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Kalshinkov stampare, Sintesi del corso di Antropologia Culturale

Generazione kalashnikov - Jourdan - Riassunto

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 28/09/2015

sonia.debianchi.9
sonia.debianchi.9 🇮🇹

4.2

(132)

64 documenti

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Scarica Kalshinkov stampare e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! Generazione kalashnikov – un antropologo dentro la guerra in Congo Luca Jourdan Introduzione: un continente giovane, un continente in guerra: l’Africa 1. Sbarcare in Congo Questo libro tratta della guerra nella Repubblica Democratica del Congo e dei giovani e bambini che vi hanno combattuto. sono sbarcato in Congo nel gennaio 2001. Dico “sbarcato” perchè Libenge, la cittadina dell’Equateur dove ero diretto, era raggiungibile solo con una piroga. Senza manutenzione le strade in Congo scompaiono in fretta. Le piogge le trasformano in trappole di fango. Il Congo ormai da più di 10 anni si è impantanato in una guerra orribile. Il bilancio della guerra è disastroso: più di 5 milioni di morti e un paese da ricostruire, non solo materialmente ma anche nella cultura e nella morale. Sono arrivato in Congo proprio a causa della guerra. Le guerre, si sa, creano lavoro e all’epoca ero stato assunto da una Organizzazione non governativa impegnata nella realizzazione di un progetto sanitario di emergenza nella regione dell’Equateur. Del Congo ne sapevo poco, ma l’immaginazione non ha bisogno di molti spunti. Ben presto,però, ciò che avevo fantasticato venne travolto da una realtà imprevista. E prevalse il desiderio di capire più a fondo un mondo che in questi ultimi anni ha finito per diventare anche un pò “il mio mondo”. I luoghi della ricerca etnografica sono spesso anche luoghi di violenza e sopraffazione. Eppure gli antropologi hanno a lungo negato queste dimensioni. Ciò che ci preme sottolineare è che questa mancanza non è più imputabile all’antropologia contemporanea. Le opere di Foucault e Bourdieu hanno spinto gli antropologi a indagare la violenza nelle sue dimensioni silenti. La violenza è qualcosa d’intrinseco a ogni organizzazione sociale, ma nei contesti di guerra essa si manifesta in modo brutale. nelle società in cui la violenza si è radicata nella quotidianità e la vita degli individui è dominata dal terrore e dal sospetto reciproco. In queste condizioni l’antropologia è chiamata a riformulare le proprie prospettive: se la cultura è una rete di significati, un repertorio simbolico attraverso cui i soggetti conferiscono un senso alla propria esistenza, allora la ricerca etnografica nei luoghi di guerra deve spesso dar conto della dissoluzione di questa rete, ovvero deve rapportarsi a soggetti, e a società, che vivono in una realtà divenuta incomprensibile. 2. Un viaggio dentro la guerra Ricordo bene il primo viaggio a Libenge. Partimmo a bordo di una Toyota guidata da Faustin, uno degli autisti della Ong per cui lavoravo. Da Bangui, la capitale della Repubblica Centraficana, in 4 ore giungemmo a Mogumba, un piccolo villaggio sulla riva destra del fiume Ubangui. A Mogumba, prima d’imbarcarci sulla piroga per il Congo, ci fermammo alla dogana. Poi scendemmo lungo la sponda viscida del fiume deve la piroga ci attendeva. Saltammo su due sassi che facevano da pontile, salimmo a bordo e sistemammo i bagagli. Ignace, il piroghiere, si mise subito al lavoro. In breve l’imbarcazione raggiunse il centro del fiume e puntò verso l’altra sponda per poi costeggiarla, là dove l’acqua alta prometteva un viaggio senza intoppi. in breve la sponda del fiume divenne foresta, fitta e lugubre. Improvvisamente la foresta si interruppe come se un qualche dio avesse reciso con un colpo netto l’enorme tappeto verde. E nel mezzo della foresta iniziarono a spuntare la paglia e le lamiere dei tetti delle case. Dalla sponda alcuni militari ci fecero cenno con la mano: erano i ribelli di Jean-Pierre Bemba, il signore della guerra che controllava la regione dell’Equateur. Ignace puntò verso il porticciolo del villaggio. Un soldato scese lungo la riva, un altro si mosse dietro di lui. “bianco tutto bene?”, mi fece il primo. “ va bene, grazie. E lei?”. “sembra che vada!”. Ignace porse al secondo militare un sacchetto di plastica pieno di baguettes. Era il prezzo da pagare per lasciare il porticciolo. La canoa ruotò su se stessa e tornò a solcare l’acqua argillosa.. in breve giungemmo a Libenge. giunti al porto, scesi dalla canoa e iniziai a risalire la sponda del fiume sotto lo sguardo di un gruppetto di ribelli inebetiti dall’afa. Nel breve tragitto mi fermai a guardare alcune fosse, profonde 30cm, scavate a lato del sentiero. Incuriosito, chiesi a Ignace a che cosa servissero. “fortificazioni, signore!”. Ci voleva una buona fantasia per credere nell’efficacia di quelle fortificazioni e capii subito che Libenge non doveva essere certo una città inespugnabile! In effetti, pochi mesi prima del mio arrivo la cittadina era stata il teatro di battaglia fra i ribelli d Bemba e l’esercito governativo. La popolazione era fuggita nella Repubblica Centrafricana dove era stato allestito un campo profughi gestito dalle solite Ong. I soldati di Bemba, dopo essere arretrati, avevano recuperato le loro posizioni e da qualche settimana alcune famiglie avevano cominciato a fare rientro a casa,giusto in tempo per festeggiare la morte di Laurent Desirè Kabila – il presidente del Congo, odiato in quella regione in mano ai ribelli!- ce era stato assassinato pochi giorni prima del mio arrivo. in cima alla sponda iniziò nuovamente il rito dei visti. Oltre che dagli uomini di Bemba, al tempo di Libenge era occupata da alcune truppe ungaresi che il governo di Kampala aveva inviato a sostegno della ribellione. Bisognava dunque presentarsi negli uffici di entrambe le fazioni. Fui molto colpito nel constatare la differenza d’organizzazione fra i due eserciti: gli ungaresi indossavano divise ordinate, si rivolsero a noi in inglese e con fare professionale risolsero velocemente la questione dei visti. Nell’ufficio dei ribelli congolesi, invece, l’unico arredo era un tavolino con sopra un quaderno, una bic. Non si può dire che i ribelli indossassero delle riforme. 3. La decadenza e la sfida della violenza politica: in realtà il caos, che sembra caratterizzare molte aree dell’africa, è spesso solo apparente. Come ha argomentato Duffield, infatti, le guerre post moderne sono l’esito di progetti razionali che danno vita a modelli inediti di organizzazione politica ed economica, che l’autore definisce “modelli politici emergenti”. Si tratta di nuove forme di governance. Questi contesti sono il terreno fertile per l’emersione di nuove figure di potere – i cosi detti warlords o signori della guerra- che si affermano i virtù della loro capacità di esercitare la violenza. I signori della guerra sono soliti stringere relazioni economiche con compagnie straniere. Attraverso la stipulazione di rapporti esclusivi, tentano di estromettere rivali interni dalla competizione sulle risorse e utilizzano le ricchezze accumulate per acquistare armi e per alimentare le reti clientelari locali che garantiscono loro un minimo consenso. In breve, in molte regioni dell’Africa la politica agisce oggigiorno in funzione id interessi privati e dilagano i traffici illegali di risorse naturali, droga e armi. 6. Le guerre africane e l’antropologia pg 18 Le guerre africane sono studiate da esperti di diverse discipline. È opportuno soffermarci sui paradigmi principali emersi negli ultimi anni allo scopo di mettere in luce le peculiarità dell’approccio antropologico. alcuni studiosi hanno sottolineato il carattere etnico dei conflitti africani. All’interno di questo approccio è possibile individuare due orientamenti: la posizione “primordialista” e quella “strumentalista”. Nel primo caso le identità etniche sono considerate come un dato naturale dell’Africa. Secondo questa teoria la popolazione sarebbe divisa in gruppi etnici il cui destino sarebbe quello di entrare periodicamente in conflitto. gli antropologi sono più vicini alla posizione strumentalista, ovvero a quell’approccio che considera le identità etniche come un prodotto dell’epoca coloniale. le identità etniche hanno continuato a essere operative nella realtà post- coloniale in cui numerosi “ imprenditori dell’identità”- uomini politici- seguitano a fare dell’etnicità uno strumento di mobilitazione delle masse per realizzare le proprie ambizioni. Consideriamo un altro paradigma nello studio delle guerre africane, vale a dire quello economicista. Un esponente è Paul Collier che giunge a sostenere che i conflitti hanno una natura economica, piuttosto che politica o ideologica. Un’ulteriore corrente di studi pone l’accento sulla relazione fra la guerra e la debolezza degli stati africani, resi inefficienti dalla corruzione. Molti stati del continente hanno conosciuto negli ultimi decenni un rapido processo di sgretolamento. La perdita di sovranità sul territorio nazionale ha permesso l’emersione violenta di nuovi attori politici, i signori della guerra, e di forme di organizzazione economica basate sul saccheggio. Questi studi suggeriscono che, per mettere fine ai conflitti, sia necessario riformare lo stato attraverso politiche di Good governance. Tuttavia, uno dei limiti di questa corrente è il fatto che non tutte le guerre africane sono riconducibili alla debolezza dello stato. veniamo infine all’approccio antropologico. Sebbene la guerra sia attualmente al centro della riflessione degli antropologi, nella storia della disciplina l’interesse per questo tema è stato piuttosto discontinuo. Eppure sia la guerra sia la violenza sono da sempre fenomeni sociali tutt’altro che estranei ai luoghi della ricerca etnografica. Le ragioni di questo disinteresse sono molteplici. Per quanto riguarda la prima metà del 900, Otterbein ha sostenuto che gli antropologi dell’epoca avevano una scarsa confidenza con materie quali la storia e la politica, e allo stesso tempo erano mossi da uno spirito umanitario e pacifista che li induceva a escludere il fenomeno guerra dalle loro ricerche. L’interesse per la guerra cominciò ad aumentare nel periodo del secondo conflitto mondiale. Per quanto riguarda l’Africa gli antropologi hanno preferito trattare il tema della guerra in una prospettiva storica, concentrandosi sul periodo coloniale, mentre i movimenti di liberazione , le ribellioni e i conflitti civili sono rimasti per molto tempo ai margini della ricerca. Negli ultimi decenni le aree di conflitto sono diventato luoghi di ricerca etnografica. Si tratta di contrasti molto complessi dove gli antropologi lavorano a più livelli: vi è la realtà politica, con i suoi discorsi e le sue manipolazioni; il mondo militare, con le sue strategie; i civili, costretti a vivere in una “zona grigia” di violenze quotidiane; le zone di fronte, da dove giungono le storie drammatiche delle vittime; e infine il mondo dell’industria umanitaria, che partecipa a questo scenario. Nello studio di questi contesti gli antropologi hanno assunto differenti prospettive teoriche. gli antropologi si muovono all’interno di paradigmi diversificati. È quindi opportuno esplicitare il quadro teorico generale del presente lavoro che segue due prospettive principali intrecciate tra loro. Da un lato mostrerò come la guerra in Congo sia l’esito di una crisi multidimensionale (sociale, politica ed economica) riconducibile a quei processi storici che hanno portato a una crescente marginalità di un’ampia parte della società. Dall’altra ricondurrò la violenza attuale al drastico impoverimento della popolazione congolese. la guerra congolese scaturisce quindi da una crisi a più livelli che comprende il crollo dello stato e dell’economia, il fallimento dei sistemi di socializzazione, la restrizione del mercato del lavoro e l’impoverimento di ampie fasce della popolazione. Allo stesso tempo, essa è anche il risultato della violenza coloniale e dello stato post-coloniale, che hanno prodotto un “vuoto culturale” che è stato colmato in questi anni da una “cultura della violenza”. in questo stato di cose i giovani e i bambini sono emersi come vittime e come protagonisti della crisi: per molti di loro l’arruolamento è divenuto un mezzo di affermazione nella lotta per il proprio riconoscimento. 7. La “questione giovani” I giovani africani sono al centro di una crisi “dei meccanismi di che assicurano l’inserimento degli individui nella società”. da qualche anno gli antropologi hanno iniziato a occuparsi della “questione dei giovani”. Le tensioni generazionali si ritrovano in ogni tempo e in ogni società, e per quanto riguarda l’Africa la letteratura antropologica intorno a questo tema è piuttosto ricca. Come ricorda Ellen Lammers, “ questi studi concordano nell’affermare che sino a poco tempo fa gli atti di ribellioni da parte dei bambini erano inseriti nella società, con i riti di passaggio che rafforzavano l’equilibrio sociale”. Esistevano un insieme di tecniche rituali volte a plasmare forme di umanità. Questi rituali non sancivano semplicemente il passaggio da uno stadio della vita all’altro, ma erano anche l’occasione in cui venivano poste domande filosofiche – per es, che cos’è l’uomo? in molte società africane si diventava uomini prendendo le distanze dalla propria società: i rituali di iniziazione costringevano i giovani a uscire fisicamente dalla propria comunità e questo favoriva anche una presa di distanza critica nei confronti del proprio mondo. ma in gran parte dell’Africa oggi non è più così. Questi meccanismi rituali si sono inceppati. La crisi giovanile, però, non è peculiare dell’Africa. In molti paesi europei le nuove generazioni sperimentano una condizione sociali difficile, caratterizzata da lavori precari. Questi fattori portano a un prolungamento della “condizione giovanile” che implica una ridefinizione dei modelli di passaggio all’età adulta. La variazione dei cicli di vita, e in particolare il prolungamento della condizione giovanile, sono processi sociali che ritroviamo in forme analoghe anche in Africa. la definizione di “generazione perduta” è stata utilizzata in riferimento ai giovani dell’Africa di oggi. la gioventù africana è spesso associata a una sessualità sfrenata, oppure alla violenza atroce. La crisi giovanile è anche una crisi dei modelli di riuscita sociale. I giovani di Kinshasa, per es, sono oggi “ la prima generazione a vivere in una situazione in cui sono obbligati a costruire la loro identità in una società dove gli studi e il lavoro salariato non sono più necessariamente un punto di riferimento”. Nel passato, in Congo, l’educazione aveva portato alla nascita di nuove figure sociali: i giovani liceali e gli studenti universitari. Attualmente, però, diplomi e lauree non danno più alcuna garanzia. La crisi ha portato a un cambiamento nei modelli di transizione all’età adulta. In Africa l’impossibilità di trovare un’occupazione stabile determina il prolungamento del periodo di soggiorno presso i genitori. Il caos della post- colonia sembra minacciare i modelli della mascolinità. Se le ragazze riescono ancora a trovare nel matrimonio precoce un’alternativa al prolungamento della condizione giovanile, i maschi non possono che percorrere la via dell’inserimento professionale. Ma l’assenza di opportunità li relega al ruolo di debrouillards (=colui che si arrangia), costretti a campare di espedienti muovendosi fra le maglie dell’economia informale. è in questo quadro che gli ideali di mascolinità sono entrati in crisi. Probabilmente proprio la crisi di questi modelli rappresenta uno dei fattori alla base del fenomeno di “ coloro che restringono il pene”, che dilagò nelle metropoli del’Africa occidentale negli anni 90. Dal Senegal al Camerun, i giovani iniziarono ad accusarsi a vicenda del furto del proprio pene e il presunto colpevole finiva per essere linciato dalla folla. é importante notare che i giovani non sono riducibili al ruolo di attori passivi: al A Kinshasa, per es, sono numerosissimi i bambini di strada che ogni giorno devono far fronte al problema della sopravvivenza. In molte famiglie la situazione non è migliore: la mancanza di cibo impone di fare a turno per mangiare. Capitolo primo breve storia del Congo: dalla distruzione coloniale alla prima guerra mondiale africana pg 45 1. La condanna della ricchezza I primi esploratori portoghesi che approdarono sulle coste del Congo, nel XV sec , si accorsero subito delle enormi potenzialità che offriva la regione. In breve tempo schiavi e avorio divennero le voci principali di un commercio che coinvolse i portoghesi, gli arabi e i locali Bakongo. Ma dovettero passare 4 secoli prima che le “esplorazioni scientifiche” aprissero la strada alla colonizzazione. Nel 1874 il re Leopoldo del Belgio incaricò Stanley di risalire il fiume Congo e perlustrare la regione interna. Egli gettò le base della futura colonizzazione. quella di Leopoldo fu una delle dominazione più sciagurate di tutta l’Africa coloniale. L’introduzione della coltivazione della gomma e del lavoro forzato furono accompagnati da un ricorso sistematico alla violenza. Tuttavia Leopoldo riuscì a indebitarsi enormemente e ne 1908 fu costretto a cedere il suo dominio al parlamento di Bruxelles. Il congo divenne così ufficialmente una colonia del Belgio. il 30 giungo 1960 arrivò l’indipendenza. Lumumba fu nominato primo ministro, ma a soli 11 giorni dall’indipendenza dovette affrontare una prima crisi quando Tshombe, con l’appoggio belga, dichiarò la secessione del Katanga, la regione al centro dell’attività mineraria. Il neo-governo di kinshasa fece appello al Consiglio delle Nazioni Unite, che decise l’invio di caschi blu. Ma l’intervento dell’Onu si rivelò ricco di ambivalenze e lumumba ricorse al sostegno dell’Urss. in poco tempo Lumumba aveva preso buona parte del suo credito politico. Nel mondo occidentale vi era ormai una forte diffidenza nei confronti delle inclinazioni marxiste del giovane leader che veniva presentato come un dittatore.. nel 196° il presidente Kasa-Vubu decise la destituzione di Lumumba, costringendolo agli arresti domiciliari. nel periodo che seguì la morte di Lumumba il movimento nazionalista congolese perse gran parte della sua influenza. Nel gennaio 1964 ebbe fine il tentativo secessionista del Katanga, ma di lì a poco due nuove ribellioni investirono il Congo reclamando una “seconda indipendenza”: non era ancora terminato il mese di gennaio che Pierre Mulele diede inizio a un’insurrezione nel Kwilu e ad agosto Gaston Soumialot si mise a capo della ribellione dei Simba nelle regioni orientali. La disorganizzazione dei movimenti ribelli facilitò l’opera di repressione del governo, che riuscì a riprendere il controllo del paese. L’anno seguente, il 24 novembre 1965, il generale Mobutu prese il potere con un colpo di stato. 2. “L’Etat c’est moi: Mobutu, le roi du Zaire” In breve tempo Mobutu concentrò nelle sue mani tutti i poteri. Nel 1971 il paese venne ribattezzato Zaire. Mobutu cambiò il suo nome in “ il guerriero tutto potente, che per la sua voglia di vincere passerà di conquista in conquista, lasciando una scia di fuoco dietro di sè”. Si delineavano così i due principi del mobulismo: il culto della personalità e il ritorno all’autenticità africana. Furono vietati i nomi francesi e i vestiti all’europea. mobutu benificiò a lungo del sostegno delle potenze occidentali, che vedevano nel dittatore l’unico baluardo in grado di arrestare l’espansione del comunismo nell’Africa centrale. gli anni 90 non furono che l’appendice di uno sfascio economico inarrestabile. Gli Stati Uniti tagliarono gli aiuti al congo. Nel 1994 il genocidio rwandese destabilizzò la regione dei Grandi Laghi e per Mobutu si avvicinava l’epilogo. 3. L’ascesa di kabila: la prima guerra del congo Nel giro di 4 mesi, dall’aprile 1994, circa 800000 persone, fra Tutsi e Hutu, furono trucidate in rwanda dalle milizia filo-hutu dell’Interahamwe. L’assassinio del presidente rwandese Juvenal Habyarimana segnò l’inizio del genocidio. Ma la morte di Habyarimana non fu che il detonatore di un massacro programmato ormai da tempo. Il Rwanda, fin dai primi anni 90, aveva subito gli attacchi del Rwandagema. In Patriotic Front (Rpf), il movimento armato che si era formato fra i rifugiati Tutsi in Uganda sotto la guida di Paul Kagame e Fred Rwigema. In quegli anni l’odio nei confronti della minoranza Tutsi intera, sospettata di essere una quinta colonna dell’Rpf, erano aumentati a dismisura. l’esito drammatico di questa crisi fu dunque il genocidio scattato il 7 aprile del 1994. nel luglio del 1994 le forze dell’Rpf riuscirono a conquistare buona parte del Rwanda, ponendo fine ai massacri; allo stesso tempo, però, più di due milioni di Hutu fuggirono dal paese per timore di subire le ritorsioni dei guerrieri Tutsi. La maggior parte dei profughi si riversò in Congo, nella regione del Kivu. Ma non furono solo i civili a lasciare il Rwanda: all’immensa colonna umana che si dirigeva verso ovest si erano mischiate le milizie dell’Interahamwe, responsabili del genocidio. all’epoca, però, il kivu non attraversava un periodo d pace: nella regione i contrasti decennali fra le popolazioni “autoctone” e i gruppi di origine rwandese presenti nell’area erano sfociati in guerra aperta. l’ondata umana proveniente dal Rwanda non fece altro che allargare il conflitto. Una volta riorganizzatesi, le milizie genocidarie iniziarono a compiere incursioni all’interno del Rwanda e a perseguitare la popolazione Tutsi del Congo. ma la creazione di un’enclave Hutu bellicosa a ridosso del confine non era certo una cosa accettabile per il nuovo governo d Kigali. Paul Kagame, divenuto primo ministro del Rwanda, di fronte al silenzio opposto dalle Nazioni Unite alle sue ripetute richieste di chiudere i campi profughi del Congo, optò per la soluzione militare. Il casus belli non tardò ad arrivare: nell’ottobre del 1996 il governatore del Sud kivu, Lwasi Ngabo, intimò alla popolazione Banyamulenge di lasciare il congo. La reazione fu immediata: le milizie Banyamulenge, che si erano costituite nel frattempo grazie al’appoggio di Rwanda e Uganda, diedero inizio alla ribellione contro l’esercito congolese. rendere sicuri i confini era il primo obbiettivo della guerra, e la strategia adottata da kigali prevedeva il ritorno forzato in patria dei rifugiati Hutu. Per contro, questi ultimi erano sotto il gioco delle milizie del’Internahamwe, che con la forza cercavano d’impedire ogni tentativo di rientro allo scopo di preservare lo “scudo umano” in cui aivano e di continuare a beneficiare del flusso di aiuti umanitari dispendiati dalle Nazioni Unite. Nel novembre 1996 un’offensiva dell’esercito rwandese prese di mira il campo di Mugunga, nei pressi di Goma. Attravaerso una manovra di accerchiamento circa 600mila profughi furono obbligati a fare rientro in patria. Contestualmente a questa azione venne creato un nuovo movimento ribelle, denominato l’Alliance del Forces Democratiques pour la Liberation du Congo/Zaire (Afdl), una coalizione di forze in lotta contro il regime di Mobutu voluta e sostenuta da Uganda e Rwanda. con la creazione dell’Afdl la ribellione in Kivu assumeva un carattere transnazionale a ampliava i suoi obiettivi: bisognava ora conquistare il paese e porre fine alla dittatura di Mobutu. A capo dalla coalizione fece la sua comparsa Kabila. Dopo 30 anni Kabila divenne capo dell’Afdl. le froze dell’Afdl iniziarono ad avanzare verso la capitale Kishasa e i rifugiati Hutu rimasti in Congo cominciarono a fuggire verso ovest. I ribelli approfittarono di questi spostamenti per compiere numerosi massacri che contribuirono a screditare l’operato di Kabila. Ben presto la ribellione dell’Afdl assunse una carattere internazionale. Da un lato kabila poteva contare sull’appoggio di Uganda, Rwanda, Burundi, Angola, Etiopia, Eritrea, e Zimbabwe; dall’altro, il regime di Motubu era affiancato dai ribelli angolai dell’Uniao Nacional para a Independencia Total de Angola, e dalla Francia. In questo quadro sembra aver avuto un peso decisivo il sostegno fornito dagli Stati Uniti all’Afdl: crollato il regime sovietico, l’Africa centrale diventava il teatro di una nuova rivalità che vedeva questa volta opporsi gli Stati Uniti alla Francia, i primi decisi ad allargare la propria area d’influenza, la seconda intenzionata a conservare un pò della sua grandeusr d’oltremare. la bilancia pendeva però dalla parte di Kabila. L’Afdl conquistava Kisangani, nell’aprile del 1997 cadde ance Lubumbashi e i kadogo, i bambini soldato dell’armata kabilista, furono accolti come liberatori dagli abitanti della città. L’avanzata dei ribelli era ormai travolgente. 4. La fine del dinosauro Il 4 maggio 1997 Mobutu e kabila si incontrarono a Pointe-Noire per un ultimo tentativo di mediazione. L’incontro fu presieduto da Nelson Mandela. Mobutu al cospetto di Kabila appariva ancora più esile e malato. Il dinosauro era ormai vinto: no dei più cinici capi di stato del’Africa post-coloniale lasciava pateticamente la scena. al contrario Kabile trasmetteva la sicurezza e la fiducia erano più interessate a prolungare il loro soggiorno negli alberghi della città. Il 17 dicembre 2002 venne firmata un ulteriore intesa a Pretoria, l’Accord Global et Inclusif, in cui si delineavano le istituzioni che avrebbero dovuto guidare il paese per un periodo di transizione. Il testo dell’accordo prevedeva la costituzione di un governo della durata di due anni con il compito di portare il paese alle elezioni. intanto i combattimenti nell’est del paese proseguivano. Era ora la regione del’Ituri a divenire il teatro di scontri dalla violenza inaudita. Nei primi mesi del 2003, il conflitto fra l emilizie hema e Lendu degenerava nel genocidio. Anche in questo caso Rwanda e uganda avevano continuato a combattere la loro guerra per procura, dando il proprio sostegno alle diverse fazioni. L’apice della violenza fu toccato nel maggio 2003, quando le truppe ugandesi si ritirarono da Bunia, capoluogo dell’Ituri, lasciando un vuoto di potere che diede mano libera alle atrocità dei miliziani. Diverse migliaia di persone vennero trucidate sotto gli occhi dei caschi blu dell’Onu che non avevano mandato d’intervenire. Di fronte al rischio di un nuovo rwanda, la Francia offrì alle Nazioni Unite d’inviare le proprie truppe: venne cosi lanciata l’operazione Artemis, e nell’estate 2003 i soldati francesi presero il controllo di Bunia. Nel mesi di settembre l’operazione francese fu rimpiazzata da truppe del’Onu, questa volta con un nuovo mandato e meglio organizzate per far fronte alla gravità della situazione: a Bunia ritornò un minimo di sicurezza, ma nelle zone rurali i massacri continuarono. durante gli ultimi anni della transizione il Nord kivu e l’Ituri continuarono a essere il teatro di scontri. Malgrado le difficoltà, il governo di transizione è stato comunque in grado di organizzare le elezioni democratiche. Nel dicembre 2006 joseph Kabila è stato confermato alla guida del apesedal voto popolare. Tuttavia ancora oggi il governo centrale non è in grado di esercitare la propria sovranità sull’intero territorio nazionale e nell’est del paese gli scontri continuarono. 7. L’economia di guerra in congo La predazione e il contrabbando delle risorse naturali sono fra le ragioni principali della guerra in congo. Con la seconda ribellione i generali Ugandesi riuscirono a organizzare una rete di sfruttamento gestito dalle società Victoria e trinity. Le voci principali del traffico comprendevano coltan, diamanti, oro, caffè, legname e bestiame. 8. Kivu: fucina di guerra Il kivu presenta territori e climi molto eterogenei. Da ovest a est, il paesaggio muta dalla foresta equatoriale alla savana, per giungere alle regioni del cosiddetto kivu montagnoso. il kivu si trova all’incrocio di perlomeno tre livelli di conflitto: la fefinizione delle zone d’influenza dei paesi vicini, in particolare Uganda e Rwanda; la lotta armata per l’egemonia politica ed economica che ha fatto di questa regione il teatro di scontro fra milizie ed eserciti rispondenti a logiche di predominio su un piano locale, regionale e nazionale, infine i conflitti locali fra gruppi congolesi e le rivalità fra questi ultimi e la popolazione di origine rwandese. Queste dimensioni del conflitto si intrecciano in un groviglio di tensioni che si alimentano a vicenda, dando vita a una molteplicità di attori e di strategie. Per rendere l’analisi di questo contesto piu comprensibile, mi sembra utile partire da una visione dal basso, vale a dire da una prospettiva che prende le mosse dalle interpretazioni locali della guerra. nei primi mesi della mia ricerca ero solito parlare con una giovane ragazza di Lukanga, un villaggio del Nord Kivu le feci una domanda: “ cosa pensi di questa guerra?”. La risposta non fu banale : “ quale guerra intendi? La grande guerra o la piccola guerra?”. Alla mia richiesta di un chiarimento mi spiegò che la piccola guerra era quella combattuta per la terra e che portava a dispute sanguinose fra le comunità rurali. Per contro, la grande guerra era iniziata più tardi, con l’arrivo delle truppe straniere dell’Afdl e con la ribellione del 1998, a cui erano seguiti gli interventi militari rwandese e ugandese. è dunque opportuno soffermarsi ora sulla piccola guerra, vale a dire sugli aspetti locali del conflitto. È possibile individuare due questioni principali che alimentano il conflitto nel Kivu: in primo luogo, il problema della cittadinanza, vale a dire il conflitto fra le popolazioni sedicenti native e la popolazione di origine rwandese, in secondo luogo la competizione per la terra, ovvero le dispute fra le diverse comunita locali per accedere alla terra. Cerchiamo ora di gettare luce su questi due problemi. 9. I Banyarwanda del Nord Kivu pg 66 Alcuni gruppi etnici del Kivu si definiscono autoctoni. Il termine autoctono indica il fatto che queste popolazioni erano già presenti nel territorio dell’attuale Kivu Al momento della colonizzazione. Un terzo circa della popolazione del Nord Kivu è poi costituito dai Banyarwanda, un termine che indica la popolazione di cultura rwandese. Infine nel Sud Kivu troviamo i Bayamulenge. la presenza di una popolazione di origine rwandese è stata avvertita come una minaccia dai BAMI, i capi dei “gruppi indigeni”, che sentono minacciato il loro potere soprattutto per quanto concerne i diritti sulla terra. A partire dall’indipendenza, lo status della popolazione di origine rwandese è rimasto indefinito. Lo stato congolese concesse dapprima la cittadinanza ai Banyarwanda per poi revocarla nel 1981. Banyarwanda significa “ originari del Rwanda”. Questo termine viene impegnato per designare i gruppi di popolazione migrati dal Rwanda al Nord Kivu. gli attriti tra migranti e autoctoni emersi in epoca coloniale rappresentarono il primo segno di un disequilibrio destinato ad aggravarsi. I contrasti si inscrivevano in rappresentazioni divergenti della terra, in particolare per quanto concerne il suo valore sociale. al contrario delle popolazioni autoctone, i contadini rwandesi non attribuivano una valenza sociale alla terra che veniva loro distribuita dall’amministrazione coloniale belga. con l’indipendenza del Congo i contrasti fra Banyarwanda e autoctoni aumentarono ancora, ma fu negli anni 90 che le tensioni degenerarono nello scontro aperto. Nell’agosto del 1991 si apriva la Cns, l’assemblea che si prefiggeva di guidare il periodo di transizione verso le elezioni democratiche. Ma la scelta dei rappresentanti da inviare alla Cns fu un primo motivo di tensione nel Kivu. La possibilità di spostare la lotta politica sul piano elettorale portò a un’esplosione conflittuale senza precedenti. La posta in gioco era la cittadinanza. La decisione finale di negare la nazionalità alla maggioranza dei Banyarwanda fece da detonatore agli scontri. il casus belli non tardò ad arrivare. Il 20 marzo 1991 al mercato di Ntoto, nel Nord Kivu, alcune milizie massacrarono decine di Banyarwanda. alla fine del 1993 le fazioni in lotta raggiunsero un accordo. Ma la frattura era ormai profonda e la situazione non poteva che degenerare ancora una volta con l’arrivo dell’ondata di profughi in fuga dal Rwanda. 10. L’etnogenesi dei Banyamulenge L’appellativo Banyamulenge indica gli “originari di Mulenge”, un piccolo villaggio situato a sud di Uvira, Sud Kivu e che sarebbe stato un villaggio costruito dai pastori rwandesi che portavano le loro mandrie verso gli altipiani dell’Itombwe. Questi pastori al loro arrivo, dovettero sottostare all’autorità dei bami locali e versare un tributo per le terre occupate. Con la ribellione dei Simba del 1964, si parlò per la prima volta dei “rwandesi degli altipiani”, un popolo fino a quel momento avvolto nel mistero. Inizialmente alcuni giovani di questa comunità presero parte alla ribellione, ma in seguito molti di loro ne divennero opositori. Il motivo di questa svolta fu il fatto che i ribelli Simba, ritiratisi sugli altipiani per fuggire alla repressione governativa, avevano cominciato a far razzia delle loro vacche. E così molti giovani Tutsi degli altipiani si arruolarono nell’esercito governativo congolese per partecipare alla campagna anti-rivoluzionaria che poteva già contare sul supporto di mercenari belgi e statunitensi. sconfitta la ribellione, la collettività Tutsi si era guadagnata i favori del regime di kinshasa e alcuni di loro poterono intraprendere la carriera nell’esercito nazionale e nell’Mpr, il partito di Mobutu. Fu in quegli anni che fece la sua comparsi l’etnonimo Banyamulenge, ovvero gli originari del Mulenge. negli anni 70 i Banyamulenge riuscirono a ritagliarsi uno spazio di potere. Tuttavia, gli attriti si ripresentarono puntuali al momento delle elezioni regionali: nel 1985 alcuni giovani Banyamulenge bruciarono le urne cercando d’impedire le elezioni amministrative. In seguito, il tentativo di democratizzazione, avviato a Kinshasa nel 1991 peggiorò la situazione. Nel Sud Kivu, infatti, i rappresentanti politici delle comunità autoctone iniziarono a muoversi contro i Banyamulenge. il sentimento di esclusione iniziò a farsi largo fra i Banyamulenge. Nei primi anni 90 molti giovani si trasferirono in Uganda e si arruolarono nel Rwandan Patriotic Front, il movimento armato Tutsi che in quegli anni aveva iniziato ad attaccare il Rwanda. Fu l’inizio di una collaborazione destinata a rafforzarsi nel 3. Eric: un ribelle del Nord Kivu nell’Equateur Nel luglio 2001 l’ennesimo colpo di stato investiva Bangui, la capitale della repubblica centraficana. A casa del golpisti era il generale Kolimba. Nei giorni del golpe mi trovavo a Libenge. Dalla capitale centraficana giungevano notizie contraddittorie sull’esito della battaglia. Proprio a Libenge era di stanza un battaglione del Mlc. Fra i ribelli che circolavano a Libenge ero solito conversare con Eric. La sera seguente al colpo di stato di Bangui, Eric venne a farmi visita e mi riferì che i militari di stanza a Libenge e Zongo sarebbero intervenuti nella battaglia di Bangui per dare una mano a Kolimba. La mattina successiva vi era però una novità: eric mi informò che sarebbero sì intervenuti ma in favore del presidente Patassè. era evidente che le idee di eric non erano chiare. In seguito capii che era riuscito a captare da qualche suo superiore che l’Mlc si preparava per una missione in Centrafica e aveva associato questa missione a un intervento contro Patassè in aiuto in Kolimba. Utilizzo il termine logica perchè una tale presa di posizione era ciò che a Libenge tutti si attendevano dal movimento Bemba. il 7 gennaio 1999 Libenge era stata bombardata dall’aviazione di Kabila. Sempre in quei giorni l’esercito governativo si era organizzato per sferrare un attacco al gruppo di Berìmba. Grazie al consenso del presidente Paatassè, alcune truppe erano giunte a Bangui e si erano unite ad altri elementi delle Faz. I due gruppi si erano incontrati a Mogumba, e di lì avevano attraversato il fiume per attaccare Libenge. Le truppe di Kabila avevano cominciato ad accanisti sulla popolazione civile. Per questo il molti avevano pensato a una presa di posizione in favore di Kolimba: sembrava arrivata la giusta occasione per vendicarsi del tradimento di Patassè che aveva lasciato la libertà di passaggio ai militari di Kabila. Tuttavia, quando fu chiaro che i ribelli andavano al appoggiare Patassè, lo spiazzamento non durò molto e lo stesso Eric partì subito per la missione. Dopo una settimana i primi ribelli iniziarono a rientrare a libenge. Eric non riuscì a spiegarmi per quali ragioni il suo movimento avesse deciso di appoggiare Patassè. Quando gli chiesi di spiegarmi le ragioni che l’avevano spinto ad arruolarsi, rispose: “ non avevo niente da fare”. Nella sua vita non vi era più spazio per la progettualità, e l’esaltazione del saccheggio, insieme ai pochi beni che era riuscito a procurarsi, erano sufficienti a conferire un senso rinnovato alla sua condizione. 4. Il pillage pg 85 Il caso di Eric ci induce a riflettere sul fenomeno del pillage ( saccheggio). Il pillage diventa uno degli scopi principali della guerra. Nel caso dell’esercito di Bemba, ai militari viene in genere concesso di saccheggiare per tre giorni i villaggi appena conquistati. Il più delle volte sono gli stessi comandanti a guidare i giovani combattenti nella razzia. Lasciare la libertà di self service permette ai comandanti di mantenere un minimo di fedeltà da parte della truppa. il pillage può essere interpretato come una strategia di accesso alla modernità. In Congo, dove l’illusione della modernità tradotta in un ‘enorme disillusione, le forme di appropriazione violenza rispecchiano l’importanza di tale frustrazione. La scarsità e la miseria infiammano il desiderio di possedere beni materiali di cui si conosce l’esistenza attraverso i media, ma che localmente sono accessibili solamente a una ristretta cerchia di eletti. Assistere allo show di questi happy few trasforma il desiderio di rapacità e alimenta un rabbioso senso di esclusione. Il saccheggio non è un fenomeno legato esclusivamente alla guerra. Kivilu, per es, ha analizzato i pillages nello Zaire nei primi anni 90 quando il conflitto non era ancora esploso. I saccheggi iniziarono a Goma, dove i militari, da tempo senza paga, uscirono dalle caserme per depredare la città. In pochi giorniil fenomeno dilagò nelle altre metropoli del Congo. Questi fenomeni rappresentavano una forma di contestazione ed erano una conseguenza del cumulo delle disuguaglianze ormai talmente ampie da rendere impossibile la coesione sociale. 5. Diventare soldati Cerchiamo ora di approfondire la questione dell’arruolamento. Ho avuto modo di frequentare soldati. Molti di loro dichiaravano di essersi arruolati volontariamente, altri dicevano di essere stati costretti con la forza. Quando ragioniamo sulla dicotomia volontari/forzati si apre una questione: quale è il range di scelta per questi ragazzi quando decidono d’intraprendere la vita militare? Partiamo dall’analisi di casi concreti. In molte situazioni, arruolarsi significa sopravvivere. È il caso di Tibasima che a 13 anni era entrato nell’Upc, la milizia filo-Hema dell’Ituri : “ ho perso la mia famiglia, per me l’unica via di sopravvivenza era quella dell’esercito. Avere l’esercito significa essere al riparo da molte cose”. nel periodo in cui il conflitto ha toccato l’apice della sua veemenza per molti giovani e bambini dell’Ituri non vi era alternativa all’arruolamento. Da un lato le diverse formazioni militari reclutavano con la forza; dall’altro le milizie erano diventate l’unico luogo sicuro e molti vi aderirono semplicemente perchè in cerca di protezione. È evidente che in situazioni del genere la dicotomia volontari/forzati perde di senso: quando imbracciare un’arma diviene l’unica alternativa alla morte si è infatti volontari e forzati allo stesso tempo. la guerra e le forme delle violenza nell’Ituri presentano dunque delle peculiarità che riflettono la logica di sterminio sottesa a questo conflitto. Quando allarghiamo lo sguardo ad altre regioni, le esperienze dei combattenti assumono però sfumature diverse. Nel Nord Kivu la guerra non è stata così efferata come nell’Ituri. Prendiamo in considerazione le parole di Kavira, una ragazza di 16 anni che ha militato nell’Apc. Nel 2002 Kavira aveva combattuto a Mambasa. “ sono entrata nell’apc a 13 anni perchè gli ugandesi invasero e saccheggiarono il mio villaggio. Sono entrata perchè volevo mangiare senza lavorare e fumare. Mi piace la guerra perchè posso rubare qualcosa.” Kavira presenta la sa esperienza da combattente comeun periodo positivo della sua vita. Bisogna tener conto che per molti bambini nell’est del Congo la famiglia non rappresenta più un luogo sicuro. In una condizione di povertà diffusa, spesso i genitori non sono più in grado di offrire protezione ai figli. La milizia diventa pertanto un’alternativa alla sofferenza come luogo di libertà e trasgressione. 6. Kadogo: bambini che sovvertono la società L’arruolamento permette di sottrarsi a una condizione di esclusione e di pericolosa passività, e di realizzare un “modello di persona forte” accreditato nell’immaginario giovanile: quello del combattente. Il combattente, infatti, è in grado d’imporre le proprie regole alla popolazione civile. Nel caso dei kabogo ( bambino soldato) si assiste a un’inversione dei ruoli dagli effetti sconvolgenti: è il mondo dell’infanzia che riesce a prevalere su quello degli adulti stravolgendo gli abituali rapporti di potere fra le generazioni. Le parole di un prete di Manguredjipa, un villaggio che era occupato da una milizia Mayi-Mayi, rivelano spaesamento suscitato da questo fenomeno di capovolgimento dei ruoli: “ a Manguredjipa ci sono i Mayi-Mayi di Modohu. Essi rubano e saccheggiano. Nell’accampamento ci saranno circa 60 bambini e 100 adulti. I giorni del mercato la popolazione deve fornire un contributo in cibo da dare ai Mayi-Mayi. Alle volte i Mayi- Mayi reclutano con la forza. Quando entrano in qualche villaggio per saccheggiare rapiscono anche i bambini e poi li mandano a combattere. Ho visto un bambino Mayi-Mayi, ha fatto inginocchiare un papà, gli ha legato le mani e lo ha portato via.” questa testimonianza avvalora la tesi secondo cui nel Kivu “ la violenza è usata come strumento per riorganizzare lo spazio economico e per controllare la mobilità all’interno degli spazi e tra gli spazi”. Controllare lo spazio significa in primo luogo controllare le reti informali del commercio di minerali, ma significa anche imporre nuovi sistemi di tassazione alla popolazione. I pedaggi richiesti lungo le strade e l’obbligo di versare quote di cibo sono gli espedienti maggiormente utilizzati dai combattenti che controllano le aree rurali più remote. 7. La parabola dei kadogo Sebbene i kadogo combattuto in passato in diverse guerre, con la ribellione dell’Afdl il loro impegno è divenuto sistematico. I kadogo furono i protagonisti di un’impresa memorabile: dopo aver marcito per migliaia di km nella foresta congolese, giunsero nel maggio 1997 a Kinshasa, dove vennero accolti da una folla estasiata e incredula. In effetti, era la prima volta che nella capitale congolese si assisteva allo spettacolo di migliaia di bambini che sfilavano fieramente per le vie della città, con le tenute militari sempre un pò fuori misura e il Kalashnikov a tracolla. Al loro passaggio la popolazione della capitale si ammassava ai bordi delle strade per ammirare da vicino i guerrieri bambini che avevano sconfitto Mobutu. ma l’idillio ebbe vita breve. Nel giro di pochi mesi, Kabila abbandonò i piccoli soldati che dopo averlo portato al potere erano divenuti ben presto un peso Torniamo ora alla nozione di “habitus mobutista” . Jewsiewicki sostiene che questo habitus è un prodotto della storia, forgiato nei decenni della dittatura di Mobutu, che ha spinto gli individui ad agire sulla base del profitto personale. Il concetto di habitus è stato elaborato da Bourdieu e può essere definito come un sistema di atteggiamenti che danno vita a pratiche sociali condivise. È possibile delineare alcune caratteristiche dell’habitus mobutista: si tratta del prodotto dell’azione storica del potere sulla società, un’azione contraddistinta dalla violenza, la quale è divenuta uno strumento di affermazione individuale. In congo si è realizzato un processo di “legittimazione della violenza”. Vediamo dunque quali sono le linee generali di questo processo . nel Congo post-coloniale il rapporto fra stato e società è stato caratterizzato da due aspetti: la repressione e il parassitismo dei politici. Durante il regime Mobutu il compito di mantenere l’ordine interno venne affidato a un corpo d’elite dell’esercito, la Dsp. La funzione della Dsp era la repressione di ogni forma di protesta interna. Il regime Mobutu era caratterizzato da una doppia natura: da un lato lo stato esercitava un forte controllo sociale e faceva ricorso all’esercito in ogni situazione in cui veniva minacciata l’autorità del dittatore; dall’altro il cittadino era abbandonato a se stesso. Questo quadro politico ha costituito il presupposto per la nascita di un habitus peculiare sintetizzato nell’Article 15 della Costituzione zairese: debrouillez vous, ovvero “arrangiatevi”. Non si tratta di un articolo reale, bensì di un’invenzione popolare. L’article 15, infatti, non venne mai scritto. Devisch ha affermato che “l’article 15 designa lo spazio del piccolo predatore, le furbizie e la debrouillardise fatte ai danni degli altri. l’article 15 può essere considerato come un patto sociale implicito fra stato e cittadini: da un lato esso ha permesso al primo di ritirarsi dalla vita pubblica e dalle sue funzione; dall’altro a concesso ai secondi la possibilità di agire nell’illegalità. di fatto, però, il debrouillez vuos porta alla distruzione del patto sociale: a causa della profonda crisi economica del Congo, la debrouillardise, infatti, è un concetto che si è dilatato sino ad ammettere la possibilità di agire a discapito del prossimo. le implicazioni di questo processo sulla società congolese sono rilevanti: la differenza fra lecito e illecito ha perso significato, mentre l’assenza di regole ha favorito gli individui più spregiudicati. con l’accettazione dell’article 15 Mobutu si era presentato come modello per la nazione. Nello Zaire di Mobutu il cittadino è stato autorizzato al “fai da te”: il debrouillardise è stato dunque istituzionalizzato e ha dato vita a un habitus diffuso. All’inizio degli anni 90 il debrouillez vous cominciò ad assumere dei connotati sempre più violenti, con i saccheggi compiuti dai militari a cui si unì ben presto la popolazione dei principlai centri urbani. L’atteggiamento di Mobutu nei confronti di questi atti fu ambiguo ed è inscrivibile all’interno di un processo di progressivo ritiro dello stato dalla vita pubblica. Questo vuoto istituzionale degli anni 90 non favorì l’emersione di nuovi attori sociali; al contrario, in molti casi furono i vecchi beneficiari della ree clientelare mobutista a iniziare ad agire autonomamente per cercare di realizzare le proprie ambizioni di potere. Con la guerra lo stato ha perso il monopolio della violenza. Allo stesso tempo il debrouillardise si è trasformato in una norma incondizionata de comportamento individuale. Nella situazione di degenerazione sociale la violenza è divenuta una modalità ordinaria di relazione sociale. 11. Riti di guerra: i travestitismi In un contesto di distruzione come quello congolese i miliziani si ritrovano a compiere atti orrendi. In queste circostanze vengono messi in atto una serie di rituali che ricalcano la simbologia dei riti di iniziazione. Da questo punto di vista appare molto significativo il fenomeno dei travestimenti, che consideriamo qui a partire dall’analisi di un caso concreto. nel mese di dicembre 2002 una coalizione formata dall’Mlc di Bemba e dall’Rcd-National di Lumbala aveva attaccato le postazioni di Mbusa Nyamwisi. Ciò che era sorprendente è che alcuni soldati dell’Mlc avevano combattuto travestiti da donna. I travestimenti sono un tema classico per l’antropologia, ma la relazione che intercorre fra queste pratiche e la situaizone i guerra è ancora poco esplorata, l’analisi di questo aspetto può aiutarci qui a gettare luce sulle modalità di espressione del potere nelle zone di crisi dell’Africa e a comprendere meglio l’universo simbolico dei giovani combattenti. Anche nelle guerre europee si verificavano fenomeni analoghi: nel secondo conflitto mondiale, per es, i piloti di caccia inglesi portavano con sè le calze e i reggenti delle loro fidanzate. A questo riguardo Storr osservava: “sembra che ogni volta che un uomo si trova davanti a una situazione pericolosa preferisca avere un simbolo femminile che lo appoggi e lo fortifichi”. È probabile che questa dimensione psicologica abbia una certa rilevanza anche nei nostro caso, ma non possiamo accontentarci di questa spiegazione. Il lavoro di Ellis è interessante poichè individua un collegamento fra guerra e rituali di iniziazione, che sono un dispositivo antropopoietico, ossia di “fabbricazione delle persone”, di primaria importanza. Quello che ci interessa comprendere sono le ragioni che stanno dietro alla riemersione di questa ritualità, in forme piuttosto evidenti e fantasiose, nelle guerre contemporanee. Partiamo dal ragionamento di Ellis : “ tutti i paesi africani sono stati sottoposti a un processo di colonizzazione in cui una forma di governo originariamente europea ha imparato a coesistere con forme di governo preesistenti che si presentavano in una varietà di forme, incluse l’iniziazione degli adolescenti da parte dei più vecchi che erano in grado di influenzare il loro comportamento. Le politiche nazionaliste, in effetti, sono emerse dalla fusione di una grande varietà di strutture e reti, alcune di origine europea, altre di origine indigena. A partire da allora, dobbiamo notare che oggigiorno il controllo patronale da parte dei leader politici di società iniziatiche quasi-tradizionali è molto diffuso.” è un fatto che nelle zone di guerra dell’Africa contemporanea vengono praticati rituali iniziatici frutto di bricolage e processi di re-invenzione culturale. come nota Ellis, i leader politici sembrano interessati a questi dispositivi: in effetti, il loro potere dipende dalla capacità di controllo che riescono a esercitare su di essi. i travestimenti si prestano a più di una interpretazione. In guerra, essi possono avere una funzione tattica, ovvero servono a creare un profondo senso di disorientamento per atterrire il nemico. Allo stesso tempo possono servire ai combattenti per controllare la paura ed esorcizzare il rischio. Tuttavia, l’aspetto più importante di questo fenomeno è proprio la dimensione antropopoetica. 12. Spiriti, medium e combattenti I gruppi armati del congo praticano numerosi rituali. Tra le milizie lendu dell’Ituri, questo tipo di attività sembra avere una rilevanza particolare: i miliziani partecipano ai culti di possessione. Il medium fra i Lendu viene chiamato docteur. I rituali di possessione sono denominati godzaa, un termine che indica sia lo spirito sia il luogo dove esso risiede. Il medium ha poteri divinatori. Durante le cerimonia i combattenti, per mezzo del docteur, possono comunicare con lo spirito di un antenato, ilq aule predirà loro le possibilità di sopravvivenza. I godza e i docteur hanno un ruolo piuttosto articolato fra le milizie Lendu. Essi non si limitano all’attività divinatoria, ma possono stabilire le strategie di guerra e impartire ordini ai miliziani. i culti di possessione hanno grande importanza anche n tempo di pace: potremmo dire che si tratta di cerimonie civili anche continuano a essere praticate. Nella situazione di guerra, però, la mediazione fra mondo reale e mondo spirituale tende ad assumere un carattere macabro. Fra le milizie Lendu, per es, alcuni bambini soldato hanno il compito di squartare i corpi dei nemici uccisi in battaglia per asportarne g li organi. È lo spirito godza a richiedere questi organi che vengono consegnati ai docteur, il quale può utilizzarli per fabbricarne delle protezioni magiche. 13. Una violenza eccessiva Il grado estremo e le forme macabre delle violenza nella guerra in congo necessitano di un ulteriore sforzo interpretativo. Innanzitutto non ci troviamo di fronte a un caso peculiare, poichè questo eccesso di violenza caratterizza buona parte delle guerre contemporanee. uno degli effetti più dirompenti del terrore è la produzione di un quotidiano incomprensibile, ai limiti del grottesco, dove ogni norma sociale viene stravolta o annientata. Negli atti terrifici- uccisioni, amputazioni- la violenza non è mai casuale, ma viene esercitata su specifiche parti del corpo. la violenza nell’epoca della globalizzazione sembrerebbe un tentativo di produrre certezza in una fase storica caratterizzata da un’insicurezza profonda, dovuta al collasso degli stai, alla deregolamentazione economica e a forme di impoverimento sistematico. le forme più eclatanti di questa violenza esplodono spesso fra persone in Ngarambe, e verso la metà del 1904 fu posseduto da Hongo, uno spirito. Sotto l’influenza dello spirito , costruì una capanna, dove comunicava con gli antenati, e iniziò ad aspergere i suoi guerrieri con la maji. Si trattava di un’acqua preparata secondo una formula segreta a cui veniva attribuito il potere di liquefare le pallottole degli europei. K divenne così il profeta della liberazione africana. La reazione tedesca fu brutale e K venne impiccato. Ma la sua acqua si diffuse nel paese, e con essa la ribellione. Ogni clan aveva ormai il suo hongo, l’addetto alla preparazione della maji. L’insurrezione dilagò rapidamente nelle regioni meridionali. A rafforzare l’esercito coloniale giunsero nuove reclute dalla Somalia e dalla Guinea e i tedeschi riuscirono così a contenere l’espansione della rivolta. Fu applicata la tattica della terra bruciata. Il culto dell’acqua perse consenso e l’unione politica fra le diverse tribù cominciò a sgretolarsi. Nel 1907 la ribellione dei Mayi Mayi era giunta al termine. 5. Kivu: terra ribelle La storia del kivu è contrassegnata da numerose ribellioni. La questione centrale era la terra. Nel 1931 fra i Bashi esplose una rivolta capitanata da Binji-Binji, un guaritore il cui nome originario era Nyagaza. Egli fu posseduto dallo spirito Lyangombe che si manifestò attraverso il culto Kubandwa. Una volta posseduto, N ordinò al suo popolo di abbandonare le piantagioni degli europei. Secondo la sua profezia, i Bashi avrebbero cacciato i bianchi e una vola riconquistate le terre avrebbero beneficiato dell’arrivo di mandrie di vacche. Ma l’avventura di Binji Binji ebbe scarsa fortuna e i belgi riuscirono a riportare l’ordine. negli anni che seguirono l’indipendenza del Congo, la ribellione più nota nel kivu fu quella dei Simba. Fu in quell’occasione che ricomparve il rito della mayi. Nel 1963 Mulele si era insediato nella sua regione natale, il Kwilu, per dare inizio a una ribellione che aspirava a una seconda indipendenza del congo. quando la ribellione di Mulele sembrava ormai perdere terreno, il Kivu si infiammò sotto la guida di un altro leader nazionalista, Soumialot, che diede inizio alla ribellione dei Simba. Il governo tardò a intervenire e in meno di otto mesi la metà del congo cadde in mano agli insorti. i fattori dell’iniziale successo dei Simba furono tre: l’omogeneità etnica dei vertici della ribellione, il terrore e le protezioni magiche. I Simba ricorrevano sistematicamente al terrore. Nella vita del movimento, le pratiche magiche avevano un’importanza fondamentale: il giovane Simba era battezzato con la maji e in seguito assumeva il dawa ( medicinali). A dispetto del successo iniziale, l’assenza di una solida organizzazione politica e militare divenne ben presto un serio ostacolo per il successo della ribellione. nel novembre del 1964 il governo i Kinshasa lanciò l’offensiva finale: un’armata di mercenari e di soldati katanghesi iniziò ad avanzare verso Kisangani, mentre i paracadutisti belgi si lanciavano sulla città. La vista di uomini bianchi armati che piombavano dal cielo fu uno spettacolo terrificante agli occhi dei giovani Simba: per la ribellione fu la fine. Ma nonostante che la ribellione fosse stata repressa, l’uso della mayi era ormai affermato nel Kivu. 6. Le origini e l’evoluzione dell’attuale movimeno Mayi Mayi Le prime milizie operative nel Nord Kivu di cui si ha notizia sono i Kasindiend e i Bangilima. I primi avevano le loro basi nei dintorni di Kasidi mentre i secondi operavano nei territori di Beni e Lubero. Non vi è certezza sull’origine di queste milizie. Secondo Vlassenroot è possibile che fossero state create per volontà di Mobutu. Mobutu aveva assegnato ad alcuni leader delle comunità del Nord kivu il compito di arruolare giovani reclute per rinforzare i ranghi della ribellione contro Museveni. Sia i Kasindiens sia i Bangilima iniziarono però a operare autonomamente e a opporsi al regime di Kinshasa. Nella prima metà degli anni 90 si assistette a una rapida proliferazione delle milizie. In quel periodo i capi delle popolazioni autoctone del Masisi iniziarono a mobilitare i giovani delle proprie comunità contro i Banyarwanda. Questo fatto fu la prova del fuoco per i combattenti indigeni il cui spirito combattivo andava ora temprato per fare fronte all’inevitabile reazione dei Banyarwanda. A tale scopo i leader autoctoni fecero appello ad alcuni comandanti Kasindiens che giunsero nel Masisi per addestrare le milizie locali. Si trattava di vecchi guerrieri Simba che si presentavano ora come docteur, ovvero come i depositari del segreto dell’acqua magica ch doveva rendere invincibili i miliziani Hunde. tuttavia, con l’arrivo dei rifugiati Hutu il movimento fece mostra della sua eterogeneità interna. Sebbeno buona parte dei leader Mayi Mayi sbandierasse i propri ideali nazionalisti, dichiararono di combattere per la difesa della propria terra, in realtà molti di loro si allearono con le milizie Hutu dell’Interahamwe, responsabili del genocidio in Rwanda. Queste alleanze erano motivate in diversi casi da mere ragioni di opportunismo. in poco tempo i bami persero il controllo delle milizie Mayi Mayi e nel nuovo contesto le gerarchie militari, composte prevalentemente dai giovani, cominciarono a prevalere sulle gerarchie tradizionali in cui primeggiavano gli anziani. La vita sociale subiva cosi un processo di mitizzazione, e proprio il passaggio di potere dei bami ai capi miliziani ha costituito uno dei cambiamenti più rilevanti prodotti dalla guerra sull’organizzazione sociale del Kivu. 7. Caos politico e alleanze fluttuanti La campagna militare dell’Afdl del 1996 ebbe forti ripercussioni sulle dinamiche del kivu. Alcune formazioni Mayi Mayii aderirono all’avventura di kabila, mentre altre fazioni la bollarono come “ una manovra del tutsi” intenzionati ad annettere il kivu al Rwanda. In ogni caso Kabila perse la popolarità iniziale e molte fazioni mayi Mayi si opposero al nuovo governo. Con lo scopo della ribellione dell’Rcd nell’agosto del 1998, le alleanze cambiarono ancora una volta. La rottura dell’intesa fra kabila e Kagame portò a un riavvicinamento fra il governo di kinshasa e i movimenti Mayi Mayi che si opposero alle truppe dell’Rcd. con la seconda ribellione, i Mayi Mayi hanno assunto il controllo delle zone rurali, mentre l’Rcd si è attestato nei centri urbani. 8. Riti di guerra Per tentare un’interpretazione della simbologia e della ritualità di guerra Mayi Mayi, partiremo da una descrizione etnografica più dettagliata e in un secondo tempo ci addentreremo nell’analisi interpretativa. La credenza più importante del movimento è quella della mayi. L’acqua viene preparata dai docteurs; viene prelevata dai ruscelli e trasportata in taniche che vengono custodite nella baraza, una capanna posta alc entro dell’accampamento. È qui che viene preparata la mayi. Oltre alla mayi, il docteur si occupa della preparazione dei dawa. ultimate queste preparazioni, i docteurs somministrano i dawa ai combattenti e li aspergono con la mayi. Queste pratiche avvengono secondo tre modalità. Esiste innanzitutto un rito di iniziazione a cui sono sottoposte le nuove reclute. In questa occasione i novizi vengono disposti in una lunga fila, dopodiché il docteur pratica loro alcune scarificazioni e nei tagli vengono inoculati i dawa. In un secondo tempo, il docteur asperge con la mayi i nuovi combattenti, ai quali viene rivelato di essere divenuti invulnerabili ai proiettili. Terminate queste fasi, le reclute ricevono un’arma. Divenuti mayi Mayi, ed p questa la seconda modalità di utilizzazione delle protezioni magiche, i combattenti sono aspersi e tatuati regolarmente. Nella baraza i docteurs lavorano incessantemente alla produzione di nuova acqua, mentre la fabbricazione dei dawa avviene in momenti particolari. infine, e passiamo così alla terza modalità, la mayi viene aspesa sui miliziani durante il combattimento. Quando i Mayi Mayi partono per un’azione di guerra sono accompagnati da un docteur che porta con sè una tanica d’acqua. Affinché la protezione dell’acqua sia efficace, il giovane Mayi Mayi deve rispettare numerose regole. Nel caso in cui il combattente muoia la colpa dell’accaduto viene attribuita alla violazione di una di queste regole. tali regole sono: 1. Proibizione di avere rapporti sessuali 2. Divieto di rubare 3. Divieto di essere toccati 4. I civili, quando incontrano un Mayi Mayi, hanno l’obbligo di transitare sulla sua sinistra 5. Il combattente può lavarsi solo in momenti stabiliti 6. Divieto di portare con sè soldi 7. Proibizione di guardare il sangue 8. Divieto di mangiar verdure dalla foglia verde 9. Divieto di mangiare cibi cotti con la buccia 10. Divieto di soffiare sul cibo per raffreddarlo 11. Divieto di mangiare le ossa. nelle rappresentazioni locali esiste un “ ideale di guerriero Mayi Mayi”, ossia di un combattente invincibile che segue con scrupolo le regole descritte sopra. - perche sei entrata nei Mayi Mayi? volevo combattere per il mio paese. - contro chi volevi combattere? contro i bianchi. - perchè volevi combatterli? sono i comandanti che lo sapevano. No dovevamo solo combattere. - cosa facevi? era con la moglie di Lolwako, guardavo il bambino. - ti piaceva stare nei Mayi Mayi? no. - cosa non ti piaceva? quando andavo a combattere non sapevo come uscirne. - che arma avevi? un Kalashnikov - cosa fanno le donne? preparano da mangiare e lavano i vestiti. - avevi un compagno tra i Mayi Mayi? avevo un compagno che poi è morto. - ti è capitato anche di uccidere? si. Ho ucciso un papà, lo sospettavano di essere un muloyi. - come è andata? la popolazione di Kyondo era venuta al nostro accampamento e ci aveva detto che c’era un papà stregone che li disturbava. - e cosa faceva questo papà? uccideva la gente. Quando lo abbiamo saputo siamo partiti e siamo arrivai a Kyondo alla sua parcelle. Il papà si è messo una camicia ed è uscito. Dopo è tornato, abbiamo preso un fucile per fucilarlo, ma la pallottole non riuscivano a trapassarlo. Allora lo abbiamo legato e portato al fiume. Lì volevamo pugnalarlo ma il coltello si è piegato. Poi l’ho pugnalato sul collo ed è morto. Lo abbiamo sventrato. Sebbene i mayi Mayi ricorrano a pratiche magiche in odore di stregoneria, la lotta alla stregoneria cattiva garantisce loro un certo consenso. In molti casi è la stessa popolazione a indicare ai combattenti la persona accusata di essere uno stregone, chiedendone la morte. I Mayi Mayi si presentano quindi come i difensori del popolo congolese dall’attacco dei nemici. Allo stesso tempo, la costruzione della comunità Mayi Mayi è caratterizzata dall’affermazione della propria pureazza nazionale ed etnica e dalla reinvenzione della tradizione. 12. Il discorso politico mayi Mayi Sono due gli elementi distintivi che è possibile riscontrare in tutte le formazioni Mayi Mayi: innanzitutto il ricorso a pratiche rituali centrate sull’invulnerabilità del guerriero, in secondo luogo un discorso politico di stampo nazionalista che si tinge talvolta di un forte sentimento anti-Tutsi. Ci soffermeremo ora sull’analisi di questo secondo aspetto. il comandante Modohu, a caso di una formazione Mayi Mayi in occasione di un discorso ai suoi combattenti, proclamò:” se siamo qui è per liberare il popolo conglese dall’egemonia dei pochi, dalla dittatura, allo scopo di instaurare n governo democratico “. Questa affermazione è rappresentativa del discorso politico Mayi Mayi. I Mayi Mayi si definiscono come una forza di autodifesa popolare in lotta contro le trupe ugandesi e rwandesi le quali hanno potuto invedere il Congo grazie al sostengo delle potenze occidentali. Questa lettura del conflitto costituisce il nocciolo di un discorso politico che appare in verità piuttosto rudimentale. A questo proposito, Bon kabamba e oliver la notte si sono spinti ad affermare che “in realtà,tutti questi gruppi Mayi Mayi non hanno un reale progetto politico; la loro sola rivendicazione politica è la dipartita dei tutsi”. Tale giudizio è a mio avviso drastico. Resta il fatto che i Mayi Mayi hanno elaborato un proprio discorso politico ed è nostro interesse indagare i dispositivi retorici che lo informano. questo discorso viene espresso attraverso una retorica che rivela l’influenza del marxismo e del nazionalismo africano del anni 70. il tema maggiormente evocato è quello della resistenza all’aggressione condotta da Rwanda, Uganda e Burundi. Questi stati sono sostenuti delle potenze imperialiste occidentali e all’interno del congo si avvalgono della complicità di movimenti fantoccio, come quello di Bemba. Questa interpretazione politica de conflitto può essere sintetizzata nei seguenti termini: in primo luogo, la guerra è causata dalla volontà degli Stati Uniti di saccheggiare le ricchezze naturali del congo; in secondo luogo, il Rwanda e l’Uganda, coni loro vertici politici dominati dai Tutsi, costituiscono il braccio armato di questa operazione; infine la comunità internazionale è di fatto complice degli aggressori. una tale lettura colpisce non tanto per quello che rivela, quanto per quello che tace. È noto che le intrusioni degli stati occidentali nella politica interna congolese rappresentano una costante nella storia del paese. Questo fatto potrebbe giustificare un’interpretazione della guerra semplicemente come una delle tante espressioni dell’imperialismo occidentale. Tuttavia questa interpretazione risulta riduttiva. Essa nasconde la complessità del conflitto congolese che vede intrecciarsi una moltitudine di piani e di attori. Questa interpretazione riduzionista però non può essere considerata come il frutto dell’inconsapevolezza; al contrario è il risultato di una propaganda ponderata. In sostanza, l’enfatizzazione della matrice imperialistica della guerra da parre dei leader Mayi Mayi è funzionale a giustificare il proprio operato a cui viene in questo modo riconosciuta la legittimazione di una guerra di resistenza all’aggressione straniera. 13. Un eccesso di fantasia Nelle conversazioni che ebbi con i combattenti Mayi Mayi emergeva un “eccesso di fantasia”. Qui riporterò un dialogo che abbi con un ex combattente, kakule. Egli dopo la sua esperienza di combattente non era piu riuscito a integrarsi nella popolazione civile. Kakule si arruolò per caso. Egli ricorda l’esperienza di combattente come un periodo magico della sua vita, in cui tutto gli era concesso. La sua condizione di combattente era di fatto una condizione di privilegio. In effetti Kakule non perse l’occasione dì poter esercitare il potere che deriva dal suo status. -perche sei entrato nei Mayi Mayi? sono entrato quando avevo 18 anni, non avevo niente da fare a avevo un debito di 25 dollari. - c’è un rito d’iniziazione per entrare? ti fanno mettere in fila davanti a un mucchio in cui sono raccolte tutte le armi. A turno si sale sul mucchio. Prima il docteur fa i tatuaggi e ci mette la polvere dentro, poi getta addosso ‘acqua. -quali altre armi segrete avete? c’è l’erba che ha il potere di farci sparire quando la tocchiamo - ti hanno fatto comandante? si perchè sapevo leggere. -racconta abbiamo preso una piroga a motore per andare a Nyakakoma contro i soldati. Avevamo tre kalashnikov. I militari ci aspettavano. Lanciavano bombe che scoppiavano in aria. Quando hanno visto che le bombe non funzionavano, sono scappati lasciando le armi. C’erano dei MG (machine gun) e dei mortai. Siccome i militari erano lontani, due veterani fra i nostri ci hanno consigliato di sparire. Abbiamo fatto finta di scappare e poi siamo spariti. Noi potevamo vedere tutti mai militari non ci vedevano. Io pensavo di sparire nel nulla. Quelli nuovi non ci credevano che erano spariti. Quando i militari si sono avvicinati, abbiamo attaccato. Erano più di1200, dopo il combattimento c’erano 772 cadaveri. Dalle parole di questo giovane emerge un mondo dove la realtà si mischia alla fantasia. La crisi multidimensionale in cui è sprofondato il paese è anche una crisi dell’eziologia: l’impossibilità di trovare un senso agli eventi,a un quotidiano dominato dalla violenza e dalla miseria, produce una fuga nell’immaginario. il fatto ch questo immaginario sia presente nel congo d’oggi rivela le dimensioni drammatiche di una crisi sociale che si pone in continuità con le crisi del passato: la “rottura del senso”, la dominazione violenta e il collasso culturale, infatti, sono già stati sperimentati dagli africani durante il colonialismo e l’epoca attuale sembra presentare molte analogie con qel periodo. l’affermazione del fenomeno Mayi Mayi è certamente legata a una volontà di resistenza, che il più delle volte è stata tradita finendo col dar vita a economie mafiose e violente. Allo stesso tempo, però, questo movimento è il prodotto di una società destrutturata, che fatica a fare i conti con una realtà divenuta incomprensibile. Questa crisi ha prodotto un immaginario smisurato: per molti giovani arruolatisi nei Mayi Mayi significa entrare in un mondo in cui tutto appare possibile. Capitolo quarto si ma ora ho smesso - puoi descrivermi il tuo lavoro di docteur? la notte facevamo i medicinali. Alle 12 andavamo alla sorgente per prendere l’acqua. Poi si tagliano le foglie e si mischiano con l’acqua. dopo schiacci tutto, poi prendi il sangue di un montone e lo metti nell’acqua e poi si prega lo spirito Kitasamba. Gli spiriti benedicono l’acqua che diviene forte. Poi prendi l’arma e provi a sparare sull’acqua, ma non la colpisci. Allora prendi i medicinale e puoi metterti l’acqua sul corpo. Quando vai al combattimento la getti sugli altri Mayi Mayi e se gli sparano il proiettile non tocca il corpo. Quando getti l’acqua dici : “ mayi a Lumumba”. - mi hai detto che facevi delle betises. Vuoi dire che saccheggiavi la popolazione? quando ero a Mbingi ero con dei comandanti più vecchi di me. Sono loro che mi davano gli ordini, io eseguivo. Per es, dicevo di saccheggiare gli allevamenti e le automobili. -hai combattuto tanto? si e ho ucciso molto. - quando per esempio? quando eravamo a Mbingi c’era un ladro che si chiamava Mazumbe. Siamo andati a prenderlo. Quando siamo arrivati da lui, alla sera, aveva appena lasciato il posto dove aveva rubato. Quando ‘ho visto si è alzato dalla sedia. Noi ci siamo sparpagliati e lo abbiamo preso. Abbiamo iniziato a tagliargli le orecchie, allora mi hanno dato l coltello per ucciderlo. Quando ho preso il coltello, l’ho pugnalato alla gola, poi gli ho tolto il gozzo da dare al docteur per fare i medicinali. - quali altre parti del corpo si usano per fare i medicinali? ci sono i vecchi e i bambini. Per i vecchi prendiamo i testicoli, per i bambini il cervello. - ma dove prendevate i bambini? si prendono i bambini morti. -come trattavate i prigionieri? al mattino mandavamo qualcuno alla sorgente, altri pulivano il campo e altri prendevano la zappa per levare le erbe dal campo. - come era la prigione? scavavamo un buco e mettevamo delle scale. A livello della terra mettevamo dei bastoni, come si fanno le latrine locali. Sopra il buco si costruisce una casa e la guardia si siede li dentro e ciude cn una catena. - perchè tra i Mayi Mayi ci sono dei comandanti piccoli di età? non si tiene conto della taglia ma dell’intelligenza. - hai dei sogni che ti disturbano? sogno che andiamo a prendere i medicinali. Sogno delle belle cose, quando vivevamo bene. quando sono tornato avevo dimenticato un pò di medicinali nei pantaloni, e quando li portavo sognavo uno spirito senza testa con un machete e quando voleva tagliarmi saltavo. Erano gli spiriti dei Mayi Mayi che mi disturbavano. Ancor oggi continuo a sognare perchè nessunoha pregato per me. L’esperienza di questo combattente rappresenta una ricerca incessante di uno spazio sociale in cui collocarsi. Asoli 12 anni, Muhindo sceglie di entrare nei Mayi Mayi per seguire i suoi coetanei. Las ua famiglia non può offrirgli più di tanto. Una volta diventato soldato non tornerà indietro. Egli è sottoposto a una serie di forze che lo portano a incorporare il ruolo di soldato, relegando la sua vita al mondo esaltante e al contempo lugubre delle milizie. Eppure, nonostante la giovanissima età non ci troviamo di fronte a un soggetto passivo e privo di agency: Muhindo, infatti, finisce per sfruttare il potere che deriva dalla sua condizione di soldato e in molte occasioni approfitta della possibilità di esercitare la violenza. La soggettività di questo combattente è strutturata dalla crisi che colpisce il Congo. È una crisi che produce miseria. Le difficoltà di trovare una spiegazione a una vita condannata alla sofferenza hanno aperto uno squarcio fra la realtà e il mondo dell’invisibile: i due piano si confondono oltremisura, i poteri occulti e le fantasie pervadono ogni discorso ed emergono pratiche e significati inediti. A molti giovani non resta che perseguire le vie macabre della violenza e dell’occulto, dando vita cosi a nuovi modi di stare al mondo, di cui la parabola di vita di questo giovane combattente è una chiara testimonianza. d’altra parte, la meticolosità con cui Muhindo descrive i suoi compiti di docteur e di comandante lascia trasparire la passione e la fierezza per aver rivestito ruoli cosi importanti. È un bambino che compie delle scelte ma si ritrova a percorrere una strada dove e molto difficile cambiare direzione. 3. Storia di Jack e di una rivoluzione fallita pg 183 Ho incontrato Jack a Kampala nel 2003. Nato in tanzania dopo una lunga militanza nel movimento panafricanista e un periodo di formazione militare in Libia, all’età di 25 anni decise di partire pr il Congo dove si arruolò dapprima nell’Afdl e in seguito nell’Rcd per realizzare la sua ideologia rivoluzionaria. - perchè hai deciso di andare in Libia? a quel tempo ero a scuola e dovevo iniziare la preparazione per diventare un insegnante, ma non mi interessava. Poi ero coinvolto nelle attività giovanili a favore del Congo. Ero nell’Mnc- Lumumba. - quali erano i tuoi obiettivi a quel tempo? ero ispirato dalla lotta di liberazione - puoi parlarmi della tua esperienza Libia? sono andato per essere addestrato come un giovane congolese che viveva a Dar es Salaam, per diventare un cadetto della liberazione congolese. - prendevi parte a dei discorsi d’ideologia? si - cosa mi dici dell’addestramento militare? si partiva dalla storia militare. Si faceva la storia militare comparata, la Cina con l’europa e l’America. Le differenti tattiche di guerra, le tattiche di campo - quale tipo di addestramento ricevevate? siamo stati addestrati come forze speciali di base - quando sei tornato dalla Libia? era il 1989, ho iniziato a lavorare al porto di Dar es Salaam. Ho fatto il mio training, ho preso il mio diploma per lavorare coni cargo. Ho lavorato per una compagnia belga. Dopo l’introduzione del sistema multipartitico in Tanzania, intorno al 1992, lo scenario politico era cambiato. La gente cercava cambiamenti liberali. C’era la richiesta di avere un’associazione politica di giovani della Tanzania. - perchè hai lasciato il lavoro? l’ho fatto per la rivoluzione. La mia idea era di combattere. Alcuni miei parenti erano in Congo e non era cosi difficile per me andare li. Sono andato, era il tempo di Mobutu. I soldati importunavano, c’erano i rifugiati dal Burundi e dal Rwanda, erano tutti a Uvira. C’erano tutti questi movimenti in Congo, le Interahamwe, c’erano molte cose in quella regione a quel tempo e cosi sono andato li. - cosa facevi per l’esattezza? ero una sorta di spia. -quanto sei stato in Congo? un anno. Poi sono tornato in Tanzania e mi sono sposato. Comunicavo poco con i capi e avevo constatato che a quel tempo c’era un’organizzazione sotterranea di Banyamulenge basata a Kigali. - chi era il leader a quel tempo? era la rete di Ruberwa. - e poi? sono andato prima in Uganda e poi ci hanno spostato in Rwanda. C’era un campo militare in Uganda. - cosa facevate in quel campo? era per arruolare i giovani - eri un addestratore? si - avevi un passaporto congolese? usavo il passaporto della tanzania. All’epoca c’erano delle voci che la guerra sarebbe cominciata. l’altro comando aveva già ordinato di combattere all’interno del congo. Perchè Bukavu e Goma, quest’area, era facile da conquistare perche la gente era favorevole. Mobutu non aveva combattenti. Gli unici combattenti erano la guardia presidenziale, ma scappavano via ed era facile prenderli. A quel tempo ero a Bukavu, facevo dei business,facevo finta. Ma comunicavo con la mia gente. Ho incontrato un capitano Banyamulenge che era il mio coordinatore nell’esercito. Anche lui aveva organizzato alcuni combattenti congolesi che erano li pronti a unirsi alla ribellione. - dove vivevi a Bukavu? nella casa di mia sorella. Durante la guerra di liberazione sono rimasto a Bukavu come un soldato dell’intelligence. Ho lavorato li e facevo il mio business e la gente non poteva capire. La rivoluzione non era cosi ben organizzata, sono poi emersi molti problemi. -per esempio? la caccia alle streghe. La gente iniziò a uccidersi l’un l’altro perchè si sospettavano. C’era tanta confusione, perchè a Bukavu il comando era sotto
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