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Kant, idee, opere e pensiero, Appunti di Filosofia

La biografia e il pensiero di Immanuel Kant, filosofo tedesco del XVIII secolo. Si analizzano i tre periodi della sua attività letteraria e si approfondiscono le sue opere principali, tra cui la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio. Si esplorano i temi e i motivi che confluiscono nel criticismo, la filosofia che fa della critica lo strumento per eccellenza della filosofia, interrogandosi sui fondamenti del sapere, della morale e dell’esperienza estetica e sentimentale. Si presentano le quattro domande fondamentali che Kant si pone nella Critica della ragion pura.

Tipologia: Appunti

2018/2019

In vendita dal 28/07/2022

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Scarica Kant, idee, opere e pensiero e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! IMMANUEL KANT, nato in Scozia nel 1724. Studia filosofia, matematica e teologia. Ottiene la libera docenza all’Università di Konigsberg, per poi divenire sottosegretario e finire con la nomina a professore ordinario di logica e metafisica. L’esistenza di Kant è priva di avvenimenti drammatici, passioni e affetti, ma dedita al pensiero. Non fu però estraneo agli avvenimenti politici; il suo ideale era la costituzione repubblicana. Fronteggiò un contrasto con il governo prussiano che aveva limitato la libertà di stampa nel 1794. Muore di vecchiaia nel 1804. Nell’attività letteraria si possono distinguere tre periodi: 1. Il periodo naturalistico proprio della formazione universitaria, dalla gioventù al 1760 con scritti di astronomia non scientifica. Si ricordano gli scritti del 1755 Storia naturale universale e teoria dei cieli e del 1759 l’Ottimismo, in cui si schiera in favore dell’ottimismo radicale. 2. Il periodo filosofico, dal 1760 al 1781, quando cominciano a delinearsi temi e motivi che confluiranno nel criticismo. Nel Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio del 1768, Kant fa vedere come il concetto dello spazio sia qualcosa di originario. Considerazione che lo porterà alla Dissertazione del 1770 che presentò per la nomina a professore ordinario di logica e metafisica e che segna la soluzione critica del problema dello spazio e del tempo. 3. Le grandi opere vennero scritte dopo il 1781. Dal ’70 all’81 andò elaborando la sua filosofia critica. La Critica della ragion pura apparve nel 1781 e la 2° edizione nel 1787, rimaneggiata per ciò che riguarda la deduzione trascendentale. Seguirono poi la Critica della ragion pratica nel 1788, la Critica del giudizio del 1790 e Per la pace perpetua nel 1795, dove esprime il proprio pensiero politico. Il pensiero di Kant è detto criticismo perché fa della “critica” lo strumento per eccellenza della filosofia. “Criticare” significa interrogarsi programmaticamente sul fondamento di determinate esperienze umane, chiarendone le possibilità, la validità e i limiti. Nell’istanza critica centrale è l’aspetto del limite. La “critica” non nascerebbe se non ci fossero dei termini di validità. Il criticismo si configura come un’interpretazione dell’esistenza volta a stabilire il carattere finito delle possibilità di esistenza. Questa filosofia non equivale ad una forma di scetticismo. Il riconoscimento e l’accettazione del limite divengono la norma che dà legittimità e fondamento alle varie facoltà umane. Il kantismo risulta definito dalla rivoluzione scientifica e dalla crisi progressiva delle metafisiche tradizionali. Il criticismo s’interroga sui fondamenti del sapere, della morale e dell’esperienza estetica e sentimentale, concretizzandosi rispettivamente nei tre capolavori kantiani la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio. Il kantismo può essere considerato una prosecuzione dell’empirismo di Locke fino all’Illuminismo. Ma il kantismo differisce dall’empirismo perché ne rifiuta gli esiti scettici e perché spinge più a fondo l’analisi critica, fissando le condizioni possibilitanti e i limiti di validità. Differisce dall’illuminismo perché si propone di portare davanti al tribunale della ragione la ragione stessa, ma ne rimane figlio perché ritiene che i confini della ragione possano essere tracciati soltanto dalla ragione stessa. Per Kant i limiti della ragione tendono a coincidere con i limiti dell’uomo, volerli varcare significa avventurarsi in sogni arbitrari o fantastici. Kant scrisse che “Hume (empirista radicale) mi ha risvegliato dal sonno dogmatico”, diventando così, il pensiero di Hume, una lampadina per Kant. Hume riconosce l’esperienza come un valore maggiore della ragione, poiché dall’esperienza deriva ciò che c’è nell’intelletto (tutto). Nell’intelletto coesistono impressioni (esperienze vivaci e attuali che mi danno sensazioni vivide) e le idee (ricordi delle impressioni non più vividi). Hume critica il principio di casualità, interrogandosi sulla natura del rapporto del casuale, per cui da A segue NECESSARIAMENTE B? E’ contradditorio o meno pensare che il fatto B non si verifichi senza fatto A? Posso immaginare qualcosa di diverso per B? Risponde dicendo che “io posso immaginare scenario alternativi plausibili – e quindi da A segue B non è necessario. Allora si dice che la tua esperienza riguardo l’evento da A segue B, appartiene al passato, ma domani non è sicuro che accadrà così. È un fatto di fede in ciò che è successo in passato, non è contradditorio pensare che domani le cose cambieranno. Posso dire ciò che è stato ma non con certezza ciò che sarà. Kant va oltre questo pensiero perché negando la casualità si nega anche il pensiero scientifico che crea leggi a tempo indeterminato (la scienza viene ferita). La Critica della ragion pura (1781) è un’analisi critica e razionale del sapere, articolato in scienza e metafisica. La prima era il sapere della realtà e il continuo progresso (da Galileo a Newton), la seconda era il sapere in declino, fragile, poco chiaro e che sembrava non aver trovato il cammino sicuro della scienza. Kant ritenne necessario un globale riesame della struttura e della validità della conoscenza, in grado di rispondere alla domanda circa lo statuto di scientificità di questi due campi del sapere. La ricerca di Kant era tesa a stabilire come fossero possibili la matematica e la fisica in quanto scienze e come fosse possibile la metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza. Da ciò le 4 domande: 1. Com’è possibile la matematica pura? ossia la matematica (e la fisica) in quanto tale. 2. Com’è possibile la fisica pura? 3. Com’è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale/istinto naturale? 4. Com’è possibile la metafisica come scienza? Ossia la metafisica è una scienza? È paragonabile alle altre scienze? Nel caso della matematica e della fisica si tratta di giustificare una situazione di fatto; nel caso della metafisica si tratta di scoprire se esistano le condizioni tali che possano legittimare le sue pretese di porsi come scienza, oppure se sia condannata alla non-scintificità. Kant parte dalla domanda, che cos’è il conoscere? “Benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza” – la mia conoscenza primordiale deriva anch’essa dall’esperienza? Questa ipotesi convalida la presenza dei giudizi sintetici a priori. Kant è convinto che la conoscneza umana e la scienza offra un esempio di principi assoluti, verità universali e necessarie che valgono sempre e ovunque. Pur derivando dall’esperienza la scienza presuppone tali principi immutabili che ne fungono da spina dorsale. Si chiamano giudizi, perché aggiungono un predicato al soggetto, sintetici perché il predicato è una determinazione aggiunta in virtù dell’esperienza e a priori perché sono universali e necessari e non derivano dall’esperienza. I giudizi analitici a priori vengono enunciati senza bisogno di ricorrere all’esperienza (il predicato esplica ciò che è contenuto nel soggetto). Questi giudizi sono infecondi (non necessari) perché non ampliano il nostro preesistente patrimonio conoscitivo. Nei giudizi sintetici a posteriori il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto ma sono privi di universalità e necessità perché poggiano sull’esperienza. Pur essendo formulata in modo logico, questa teoria sottintende un confronto storico: i giudizi analitici e priori richiamano la concezione razionalistica della scienza, i giudizi sintetici a posteriori l’interpretazione empiristica della scienza. Kant, contro il razionalismo, ritiene che la scienza derivi dall’esperienza, contro l’empirismo, che alla base dell’esperienza vi siamo dei principi inderivabili dall’esperienza (Kant è innatista formale, in quanto deriva da una forma, la nostra conoscenza). che serve per arginare le nostre pretese conoscitive. Circoscrive le arroganze dell’intelletto, ricordandoci che esso non può conoscere le cose in sé, ma solo pensarle nella loro possibilità. Nella Dialettica egli affronta il problema se la metafisica possa anch’essa costituirsi come scienza. Col termine dispregiativo di “dialettica trascendentale” intende l’analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica; quest’ultima rappresenta tuttavia “un’esigenza naturale della mente umana”, è un parto della ragione, che a sua volta è l’intelletto stesso, il quale è portato a voler pensare. Questo voler procedere oltre i dati esperienziali deriva dalla nostra innata tendenza alla totalità; la nostra ragione, mai paga del mondo fenomenico, è irresistibilmente attratta verso il regno dell’assoluto e verso una spiegazione globale di ciò che esiste. Una tale spiegazione fa leva su tre idee trascendentali proprie della ragione, che è portata ad unificare i dati del senso interno mediante l’idea di anima (totalità dei fenomeni interni), i dati del senso esterno con l’idea di mondo (tot. Fenomeni esterni) e unificare interni e sterni con l’idea di Dio (totalità delle totalità). L’errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze in altrettante realtà, dimenticando che noi abbiamo solo a che fare con il fenomeno e non con la cosa in sé. La dialettica trascendentale è la denuncia dei fallimenti del pensiero quando procede oltre gli orizzonti dell’esperienza possibile. Per dimostrare l’infondatezza della metafisica Kant utilizza la psicologia razionale (anima), la cosmologia razionale (mondo) e la teologia razionale (Dio). La psicologia razionale si fonda su un ragionamento errato, che consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’io penso trasformandolo in una realtà permanente chiamata anima, quando all’io penso non è possibile applicare nessuna categoria. L’equivoco sta nella pretesa di dare una serie di valori positivi all’io penso, quando non possiamo conoscere nulla al di fuori dell’io fenomenico. La cosmologia razionale pretende di far uso della nozione di mondo come totalità dei fenomeni cosmici è fallace, poiché la totalità dell’esperienza non è mai un’esperienza perché non possiamo sperimentare la serie completa dei fenomeni ma solo questo o quel fenomeno. Parlando intorno al mondo nella sua totalità si cade nelle contraddizioni, le antinomie – esposte nella Critica della ragione pura e nei Prolegomeni – dove una tesi nega l’antitesi e dove non è possibile scegliere. Gli strumenti della metafisica rendono vere entrambe, quindi il problema sta nell’OGGETTO (concetto di mondo per i metafisici). La teologia razionale è priva di valore conoscitivo. Dio, per Kant, è l’ideale di ragion pura, quel supremo “modello” personificato di ogni realtà, concepito come l’Essere creatore. Alla prova ontologica di Anselmo (Dio è un essere perfettissimo e in quanto tale non può mancare dell’attributo dell’esistenza), obietta che non è possibile passare dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica, in quanto l’esperienza è deducibile solo per via empirica e non intellettiva. Ritiene necessario “uscire dal concetto per conferire l’esistenza all’oggetto”. La prova ontologica è quindi impossibile e contradditoria e per questo fallace. Nella prova cosmologica di Aristotele (se qualcosa esiste dobbiamo ammettere una causa prima necessaria a far muovere l’oggetto), ritiene limitante l’uso illegittimo del principio di causa, in quanto, partendo dall’esperienza, a un primo anello incausato, pretende d’innalzarsi, oltre l’esperienza, ad un altro anello incausato. Inoltre, le forzature logiche che contiene, la fa ricadere nella prova ontologica, già dimostrata come fallace – da puri concetti pretende di far scaturire delle esistenze presuntuosamente. La prova fisico-teologica fa leva sull’ordine del mondo per innalzarsi al Dio generatore perfetto. Prova che secondo Kant risulta minata da forzature, in quanto parte dall’esperienza e pretende di elevarsi subito all’idea di una causa ordinante trascendente. Per asserire che tale ordine non può scaturire dalla natura, è obbligata a concepire Dio come causa dell’ordine del mondo e dell’essere. Operazione compibile solo a patto di identificare la causa ordinante nel Creatore, ricadendo nella prova cosmologica e quindi ontologica. Inoltre pretende di stabilire una causa perfetta e infinita non accorgendosi che gli attributi che essa dà al mondo sono relativi a noi e non autorizzano a passare dal finito all’infinito. Kant è agnostico, per lui la ragione umana non può dimostrare nè l’esistenza né la non esistenza di Dio. Ogni idea della ragion pura è una regola che spinge la ragione a dare al suo campo d’indagine (l’esperienza) la massima estensione e la massima unità sistematica. L’idea psicologica spinge a cercare i legami tra tutti i fenomeni. L’idea cosmologica spinge a passare da un fenomeno all’altro e via all’infinito. L’idea teologica addita all’intera esperienza un ideale di perfetta organizzazione sistematica, che non raggiungerà mai, ma che perseguirà come se tutto dipendesse da un unico creatore. Le idee varranno come condizioni che impegnano l’uomo nella ricerca naturale. Dall’opera emerge il verdetto contro la metafisica tradizionale, alla quale contrappone una metafisica scientifica volta ad indagare i principi a priori del conoscere (m. della natura) e dell’agire (m. dei costumi) – è una scienza dei concetti puri che abbraccia le conoscenze indipendentemente dalle esperienze. La Critica della ragion pratica ha per oggetto l’agire umano. In questa Critica distingue tra ragione pura pratica (indipendente dall’esperienza) e una ragione empirica pratica (sulla base dell’esperienza). E poiché la dimensione della moralità si identifica con la dimensione della ragione pura pratica, il filosofo distinguerà in quali casi la ragione è pratica e pura e in quali essa non è pura. In questa seconda Critica, la ragione pratica non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura, perché in questa essa si comporta in modo legittimo. Invece nella sua parte non pura non è legittima dal punto di vista morale, in quanto dipendente dall’esperienza. Nella “ragion pratica” le pretese di andare oltre i propri limiti legittimi sono quelle della ragion pratica empirica che vorrebbe essa sola determinare la volontà. Nella Critica della Ragion pratica, ha criticato le pretese opposte della ragion pratica di restar legata sempre all’esperienza. Il capolavoro si propone di stabilire “che la ragione pure può essere pratica e che essa sola, e non la ragione, è pratica in modo incondizionato”. Infatti la ragion pura non richiede alcuna critica. La morale kantiana risulta segnata dalla finitudine dell’uomo e necessita di essere salvaguardata dal fanatismo. Il motivo della Critica della ragion pratica è la persuasione che esista una legge morale a priori valida per tutti e per sempre – una legge etica assoluta. Che esista, non è in dubbio – questa tesi implica due concetti: la libertà dell’agire e la validità universale e necessaria della legge. Essendo incondizionata la moralità implica la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istituali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo postulato della vita etica: “La libertà e la legge pratica incondizionata risultano connesse”. La legge è anche universale e necessaria. “Moralità = incondizionatezza=libertà=universalità e necessità” è il fulcro dell’analisi etica e la chiave di volta per cogliere gli attributi essenziali che il filosofo riferisce alla legge morale: categoricità, formalità, disinteresse e autonomia. Per Kant la morale è ab-soluta, cioè sciolta da condizionamenti istintuali; gioca tra ragione e sensibilità. Se l’uomo fosse solo sensibilità (impulso), essa non esisterebbe, poiché l’uomo agirebbe solo d’istinto – se fosse solo ragione, la morale perderebbe senso perché sarebbe sempre “santità” etica. La bidimensionalità fa sì che l’agire morale renda la forma del dovere e si concretizzi in una lotta tra ragione e impulsi egoistici. Si divide in:  Dottrina degli elementi: tratta degli elementi della morale e si divide in Analitica (espone la regola della verità etica) e in Dialettica (espone e risolve l’antinomia della ragion pratica). Nell’Analitica comincia dai sensi e finisce con i principi.  Dottrina del metodo: tratta del modo in cui la legge morale può accedere all’animo umano (l’educazione, gli esempi, ecc.…) Kant distingue i “principi pratici” in “massime” ed “imperativi”. La massima è una prescrizione soggettiva. L’imperativo è una prescrizione oggettiva e può essere ipotetico o categorico. Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini (se… devi) – si semplificano in regole dell’abilità (norme per raggiungere scopo) e consigli di prudenza (mezzi per la felicità). Gli imperativi categorici ordinano il dovere in modo incondizionato (devi) – ha connotato di legge, è oggettiva in quanto valida per tutti – questa è una legge morale (devi perché devi). L’imperativo etico non può risiedere in una manualistica concreta di precetti ma in una legge formale-universale che afferma: quando agisci tieni presente degli altri e rispetta la dignità umana che è in te e nel prossimo. Il carattere formale fa un tutt’uno con il carattere anti-utilitaristico: se la legge ordinasse di agire in vista di un fine si ridurrebbe a imperativi ipotetici, la moralità kantina richiede invece un dovere-per-il-dovere, ossia nello sforzo di attuare la legge della ragione solo per ossequio a essa e non sotto la spinta di personali fini. Da ciò il rigorismo kantiano, che esclude emozioni e sentimenti. Per non sconfinare nella semplice “legalità”, la morale implica una partecipazione interiore – non è morale ciò che si fa ma l’intenzione con cui lo si fa. È autonoma, poiché l’uomo è l’unico legislatore del suo comportamento ed è la legge etica a fondare le nozioni di bene e di male. La vita morale è la costituzione di una natura sovrasensibile, nella quale la legislazione morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale. Tuttavia, Kant non abbandona la sensibilità: la noumenicità dell’uomo esiste solo in relazione alla sua forma fenomenica, in quanto il mondo soprasensibile esiste solo in forma del mondo sensibile. Kant polemizza contro tutte le morali eteronome, che fanno scaturire la morale dai principi materiali e non dalla forma “pura”. Ritiene inadeguati i motivi soggettivi, poiché renderebbero l’azione non più libera e universale e anche i motivi oggettivi che identifichino un generico ideali di perfezione. In più, contro il razionalismo afferma che la morale si basa solo sull’uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito e non dipende da preesistenti conoscenze metafisiche; contro l’empirismo sostiene che la morale si fonda sulla ragione, in quanto il sentimento è troppo fragile e soggettivo per essere il piedistallo di un edificio etico. Nella Dialettica prende in considerazione l’assoluto morale o sommo bene. La virtù, pur essendo bene supremo, non è quel “sommo bene” che Kant identifica in “virtù + felicità”. Ma in questo mondo queste due non sono mai congiunte, in quanto l’imperativo etico implica l’umilizione dell’egoismo. Virtù e felicità costituiscono l’antinomia etica per eccellenza – l’unico modo per uscire da tale antinomia è di “postulare” un mondo dell’aldilà in cui possa realizzarsi ciò. I postulati sono proposizioni indimostrabili, condizione di esistenza della legge morale – sono tre: 1. L’immortalità dell’anima: l’anima deve per forza avere un tempo infinito e una possibilità di vocazione alla santità (virtù + felicità: premio in cui spero se agisco secondo virtù). 2. L’esistenza di Dio: la realizzazione della felicità comporta questo postulato, ossia la credenza in una volontà santa ed onnipotente, che faccia corrispondere la felicità al merito 3. La libertà: questa è condizione dell’etica, dell’agire umano – se c’è morale deve, per forza, esserci la libertà. Sono postulati soprattutto quelli religiosi, ma quello di libertà viene classificato come tale perché Kant ritiene che l’idea di un’auto-casualità non può essere affermata scientificamente. Il “primato della ragion pratica” consiste nella prevalenza dell’interesse pratico su quello teorico e nel fatto che la ragione (pratica), ammette proposizioni non ammissibili nel suo uso teoretico. I postulati kantiani non possono valere come conoscenze, ma come pura fede. Se fossero delle verità dimostrabili sarebbe la religione a fondare la morale. Invece è la morale a fondare le verità religiose – Dio non sta alla base della vita morale ma alla fine, come suo completamento. La morale conduce alla religione, perché soltanto da una volontà perfetta e onnipotente possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale ci propone come oggetto dei nostri sforzi. La Critica
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