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John Pope-Hennessy, La scultura italiana. Il Cinquecento e il Barocco, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto parti richieste nell'esame della Scultura in età moderna ovvero primo tomo, pp. 1-108, secondo tomo, pp. 302-435

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 01/02/2023

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Scarica John Pope-Hennessy, La scultura italiana. Il Cinquecento e il Barocco e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! LA SCULTURA ITALIANA – Il cinquecento e il barocco, J. Pope-Hennessy Nelle Vite di Vasari (il quale era in contatto stretto con gli artisti del Cinquecento) egli divide la storia dell’arte italiana in tre fasi: • Preistoria – Trecento • Rinascimento: concorso per le porte del Battistero di Firenze (1400) – Michelangelo • Epoca moderna o Rinascimento maturo I tre protagonisti in scultura sono rispettivamente: Nicola Pisano, Donatello e Michelangelo, in continuo miglioramento (così come era successo agli scultori dell’Antica Grecia Canaco, Mirone e Policleto) sulla base di un confronto con gli antichi. Al contrario dei greci il cui miglioramento era autonomo, in Italia invece era promosso dalla presenza dei modelli antichi. Questo condusse a due rivoluzioni (una portata avanti da Michelangelo e l’altra da Bernini) che portarono anche a un cambiamento nella tecnica di cui ci parla Cellini nel Trattati della scultura: Michelangelo infatti iniziava a scolpire il marmo come se si trattasse di un bassorilievo e man mano faceva emergere la figura. Solo in un secondo momento si convertì ai modelli di pari scala, molto usati dal Giambologna, in quanto permettevano che l’opera potesse essere realizzata da altri. Per la scultura in età moderna si deve sempre distinguere tra lo scultore in quanto progettista e lo scultore in quanto esecutore materiale. Forse è proprio per questo che gli artisti sono ossessionati dal fatto stilistico, la forma dell’opera, direttamente dipendente dal disegno al punto da prediligere l’ideazione alla realizzazione vera e propria. Dall’opera di Michelangelo nasce il Manierismo, termine nato per indicare uno stile preciso per poi allargarsi a sinonimo di stile cinquecentesco, erroneamente (nonostante l’arte del 500 sia un’arte artificiosa e meditata, raramente è manieristica). Michelangelo Michelangelo nasce nel 1475 e dopo una prima fase di formazione presso la bottega del Ghirlandaio (che lui ripudierà in quanto la sua carriera rappresentava l’atto di rottura tra artigianato e arte), a quattordici anni viene notato da Lorenzo de Medici il quale aveva fondato l’Accademia dei Medici, un’istituzione elastica dove studiò in modo empirico le opere antiche, senza essere svantaggiato dall’influenza troppo forte di uno stile convenzionale di una bottega. Al 1492 risale La battaglia dei Centauri, ispirata da Poliziano e dallo stile che rimanda ai sarcofagi classici. Curò però di essi l’unico difetto ovvero l’inadeguatezza dal punto di vista compositivo; nel bassorilievo le figure sono in una posa tale da imporre una diagonale precisa. Notiamo due altri importanti fattori caratteristici dello stile michelangiolesco: il movimento e il corpo (nudo) e il non – finito. Le cause di questo, indagate fin da Vasari, sono numerose e varie, ma per lo più riconducibili all’indole dell’artista che vedeva scemare il suo interesse nel momento in cui smetteva di approcciarsi all’opera come un problema da risolvere. Le conseguenze di tale atteggiamento non furono propriamente positive, ma comunque introdussero un nuovo fattore nell’arte, l’oggetto non facilmente significabile, che attribuiva un compito allo spettatore e dava libertà all’artista (molto importante nell’800). Nel 1492 lascia Firenze: visita Roma e Bologna, studia anatomia e realizza statue ora perdute. Nel 1494, anno della morte di Niccolò dell’Arca, si reca da Venezia a Bologna dove gli viene assegnato l’incarico di portare a compimento i lavori sul coperchio dell’Arca di San Domenico, in particolare due santi e due angeli reggicandelabro. Si distacca dallo stile di N., piatto e tipicamente ferrare, imprimendo profondità alle statue (v. ginocchio e spalle dell’angelo) e peso specifico (v. candelabro che sembra essere retto in virtù dell’appoggio sulla gamba). (Torna a Firenze e poi) A Roma, nel soggiorno dal 1496 che precede il ritorno a Firenze nel 1501, realizza per il Galli Il bacco ora al Bargello: esso si ispira ai modelli antichi, ma quattrocentesca è la ricerca della mobilità (portata avanti da Donatello nei Profeti del campanile di Giotto). Il movimento a spirale del satiro accompagna lo sguardo nell’ascesa verso la coppa; inoltre viene suggerito uno stato di ebrezza dalla posa vacillante, dagli occhi e dalla bocca semi aperta. Già qui è ampiamente dimostrato il talento di Michelangelo nella scultura a tutto tondo. Nel 1498 gli viene commissionata La pietà da un cardinale francese, de la Grolaie, la cui nazionalità influenza prob. i modelli d’ispirazione, ovvero l’arte nordica (vesperbild tedeschi, ma anche forse la Pietà presso la Chiesa di San Domenico a Bologna dove Michelangelo aveva lavorato). La pietà ha una composizione piramidale e la commemorazione non è chiusa in sé, bensì Cristo viene esposto allo spettatore. Colpisce la rotondità, la sostanza plastica dell’opera considerata così bella dai contemporanei che “nessun la vede che dentro a pietà non si commuova” (Condivi). L’opera è firmata sulla fascia. Michelangelo giustifica con la castità il volto giovane della Madonna. Inizialmente era posta nella Cappella dei Re di Francia, poi in quella della Madonna della Febbre e infine nella prima del lato nord di San Pietro. È il primo passo verso l’elaborazione di un’iconografia cristiana personalissima; così come nella Pietà, anche ne La madonna di Bruges (realizzata nel ritorno a Firenze del 1504 c.) Michelangelo abbandona la rappresentazione della maternità del 400 per realizzare delle Madonne che con freddezza e sofferenza sembrano consegnare il figlio allo spettatore/umanità. L’impersonalità e la mancanza di narrazione sembrano però risultanti di un progresso, come dimostrano gli schizzi dietro la M. di Bruges. Essenziali come predecessori alla M. di Bruges sono I tondi Taddei (Londra, 1503) e Pitti (Bargello, 1503). Per questi si allontana dalla tradizione dei tondi scultorei con le Madonne, solitamente usati come rilievi per le tombe e condizionati proprio da questa posizione. Michelangelo li considera opere indipendenti. Così come fa per la pittura (v. Tondo Doni, Uffizi, 1503), sfrutta la luce e i contrasti per far emergere le forme. Entrami i bambini sono ispirati a sarcofagi antichi e entrambe le opere sono incompiute (v. Tondo Pitti dove solo il volto della Vergine e l’area dietro la testa di Cristo sono ben definiti). Prima di tornare a Firenze nel 1501, realizza (e conclude entro il 1504) 15 Statue per l’altare Piccolomini del Duomo di Siena, lavoro che abbandonò nel 1510. Michelangelo preme per tornare nella sua città perché vuole ricevere l’incarico, che si pensava di assegnare a Leonardo, di scolpire una statua colossale da del marmo che era stato “posto in abbandono” da Agostino di Duccio. Questi negli anni 60 del 400 doveva costruirci un Ercole per l’esterno del duomo e cominciò a scolpirvi solo le gambe. La materia prima era dunque mal ridotta (giù bucata fra le gambe e abbandonata dagli operai del duomo); questo senza dubbio influenzò il lavoro di Michelangelo (Condivi: “n’apparisce ancora la scorza vecchia del marmo), in particolare nel determinare la posa. Il David probabilmente è più classico di quanto sarebbe potuto essere. Nonostante la fonte d’ispirazione sia classica (dioscuri davanti al Quirinale), lo stesso Vasari riconobbe che “ha tolto il grido a tutte le statue moderne e antiche”; il suo pregio, più che nelle dimensioni, sta nella grazia e nelle proporzioni. Burrascosa la collocazione: inizialmente si pensò di porlo contro uno sfondo piatto ma in nel vasari che nel Condivi) a una statua del pontefice, che però sicuramente tra le 40 forse era presente. Nel 1508 Michelangelo inizia a i lavori per la Cappella Sistina e li conclude nel 1512 quando il papa muore. Nel 1513 Michelangelo elabora un nuovo progetto di una struttura che questa volta si appoggia più o meno alla parete; ogni nicchia conteneva un gruppo statuario e ogni pilastro che separava l’una dall’altra era coperto da una statua; vi era inoltre presente una cappelletta. Rappresentò un ingrandimento perché le dimensioni aumentano ma anche una riduzione perché il numero delle figure è diminuito. Le statue poste tutte intorno al basamento (Prigione Morente e Prigione ribelle), aldilà di tutte le interpretazioni contemporanee, probabilmente rappresentavano le Arti Liberali (come dimostra la presenza di una scimmia, emblema dell’arte imitativa). Se si prende il monumento allo stato attuale, lo si priva delle volute, con il Prigione ribelle davanti al pilastro all’estrema destra e un’altra figura all’estrema sinistra, con il Prigione morente e una figura nei pilastri interni, in alto Mosè e San Paolo agli spigoli si ha più o meno un’immagine fedele del progetto del 13. Nel 1516 il progetto viene cambiato di nuovo per colpa di Papa Leone X: il nuovo contratto lo impegnava a portare tutto a termine entro nove anni e a trasformare il sepolcro in un’opera parietale; il numero delle statue venne ridotto a 20. Il lavoro procedeva a sbalzi dati gli altri impegni di Michelangelo a Firenze. Quivi realizza altri e quattro Prigioni più alti e più massicci. I Prigioni dell’Accademia (questi) sono in realtà comunicanti con quelli del Louvre (quelli citati prima): il Prigione giovinetto ripete la posa del gomito piegato del Prigione morente ma con un’accentuazione plastica maggiore. A fare da pendant il Prigione barbuto. Il nuovo progetto prevedeva quattro nicchie con gruppi plastici di due figure; uno solo fu scolpito, Il genio della vittoria. Nel 1525 il progetto venne modificato, prevedendo l’intervento di aiuti, grazie anche all’intervento del pontefice che fece da mediatore con gli eredi di Giulio, ovvero il Duca di Urbino, Francesco Maria della Rovere. Il sepolcro venne ridotto, il numero delle statue limitato (sei di mano di Michelangelo e cinque di altri) e trasferito da San Pietro a San Pietro in Vincoli. Tra le sei scultore autografe si possono contare il Prigione morente e quello ribelle. Sebastiano del Piombo fa riferimento alla possibilità di usare alcune statue per le tombe medicee, ma bene poco andavano d’accordo e fu utilizzato solo il gruppo della Madonna co bambino. Alla morte di Clemente VII, Paolo III non aveva a cuore il lavoro; spostò Michelangelo sul Giudizio Universale e sugli affreschi nella Cappella Paolina. Nel 1542 (e prima nel 32) il nuovo contratto diminuiva il numero delle statue autografe a tre, compreso il Mosè, mentre i due Prigioni sarebbero stati sostituiti da Vita Contemplativa e Vita Attiva (Rachele e Lia). Nel frattempo Michelangelo era cambiato, chiudendosi, insieme alla Chiesa in piena controriforma, nella meditazione. La pittura fu il mezzo che utilizzò per comunicare tale esperienza mistica. Nonostante questo sappiamo che fu preso dalla volontà di tradurre plasticamente quanto aveva realizzato in pittura, nella Deposizione. In preda all’esasperazione lo spaccò. Il gruppo, che prevede quattro personaggi, è un continuum della Pietà, in cui i personaggi sono colti nel pieno dell’azione, come suggerisce l’immediatezza della fattura. Esse si fondono, concatenandosi come in pittura, e sembrano davvero figure di affresco più plastiche. L’idea della fusione delle figure si concretizza maggiormente nella Pietà Rondanini , per la sua sepolture(1552). Muore nel 1564. La statua del pieno Rinascimento Per il Battistero a Firenze vennero realizzati 3 gruppi marmorei. Andrea Sansovino realizza quello per la porta orientale, Giovanni Francesco Rustici per la porta settentrionale, Vincenzo Danti per la porta meridionale. Il Battesimo di Cristo di Andrea Sansovino e la Predica del Battista del Rustici non hanno niente in comune, a parte il materiale (uno in marmo e l’altro in bronzo). La Predica rappresenta un caso isolato rispetto alla storia della scultura rinascimentale: le tre statue formano un’indivisibile unità drammatica, fin ora ravvisabile solo nell’affresco dell’Ultima Cena; ognuna di esse è atteggiata in un modo diverso (il fariseo e il levita hanno pose opposte). Il Battesimo invece è un’opera classica. Andre Sansovino si recò a Roma all’inizio del 1500 dove gli furono affidati due monumenti parietali per il coro bramantesco di Santa Maria del Popolo e successivamente (1510) un gruppo marmoreo Sant’Anna con la Vergine e il Bambino Gesù. Nonostante sia un punto di riferimento, la statua prende le distanza dal cartone con il gruppo della Vergine e Sant’Anna di Leonardo: la Vergine non appare seduta sulla coscia della madre e inoltre, dal momento che mancano sia l’agnello che il Giovannino, non c’è più ragione per fare protendere Gesù da sinistra verso destra e dunque si annida nel corpo materno. Lo schema di Leonardo viene sottoposta alle regole dell’antichità, elaborando una composizione appiattita e compatta. Anche Francesco da Sangallo per La Vergine con il bambino e Sant’Anna all’Orsanmichele a Firenze(1526) si ispira al cartone leonardesco; questa volta rispettando la composizione. L’allievo di Andrea, Jacopo Sansovino, a Roma realizzò una copia in cera del Laocoonte e a Firenze realizza il Bacco, ispirato chiaramente al Bacco di Michelangelo, ma, educato da Sansovino e Raffaello, impose un tono idillico e più classico al movimento a spirale di Michelangelo. Più diretto è il confronto con Michelangelo, nella realizzazione di San Giacomo per i 12 postoli del Duomo: non solo si confronta con San Matteo di Michelangelo, negando tutto quanto esso aveva affermato (contrasti plastici vs armonia ecc.), ma anche perché dovette scolpire un blocco di marmo cavato su ordinazione di Michelangelo. Ritornato a Roma, negli anni 20 realizza Madonna con il bambino dove l’anima classica è immutata, ma ha una nuova vitalità. Dopo il sacco di Roma (1527) si reca a Venezia; Roma ha perso il ruolo di centro della scultura passando il testimone a Firenze. Quivi Baccio Bandinelli realizzò una statua che doveva fare da pendant al David nel Palazzo della Signoria, il gruppo di Ercole e Caco. Nel 1527, alla cacciata dei Medici, il blocco di marmo viene passato a Michelangelo che aveva in mente il gruppo di Sansone che atterra due Falistei. Con il ritorno dei Medici il lavoro ritorna a Michelangelo, il quale nel 1534 abbandona Firenze. Lo scultore rinunciò di confrontarsi sia con il David che con il Sansone di Michelangelo, ripiegò su una composizione statica dalla quale ogni elemento dinamico veniva escluso. L’ostilità di Bandinelli e Michelangelo si aggiungeva a quella tra Bandinelli e Cellini. A quest’ultimo Cosimo I nel 1545 affida l’esecuzione di Perseo, alla base del quale c’era una concezione cinetica della scultura; i dettagli sono espressivi, come prevedibile data la formazione di orafo di Cellini. Tribolo e Pierino da Vinci , scultori più mediocri, realizzarono sculture per la cappella medicea. Pierino, a Roma, andrò contro la tendenza antimichelangiolesca di Bandinelli, accingendo a realizzare Sansone e un filisteo, realizzata come un eccezionale altorilievo e pertanto presenta una sola veduta allo spettatore da un unico punto di vista. A Firenze nel frattempo la concorrenza si fa sempre più dura; Vincenzo Danti segue la fede di Michelangelo: in un trattato affermò che egli aveva superato tutti gli artisti, mentre ne Il trionfo dell’Onore sulla Falsità sintetizza due opere insieme, il Genio della Vittoria e il bozzetto di Ercole e Caco. Egli tratta il marmo in modo asciutto e incisivo e le sue forme sono lineari e prive di plasticità. La vera fortuna la fece Gianbologna, uno scultore fiammingo che realizzò la Fontana de Nettuno a Bologna, per poi avere successo a Firenze alla morte di Baccio Bandinelli e Michelangelo. Francesco de Medici gli affidò il pendant del Genio della vittoria, Il trionfo di Firenze su Pisa. Realizza dei modelli, modificandone le pose per motivazioni pratiche (maggiore stabilità a causa dei troppi vuoti). Dopodiché realizza Sansone che atterra il filesteo che prendeva spunto dallo stesso bozzetto utilizzato da Ercole e Caco. Era un’opera progettata per essere vista da ogni parte, possedeva una continuità di movimento simile al Genio della Vittoria e una tale drammaticità. La voglia di sperimentare lo portò a realizzare Il ratto delle Sabine (1579- 1583), con la volontà di creare una statua che fosse ordinaria, che venne collocata nella Loggia de Lanzi al posto della Giuditta di Donatello. Egli volle superare gli antichi, realizzando un gruppo con figure sollevate da terra. Tradurre un gruppo simile in marmo era complicato. Rimane lo sviluppo serpentino. Il neoellenismo poi ripreso da Bernini non arriva al punto di distinguere la qualità epidermica dei due corpi. Ne l’Ercole che abbatte il Centauro nella Loggia dei Lanzi l’autore realizza il suo capolavoro, bensì meno spettacolare del Ratto delle Sabine: le pressioni e le costrizioni fisiche danno movimento. Il sepolcro nel pieno Rinascimento Giulio II ordinò la costruzione di due sepolcri in Santa Maria del Popolo, uno per il cardinale Ascanio Sforza e l’altro per il cardinale Girolamo Basso della Rovere, scolpiti entrambi da Andrea Sansovino. Al centro troviamo un arco trionfale con due nicchie chiuse da semicolonne con motivi scolpiti, un basamento che aggetta, la statua del defunto in atto di dormire, statue delle virtù nelle nicchie e sopra di esse la Fede e la Speranza, mentre sopra l’arco centrale Dio affiancato da due accoliti. A causa della loro classicità i due sepolcri tendono ad essere sottovalutati, ma risultano essere meritevoli se messi a confronto con il sepolcro del cardinale di Sant’Angelo scolpito da Jacopo Sansovino nel quale il rapporto tra architettura e scultura sono spezzati. Il cardinale Giulio de Medici desiderava una tomba per sé e per il papa Leone in San Lorenzo a Firenze. Inizialmente l’incarico venne dato a Andrea Sansovino, ma poi passò a Bandinelli per il quale si decise di seguire i disegni di Michelangelo. I monumenti seguivano lo schema della nicchia centrale affiancata da due laterali con le statue dei santi; esse risultano essere totalmente prive di emotività, al contrario del gruppo con Cristo morto sorretto da Nicodemo realizzato da Bandinelli per la propria tomba. Del progetto per la sua bara il Cellini riuscì a realizzare solo il crocifisso che non finì neanche nella sua tomba. Michelangelo rimane dietro altri progetti sepolcrali: la tomba dello zio e del prozio di Giulio III, affidata a Ammannati, la tomba per il fratello commissionata dal papa Pio IV, eseguita da Leone Leoni. Il monumento funebre di Michelangelo in Santa croce a Firenze risulta essere molto mediocre (“misera parodia dei sarcofagi michelangioleschi della Cappella Medicea); inizialmente si pensò di utilizzare le sculture nello studio dell’artista (quattro prigioni ecc.), poi la Deposizione (creata per quel proposito) ma la quale non voleva essere ceduta dal Badini e infine il Vasari disegnò il sepolcro e la statuaria venne assegnata a più artisti giovani. Il Giambologna curò la realizzazione di due cappelle, Salviati e Niccolini in Santa Cattaneo e il Vittoria, crearono opere architettoniche dall’accentuato verticalismo che la statuaria si trovò costretta ad assecondare. Ben presto il principio di perfetta integrazione fra scultura e architettura aprì la strada a un tipo di monumento in cui la scultura si libera: come nell’altare dei Luganegheri, dove le due statue poste davanti alle colonne avanzano in un atteggiamento sfacciatamente emotivo. Lo stile del Vittori venne ripudiato da Sansovino, in quanto troppo Michelangiolesco. Il Vittoria si rifaceva in particolar modo ai Prigioni. Sansovino invece fu debitore maggiormente dei pittori come Raffaello, Lorenzo Lotto, Tiziano e Tintoretto. Lo stile di quest’ultimo è chiaramente leggibile nei rilievi per le tribune di San Marco. Egli realizzò dei rilievi anche per la porta bronzea della sagrestia a sinistra dell’altare maggiore. Basata sulla porta di Ghiberti, ne prende le distanze per la forma concava, le coppie dei putti classicheggianti e i fregi delle suddivisioni; le figure nelle cornici sembrano guardare e commentare le scene. La scultura lombarda del Pieno Rinascimento Leone Leoni lavorò alla zecca pontificia e poi a quella imperiale in qualità di incisore. Aveva grandi obiettivi, come la realizzazione di un cavallo dal vero, ma il suo capolavoro è in assoluto la decorazione della sua casa a Milano. In particolare i tozzi di colossi che sporgono dalla facciata e il rilievo che mostra un satiro divorato dai leoni sono una traduzione del linguaggio di Giulio Romano nella Sala dei Giganti a Mantova in scultura (aggetti e dinamismo violenti). Pellegrino Tibaldi lavora a San Celso dove lascia una statua marmorea dell’Assunta fra gli angeli fissante un momento di estasi che preannuncia le sculture di Bernini. Guglielmo della Porta si considera un allievo di Michelangelo e suo debitore, dal punto di vista personale, stilistico e tecnico. Nella tomba di Paolo III praticamente infatti copiava le figure delle allegorie delle tombe medicee e inoltre lavorava secondo il metodo michelangiolesco. Interessante può essere mettere a confronto i sepolcri della cappella del Presepio e quelli della cappella detta Paolina; in quest’ultima i rilievi sono più aggettanti, le erme sono sostituite da cariatidi in una posa movimentata ecc. In essa sono attivi tutti i più grandi scultori della Roma del primo decennio del Seicento: Maderno, Cordieri e Pietro Bernini, che venne considerato sempre uno scultore mediocre, ammirato per la sua padronanza tecnica. Il ritratto nel pieno Rinascimento Nel Rinascimento maturo, momento aureo per il ritratto, non cercava più da questa arte la capacità documentaria ma la proiezioni di pensieri, aspirazioni, timori ecc. Nel Rinascimento avanzato il ritratto scolpito è una proclamazione pubblica, l’immagine di un personaggio. Baccio era uno dei più grandi ritrattisti che vedeva nelle sue opere un’immagine ideale che preservava solo l’aspetto generale della persona rappresentata. Questo modo astratto di ritrarre fu fortemente criticato in Bandinelli, il quale realizzando le statue dei medici nell’Udienza, ritrasse Cosimo come astrazione storica (generali romani). Niente a che vedere con il busto di Cosimo I gettato in bronzo da Benvenuto Cellini, al quale viene impressa una sensazione di movimento (capigliatura all’indietro) e di concentrazione. Allo stesso modo nel ritratto di Bindo Altoviti la parte bassa è asimmetrica, il mantello serve a dare volume e la testa è arretrata, così come in quell’altro. Nonostante la genialità dietro questa opera, il duca non amava vedersi così e preferiva la maschera impassibile del Bandinelli. Leone Leoni fu il più prolifico dei ritrattisti toscani; egli ritrasse infatti tutta la famiglia imperiale, basandosi su bozzetti dal vivo (tranne in un caso su un dipinto postumo di Tiziano). Quest’ultimo influenzò non poco il ritratto; Guglielmo della Porta si ispirò a lui per Papa Paolo III, con tutta la resa della sua fragilità. Alessandro Vittoria tradusse in scultura il linguaggio di Tintoretto, con i piani facciali graduali come in natura. I bronzetti del pieno Rinascimento Michelangelo, pur lavorando presso Bertoldo ovvero uno scultore di bronzo, non si interessò al materiale, probabilmente per via dell’impossibilità di tradurre in scala monumentale i suoi progetti. Il monumento equestre Le statue a cavallo vengono realizzate di tanto in tanto, ma sotto i medici a Firenze venne rimesso in onore il monumento equestre in bronzo, in particolare dal Giambologna che realizzò un’opera che poteva confrontarsi con la statua di Aurelio in Campidoglio, ovvero la statua equestre di Cosimo I. Il movimento qui implicito, diventa esplicito nei monumenti di Ranuccio Farnese e padre a Piacenza del Mochi.
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