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KAFKA - IL PROCESSO, Analisi e interpretazione, Appunti di Letteratura Tedesca

Analisi di "Il Processo" di F. Kafka

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 24/01/2020

Alice114
Alice114 🇮🇹

4.1

(33)

76 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica KAFKA - IL PROCESSO, Analisi e interpretazione e più Appunti in PDF di Letteratura Tedesca solo su Docsity! KAFKA – IL PROCESSO La giustizia con le ali ai piedi. Analisi di congiura e processo in Der Prozess di Franz Kafka È la giustizia – disse infine il pittore. - Oh, adesso la riconosco, - disse K., - qui c’è la benda sugli occhi e qui la bilancia. Ma perché ha anche le ali ai piedi e sta correndo?- (F. Kafka, Der Prozess) I volti del Tribunale Al momento di analizzare Der Prozess (Il Processo, prima edizione postuma 1925) constata Giuliano Baioni in una sua monografia su Kafka: «La critica sembra essere concorde su un punto solo: K. è colpevole di non conoscere la legge. Ma quale legge? È la legge divina? È la legge mondana? E che rappresenta il tribunale? È una ulteriore versione dell’immagine del padre o è la burocrazia austroungarica? È un prodotto della nevrosi d’angoscia o è la burocrazia religiosa del popolo ebraico?» (1963, p. 145). A queste si collega «la prima, fondamentale domanda che il romanzo pone al lettore: quale colpa ha commesso K.?» (p. 148). Questo saggio vuole far proprie queste domande e, più che fornire una risposta, vuole vagliare alcune risposte possibili. Intende concentrarsi sul modo in cui Kafka ha creato un caso giudiziario di cui non si capisce se l’imputato sia colpevole o innocente e, d’altro canto, se il tribunale che lo accusa e lo condanna sia legittimo o illegittimo. In questa ambiguità che pervade il testo risiede anche il suo rapporto con il tema della congiura: se infatti Josef K. risultasse essere innocente e il tribunale illegittimo, il titolo dell’opera andrebbe rovesciato e saremmo di fronte ad una congiura perpetrata da una tanto potente quanto impenetrabile associazione segreta ai danni del protagonista. A dividere i concetti di congiura e processo è infatti il principio di legittimità, che a sua volta risiede in quello di legge: un processo è uno scontro tra parti che avviene 'nella legge', una congiura uno scontro che ne avviene 'al di fuori'. Per questo la considerazione più immediata è che i processi siano 'buoni' e le congiure 'cattive': i processi sono dalla parte della legge e la legge è per definizione buona. L’intento del mio lavoro è di mostrare come Kafka non percepisca questa distinzione fra 'dentro e fuori' la legge come una distinzione solida: per lui non è più possibile definire con certezza cosa sia legge. In Der Prozess egli si chiede in cosa la natura della legge sia diversa da quella della violenza e dell’arbitrio: il tribunale del romanzo si definisce legge e tuttavia sembra essere un potere arbitrario e corrotto che opprime uomini innocenti con la violenza (da quella più sottile della burocrazia fino al picchiatore e ai sicari di K.). Prima di prendere in esame il testo di Kafka vorrei definire alcune categorie utili per l’analisi del problema 'legge-congiura-processo' a partire dallo studio di Walter Benjamin Per una critica della violenza, del 1921[1]. In questo saggio il filosofo si propone di indagare i rapporti che intercorrono fra i concetti di «violenza», «potere» e «legge». Benjamin parla di un’altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e conserva il diritto. La legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa. [...] Ciò dura fino al momento in cui nuove forze, o quelle prima oppresse, prendono il sopravvento sulla violenza che finora aveva posto il diritto, e fondano così un nuovo diritto destinato a una nuova decadenza. (Benjamin 1995, p. 29). Per il filosofo, almeno in questo saggio, la legge, il diritto, coincide con un’alternanza di poteri che si susseguono l’uno all’altro attraverso l’esercizio della violenza. Volendo situare in questa dinamica i processi e le congiure, risulta che ogni trapasso da uno stato di diritto ad un altro può essere visto contemporaneamente come entrambi: dal punto di vista della legge che decade esso è una congiura ai suoi danni (accade 'al di fuori' di lei, perché ne sovverte con la violenza i principi), dal punto di vista della legge che si afferma è un giusto processo storico e giuridico ad un sistema sbagliato (accade 'dentro' una nuova, giusta legge). In definitiva secondo Benjamin non è né l’una né l’altro, bensì un mero rapporto di forza tra chi detiene il potere (uso «conservativo» della violenza) e chi lo vuole scalzare (uso «creativo» della violenza). Può sembrare che le riflessioni di Benjamin siano estremistiche: lo stato moderno ha faticosamente avviato processi democratici in cui lo scontro fra le parti si dovrebbe risolvere in un dialogo, nella capacità di stringere accordi e di mediare. Benjamin cerca di dimostrare che, dietro l’apparenza, il sistema di diritto degli stati moderni (in tutti i suoi aspetti, dallo sciopero al parlamentarismo) risponde sempre alla logica della violenza. A proposito del contratto giuridico egli scrive che «per quanto sia stato concluso pacificamente dai contraenti, conduce sempre, in ultima istanza, a una possibile violenza. Poiché esso conferisce ad ogni parte il diritto di ricorrere, in qualche forma, alla violenza contro l’altra, nel caso che questa volesse violare il contratto» (p. 17). Benjamin non esclude che gli uomini possano entrare in relazione anche senza ricorrere alla violenza: «È in generale possibile il regolamento non violento di conflitti? Senza dubbio. I rapporti fra privati ne offrono esempi a iosa [...] Basti quindi accennare a mezzi puri della politica come analoghi a quelli che governano i pacifici rapporti fra persone private» (pp. 18 e p. 21). D’altro canto ritiene che «ogni modo di concepire una soluzione di compiti umani, per tacere di un riscatto dalla schiavitù di tutte le passate condizioni storiche di vita, rimane irrealizzabile se si esclude assolutamente e in linea di principio ogni e qualsiasi violenza» (p. 22). L’approccio di Benjamin al problema è inusuale: invece di condannare la violenza perché lede il diritto, egli condanna il diritto perché altro non è che violenza mascherata, che si presenta come un giusto sistema di leggi solo per mantenere al potere i più forti (o per portarveli, nei cicli e ricicli della storia). Più precisamente il male del diritto non sta nel suo essere violento - di violenza non si può fare del tutto a meno se si vuole riscattare l’uomo dai mali della sua storia - bensì nell’essere violento a vantaggio di una logica di potere. Benjamin si chiede allora se esistano «altre forme di violenza da quella presa in considerazione da ogni teoria giuridica» (p. 22), forme pure che non agiscono per la conservazione o conquista del potere, forme che si potrebbero definire 'giuste'. Poiché ogni forma storica di violenza è legata al diritto ed è irrimediabilmente guasta, Benjamin risale al mondo del mito e analizza la natura specifica della violenza così come si manifesta in esso. A prima vista essa non sembrerebbe legata al concetto di legge: «La violenza mitica nella sua forma esemplare è semplice manifestazione degli dei. Non mezzo ai loro scopi, appena manifestazione della loro volontà, essa è soprattutto manifestazione del loro essere» (p. 23). Eppure anche la violenza degli dei del mito ha il suo motivo di esistere nella logica del potere: essa deve mostrare agli uomini che gli dei sono più potenti di loro e non possono essere sfidati. Sebbene gli dei non costruiscano un sistema di leggi organizzato, «confini posti e definiti restano, almeno nelle epoche primitive, leggi non scritte. L’uomo può superarli senza saperlo e incorrere così nel castigo. Poiché ogni intervento del diritto provocato da un’infrazione della legge non scritta e non conosciuta è, a differenza della pena, castigo» (p. 25). Gli dei si fanno violenza gli uni agli altri e fanno violenza all’uomo per ribadire la loro superiorità. La violenza mitica non è al di fuori dalla logica del potere, solo che in essa il potere non è già sancito da leggi, ma agisce più come un 'destino', una forza misteriosa che si scatena contro chi sorpassa i limiti. La violenza storica, la violenza del diritto, nasce in fondo da quella mitica nel momento in cui alcuni uomini si fanno garanti del 'destino' voluto dagli dei promulgano leggi in suo nome. Da sistemi giuridici 'religiosi' si passa a sistemi laici, dal destino si passa alla legge, senza che però la logica del potere che sta alla base ne venga intaccata. ossessionato dall’idea di doverla provare. Per questo motivo ha tolto l’incarico della sua difesa all’avvocato Huld. Dispera però di riuscirci: gli mancano semplicemente le forze per passare in rassegna tutta la sua vita e verificare se davvero non si sia mai macchiato di una colpa (secondo quale legge?). Egli non parla più dell’ingiustizia del tribunale ma solo della necessità di farsi dichiarare innocente. Se non considera giusto il proprio processo sembra ormai ritenerlo parte inevitabile della sua vita. Nell’ultimo capitolo giungerà addirittura a credere di esser veramente colpevole. È evidente che Der Prozess è costruito sull’opposizione di differenti concetti di legge[4]: la legge come la ha in mente K. è la legge del diritto positivo che nasce per tutelare l’uomo in società. Noi abbiamo visto che l’altra faccia di questa legge è il potere, e che essa non è per forza così rassicurante come dichiara di essere, ma a tutto questo K. non sta certo pensando. Egli ha in mente la legge che tutela gli innocenti e che se accusa dichiara sempre la natura della colpa. Kafka scende anche nei particolari, di là dai nobili principi del diritto: è la legge che quando arresta richiede i documenti. La legge delle guardie e dell’ispettore non vi ha niente a che fare. Tanto per cominciare va a caccia di colpevoli (è attratta dalle colpe): è vero che la legge positiva per tutelare gli innocenti dà la caccia ai colpevoli, ma è anche vero che essa non può di norma mettersi in moto senza una denuncia (inoltre il romanzo si apre con una dichiarazione dell’innocenza di K). Questa legge sembra un po’ troppo 'volitiva'[5]. In secondo luogo è segreta: i suoi rappresentanti non la conoscono, così come non possono dire a K. in cosa consista la sua colpa. Infine è infallibile. Questa legge ha delle affinità con la violenza mitica di cui ci parla Benjamin (che del resto vuol proprio dimostrare come la legge positiva, di là dalle apparenze, sia esattamente volitiva quanto quella mitica nell’eliminare chiunque tenti di minarne il potere). Il tribunale di Der Prozess può prendere l’iniziativa, non è per forza detto che dia ragione dei propri ordini, e si impone grazie al superiore potere che detiene de facto. Eppure si pone al di sopra del mito perché è anche giusto, cioè possiede il carattere che Benjamin attribuisce alle azioni divine. Vi è però anche una differenza: la violenza divina ha una sua origine chiara in Dio, qui non è detto nulla del suo creatore. È una distinzione cruciale: l’origine divina stabilisce la legittimità e infallibilità del proprio agire. La legge che arresta K., stando alle parole della guardia Willem, si giustifica in quanto legge, non ha bisogno di origine. Svolge da sé la mansione di Dio. Kafka accentua attraverso la legge del tribunale il paradosso della legge divina di Giobbe[6]:quest’ultima appare alla ragione umana identica per violenza alla legge mitica, ma a distinguerla è Dio stesso che liberamente si richiama alla giustizia nelle parole con cui si rivela agli uomini[7]. In Der Prozess di Kafka non appare nessun Dio, nessun creatore di tutte le cose che, se non spiega la giustizia, se ne fa quanto meno garante. Ricorrendo alle categorie di Benjamin, risulta che il tribunale rimane sospeso tra violenza mitica e violenza divina: infatti esso si proclama non solo di superiore potenza (come gli dei del mito), ma anche giusto (come Dio), senza che però una sua 'rivelazione' intervenga a legittimare questa pretesa. A Josef K. non appaiono che funzionari e giudici di infimo grado. Dirà il pittore Titorelli: [Voglio dire che i giudici inferiori, di cui fanno parte tutti quelli che io conosco, non hanno il diritto di assolvere definitivamente; questo diritto ce lo ha solo il tribunale supremo a cui non può arrivare né lei, né io, né nessuno di noi tutti. Come stiano le cose lassù non lo sappiamo, né, sia detto per inciso, lo vogliamo sapere. (pag. 172)] Per riprendere le argomentazioni di Benjamin si potrebbe anche aggiungere che, secondo il filosofo, la violenza divina si distingue «per il carattere non sanguinoso, fulmineo, purificante dell’esecuzione. Infine, per l’assenza di ogni creazione di diritto» (Benjamin 1955, p. 27). Se è vero che in Der Prozess non compare sangue, nemmeno nelle scene di violenza, è vero anche che l’azione del tribunale è per K. una lenta tortura e l’immagine che esso da di sé è ben poco salubre e purificante. Inoltre esso sembra sepolto dalle carte della legge (o meglio: da quelle intorno alla legge), dalle petizioni degli avvocati, dalle lettere informali. I primi capitoli del romanzo già ci mostrano come Kafka realizzi la contrapposizione e mescolanza di idee di legge diverse tra loro. Egli gioca sul contrasto tra la legge 'normale' del diritto positivo e la legge mistica che fa irrompere nella vita del suo protagonista, un procuratore di banca dell’era borghese. Crea il paradosso poiché attribuisce alla seconda il potere sulla realtà: le dà così la legittimazione de facto che il senso comune attribuisce alla prima. Il paradosso però non è uno soltanto: la stessa legge mistica ne cela un secondo al suo interno, poiché si proclama 'giusta' al pari di quella divina, ma non vi è un Dio a rivelarla e a farsene garante. PROPRIO PER QUESTO ADOTTO QUI IL TERMINE “MISTICA” PER DEFINIRE LA LEGGE DI KAFKA. RISPETTO ALLE CATEGORIE DI BENJAMIN CHE HO PRESENTATO NEL PRIMO CAPITOLO ESSA NON È NÉ SICURAMENTE MITICA (NON È MANIFESTAZIONE SOPRA-UMANA DI POTERE E SUPERIORITÀ CHE PONE DEI LIMITI ALL’UOMO) NÉ SICURAMENTE DIVINA (NON È MANIFESTAZIONE SOPRA-UMANA CHE PURIFICA L’UOMO E SPAZZA VIA I VINCOLI DI POTERE IN CUI LUI STESSO HA POSTO SÉ, I SUOI SIMILI E LA STORIA). SI PRESENTA A VOLTE COME L’UNA A VOLTE COME L’ALTRA, E GIOCA SUL FATTO CHE ENTRAMBE VEDONO UN FONDAMENTO SOPRA-UMANO ALLA BASE DELLA LEGGE. IL TESTO DI DER PROZESS NON PERMETTE PERÒ DI RICONOSCERE UNO DI QUESTI DUE VOLTI DELLA LEGGE , MITICO E DIVINO, COME VERO E L’ALTRO COME FALSO: PRESENTA UN INDISTINTO VOLTO MISTICO CHE A SUA VOLTA SI MESCOLA A UNA RAPPRESENTAZIONE POSITIVA DEL DIRITTO COMPIENDO IL PARADOSSO. Voler indicare il significato di tale paradosso è estremamente problematico: per tornare alle categorie di Benjamin, non si può dire se Kafka intenda in Der Prozess fare in chiave grottesca una critica ai residui mitici del diritto positivo moderno, che sfrutta la legge come paravento per l’esercizio violento del potere, oppure se, muovendosi all’interno di un'ottica non mitica, bensì divina, voglia porre il problema della teodicea in un’epoca che non può contare più sulla rivelazione di Dio a Giobbe per risolverlo[8]. Kafka e i totalitarismi Tra le diverse interpretazioni del mondo paradossale di Der Prozess, quelle di Hannah Arendt e Günther Anders sono entrambe a sfondo politico, ma hanno letto in modo opposto il paradosso della legge[9]. Di Hannah Arendt prendo in considerazione il saggio Franz Kafka (1976), dove la filosofa illustra il significato di Der Prozess e del suo tribunale, e commenta: «Il potere della macchina, che afferra e uccide K., non è altro che l’apparire della necessità, che si può realizzare attraverso l’ammirazione degli uomini per la necessità stessa. La macchina entra in funzione, perché la necessità è ritenuta qualcosa di sublime e perché il suo automatismo, che è spezzato solo dall’arbitrio, viene preso per il simbolo della necessità» (p. 98). K. soccombe nel momento in cui comincia a credere che la legge sia necessaria (nel senso filosofico) e dunque insindacabile: «Il male del mondo in cui gli eroi di Kafka si invischiano, è proprio la sua divinizzazione, la sua arroganza nel rappresentare una necessità divina» (p. 98). La Arendt avvicina espressamente questo mondo ai totalitarismi: in entrambi la legge, che secondo la studiosa deve sapersi rinnovare in base ai bisogni dell’uomo, è considerata immutabile. Secondo la sua interpretazione Kafka ha creato questo paradosso perché già negli anni ‘10 intuiva la degenerazione del sistema borghese e voleva sconfessarla. Invece di farlo apertamente ha creato un mondo che ne inscenasse la tragica assurdità. Per dirla con le nostre categorie, secondo la Arendt il processo va rovesciato in una congiura del diritto positivo contro l’uomo: congiura perché la legge che vuole instaurare (l’insindacabilità delle sue disposizioni) non è altro che la logica del potere della violenza mitica. Poiché però è il diritto positivo ad avere il potere nelle proprie mani, la congiura è de facto un processo. Compito del protagonista sarebbe quello di smascherarlo come congiura e di opporvisi, ma egli si lascia vincere dalla pretesa necessità del diritto, si lascia privare di ogni orizzonte del possibile e accetta la sentenza: in principio egli aveva osato immaginare un diritto positivo al servizio dell’uomo e per questo viene ora punito. La Arendt dissente da tutti quei critici che hanno pensato che K. credesse davvero ad una legge divina senza Dio ed incomprensibile. Essi avrebbero fatto di un uomo attento un profeta senza Dio. È curioso notare che tra questi uomini c’è anche il primo marito di Hannah Arendt, il filosofo Günther Anders. Il suo saggio Kafka. Pro e contro è del 1951 e riprende una conferenza dal titolo Teologia senza Dio che Anders aveva tenuto all’Institut d’ètudes germaniques di Parigi nel 1934[10]. Già il titolo della conferenza indica che Anders è tra gli interpreti criticati dalla Arendt: egli dà infatti importanza alla natura divina che la legge assume in Kafka e non pensa che essa sia solo la mano di vernice che permette all’autore di far risaltare meglio gli abusi del diritto positivo. Ma la religione di Kafka è di per sé un paradosso: è un ateismo che si vergogna. La sua coscienza oscilla perennemente tra consapevolezza e rimpianto. Da qui scaturisce il suo senso di colpa: egli è colpevole di non sapersi dare alcuna appartenenza. Quando poi prova a darsi una giustificazione metafisica della sua condizione, non riesce a dichiarare apertamente che Dio è morto e che sono gli uomini ad escluderlo. Imbocca allora due strade: divinizza la realtà, per cui l’al di qua diventa al di là (la sua legge infallibile ma senza Dio, immanente alla società) oppure immagina un Dio malvagio nella misura in cui ha creato il male nel mondo e ha poi abbandonato quest’ultimo a sé stesso (Anders 1989, pp. 102-106)[11]. Entrambe queste concettualizzazioni vanno però prese come ipotesi: Kafka infatti le ha contrapposte e rimescolate per tutta la vita senza giungere a una conclusione. Egli rappresenta una situazione che potrebbe essere un processo o una congiura all’uomo, ma non sa scegliere. Il saggio di Anders è critico nei confronti di Kafka, lo giudica pericoloso, e questo è molto raro nella critica che lo riguarda. Infatti secondo il filosofo Kafka è colpevole di non aver detto chiaramente che la legge da lui inscenata è da intendersi come congiura ai danni dell’uomo. È vero che egli non ha nemmeno detto il contrario: però la sua nostalgia dell’assoluto gli ha fatto ipotizzare che 'necessario' è superiore a 'libero' (come dice il cappellano delle carceri nel nono capitolo del romanzo). Anders rovescia l’interpretazione di sua moglie: Kafka non ha affatto inteso aprire gli occhi contro i totalitarismi, bensì ne ha quasi rasentato l’ideologia di uniformazione. I due filosofi attribuiscono un ruolo esattamente inverso alla componente mistica in Kafka: per la Arendt, Kafka crede nel diritto positivo e mette in guardia dai pericoli di una sua Vergottung, per Anders la sua nostalgia dell’assoluto lo porta all’ipotesi che si possa sacrificare tutto per essa. Anders è però più sfumato: riconosce che a fianco del mistico convive il razionalista e che l’ammissione di colpa di K. rimane ambigua (colpevole di non aver lottato a sufficienza o di aver lottato troppo?). Kafka era straordinariamente abile a creare paradossi; a mescolare quel che il senso comune teneva separato fino a dare piena evidenza a mondi rovesciati (ma non del tutto: ed è proprio questo che inquieta). In gran parte della sua narrativa ha applicato questa sua capacità al tema della legge e in Der Prozess a quell’ambito particolare che è appunto il processo. Naturalmente ha giocato a mescolarlo con la congiura. In questo ha dimostrato di saper ben manovrare i meccanismi che soggiacciono allo scontro sociale e di conoscerne le ambiguità. Tanto è vero che il Processo può essere letto anche come una critica al potere, al suo dubbio connubio con la legge e la necessità: così ha fatto Hannah Arendt. Non è però l’unica interpretazione possibile: Günther Anders ha visto nel Processo un problema religioso, la nostalgia dei valori assoluti e la teologia negativa. Kafka non avrebbe pensato in termini politici la società, bensì religiosi, con il grande rischio che ne deriva: ritornare ad un diritto divino in un’epoca senza dei, ma dove ci sono apparati pronti a sostituirli.
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