrale, lo spirito non possa soffermarsi sulla bellezza terrena. Lo spirito medievale, nel descrivere l’essenza dell’emozione musicale, ancora non trova altri termini che quelli delle inquietudini peccaminose: l’orgoglio e una certa lascivia d’animo. Si scriveva molto e di continuo sull’estetica musicale. Ci si fondava ancora, di regola, sulle ormai incomprensibili teorie musicali dell’antichità. Quando si doveva descrivere cosa si trovava davvero di bello nella musica, ci si limitava a termini generici, che sono per loro natura affini a quelli che esprimono l’ammirazione per la pittura. Tutto contribuiva a far apparire l’emozione musicale affine alla beatitudine celeste. Se nella pittura si ammirava la riuscita imitazione degli oggetti della natura, nella musica il pericolo che si cercasse la bellezza nell’imitazione era maggiore. Perché la musica aveva già fatto da tempo largo uso dei suoi mezzi espressivi. La caccia, che in origine si ispirava alla vera caccia, ne è l’esempio più noto. L’analisi teoretica del bello è dunque lacunosa, l’espressione dell’ammirazione è superficiale. Dapprima, per spiegare la bellezza, non si fa che sostituire a essa le nozioni di misura, eleganza, ordine, grandezza ed efficacia. E soprattutto quella di splendore, di luce. Se cerchiamo il senso estetico di quei tempi non nelle loro definizioni del concetto di bellezza, né in quel che dicono delle emozioni destate dalla pittura e dalla musica, ma nelle loro manifestazioni spontanee di entusiasmo per la bellezza restiamo colpiti dal fatto che quelle manifestazioni riguardano quasi sempre sensazioni di splendore o di movimento vivace. A questa ammirazione per ciò che splende si collega il fasto dell’abbigliamento, che nel XV secolo raggiungeva ancora il culmine nella profusione di pietre preziose. Solo in un secondo tempo queste sono sostituite da nastri e fiocchi. Per aggiungere un tintinnio a quello scintillio si portano campanellini o monete. Lo stesso ingenuo piacere per ciò che attira subito l’attenzione si può notare anche nel senso del colore dell’epoca. Alcuni dati preziosi ce li fornisce l’araldo Sicilia nel suo Blason del couleurs. Un capitolo, ingenuo, dell’araldo parla della bellezza dei colori. Il rosso è il colore più bello, il marrone quello più brutto. Però quello che affascina di più è il verde, il colore della natura. Nei vestiti di gala domina il rosso. Gli ingressi solenni sono spesso un trionfo di rosso. Anche il bianco ha la sua importanza come colore ufficiale delle feste. Il nero, usato soprattutto per il velluto, rappresenta innegabilmente il fasto superbo e cupo amato dall’epoca, l’orgoglioso distacco dalla multicolore allegria dell’insieme. Lo scarso rilievo dato al blu e al verde forse non va spiegato solo come una conseguenza del senso del colore. Tra tutti i colori il blu e il verde avevano un’importanza simbolica particolare, e quel significato era così peculiare da renderli quasi inutilizzabili come colori per abiti. Infatti, erano ambedue i colori dell’amore: il verde simboleggiava la passione amorosa, il blu la fedeltà. Dopo la metà del XV secolo sembra che ci sia una temporanea diminuzione del bianco e del nero a favore del blu e del giallo. Nel XVI secolo le combinazioni di colori particolarmente audaci sono quasi scomparse dall’abbigliamento, e nello stesso tempo anche l’arte cerca di evitare gli ingenui contrasti dei colori primari. 20. L’immagine e la parola Ogniqualvolta si è cercato di separare nettamente Medioevo e Rinascimento è come se ci si fosse trovati davanti a dei confini mobili. Nel lontano Medioevo si sono trovate forme e movimenti che sembravano già recare l’impronta del Rinascimento. Però è anche vero il contrario: chi studia senza preconcetti lo spirito del Rinascimento vi scopre un carattere molto più “medioevale” di quanto la teoria ammetta. E tuttavia noi non possiamo fare a meno del contrasto: il Medioevo e il Rinascimento sono diventati per noi dei termini in cui percepiamo subito l’essenza di due epoche palesemente diverse. Letteratura e arte nel XV secolo partecipano ambedue di quelle qualità generale di cui si è già parlato come di una delle più essenziali del pensiero tardomedievale: l’approfondita elaborazione di tutti i particolari, la smania di non lasciare alcuna idea o rappresentazione impellente senza sviluppo e di raffigurare ogni cosa in modo nitido, evidente e ponderato. Se attribuiamo questa caratteristica della illimitata e lavorazione dei particolari anche alla letteratura del quindicesimo secolo allora il senso cambia. Non c'è il naturalismo tenue di una ragnatela di dettagli, che si compiace della descrizione minuziosa dell'aspetto esteriore delle cose, perché ancora non si trova in questa letteratura. La descrizione della natura e dei personaggi si avvale ancora dei semplici mezzi della poesia medievale: i singoli oggetti che contribuiscono a creare l’accordo profondo del poeta sono solo menzionati, non descritti; il sostantivo prevale sull’aggettivo; solo le qualità principali degli oggetti vengono constatate. L’illimitata elaborazione dei particolari è, nell’immaginazione letteraria, più quantitativa che qualitativa; consiste più nell’ enumerazione di moltissimi oggetti che comprende l'arte dell'omissione, non conosce lo spazio vuoto, non ha l'organo che produce il silenzio. Questo vale tanto per i pensieri che egli esprime, quanto per le immagini che esso evoca. L'intera composizione poetica e sovraccarica di dettagli, al pari del quadro. Come mai, allora, quella sovrabbondanza risulta tanto meno armoniosa? Fino a un certo punto ciò si spiega con il fatto che in poesia il rapporto tra il soggetto principale e quelli secondari è esattamente l'opposto di quello che è in pittura. Nel quadro la differenza tra l'essenziale e il complementare è esigua, tutto essenziale. Un solo dettaglio può darci la perfetta armonia dell’opera. È nei confronti del dettaglio che il pittore è assolutamente libero. La costruzione salda e rigida della scena sacra porta la ricchezza dei dettagli come un tesoro luminoso, come una donna porta dei fiori sui suoi vestiti. Nella poesia del XV secolo il rapporto è, in un certo senso, capovolto. Nei confronti del soggetto principale il poeta è libero. Egli abbellisce e colorisce all’infinito, perché gli manca il salutare limite imposto al pittore della superficie da riempire; la superficie del poeta è sempre illimitata. Egli è libero dal vincolo dei mezzi materiali, e proprio per questa libertà deve avere, in proporzione, uno spirito più grande di quello del pittore, per poter produrre qualcosa di buono. Anche i pittori mediocri continuano a essere una gioia per i posteri, ma il poeta mediocre cade nell’oblio.
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