Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Karl Marx il capitale, Dispense di Storia

estratto parte di testo Karl Marx

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 11/07/2023

elisa-simoni-1
elisa-simoni-1 🇮🇹

4.4

(5)

22 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Karl Marx il capitale e più Dispense in PDF di Storia solo su Docsity! Questa opera è pubblicata sotto una Licenza: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ RICCARDO BELLOFIORE: Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento[1] (pubblicato in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86) Di fatto, il venditore della forza-lavoro realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce. Non può ottenere l’uno senza cedere l’altro. Il valore d’uso della forza-lavoro, il lavoro stesso, non appartiene affatto al venditore di essa, come al negoziante d’olio non appartiene il valore d’uso dell’olio da lui venduto. Il possessore del denaro ha pagato il valore giornaliero della forza-lavoro; quindi a lui appartiene l’uso di essa durante la giornata, il lavoro di tutt’un giorno. La circostanza che il mantenimento giornaliero della forza- lavoro costa soltanto una mezza giornata lavorativa, benché la forza-lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta una giornata, e che quindi il valore creato durante una giornata dall’uso di essa superi del doppio il suo proprio valore giornaliero, è una fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto un’ingiustizia verso il venditore. Karl Marx, Il Capitale (1970, vol. I, p. 212) 1. Premessa 1.1. Della teoria del valore-lavoro di Marx, teoria che si vuole scientifica del rapporto capitalistico come rapporto di sfruttamento, esistono ormai pochi difensori in Italia. In un dibattito recente dove si è provato a stilare un bilancio del lascito marxiano, Paolo Sylos Labini ha ribadito un giudizio condiviso da molti, secondo cui “le fondamentali teorie analitiche” di Marx – la teoria del valore- lavoro, appunto, a cui andrebbe aggiunta l’“appena abbozzata ma importante” teoria della concentrazione crescente – sarebbero false [2]. La prima risulta confermata come teoria dei prezzi “solo nel caso del tutto astratto di profitto zero”, e non può dunque essere assunta come “base fondamentale” nell’analisi del capitalismo; mentre la seconda, forse valida un tempo, è per Sylos ormai empiricamente disattesa. D’altra parte, conclude, “se la teoria del valore-lavoro non regge, non reggono neppure i concetti di plusvalore e di sfruttamento”. 1.2. Un verdetto analogo, se non addirittura più aspro, era stato stilato, con soddisfazione dei più, al convegno di Modena del 1978. In quella sede, con motivazioni differenti e talora opposte, Marco Lippi e Claudio Napoleoni avevano concordato per l’essenzialità delle categorie di valore e di lavoro astratto per il discorso più complessivo di Marx [3]. Ma avevano entrambi concluso che il prolungamento strettamente analitico di quel discorso, la teoria dei prezzi e dello sfruttamento, si era rivelato un insuccesso. Per questi autori, come per Sylos Labini, la dimostrazione degli errori di Marx era peraltro chiaramente, anche se implicitamente, già contenuta nello schema teorico di Sraffa – e certo verrebbe la tentazione di replicare oggi che, se Marx è morto, anche Sraffa non si sente troppo bene. 1.3. A Modena ognuno dei critici era dunque andato alla ricerca dei motivi di fondo dello scacco marxiano. Per Lippi, il problema di Marx è il voler mantenere anche per il capitalismo l’idea che la produzione è retta da una legge naturale secondo la quale il lavoro è, sempre, la misura delle difficoltà che devono essere superate, il “costo sociale reale” [4]. La sequenza di Marx va dal lavoro fisiologicamente eguale al lavoro astratto sostanza del valore delle merci, dalla produzione in generale alla produzione storicamente determinata. La scienza marxiana pretende così di scoprire la natura dietro la storia. Questo “naturalismo” di Marx non può non fallire, scrive Lippi, perché nel capitalismo la storia ha a tal punto dissolto la natura che in esso l’influenza del costo sociale reale, e dunque del valore-lavoro, “si arresta molto prima di quanto Marx non pensasse”. 1.4. Opposta la posizione di Napoleoni. Il lavoro astratto, sostanza del valore, è tanto poco mera forma capitalistica della genericità naturale, che è invece caratterizzato dall’alienazione e dall’inversione delle condizioni del lavoro naturale. Se però le cose stanno così, aggiunge Napoleoni, il lavoro astratto, prima ancora di essere una categoria economica, è una categoria filosofica, e rimanda a un’ontologia metastorica, a una teoria dell’essenza umana “rovesciata” nel capitalismo. La scienza marxiana pretende di confermare nell’analisi delle leggi di movimento del capitale i risultati di una critica filosofica della società borghese. L’ontologia marxiana, in questo tentativo, non ce l’ha fatta. Nella teoria dei prezzi di produzione si è infatti verificata l’impossibilità di ritrovare il lavoro dietro le merci. Un esito fallimentare, che colpisce a morte il Marx scienziato. E che però lascia aperto, conclude Napoleoni, il quesito sul giudizio da dare del Marx filosofo – un giudizio che, come è noto, Napoleoni ha sempre variamente cercato di formulare in termini positivi. 1.5. Forse anche come effetto di così autorevoli condanne, di studi sulla teoria marxiana del valore- lavoro che ne difendano l’aspetto di teoria scientifica del capitale negli ultimi tempi se ne sono visti davvero pochi – a parte gli scritti di Giorgio Lunghini, e un luminoso articolo (su un quotidiano!) di Augusto Graziani [5]. In quel che segue ci proveremo ad andare controcorrente rispetto al giudizio di Lippi e Napoleoni, e poi di Sylos Labini. Tenteremo cioè una riabilitazione della teoria del valore come teoria dello sfruttamento. Di più, sosterremo che quelle tesi che Sylos Labini giudica, giustamente, come “analiticamente feconde” in Marx – in particolare, “la tesi che il processo di accumulazione capitalistica è spinto dalle innovazioni e ha carattere ciclico”, e “la tesi secondo cui la creazione di moneta bancaria ha un ruolo essenziale nell’accumulazione ciclica” – non sono affatto separate dalla, o tanto meno contraddittorie con la, teoria marxiana del valore. Come vedremo, anzi, la tesi dell’endogeneità dell’evoluzione ciclica nel capitalismo discende con assoluta consequenzialità dal valore alla Marx; mentre finanziamento bancario della produzione e valore- lavoro sono perfettamente compatibili. Prima, però, di affrontare di petto “l’enigma del valore”, è bene spendere qualche riga per chiarire la nozione di scienza, e la corrispondente teoria della verità, che sono proprie di Marx. 2. Il metodo del Capitale 2.1. Il dibattito sul metodo del Capitale è stato sempre molto sostenuto. Quale concezione della verità ha Marx nella sua opera più matura? Quale rapporto esiste tra questa teoria della verità e la costruzione dei tre volumi? Si può certo dire che è un problema legato – come afferma, del resto, lo stesso Marx nel “Poscritto” alla seconda edizione del I libro – alla questione di che cosa sia una realtà dialettica, di come una realtà dialettica possa essere espressa e raccontata in un libro, come appunto quello del Capitale [6]. Ma in questo modo, forse, il problema si sposta soltanto, dal terreno epistemologico a quello, se possibile ancora più spinoso, del ruolo e della portata della dialettica in Marx. 2.2. Quello che è certo è che la teoria della verità operante nel Capitale non ha molto a che vedere con la teoria della conoscenza propria del cosiddetto materialismo storico, come Marx stesso l’ha sintetizzata ad esempio nell’“Introduzione” del ’59 a Per la critica dell’economia politica [7]. Il rapporto di prassi e teoria concepito come primato della struttura sulla sovrastruttura rimanda agli aspetti più meccanicistici del pensiero di Marx. D’altra parte, in questo approccio la teoria della dei valori di scambio in prezzi di produzione” proposta nel terzo libro del Capitale: trasformazione che, più che dimostrare, presuppone la tesi marxiana del lavoro sfruttato. Nel sottolineare la natura centrale e determinante della produzione per la circolazione-distribuzione di merci e per l’accumulazione del capitale – e, ancor prima, nel dar conto dell’origine del sovrappiù nella sua forma capitalistica – la teoria del valore di Marx, con il suo muovere dal lavoro al valore ai prezzi, è dunque insostituibile. 3. Lavoro astratto, scambio e produzione capitalistica 3.1. Partiamo allora dalla riconduzione specificamente marxiana del valore delle merci a coaguli di lavoro astratto oggettivato. Secondo Marx, le merci si scambiano perché già eguali prima del loro confrontarsi sul mercato. Le merci hanno cioè un valore di scambio, si pongono in certi rapporti relativi tra di loro, perché sono valori assoluti, prima della metamorfosi finale con il denaro, che pure è la loro destinazione essenziale. Dietro il valore assoluto Marx rinviene, appunto, nient’altro che lavoro astratto oggettivato [18]. 3.2. Il modo di esposizione all’inizio del Capitale dà l’apparenza di svolgersi secondo un processo logico che va dal valore di scambio al valore al lavoro; e, perciò, di una progressiva espunzione dalle merci di tutte le caratteristiche diverse da quella di essere meri prodotti di lavoro. Come è stato mille volte osservato, se si ragiona secondo questa procedura, non si vede perché oltre al lavoro, elemento attivo della produzione, non dovrebbe rimanere anche la natura, elemento passivo. Quest’ultima, d’altra parte, entra nei processi produttivi come natura trasformata: include perciò, oltre alle quantità di lavoro passato coagulato nei mezzi di produzione, anche la scienza, la tecnica e l’innovazione. Non si vede allora perché anche questi ulteriori elementi non debbano essere considerati creatori del valore. Sarebbe inoltre, in questo caso, decisiva l’obiezione di Böhm- Bawerk: oltre all’essere prodotti di lavoro, le merci possiedono tutte la caratteristica dell’utilità – esistono, semmai, merci che non sono esito di processi di lavoro. 3.3. Il fatto è che la sequenza marxiana non va letta dal valore al lavoro ma in senso inverso, dal lavoro al valore [19]. La domanda che si pone Marx è in sostanza questa: quale è la condizione del lavoro in quella situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce nel momento in cui gli esseri umani producono, ma posteriormente, nello scambio di prodotti in quanto merci? Qual è, dunque, la condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo impersonale del mercato – alle cose – invece che essere implicita già nella stessa attività? Quando, insomma, la socialità di ciò che hanno prodotto si realizza post factum, e si incarna in un potere d’acquisto generale, indifferente a ogni determinazione specifica, il denaro? 3.4. La risposta di Marx è che in quella situazione storicamente determinata dove lo scambio è generale, il lavoro è realmente “astratto” dagli individui che lo prestano. I lavori immediatamente privati di individui asociali che si confrontano sul mercato possono divenire sociali soltanto rovesciandosi nel proprio opposto, annullando cioè le particolarità determinate, concrete e utili che li distinguono: divenendo, appunto, lavoro astratto, senza qualità. In forza di questo processo, il lavoro è reso generico, qualitativamente identico; i suoi prodotti sono per questo equivalenti, e perciò quantitativamente comparabili. Il lavoro astratto, sostanza del valore, è quindi il lavoro oggettivato nelle merci. È un lavoro alienato, esito di una separazione dei soggetti dalla dimensione sociale del loro agire produttivo, che è ormai solo mediata. Ed è un lavoro caratterizzato da una inversione, o ipostasi reale: perché, nella situazione in cui la società si costituisce nello scambio, cioè al livello del lavoro morto, il produttore, il lavoratore, soggiace al dominio impersonale del meccanismo economico, quindi del prodotto, del lavoro ormai da lui separato. I diversi lavoratori adesso sembrano – e in effetti sono – semplici appendici del lavoro che hanno prestato. Il lavoro è astratto in quanto alienato: i lavoratori sono separati dalla dimensione sociale della loro attività, che esiste soltanto al momento dello scambio effettivo. 3.5. In questo ragionamento, dunque, l’astrazione del lavoro è frutto dell’alienazione che si produce nello scambio. Il ricercatore è legittimato a isolare il lavoro come sostanza del valore in quanto i lavori concreti sono oggetto di un processo di eguagliamento-astrazione nella realtà dello scambio. L’astrazione di cui si sta discutendo è, insomma, un’astrazione reale, non mentale, secondo l’autore del Capitale. Ma Marx va oltre: afferma, cioè, che l’astrazione-alienazione del lavoro oggettivato prodotta dallo scambio ha a sua volta un presupposto, l’astrazione-alienazione del lavoro vivo. La sequenza logica marxiana diviene allora questa: dato che l’attività stessa è alienata, dato quindi che il lavoro è realmente astratto in quanto lavoro effettuato in vista dello scambio di merci, che conta soltanto in quanto generico e non per le sue caratteristiche utili, nel prodotto in quanto merce deve riscontrarsi la medesima alienazione. Il lavoro astratto sostanza del valore è perciò un lavoro oggettivato qualitativamente spogliato di ogni relazione con la natura e con la scienza, solo quantitativamente determinato, perché la stessa prestazione lavorativa è stata a sua volta ridotta alla dimensione dell’astrazione. 3.6. In queste circostanze il lavoro è, a un tempo, tutto e niente. Tutto in quanto diviene capitale e assoggetta a sé i lavoratori concreti. Niente, in quanto il lavoratore individuale viene svuotato dall’astrazione. L’una e l’altra dimensione del lavoro astratto sono, per Marx, percepibili sperimentalmente nella produzione: nel possibile antagonismo di classe, il primo; nei caratteri della condizione lavorativa, la seconda. 3.7. Ma che tipo di produzione è quella in cui il lavoro vivo diviene astratto? La produzione di valore di cui tratta Marx all’inizio del Capitale è forse quella di produttori indipendenti in una “società mercantile semplice”? Nient’affatto. Nello svolgimento del suo discorso Marx mostra come la situazione di scambio generalizzato delle merci può darsi soltanto là dove domina il modo capitalistico di produzione. L’astrazione del lavoro nello scambio è perciò la conseguenza non dell’alienazione della condizione tipica di un mitico lavoro “naturale”, ma della soggezione del lavoro vivo del salariato al capitale [20]. Più precisamente: il valore è l’oggettivazione di quel lavoro che è presente in potenza nella forza-lavoro del salariato; il lavoro in atto del salariato si rivela ora come il lavoro astratto nel farsi della sua oggettivazione, cioè valore in potenza. 3.8. Una volta che il “presupposto” di uno scambio generalizzato di merci viene, dall’interno dell’analisi, a rivelarsi come “posto” dal capitale – una volta, dunque, che la categoria di lavoro astratto assume una seconda determinazione: da lavoro alienato di produttori nello scambio, a lavoro vivo del salariato – corre evidentemente l’obbligo di ridefinire quei lavori privati il cui opporsi l’un l’altro sul mercato dà luogo all’astrazione del valore. Se l’equivoco del marxismo, a vario titolo, engelsiano, secondo cui si tratterebbe di produttori proprietari dei mezzi di produzione in una società di scambio generale ma senza capitale è, appunto, nient’altro che un equivoco [21], che cosa corrisponde a quei lavori privati? Si tratta, a noi pare, degli “operai collettivi”: dei processi di lavoro capitalistici organizzati dai molti capitali singoli. Abbiamo qui una sorta di ante- validazione sociale dei lavori privati individuali, coordinati nelle diverse imprese in reciproca competizione come fossero un lavoratore unico: per così dire, una scommessa sulla socialità (solo mediata) di questo lavoratore collettivo da parte dei capitalisti imprenditori; scommessa che, oltre alla sanzione finale del mercato, soggiace anche a una sanzione iniziale, costituita dal finanziamento, quindi dalla “fiducia”, del capitalista monetario all’inizio del circuito capitalistico [22]. 3.9. Se le cose stanno così, d’altra parte, si deve ammettere che nel valore alla Marx è presente sin dall’inizio, come tratto essenziale della realtà capitalistica, la concorrenza (dinamica) di un capitale in opposizione agli altri capitali. La conferma è facile da trovare. Nella stessa analisi del valore come si configura nel primo libro del Capitale – dunque prima ancora di passare alla determinazione di prezzi di produzione diversi dai valori di scambio – Marx tiene conto della lotta di concorrenza all’interno del ramo di produzione, e distingue il valore “sociale” della merce, che nel terzo libro diverrà il valore “di mercato”, dal suo valore “individuale”. La possibilità di abbassare il secondo al di sotto del primo (che è quello al quale si suppone le merci vengono effettivamente scambiate) così come la necessità di farlo (per non essere espulsi dal mercato) sono la base della sistematica caccia all’extra-plusvalore che dà ragione del carattere endogeno, incessante e squilibrato dello sviluppo capitalistico. Questo tipo di concorrenza infrasettoriale permane evidentemente anche nelle situazioni in cui i prezzi che regolano gli scambi obbediscono a regole diverse e non si identificano con i valori di scambio, cioè quando la concorrenza intersettoriale fa emergere una tendenza all’eguaglianza del saggio del profitto. 3.10. Tiriamo le fila del discorso fatto sin qui. Abbiamo individuato la presenza di due diverse, ma non contraddittorie, accezioni del lavoro astratto come sostanza del valore: per un verso, il lavoro in quanto risultato (lavoro morto, ormai oggettivato nella merce); per l’altro verso, il lavoro in quanto attività (lavoro vivo, o lavoro in atto, estratto dalla forza-lavoro). Va tenuto, d’altronde, presente, che il cuore della critica all’economia politica sta proprio nella sottolineatura della natura nient’affatto scontata della traduzione della capacità lavorativa, mera potenza di erogazione di lavoro astratto, in effettiva prestazione di lavoro vivo da parte del salariato. Non è possibile cioè ritenere che, all’atto della contrattazione sul mercato del lavoro, sia definito con certezza lo “sforzo” lavorativo effettivo. Altrettanto problematico è poi, in Marx, il salto dal lavoro in atto, cioè dal valore in potenza, a una effettiva creazione di valore di pari ammontare. Non è perciò neanche possibile ritenere che la produzione crei i propri sbocchi. Nella dialettica tra, da un lato, il lavoro morto nell’oggetto – a cui è riducibile tanto il capitale anticipato (costante e variabile) quanto il plusvalore prodotto (nuovo capitale in potenza) – e, dall’altro lato, il lavoro vivo del salariato – unico elemento non merce e non valore che è possibile discernere nel processo capitalistico di produzione, e quindi unico acquisto esterno per la classe capitalistica e unica possibile sorgente del valore e del capitale – sta tutto il segreto della teoria marxiana del valore. Privato di questa dialettica, Marx diviene davvero, scientificamente e politicamente, del tutto inutile. 3.11. Prima di procedere oltre, può essere opportuno mettere in evidenza come il discorso teorico marxiano, quale lo si è qui ricostruito, riprende in forma originale la riflessione aristotelica sulla “potenza”. Si trova in Aristotele la distinzione tra, da un lato, la “possibilità” come pura pensabilità, il semplice “poter essere” (endecesqai), e, dall’altro lato, la “possibilità concreta” o potenza (dunamiV), intesa invece come una “realtà in quanto capace di divenire, e cioè di rendere esplicita una forma implicita, raggiungendo con ciò un superiore grado di perfezione” [23]energeia) la forma che da tale potenza si sviluppa. Secondo alcuni interpreti, in Aristotele l’“essere in atto” continua pur sempre a essere inteso come superiore all’“essere in divenire”, in quanto non ha bisogno di svilupparsi ulteriormente; non così, peraltro, nella ripresa cristiana di questa problematica, dove vale semmai l’inverso [24].; viene definito “atto” ( 3.12. L’analisi marxiana della forma lavoro e della forma-valore può essere riletta in questi medesimi termini. La forza-lavoro è potenza di lavoro; il lavoro vivo è capacità lavorativa in atto, e insieme valore in potenza. Il valore, a sua volta, è atto del precedente, in quanto lavoro astratto in fieri, e allo stesso tempo denaro in potenza. Il denaro è la “forma del valore” pienamente sviluppata, e capitale in potenza. Diviene capitale in atto, cioè assoluta capacità di autoaccrescimento della ricchezza astratta, attraverso la duplice relazione col lavoro: di scambio (mercato del lavoro), e di sfruttamento (processo di lavoro come processo di valorizzazione). Assumendo il carattere intende dar conto dell’estrazione di plusvalore senza far ricorso ad alcun fattore del genere. Assumendo che il salario sia pari alla sussistenza, e che dunque questo è il livello del salario che i lavoratori hanno ragione di attendersi, Marx ipotizza che lo scambio sul mercato del lavoro si svolga sotto la parvenza della massima equità, secondo le regole di un qualsiasi scambio di merce. È sotto questa ipotesi, perciò, che Marx cerca di mostrare che il sovrappiù capitalistico ha origine in uno sfruttamento del lavoro. 4.7. Riprendiamo in considerazione il paragone che Marx effettua tra la situazione di riproduzione semplice a profittabilità nulla, e la situazione in tutto analoga in cui l’unica differenza consiste nel fatto che, con dati metodi di produzione, si muovono verso l’alto la lunghezza e/o l’intensità del lavoro. Grazie al confronto tra l’una e l’altra situazione, Marx può far emergere dei profitti “originari” nel sistema capitalistico, la cui causa sta nella costrizione a un lavoro che eccede il lavoro necessario. Il cuore di questo ragionamento può essere così riesposto. Il valore di scambio della forza-lavoro è un dato, prima della produzione. Il suo valore d’uso, l’ammontare di lavoro vivo effettivamente erogato, è invece a priori indeterminato [32]. Dipende dal conflitto di classe sul tempo di lavoro. Per rendere evidente ruolo e conseguenze di questo conflitto, Marx impiega un paragone “controfattuale”. Assume che non varino le ragioni di scambio adeguate a una situazione in cui il lavoro in atto si esaurisce nel lavoro necessario – quella situazione in cui il capitalismo in quanto tale non è ancora venuto alla luce – e le impiega per valutare la produzione in una situazione in cui si impone ai lavoratori di lavorare oltre il limite del lavoro necessario – quella situazione in cui ciò che si inizia a produrre è appunto il capitale. 4.8. La natura controfattuale del ragionamento marxiano non comporta affatto l’assunzione di un punto di vista esterno, non immanente, nell’analisi del capitalismo. Definisce semmai un ineliminabile punto di riferimento logico per valutare la percorribilità di un processo produttivo (anche) capitalistico, che deve essere almeno in grado di reintegrare il capitale anticipato. L’adozione di prezzi uguali ai valori di scambio consente a Marx di sottrarre da tutto il lavoro che è stato effettivamente estorto nei processi di lavoro capitalistici quell’ammontare minore di lavoro che effettivamente è stato erogato dai lavoratori per produrre le merci ottenute grazie alla spesa del loro salario. Quei rapporti di scambio servono, cioè, per mettere in rapporto quantità realmente spese di lavoro, il lavoro vivo e il lavoro necessario, nella congiuntura (capitalisticamente) determinata. Il lavoro di cui si sta parlando è il lavoro vivo del salariato. Proprio in quanto è del salariato, si tratta del lavoro di un soggetto la cui retribuzione monetaria è stabilita contrattualmente prima dell’effettuazione della prestazione; d’altra parte, data l’ipotesi di Marx sul salario di sussistenza, anche il salario reale, e il lavoro in esso incorporato, è determinato in anticipo sulla produzione. Perché si dia pluslavoro, e quindi profitti “originari”, il portatore della forza-lavoro deve essere successivamente “forzato” al lavoro; e a un lavoro eccedente il lavoro necessario. Del carattere forzato del lavoro salariato, in cui consiste una prima accezione di sfruttamento, il paragone controfattuale marxiano dà adeguata rappresentazione. 4.9. La tesi di Marx è, in breve, che il capitale può essere prodotto e riprodotto in quanto sussiste una separazione reale interna al lavoro salariato. Esso è, a un tempo, capacità lavorativa acquistata dal capitale variabile, e lavoro vivo che dà luogo all’intero neovalore prodotto. In questo senso, come ha scritto Lucio Colletti [33], il lavoro (salariato) è per Marx, insieme, parte del capitale (se si guarda alla quota del lavoro morto che riproduce la forza-lavoro, al capitale variabile), e tutto il capitale (se si guarda al lavoro vivo che dà origine al neovalore, e perciò al nuovo capitale). A quella separazione reale, peraltro, non corrisponde, come ha creduto Colletti, alcuna contraddizione dialettica, per cui la medesima categoria, il lavoro, avrebbe come predicato due determinazioni logicamente esclusive (A – non A), l’essere a un tempo il tutto e la parte, violandosi così il principio di non contraddizione. Come dovrebbe infatti risultare chiaro dall’esposizione che precede, l’espressione “lavoro” riveste due significati differenti quando questo, da un lato, è inteso come quota parte del capitale, e, dall’altro lato, è inteso come l’origine dell’intero capitale. Nel primo caso, ribadiamolo, si tratta del lavoro come forza-lavoro; nel secondo caso, del lavoro come attività. Lungi dall’essere identificabili, le due accezioni denotano dati di fatto distinti, entrambi positivi, esistenti e reali fuori dal pensiero. Dati di fatto talmente distinti, si può aggiungere, da intervenire addirittura in luoghi diversi, e in fasi successive, del ciclo del capitale. La forza-lavoro, infatti, viene ceduta nel mercato del lavoro, e trova il corrispettivo reale della sua retribuzione nel mercato delle merci; il lavoro vivo valorizza nel processo di lavoro capitalistico. 4.10. È vero, d’altra parte, che in quanto la capacità lavorativa e la prestazione effettiva di lavoro non possono essere disgiunti dal loro legame con la figura del lavoratore in carne e ossa – in quanto dunque il lavoro in atto realizza la “potenza” della forza-lavoro, a sua volta inseparabile dal lavoratore – si può ben dire che quelle due determinazioni realmente separate siano “unite” da un “nesso interno”. In questo senso, toto caelo diverso dalla dialettica hegeliana e dal diamat, è allora lecito parlare di “contraddizione reale”. Se il lavoratore, contro il “giusto” diritto del capitale di consumare a suo piacimento il valore d’uso che ha acquistato, fa valere la circostanza che il lavoro è il suo lavoro – che l’avvenuta vendita di “lavoro” (ma in realtà, più precisamente, di forza-lavoro) sul mercato del lavoro non significa, per così dire automaticamente, prestazione di lavoro nella quantità e qualità adeguata – la contraddizione “esplode”. Abbiamo qui l’affiorare nell’analisi di un lato della lotta di classe: la lotta di classe dal lato del lavoro [34]. 4.11. La separazione reale cui fa riferimento Marx, non può mai compiersi fino in fondo: rimane sempre allo stato tendenziale. È su questa dinamica “contraddittoria” – della spinta all’estrazione del massimo possibile di lavoro vivo dalla forza-lavoro da parte del capitale, per un verso; e della resistenza antagonistica da parte del lavoro come classe, per l’altro verso – che Marx eleva la compatta architettura dei tre libri del Capitale. Non lo seguiremo, ovviamente, in tutti i passaggi. Pure, qualcosa va detto per mostrare come questo tema principale torni incessantemente. Lo faremo nelle prossime due sezioni. 5. La sussunzione reale del lavoro al capitale: di nuovo sul lavoro astratto 5.1. Prima di procedere oltre conviene mettere in evidenza due conseguenze del discorso fatto sinora. La prima è questa. Quando sono da determinare i prezzi, il pluslavoro, quindi il sovrappiù capitalistico, non può essere considerato che come un dato esogeno. La produzione si è conclusa. Sono note, da un lato, le quantità impiegate di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza, e, dall’altro lato, le quantità prodotte delle diverse merci. Quando si studia il processo di produzione, il pluslavoro è invece da considerare una variabile endogena: va determinato all’interno dell’analisi, non può essere un suo presupposto. L’oggetto peculiare di Marx altro non è che la valorizzazione come processo dinamico, il “valore come processo”, qualcosa che è impossibile catturare in schemi che partono considerando data la configurazione produttiva [35]. La tesi a cui si riduce in fondo l’intero Capitale è che sia proprio il conflitto di classe nella produzione, e tutto ciò che mediatamente ne determina il movimento, a consentire di spiegare perché quella configurazione produttiva – stato della tecnica e ammontare effettivamente erogato di lavoro – sia quella che è, e non un’altra. A consentire di spiegare la misura, e prima ancora la natura socialmente determinata, della generatività di sovrappiù nel capitalismo. 5.2. Il secondo punto da mettere in evidenza – può apparire banale, ma non lo è – è che per avere il pluslavoro il capitale deve innanzitutto ottenere il lavoro. Deve acquisire il controllo del processo lavorativo, per farne un processo di valorizzazione. La storia della lotta, mai conclusa, per l’ottenimento di questo controllo è al fondo dell’analisi dell’estrazione del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo propria di Marx [36]. Richiamarne i tratti generali comporterebbe ripercorrere i modi dell’estrazione forzata di lavoro: innanzitutto, l’estensione e l’intensificazione del tempo di lavoro, che ha fatto da sfondo alla nostra analisi dei profitti originari; quindi, la divisione e suddivisione del lavoro, che ha dapprima condotto a una crescente automaticità del lavoro umano e successivamente alla sua sostituzione con macchine; infine, la progettazione e l’uso di un sistema di macchine di forma compiutamente capitalistica, che ha dovuto rimodellare l’organizzazione del lavoro a propria immagine e somiglianza. 5.3. A questo punto dello sviluppo del capitale – quando dalla sussunzione formale del lavoro al capitale si passa alla sussunzione reale, e quindi al costituirsi di un modo di produrre specificamente capitalistico – l’inversione del rapporto tra il lavoratore e il lavoro, per cui il primo diviene una mera appendice del secondo, acquisisce una concreta esteriorità materiale, si incarna nella tecnologia produttiva e organizzativa. Non vi sono più abilità e tempi naturali del lavoro, ma l’una e gli altri vengono a essere dettati da una conoscenza e da una decisione che sono separate dai produttori, e li dominano. La spoliazione del lavoro da ogni determinazione qualitativa e la sua riduzione a mera quantità – quella “astrazione” da cui era dipesa, all’inizio del ragionamento, l’identità valore-lavoro di una società di scambio generale di merci– si conferma ora come il portato peculiare del capitalismo: non soltanto perché il lavoro astratto-alienato, morto nella merce, è l’oggettivazione del lavoro vivo del salariato; ma anche perché gli stessi caratteri concreti dell’attività sono sempre più dettati dal capitale, dalla sua configurazione tecnica e organizzativa. 5.4. Vediamo meglio. Si è detto più sopra (par. 3.8) che il lavoro privato che deve rovesciarsi nel proprio opposto, nel lavoro astratto, per divenire sociale, non è quello del produttore individuale proprietario dei mezzi di produzione, ma quello del “lavoratore collettivo” coordinato da una impresa. Ciò significa che all’interno del lavoratore complessivo la forza-lavoro del singolo non eroga più a stretto rigore di termini, lavoro concreto se non come parte di una totalità scientifico- produttiva che gli viene imposta dall’esterno. Possiamo, insomma, guardare alla prestazione lavorativa da due punti di vista. Il lavoro del singolo lavoratore nell’impresa, considerato in quanto lavoratore isolato, è lavoro puro e semplice, privo di qualsiasi concretezza, dunque lavoro astratto, erogato secondo ritmi e modalità imposte dal capitale, e destinato allo scambio sul mercato: soggetto a un processo di eguagliamento tecnologico e sociale, viene sommato sino a definire il contributo al lavoro astratto complessivo dovuto a quell’impresa; non produce però alcunché in termini di valore d’uso. D’altra parte, il lavoro del singolo lavoratore, considerato come parte della configurazione tecnico-merceologica dell’impresa, è lavoro con particolari qualità. L’insieme dei lavori singoli connessi in questo lavoratore collettivo che dà vita al capitale individuale, contrapposto agli altri capitali nella concorrenza, è lavoro concreto produttivo di valori d’uso. Tanto il lavoro come quantità quanto il lavoro come qualità vengono perciò determinati dal capitale. 5.5. È il capitale (la cui origine e sostanza è lo stesso lavoro astratto) il vero soggetto che dà la sua impronta al lavoro concreto speso nelle singole imprese, e che per questa via comanda il tempo di lavoro dei soggetti – tempo di lavoro che, in quanto è senza qualità, è omogeneo e può essere sommato; e che varrà nella misura del tempo di lavoro socialmente necessario. Tutto ciò non va confuso con una tendenza alla inesorabile dequalificazione del lavoro (alla Braverman); né con l’idea che qualche volta è stata avanzata che il lavoro nella stessa produzione perda ogni dimensione concreta (come ci pare abbia sostenuto nel passato Gianfranco la Grassa) [37]. Il lavoro del singolo individuo, abbiamo visto, è privo di ogni determinazione concreta: non ha perciò senso attribuirgli i caratteri della qualificazione o della dequalificazione. Il lavoro dell’“operaio collettivo” combina a un tempo determinazioni astratte (in quanto somma del tempo di lavoro degli individui, computato in quanto tempo socialmente necessario) e determinazioni concrete. Ma, per quel che riguarda queste seconde, si deve dire che le qualificazioni del lavoro – e dunque le stesse possibili ondate tanto di dequalificazione quanto di riqualificazione, lo scomparire o l’emergere di quelle particolari abilità senza le quali la produzione non potrebbe neppure essere avviata – saranno ogni ora comportamenti imitativi e adattivi, che conducono a nuove condizioni uniformi di produzione e a un nuovo equilibrio. 6.4. Le singole imprese, quale che sia la merce che producono, sono costrette a questa caccia all’(extra)profitto, pena l’espulsione dal mercato. La spinta all’innovazione, imposta ai diversi capitali da quella forza coercitiva esterna che è la lotta di concorrenza, investe anche le imprese che, direttamente o indirettamente, producono beni-salario e si traduce, quindi, in una riduzione del lavoro ivi contenuto. 6.5. Nell’esposizione dei par. 6.2-6.4, l’estrazione di plusvalore relativo sembra dovuta non tanto all’antagonismo tra capitale e forza-lavoro sulla prestazione lavorativa, come si era affermato nel par. 6.1, quanto soprattutto alla concorrenza (dinamica) tra imprese. Sarebbe però un errore vedere una tensione tra le due spiegazioni del processo innovativo. In un caso e nell’altro l’innovazione viene spiegata ricorrendo alla teoria del valore-lavoro, nei due aspetti che abbiamo visto essere tipici della versione che ne dà Marx. L’innovazione generata dal conflitto interno alla produzione rimanda al lavoro astratto in quanto lavoro vivo del salariato. L’innovazione generata dalla concorrenza (dinamica) rimanda al lavoro astratto in quanto lavoro immediatamente “privato”, meglio, agli “operai collettivi” organizzati dal capitale che si connettono esternamente sul mercato (si veda il par. 3.8). Ma si può dire di più. La lotta di concorrenza impone alla singola impresa “dal di fuori”, come una legge “oggettiva”, quello che è proprio della logica interna del capitale: il controllo e l’estorsione forzata di lavoro vivo dal salariato, allo scopo di ottenere un pluslavoro. 6.6. Poche parole sul rapporto tra valore-lavoro e teoria della crisi. Partiamo dalla caduta tendenziale del saggio di profitto. La necessità di comandare il lavoro vivo e la lotta di concorrenza tra imprese danno luogo a un aumento del capitale fisso rispetto al lavoro vivo, e a un aumento della forza produttiva. È certo vero che l’aumento della composizione organica del capitale può essere, in teoria, più che compensato dall’aumento del saggio di plusvalore. Ed è ancora vero che la stessa composizione del capitale in valore potrebbe cadere in conseguenza del progresso tecnico. Quel che però sta a cuore a Marx sono due circostanze: (i) che l’introduzione di capitale fisso attiva una tendenza all’espulsione di lavoro vivo dalla produzione (che va evidentemente analizzata insieme alle controtendenze); (ii) che la controtendenza principale alla caduta del saggio di profitto sta proprio nell’intensificare la pressione sulla forza-lavoro, per tendere al massimo l’estorsione di lavoro oltre il lavoro necessario. Fa nuovamente capolino, in risposta all’agire capitalistico, l’eventuale reazione conflittuale dei lavoratori. 6.7. D’altra parte, quanto più ha successo la controtendenza, quanto più cioè si innalza il saggio di plusvalore, tanto più cade la quota dei salari, e vengono a modificarsi le condizioni dell’equilibrio tra domanda e offerta nei diversi settori. Il continuo mutamento dei rapporti di scambio di equilibrio rende sempre più incerto l’andamento futuro dei mercati. È perciò sempre più improbabile che una crisi da realizzo venga impedita grazie a un aumento “spontaneo” degli investimenti – se questi ultimi dipendono, come vi è ragione di credere, da una domanda futura di consumi, se non stabile, almeno relativamente prevedibile. In questa ricostruzione, la crisi di sovrapproduzione, frutto dell’operare congiunto della tendenza alle sproporzioni e della tendenza al sottoconsumo, è accelerata dalla risposta del capitale alla caduta tendenziale del saggio del profitto. Le due forme della crisi che si ritrovano in Marx possono perciò essere collegate tra loro, e rinforzarsi vicendevolmente. 6.8. Lungo le linee che precedono, è forse possibile interpretare la grande depressione della fine del secolo scorso come una crisi dove prevaleva la caduta tendenziale del saggio del profitto, e la grande crisi degli anni trenta come una crisi da sovrapproduzione: a cavallo tra le due, il taylorismo e il fordismo. La via d’uscita concretamente sperimentata alla crisi da domanda fu, come è noto, l’ampliamento del consumo improduttivo e lo Stato interventista: il keynesismo. Si è così incrementato a dismisura quello che Marx chiama nei Grundrisse il tempo di lavoro “superfluo” – il lavoro vivo da prestare in eccesso rispetto a quello necessario per riprodurre la forza-lavoro e per ricostituire e ampliare il capitale [43]. In questa congiuntura storica, il saggio di sfruttamento – e dietro di esso, ancora una volta, la costrizione al lavoro – lungi dal perdere centralità, è confermato e enfatizzato. Nel keynesismo occorre infatti conciliare la pretesa del capitale di godere di un adeguato saggio del profitto con i prelievi crescenti delle classi improduttive e dello Stato. È necessario, quindi, un crescente assoggettamento del lavoro vivo nella produzione, compensato in parte da una crescita contrattata del salario reale, cioè da un miglioramento della posizione della classe operaia sul terreno del consumo (ma non necessariamente sul terreno distributivo, se il salario relativo continua a cadere). 6.9. D’altra parte, come anticipò Kalecki già nel 1943 e come ha poi confermato il ciclo conflittuale della fine degli anni sessanta, un capitalismo che voglia mantenere la piena occupazione finirà prima o poi con l’entrare in contraddizione con l’esigenza fondamentale di mantenere la disciplina nei luoghi di produzione: “l’istinto di classe li avverte che la piena occupazione duratura non è salutare dal loro punto di vista e che la disoccupazione è parte integrante del sistema capitalistico” [44]. 7. La trasformazione dei valori di scambio in prezzi di produzione 7.1. È possibile, partendo da questo Marx, rispondere a molte delle critiche che gli sono state rivolte. Ci limiteremo all’accusa di ridondanza del valore nella determinazione dei prezzi di produzione – più della teoria della crisi, trattata nel paragrafo precedente, è ancor oggi questo, dopo un secolo di diatribe, il vero capo delle tempeste della discussione sul terzo libro del Capitale. Una prima replica può essere esposta nel modo che segue (ed è in parte già stata anticipata nel par. 5.1). Il sistema dei prezzi è fissato una volta noti la configurazione produttiva, il salario in termini materiali, e la regola distributiva del sovrappiù. Si deve ammettere che la rappresentazione della configurazione produttiva in lavoro contenuto è del tutto inessenziale a questo scopo, potendo il lavoro essere sostituito da qualsiasi altra unità fisica nella raffigurazione delle condizioni di produzione. Cade perciò la pretesa, che si trova certamente in Marx, di una sequenza necessaria dai valori (di scambio) ai prezzi (di produzione, o di altro genere). L’esito sraffiano del problema della trasformazione lo ha dimostrato ad abundantiam. E però quella configurazione produttiva che abbiamo “presupposto” data è l’esito di un processo, caratterizzato dall’antagonismo sociale tra lavoro e capitale e dalla concorrenza dinamica. È cioè “posta” proprio dall’evoluzione delle forze che Marx indaga nella sua teoria del “valore come processo”. In questo senso, va rivendicato un primato del momento del valore sul momento del prezzo. È il movimento del valore a spiegare il determinarsi di quella configurazione produttiva la quale, a sua volta, consente di determinare i prezzi. 7.2. Si può comunque dubitare della convinzione generalizzata secondo cui l’oggetto proprio della trasformazione consista nella fissazione dei prezzi di produzione a partire dai soli valori di scambio, e non piuttosto nell’indagine di come differenti regole distributive del sovrappiù redistribuiscano tra le classi il lavoro vivo estorto nella produzione. Nel primo caso, il fatto che i prezzi di produzione possano essere raggiunti anche da una configurazione produttiva misurata in unità fisiche diverse dal lavoro avrebbe conseguenze catastrofiche, visto che il “problema” della trasformazione intenderebbe appunto “dimostrare” la teoria del valore-lavoro. Nel secondo caso, viceversa, ci si limita, più modestamente, a individuare che cosa cambia con diversi prezzi regolatori, una volta che quella teoria del valore sia data per acquisita. Nel secondo modo di vedere le cose, che è il nostro, si deve evidentemente dare ragione di questa precedenza accordata al momento del valore: si tratta, molto semplicemente, del fatto che la teoria dell’origine della produzione capitalistica non può non precedere l’indagine della distribuzione della nuova ricchezza astratta prodotta. Nei paragrafi che seguono, si fornisce un esempio di rilettura della trasformazione lungo queste linee, che ha anche lo scopo di mostrare come dietro i risultati consueti della trasformazione sia possibile rintracciare le categorie di Marx. Sarà così possibile chiarire alcuni contrasti solo apparenti tra teoria del valore e mondo dei prezzi di produzione. 7.3. Si è già ricordato (cfr. par. 3.8) che le imprese capitalistiche, in virtù dell’accesso al credito del capitalista monetario, oggi tipicamente la banca, ricevono anticipazioni di moneta che consentono l’acquisto della forza-lavoro e l’avvio del processo di valorizzazione. In una visione macroeconomica del circuito monetario [45] gli acquisti di capitale circolante diverso dalla forza- lavoro sono interni al settore delle imprese, mentre il capitale fisso corrisponde a una autoproduzione del medesimo settore: è perciò corretto mettere in relazione il profitto lordo del capitale industriale alla sola spesa per l’acquisto della forza-lavoro. Dal momento che il monte- salari è l’unico esborso esterno che il complesso delle imprese deve effettuare per attivare la produzione, a esso si riduce il finanziamento iniziale alla produzione. Viceversa, per quel che riguarda la singola impresa, occorre rilevare che essa pesa il profitto sulla base dell’intero capitale che ha anticipato: non solo capitale variabile, ma anche capitale costante. 7.4. Nel caso in cui il rapporto tra anticipazioni di capitale costante e anticipazioni di capitale variabile fosse lo stesso per ogni impresa, il saggio del profitto sarebbe identico in ogni impresa, uguale al saggio di sistema, e proporzionale al saggio di plusvalore. Le cose vanno diversamente nel caso di anticipazioni di capitale costante diverse da impresa a impresa. Si hanno ora saggi del profitto difformi, e dunque l’instaurarsi della tendenza a un saggio medio e la formazione di nuovi prezzi, divergenti dai valori di scambio: i prezzi di produzione. È bene comunque avere chiaro che, nell’indagine rivolta a individuare i nuovi prezzi relativi, le scelte dell’aggregato delle imprese non possono cambiare. Ciò che stiamo studiando è infatti come quel dato insieme di input e output che costituisce la configurazione produttiva produca prezzi diversi dai valori di scambio al mutare della regola distributiva del sovrappiù. Il fatto che la configurazione produttiva sia data significa anche che è data la ripartizione dei beni corrispondenti al neovalore prodotto in beni resi disponibili ai lavoratori (i beni-salario) e beni non disponibili per i lavoratori (i beni profitto: riducibili, in una situazione di accumulazione integrale del capitale, ai nuovi beni capitali) [46]. 7.5. Il paniere dei beni-salario rimane quindi lo stesso, sia che sia computato in valori di scambio, sia che sia computato in prezzi di produzione. L’occupazione, l’orario e l’intensità del lavoro, il salario reale, i metodi di produzione sono variabili esogene al problema trattato. Chiameremo prezzo della forza-lavoro il lavoro necessario a produrre i beni-salario: quando questi ultimi corrispondono alla sussistenza, come è norma di Marx ipotizzare, il prezzo della forza-lavoro è pari al suo valore. A questa ipotesi di Marx ci atterremo nel seguito [47]. Il prezzo trasformato della forza-lavoro non è altro che il paniere dei beni-salario moltiplicato per i nuovi prezzi, a cui corrisponde – come si vedrà meglio nel seguito – una quantità di lavoro diversa da quella contenuta nel valore della forza-lavoro. 7.6. Affinché le decisioni produttive possano supporsi realizzate dalle imprese secondo la raffigurazione implicita nella configurazione data occorre che rimanga immutato il potere d’acquisto del capitale monetario in termini di lavoratori (e di lavoro vivo). Se, per esempio, il prezzo trasformato della forza-lavoro è più elevato del valore della forza-lavoro, il finanziamento bancario dovrà aumentare per consentire che al crescere del salario monetario non si riduca la quantità di forza-lavoro acquistata dal settore delle imprese. Con salari reali dati, il monte-salari nominale varia in conseguenza della trasformazione. Definiamo valore della moneta come capitale il rapporto tra il lavoro vivo (cioè il neovalore espresso in termini di ore di lavoro) e il monte-salari: trasformazione, così come è impostato da Marx, non ci sembra tanto quello di individuare un processo dinamico effettivo dai valori di scambio ai prezzi di produzione, quanto piuttosto quello di mostrare in che modo sia da intendere all’interno della teoria del valore-lavoro il passaggio meramente logico tra due economie “astratte”: l’una, dove i prezzi relativi sono immediatamente dati dalle quantità di lavoro contenuto, l’altra dove i prezzi relativi devono rispettare la regola dell’eguaglianza del saggio del profitto tra le industrie. La seconda ragione attiene ai dati del problema: in una economia monetaria di produzione, quale quella analizzata da Marx, il finanziamento bancario alla produzione consente al capitale industriale, d’intesa con il capitale monetario (bancario) di determinare l’ammontare reale dei beni destinati ai lavoratori, anche se il salario è anticipato in moneta. Per questo motivo preferiamo assumere da subito come invariante il salario reale, piuttosto che il salario monetario. La terza ragione è la diretta conseguenza della seconda: dando per noto il salario monetario, e non quello reale, la “nuova interpretazione” è costretta per determinare il valore della forza-lavoro a passare attraverso il valore della moneta quale si determina al termine del circuito monetario, in conseguenza dello scambio. È naturale allora che il saggio di plusvalore sia sensibile a ciò che avviene in questa sfera, senza che abbia senso distinguere ciò che accade nella produzione da ciò che viene modificato dalla circolazione. L’assunzione del salario reale come dato elimina alla radice questa difficoltà, consentendo di procedere dalla produzione alla circolazione-distribuzione. 7.13. La trasformazione secondo la procedura che abbiamo suggerito legge in effetti la realtà come unica, all’interno di un singolo circuito monetario. Effettuata, per impiegare la nota espressione di Sraffa [51] “dopo il raccolto”, il suo scopo è quello di far riconoscere, dietro l’apparenza dissimulante del rapporto profitti (lordi)/salari, il processo di estrazione forzata e eterodiretta del lavoro, assieme alla divisione della giornata lavorativa sociale in lavoro necessario e pluslavoro. Lo sfruttamento, cioè, di tutto il lavoro, che cristallizza il rapporto sociale di produzione in un dato saggio di plusvalore. Entrambi i rapporti – il saggio di plusvalore e il rapporto profitti (lordi)/salari – dipendono da determinanti complesse che vanno oltre la dinamica della produzione in senso stretto, e che però vanno tra loro distinte. Il saggio di plusvalore dipende essenzialmente dalla dinamica del processo di valorizzazione, che Marx ha potuto indagare nel primo libro del Capitale sulla base dell’ipotesi che siano rispettate le aspettative delle imprese (il lavoro astratto trova dunque conferma nella circolazione) e dei lavoratori (il prezzo della forza-lavoro è uguale dunque al suo valore). Il rapporto profitti (lordi)/salari dipende, in aggiunta ai fattori appena nominati, dalle condizioni microeconomiche che presiedono alla determinazione dei prezzi, e innanzitutto dalle regole adottate per la distribuzione del sovrappiù capitalistico. Il punto essenziale è che il rapporto profitti (lordi)/salari trova la sua radice ultima nel momento fondante del saggio di plusvalore, a cui l’analisi deve riconoscere rilievo autonomo e priorità concettuale. 7.14. Riprendiamo la questione della “trasformazione” da un altro angolo visuale, mettendo in evidenza il rapporto di continuità tra primo e terzo libro del Capitale. La metamorfosi tra lavoro e capitale nel mercato e nel processo del lavoro ha carattere costituente: per questo, come abbiamo visto in dettaglio nella sez. 4, va indagata ipotizzando in un primo momento dell’analisi che i prezzi siano dati dai valori di scambio. In questo primo momento, si ragiona in sostanza sulla base della “finzione” che i lavoratori stiano producendo merce ma non ancora capitale: che si riproduca il sistema, ma che non vi siano profitti lordi. Quando si passa al secondo momento dell’analisi – dove si considera che il tempo di lavoro viene effettivamente prolungato oltre quella misura, e dove si studia come il capitale viene alla luce – si devono impiegare ancora i valori di scambio. Il capitale costante e il capitale variabile vanno quindi valutati a prezzi conformi ai lavori incorporati. Così Marx, nel primo libro del Capitale, è in grado di far emergere un sovrappiù capitalistico, senza però considerare la redistribuzione del sovrappiù tra i settori. L’indagine deve perciò prolungarsi affrontando la questione che immediatamente non può non porsi: come si determinano i prezzi relativi corrispondenti alla regola di distribuzione del sovrappiù capitalistico costituita dalla percezione di un eguale saggio del profitto nei diversi rami di produzione – una regola in qualche modo obbligata, data la natura astratta della ricchezza capitalistica, e che fa divergere i prezzi dai valori di scambio. La trasformazione dei valori di scambio in prezzi di produzione del terzo libro del Capitale va essa stessa suddivisa in due momenti ulteriori. Nel terzo momento dell’analisi si determinano il saggio del profitto medio e il prezzo del prodotto capitalisticoancora a partire dai valori di scambio: si applica perciò un diverso “prezzo” alla medesima merce a seconda che compaia dal lato degli input, come merce non ancora capitalistica, o dal lato degli output, come merce ormai capitalistica. Nel quarto momento dell’analisi si tiene conto che in un equilibrio di riproduzione, con il capitale ormai costituito, agli input si dovranno applicare evidentemente gli stessi prezzi che si applicano all’output: i prezzi relativi e il saggio eguale del profitto verranno ora determinati circolarmente e simultaneamente. 7.15. Di nuovo, con il terzo e il quarto momento dell’analisi abbiamo a che fare con un confronto tra una situazione immaginaria e la situazione effettiva: se si vuole, è un secondo paragone “controfattuale”, la cui struttura è in realtà dettata necessariamente dal primo confronto esaminato nella sez. 4. Il terzo momento dell’analisi, dove si fissano saggio del profitto alla Marx e prezzi capitalistici dell’output, è proprio il ponte tra i primi due momenti, che svelano il pluslavoro dietro il sovrappiù capitalistico, e il quarto momento, dove la determinazione di prezzi capitalistici si estende anche al lato degli input. In questo terzo momento, infatti, il doppio rapporto di scambio applicato alla medesima merce a seconda che appaia dal lato degli input o da quello degli output serve, per un verso, a isolare la questione dell’origine “profonda” del capitale, della sua genesi nella produzione, dalle dinamiche redistributive della circolazione (la questione a cui ha dato risposta il primo libro del Capitale) e, per l’altro verso, a non separare la questione della produzione della nuova ricchezza astratta da quella della sua distribuzione (a cui mette capo la determinazione circolare dei prezzi e del saggio del profitto in cui sfocia l’analisi del terzo libro se condotta alle sue estreme conseguenze). Il doppio rapporto di scambio è anche la ragione per cui si dà quella divergenza tra saggio di plusvalore e rapporto profitti (lordi)/salari che abbiamo sottolineato in questa sezione [52]. 7.16. Tiriamo le fila. Siamo passati da un riconduzione lineare del capitale al lavoro a una inclusione circolare del lavoro nel capitale. Si è infatti visto come, attraverso il prolungamento del lavoro oltre il lavoro necessario, si produce valore e plusvalore: il capitale non è qui un dato, che può essere presupposto, ma un risultato, che va spiegato. Il lavoro dà origine al capitale; lo deve precedere, quindi, nell’indagine logica – e in certo senso anche storica, se si tiene conto della priorità del comando capitalistico sul lavoro nel mercato del lavoro e nel processo di valorizzazione rispetto alla metamorfosi del prodotto in denaro sul mercato delle merci, priorità che caratterizza le fasi concatenate del circuito monetario. Per rispettare questa successione logica, i prezzi dovranno in un primo tempo essere uguali ai valori di scambio. Sulla base dei valori di scambio si determina poi il saggio del plusvalore, e a un tempo il saggio del profitto medio così come è ricavato da Marx nel terzo libro del Capitale. Solo una volta che i profitti “originari” sono venuti alla luce, e il capitale anticipato è stato valorizzato, il capitale ormai costituito potrà riferirsi a se stesso, così come avviene negli schemi alla Sraffa o alla von Neumann. È in questo punto terminale delle mediazioni marxiane che si ha la determinazione simultanea di prezzi di produzione e saggio di profitto uniforme (diverso, in generale, dal saggio del profitto medio alla Marx). La scoperta, dopo un secolo di dibattiti sul terzo libro, che il nostro quarto momento “cancella” il terzo ha questo significato, perfettamente comprensibile all’interno della teoria marxiana del feticismo: che il processo di determinazione dei prezzi di produzione è, da parte del capitale, il luogo della dissimulazione della propria origine nel lavoro. 8. Rapporti di scambio e ciclo del capitale 8.1. È di un certo interesse, e in qualche misura complementare, un’altra via di risposta alle critiche alla teoria del valore-lavoro marxiana come teoria dei rapporti di scambio. È una via che non si trova in Marx, ma che potrebbe essere costruita a partire da Marx, e che ricolloca la problematica della trasformazione sul terreno della dinamica capitalistica effettiva [53]. Non troppo lontana dai fatti stilizzati dei grandi cicli sociali ed economici vissuti dal capitalismo del Novecento, è dotata perciò, al di là delle apparenze, di un sufficiente grado di realismo. Si tratta di estendere la visione marxiana della concorrenza dinamica dal singolo settore all’intera economia. Si immagini di partire nuovamente – come nell’analisi dei profitti originari – da un equilibrio generale di riproduzione a profittabilità nulla. I prezzi corrispondono ai valori di scambio. Interviene, grazie a un finanziamento del capitalista monetario (la banca), il capitalista imprenditore (l’innovatore) introducendo nuovi metodi di produzione. Come prezzo di riferimento egli non può che avere il valore di scambio, che si identifica con il prezzo vigente nell’equilibrio iniziale. L’innovatore è seguito da altri innovatori, e dagli imitatori. Lo sconvolgimento della struttura produttiva dà luogo a un emergere di profitti differenziali. L’originarsi di questi profitti attiva una tendenza all’eguagliamento del saggio del profitto tra industrie, a configurazione produttiva data. Questa tendenza è però per il momento dominata dall’altra, che spinge alla differenziazione del saggio del profitto tra imprese all’interno del ramo di produzione, e che produce la rivoluzione della configurazione produttiva. Se si vuole isolare, operando una legittima astrazione logica, la tendenza dominante, è quindi necessario mantenere ai valori di scambio il ruolo di prezzi in vigore. 8.2. Quando lo squilibrio indotto dalle innovazioni e dagli imitatori nel sistema diviene generale, e supera quella soglia oltre la quale non è più praticabile il calcolo dell’innovatore, deve cessare l’agire innovativo. Prevale la concorrenza statica, cioè la tendenza all’eguale saggio del profitto tra industrie, in una situazione in cui le condizioni di produzione rimangono immutate. I prezzi relativi non possono più, a questo punto, essere identificati coi valori di scambio. Inizialmente, quando si interrompe l’introduzione di nuove combinazioni a causa dell’emergere di una incertezza radicale, il valore di mercato di riferimento non esiste più. Inoltre, quando ci si muove verso le nuove tecniche normali nei differenti rami della produzione, l’unica tendenza rimasta in campo è costituita dalla concorrenza statica, in presenza di composizioni di capitale divergenti nei vari settori. Sono dunque i prezzi di produzione che dominano ora la scena, assumendo il ruolo di centri di gravità – centri di gravità non fissi ma “mobili” all’adattarsi della configurazione produttiva ai nuovi metodi produttivi. 8.3. D’altronde, se si suppone, com’è ragionevole in una analisi astratta del capitale “puro”, che il sovrappiù sia interamente investito, e che la configurazione materiale della produzione assuma rapidamente la forma che consente la massima crescita in equilibrio bilanciato – ovvero, che il valore d’uso si faccia compiutamente supporto del valore di scambio e del suo illimitato accrescimento – i prezzi tornano a essere proporzionali ai valori di scambio. Le deviazioni dei prezzi dai valori di scambio in un capitalismo “impuro” sono qui da interpretare come dovute alle perdite dal circuito economico dovute alle diverse forme di consumo improduttivo. 8.4. Uno sviluppo meramente quantitativo quale quello richiamato ai par. 8.2 e 8.3, e che costituisce lo sbocco dello sviluppo qualitativo tratteggiato nel par. 8.1, può procedere indisturbato sino a che non si incontra una barriera nella disponibilità di risorse naturali o di lavoro disoccupato. Si potrebbe, per esempio, immaginare che non appena il capitale si colloca sulla traiettoria della massima crescita bilanciata, cioè su quella piattaforma che gli consentirebbe di autoperpetuarsi in equilibrio, venga a prodursi una rapida tendenza alla riduzione della disoccupazione, e si attivino quindi conflitti sul valore di scambio e sul valore d’uso della forza-lavoro tali da produrre una compressione e, al limite, un annullamento dei profitti. Si ripristina, così, un diverso equilibrio di riproduzione semplice a profittabilità nulla, con prezzi uguali ai valori di scambio. In questa Bellofiore, R. (1991), La passione della ragione. Scienza economica e teoria critica in Claudio Napoleoni, Unicopli, Milano. Bellofiore, R. (1993a), Per una teoria monetaria del valore lavoro. Problemi aperti nella teoria marxiana, tra radici ricardiane e nuove vie di ricerca, in: G. Lunghini (cur.), Valori e prezzi, Utet, Torino, pp. 63-117. Bellofiore, R. (1993b), Quale Napoleoni, “Il pensiero economico italiano”, I, 2, pp. 99-135. Bellofiore, R. (1995), Lavori in corso, “Politica ed economia”, XXVI, 5, pp. 78-87. Bellofiore, R., Realfonzo, Riccardo (1996), Finance and the Labour Theory of Value. Towards a Macroeconomic Theory of Distribution in a Monetary Perspective, “International Journal of Political Economy” (di prossima pubblicazione). Benetti, Carlo, Cartelier, Jean (1997), The Unity of Production and Circulation: Marx and the Monetary Approach, in: R. Bellofiore (ed.), Marxian Economics: A Centenary Appraisal, Macmillan, London (di prossima pubblicazione). Bianchi, Marina, D’Antonio, Mariano et al. (1974), Per la ripresa di una critica dell’economia politica, in: AA.VV. (1974), pp. 89-99. Bloch, Ernst (1954-1959), Das Prinzip Hoffnung, Berlin (trad. it., Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994). Boyer, Robert (1986), La théorie de la régulation. Une analyse critique, La Découverte, Paris. Boyer, R., Saillard, Yves (eds.) (1995), Théorie de la régulation: L’état des savoirs, La Découverte, Paris. Braverman, Harry (1978), Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Einaudi, Torino. Burawoy, Michael (1978), Towards a Marxist Theory of the Labour Process: Braverman and Beyond, “Politics & Society”, 8, 3-4, pp. 247-312. Calogero, Guido (1949), Possibilità, Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma, ad vocem. Calogero, G. (1968), I fondamenti della logica aristotelica, Laterza, Roma-Bari. Carchedi, Guglielmo, Freeman, Alan (eds.) (1996), Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, Aldershot. Cavalieri, Duccio (1995), Plusvalore e sfruttamento dopo Sraffa: lo stato del problema, “Economia politica”, XII, 1, apr., pp. 23-56. Colletti, Lucio (1968), Bernstein e il marxismo della Seconda Internazionale, ripubblicato in: Id., Ideologia e società, Laterza, Roma-Bari, 1969. Colletti, L. (1969), Il marxismo e Hegel, Laterza, Roma-Bari. Colletti, L. (1970), Introduzione, in: L. Colletti, C. Napoleoni (cur.), Il futuro del capitalismo: crollo o sviluppo, Laterza, Bari. Colletti, L. (1974), Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Laterza, Roma-Bari. Colletti, L. (1978), Valore e dialettica in Marx, “Rinascita”, 18, pp. 23-24. Colletti, L. (1980), Dialettica e non contraddizione, in: Id., Tramonto dell’ideologia, Laterza, Roma- Bari. Croce, Benedetto (1900), Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari. De Brunhoff, Suzanne (1979), Les rapports d’argent, Maspero, Paris. Desai, Meghnad (1997), On Profitability, in: R. Bellofiore (ed.), Marxian Economics: A Centenary Appraisal, Macmillan, London (di prossima pubblicazione). De Marchi, Edoardo, La Grassa, Gianfranco, Turchetto, Maria (1994), Per una teoria della società capitalistica. La critica dell’economia politica da Marx al marxismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma-Firenze. Duménil, Gérard (1980), De la valeur aux prix de production, Economica, Paris. Duménil, G. (1984), Beyond the Transformation Riddle: A Labor Theory of Value, “Science & Society”, XLVII, 44, pp. 427-450. Egidi, Massimo (1981), Schumpeter. Lo sviluppo come trasformazione morfologica, Etas Libri, Milano. Faccarello, Gilbert (1997), Value and Socially Necessary Labour: The Role of the Market, in: R. Bellofiore (ed.), Marxian Economics: A Centenary Appraisal, Macmillan, London (di prossima pubblicazione). Finelli, Roberto (1989), Some Thoughts on the Modern in the Works of Smith, Hegel and Marx, “Rethinking Marxism”,II, 2, pp. 111-131. Foley, Duncan (1982), The Value of Money, the Value of Labor Power, and the Marxian Trasformation Problem, “Review of Radical Political Economics”, XIV, 2, pp. 37-47. Foley, D. (1986), Understanding Capital. Marx’s Economic Theory, Harvard U. P., Cambridge (Mass.). Foley, D. (1989), Roemer on Marx on Exploitation, “Economics and Politics”, I, 2, pp. 187-199. Garegnani, Pierangelo (1978), La realtà dello sfruttamento, “Rinascita”, 9, 12, 13, pp. 31-32; 25-27; 25-26. Ginzburg, Andrea, Vianello, Ferdinando (1974), Il fascino discreto della teoria economica, in: AA.VV. (1974), pp. 15-26. Graziani, Augusto (1983), Riabilitiamo la teoria del valore, “L’Unità”, 27 luglio. Graziani, A. (1989), The Theory of the Monetary Circuit, “Thames Papers in Political Economy”, Spring. Graziani, A. (1995), La teoria monetaria della produzione, Banca Popolare dell’Etruria, Arezzo. Grossmann, Henryk (1971), Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica, Laterza, Roma-Bari. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich (1968), Scienza della Logica, Laterza, Roma-Bari. Ingrao, Bruna, Lippi, Marco (1974), Il mistero del lavoro socialmente necessario, in: AA.VV. (1974), pp. 125-131. Kalecki, Michal (1975), Gli aspetti politici della piena occupazione, in: Id., Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti di Michail Kalecki 1933-1970, a cura di C. Boffito, Einaudi, Torino. Lee, Chai-on (1990), On the Three Problems of Abstraction, Reduction and Trasformation, University of London. Lee, Chai-on (1993), Marx’s Labour Theory of Value Revisited, “Cambridge Journal of Economics”, 17, 4, pp. 463-478. Lipietz, Alain (1982), The So-Called “Transformation Problem” Revisited, “Journal of Economic Theory”,26, 1, pp. 59-88 Lippi, Marco (1974-1976), Lavoro produttivo, costo sociale reale e sostanza del valore nel Capitale, “Problemi del socialismo”, (III s., nn. 21-22, 1974) IV s., XVII, gen.-mar. 1976, pp. 9-78. Lippi, M. (1976), Marx: il valore come costo sociale reale, Etas Libri, Milano. Lippi, M. (1977), Il valore di Marx, “Rinascita”, 18, pp. 35-36 Lippi, M. (1978), Il principio del valore-lavoro, “Rinascita”, 17, pp. 24-25. Lunghini, Giorgio (1993), Valori e prezzi, col passare del tempo, in: Id. (cur.), Valori e prezzi, Utet, Torino, pp. 11-19. Luxemburg, Rosa (1968), L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino. Luxemburg, R. (1970), Introduzione all’economia politica, Jaca Book, Milano. Marx, Karl (1969), Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma. Marx, K. (1970), Il Capitale, Editori Riuniti, Roma. Marx, K. (1974), Storia delle teorie economiche. Libro quarto del Capitale, Newton Compton, Roma. 1994 nell’ambito del Seminario “Etica e politica” che da ormai più di un quindicennio si svolge attorno a Norberto Bobbio e che nel 1993-1994 si interrogava sui problemi de “La sinistra alle soglie del duemila”. Il mio contributo faceva parte di un breve ciclo dedicato a Marx, ed era stato preceduto da due relazioni di Bruno Bongiovanni e Cesare Pianciola, e fu oggetto di commento da parte di Costanzo Preve e Marco Revelli. La sollecitazione di Marco Guidi è stata determinante nello spingermi a tornare sulla questione nell’ambito del presente convegno, all’interno di una relazione più ampia presentata assieme a Riccardo Realfonzo che ha discusso con me tutte le tesi qui contenute, e con cui ha avuto inizio da allora una collaborazione fruttuosa. Mi sono stati utili il confronto a Teramo con le tesi (e talvolta le obiezioni) di Duccio Cavalieri, Riccardo Faucci, Stefano Perri, Eugenio Zagari. Questo testo ha poi costituito la prima base da cui ha preso vita un intervento congiunto con Roberto Finelli al convegno internazionale da me organizzato a Bergamo, sempre sul terzo libro del Capitale, nel dicembre 1994: a Roberto devo in particolare un dialogo illuminante sulle questioni di metodo in Marx, la cui impronta è qui chiaramente visibile nel secondo paragrafo. Ho tenuto conto nella revisione anche dei commenti, scritti e orali, rivolti al testo in inglese con Finelli, o a proposizioni ivi contenute: in particolare di quelli di Chris Arthur, Mino Carchedi, Werner de Haan, Gilbert Faccarello, Duncan Foley, Alan Freeman, Andrew Kliman, Heinz Kurz, Chai-on Lee, Simon Mohun, Fred Moseley, Geert Reuten, Ajit Sinha. Con Nicolò Bellanca ho da tempo un confronto basato su una accanita concordia discors: condividiamo, credo, gran parte dei problemi, ma litighiamo ferocemente su quasi tutte le reciproche vie di soluzione. A tutti debbo un ringraziamento per avermi aiutato a chiarire meglio il mio pensiero. L a ricerca qui presentata è stata possibile grazie a fondi MURST 40% e 60%. [2] Cfr. Sylos Labini 1994, che comprende anche il dibattito suscitato dalle tesi dell’economista italiano. [3] Cfr. Lippi 1978 e Napoleoni 1978, ora raccolto in Napoleoni 1992. Per una critica a entrambi, sia consentito il rimando a Bellofiore 1979. L’intera discussione svoltasi a Modena si era poi trasferita sulle pagine di “Rinascita”, coinvolgendo altri autori. L’ultima grande diatriba sul valore non fu, significativamente, raccolta in volume, come era invece avvenuto per una analoga querelle svoltasi soltanto pochi anni prima a partire da un contributo di Ginzburg-Vianello 1973. È questo un indicatore significativo del carattere terminale del convegno di Modena (come lo è anche la circostanza che la polemica rimase sul terreno strettamente teorico ed ebbe relazioni molto più mediate con la congiuntura politica ed economica di quegli anni rispetto agli interventi nel dibattito precedente). Occorre quindi ancor oggi rivolgersi alle pagine del settimanale per consultare gli interventi più significativi: oltre a quelli appena citati, debbono essere ricordati Garegnani 1978, Vianello 1978, Colletti 1978, Altvater-Hoffmann-Semmler 1978. [4] La tesi, anticipata in un articolo su “Problemi del socialismo” (cfr. Lippi 1974), era poi stata sviluppata in un libro importante, Lippi 1977, di cui si legge ancor oggi utilmente la critica da parte di Napoleoni 1977. Il contrasto tra Lippi e Napoleoni risale a qualche anno addietro, e ha una sua prima espressione pubblica in un duro commento che Lippi e Bruna Ingrao rivolsero al progetto del Napoleoni, post-Rivista Trimestrale e ante-Valore, di riprendere il progetto marxiano di un’economia politica critica fondata sulla teoria del valore lavoro come teoria dell’equilibrio e del non-equilibrio: cfr. Bianchi-D’Antonio-Napoleoni 1974 e Ingrao-Lippi 1974. Interpretazioni di Marx che non lo riducono alla sola dimensione dell’equilibrio, pur non poco differenti tra loro, hanno avuto da allora largo corso fuori d’Italia dagli anni settanta in avanti, ma sono poco discusse da noi: per una prima rassegna e indicazioni bibliografiche, si veda Bellofiore 1993a; alcuni tra gli sviluppi più recenti sono raccolti in Carchedi-Freeman 1996. [5] Di Lunghini da ultimo si veda l’introduzione al volume da lui curato su Valori e prezzi (Lunghini 1993); l’altro riferimento nel testo è a Graziani 1983. [6] Marx 1970, pp. 20-28 (in questa, come nelle note seguenti, si cita indicando la data della traduzione impiegata). [7] Cfr. Marx 1969, pp. 3-8. [8] Il metodo hegeliano del presupposto-posto non è mai affermato a chiare lettere da Marx, se non nel passo dei Grundrisse citato più avanti nel par. 2.9. Concordiamo con Faccarello 1997 che i Grundrisse sono il testo dove più evidente è il carattere dialettico dell’esposizione della teoria di Marx. Differentemente da Faccarello, riteniamo però che il primo capitolo del primo libro del Capitale non possa essere compreso se non alla luce di quel metodo. Ciò è, in particolare, confermato dal confronto tra la stesura pressoché definitiva di quel capitolo, corrispondente alla seconda edizione tedesca del 1873 curata da Marx – a cui Engels nella terza edizione del 1883 e nella quarta edizione del 1890 apportò soltanto correzioni minori basate sulla traduzione francese di Roy pubblicata nel 1875, su cui Marx era pesantemente intervenuto, e sugli appunti lasciati dallo stesso Marx – e le versioni precedenti, in particolare il primo capitolo e l’appendice sulla forma valore presenti nella prima edizione del 1867 (cfr. la traduzione, e l’introduzione, di Cristina Pennavaja, a Marx 1976b). [9] Questi due punti sono coerenti con la tesi di Alfred Schmidt secondo cui sarebbe presente in Marx una ontologia “debole”. Cfr. Schmidt 1971. [10] Per una buona critica delle posizioni tradizionali presenti nel dibattito epistemologico si veda Marx and the ’Problem of Knowledge’, in Suchting 1986. [11] Hegel 1968, pp. 56-58. Si veda su tutta questa problematica Finelli 1989. Vi è stata di recente una ripresa di interesse sul rapporto tra Hegel e Marx. Tra i numerosi riferimenti, il lettore è rimandato in particolare a Uchida 1988, Shamsavari 1991, e ai lavori raccolti in Moseley 1993. Desai, nell’introduzione a Shamsavari, sottolinea l’importanza della questione per l’interpretazione del Marx economista. Su una lettura hegeliana di Marx si fonda il volume di Reuten-Williams 1989. [12] Su questa linea si muove anche Arthur 1996. [13] Chris Arthur, che pure condivide con chi scrive la tesi della centralità del riferimento di Marx a Hegel, ha formulato due quesiti al ragionamento appena esposto che meritano risposta. Il primo consiste nel chiedersi quale relazione sussista, nell’Hegel ripreso da Marx, tra, da un lato, il superamento della problematica epistemologica soggetto-oggetto che caratterizza la Fenomenologia e, dall’altro lato, la questione di metodo a cui si rivolge la Logica, relativa a come possano le pretese di verità non basarsi su fondamenta dogmatiche. Il secondo obietta alla affermazione contenuta nel testo secondo cui Marx inizierebbe nel Capitale da un presupposto “soggettivo”: il valore è, per Arthur, l’unico possibile cominciamento non dogmatico in quanto è “oggettivamente” immanente nello scambio di merci, ed è sufficientemente semplice da costituire il punto d’inizio della fondazione dialettica delle categorie. La tesi qui sostenuta è invece che tanto nella Logica di Hegel quanto nel Capitale di Marx l’inizio è soggettivo in quanto fenomenologico: si tratta dell’esperienza più semplice e a portata di mano di ogni soggetto – il pensiero in generale, per Hegel; la merce, per Marx. Il muovere da un presupposto che appare a tutti esistente e indiscutibile garantisce che non si muova da una prospettiva empiristica o scettica – “soggettiva” nel senso di arbitraria. In entrambi gli autori, il presupposto fenomenologico è dualistico: Essere e Non-Essere, in Hegel; valore d’uso e valore di scambio, in Marx. Il circolo del presupposto-posto individua il luogo di produzione unitario di quella dualità. Una totalità, sia logico-filosofica che economico- sociale può reggersi soltanto sulla dominanza di un unico principio, non sul dualismo ontologico di due principi opposti e di pari realtà. Duo universalia non dantur. Ma le somiglianze finiscono qui. Hegel vuole costruire una metafisica che comprenda il regno del pensabile, del naturale e del sociale, una teoria generale della realtà in tutte le sue dimensioni. A Marx interessa solo la critica dell’economia politica: la merce è il dato d’esperienza universale di quella società determinata e distinta dalle altre che è la società capitalistica, caratterizzata dallo scambio generale. Il valore, in quanto lavoro astratto, non è peraltro “oggettivamente” immanente allo scambio di merci, come sostiene Arthur. Varrebbe qui l’obiezione di Böhm-Bawerk: perché non l’utilità? Il lavoro astratto comincia a cessare di essere un “presupposto” soggettivo solo quando Marx mostra che la merce è il “posto” di un’attività pratica determinata, quella del lavoro salariato nella sua relazione di subordinazione, ma anche di potenziale antagonismo, al capitale. Quando, cioè, Marx risale dalla circolazione alla produzione della ricchezza capitalistica. [14] Wittgenstein 1978, p. 41 e p. 35. Una prospettiva di questo genere, lontana dall’idea di conoscenza come “vedere” o come “raccontare” e più vicina all’idea di conoscenza come “agire”, conduce a una critica radicale dell’attuale discorso sul metodo in economia: per uno sviluppo, si vedano i miei saggi presenti in Marzola-Silva 1994. [15] Questa logica ispirata da Hegel scivolerebbe facilmente, obietta Simon Mohun, in una giustificazione della visione del mondo di chi è al potere. Perché così non sia, sarebbe necessario un qualche appello a elementi extra-logici, nel qual caso i problemi epistemologici tradizionali del rapporto tra un soggetto precostituito e un’oggettualità esterna, che si vogliono invece evitare, sarebbero di nuovo al centro della scena. L’obiezione non ci sembra fondata, perché, come mostra la discussione contemporanea in filosofia della scienza, la teoria della corrispondenza non può essere accettata. La relazione tra proposizione e elementi extradiscorsivi non deve quindi essere caratterizzata come epistemologica: essa è semmai causale. Condividiamo su questo punto l’opinione di un discepolo di Althusser, non sospetto quindi di simpatie hegeliane (pur se autore di letture e traduzioni di Hegel di notevole finezza), come Wal Suchting: si veda di nuovo, a questo proposito, il lavoro già citato alla nota 10. D’altra parte, la scienza non si riduce neanche a mero discorso: la verità non è mai identificabile con la mera coerenza logica, nemmeno nel caso della logica dialettica, e nemmeno se la logica si trasforma in ideologia in grado di muovere masse di esseri umani, come nel caso del nazismo o dello stalinismo. Nel primo caso (teoria della verità come corrispondenza) si scivola in una forma di realismo ingenuo o, se si vuole, di materialismo volgare; nel secondo caso (teoria della verità come coerenza formale) ci troviamo invece di fronte a una forma di idealismo, quale è in fondo anche il materialismo dialettico. Come si vedrà meglio nel seguito di questo scritto, nell’impianto teorico marxiano la verità rimanda semmai ai modi via via specifici con cui ha luogo l’appropriazione del reale attraverso forme di attività pratica, e non meramente ideale, di trasformazione: una attività che modifica la realtà esterna e, a un tempo, lo stesso soggetto, senza che però i due termini, che si definiscono mutuamente, possano mai essere identificati. [16] Ci separiamo qui dall’interpretazione che dà Lucio Colletti del lavoro astratto. Colletti coglie bene l’importanza di questa categoria, ma la riduce alla sola dimensione dello scambio – quindi, del lavoro astratto in quanto alienato sul mercato. A noi pare, invece, che l’alienazione dell’individuo nella società moderna rimandi più fondamentalmente all’astrazione dell’attività lavorativa dentro il capitale. Che cioè, il metodo del presupposto-posto riesca a chiarire che in ultima istanza nel capitalismo il lavoro è alienato in forza dell’astrazione nei processi capitalistici di lavoro – il “presupposto” del lavoro alienato nella circolazione è “posto” dal lavoro astratto nella produzione. L’alienazione del lavoro, quale discende dall’analisi dello scambio di valori nella circolazione, e l’astrazione del lavoro, quale discende dall’analisi dell’origine del valore nella produzione, stanno cioè tra di loro come, rispettivamente, apparenza ed essenza: dove, beninteso, quell’apparenza è la forma di manifestazione necessaria di quella essenza. Il punto non è stato colto da Duccio Cavalieri, che ci ha al contrario attribuito, in un suo breve commento e sulla scorta di una assimilazione un po’ frettolosa delle nostre tesi a quelle tipiche dell’ultima riflessione di Claudio Napoleoni, l’opinione esattamente opposta (cfr. Cavalieri 1995). Quello che è certo, d’altra parte, è che la riconduzione del lavoro astratto alla produzione non può essere affermata immediatamente, come fanno molti marxisti, ma va raggiunta all’interno di una mediazione teorica quale quella che viene qui suggerita. [17] Marx 1976a, p. 246. [18] Il valore assoluto, come si chiarirà nel seguito, non è sostanza, ma relazione. Ciò è vero per quel che riguarda il valore che esce dalla produzione e che si deve attualizzare sul mercato: Marx vede la produzione non come qualcosa di separato dalla circolazione, ma come qualcosa che deve trovare in essa la sua validazione sociale, in quanto produzione per il mercato (il valore assoluto è qui, allora, quella somma “ideale” di denaro che il produttore si attende di ottenere nello scambio); al tempo stesso, però, la circolazione si limita a sanzionare una socialità che è già anticipata in potenza nei processi capitalistici di lavoro. L’assenza di una visione sostanzialistica a favore di una visione che potremmo definire “relativistica” – in analogia alla teoria della relatività einsteiniana In un suo commento scritto, Simon Mohun sospetta non esista una base testuale a sostegno dell’interpretazione secondo cui Marx confronterebbe la situazione capitalistica reale con un immaginario “flusso circolare” di riproduzione semplice a profittabilità nulla. Che le cose stiano come scriviamo nel testo è invece confermato dalla critica di Marx a Ricardo nelle Teorie sul plusvalore: per Ricardo, scrive Marx, “la giornata lavorativa totale è maggiore della parte della giornata lavorativa richiesta per la produzione del salario. Ma perché? Non lo spiega. La grandezza della giornata lavorativa totale è quindi erroneamente considerata come fissa ... se, da un lato, la produttività del lavoro in un dato tempo di lavoro (durata della giornata lavorativa) può esser differente, dall’altro, il tempo di lavoro, la durata della giornata lavorativa, con una data produttività, può essere ancor più differente. È inoltre evidente che, se è necessario presupporre un certo sviluppo della produttività del lavoro, affinché possa esistere pluslavoro, la semplice possibilità del pluslavoro (quindi l’esistenza di un minimo necessario di produttività del lavoro) ancora non crea la sua realtà. Perché pluslavoro si crei, è necessario anzitutto che l’operaio sia costretto a lavorare oltre quella misura, e costretto a farlo dal capitale” (Marx 1974, vol. II, p. 383). Il paragone controfattuale mette a confronto la situazione capitalistica effettiva con quella in cui la possibilità del plusvalore non è ancora divenuta realtà. Marx è ancora più esplicito nel secondo paragrafo del capitolo quinto del primo libro del Capitale, intitolato “Processo di valorizzazione”. Qui Marx analizza “il nostro capitalista in spe”. Immagina dapprima che, a parità di tecniche, occupazione, produttività oraria e salario reale, il capitalista faccia lavorare l’operaio giusto il tempo di lavoro necessario a ricostituire ciò che è occorso a “produrre e riprodurre” la forza lavoro: “[i]l nostro capitalista si adombra: il valore del prodotto è eguale al valore del capitale anticipato. Il valore anticipato non si è valorizzato, non ha generato nessun plusvalore, e così il denaro non si è trasformato in capitale” (Marx 1970, I, 2, p. 209). Ancora: “Il capitalista ha pagato all’operaio il valore di tre scellini. L’operaio gli ha restituito un equivalente esatto nel valore di tre scellini aggiunto al cotone: gli ha restituito valore per valore” (ivi, p. 211). Marx però prosegue: “Vediamo un po’ più da vicino. Il valore giornaliero della forza lavoro ammontava a tre scellini perché in esso è oggettivata una mezza giornata lavorativa, cioè perché i mezzi di sussistenza necessari giornalmente alla produzione della forza lavoro costano una mezza giornata lavorativa. Ma il lavoro trapassato, latente nella forza lavoro, e il lavoro vivente, che può fornire la forza lavoro, cioè i costi giornalieri di mantenimento della forza lavoro e il dispendio giornaliero di questa, sono due grandezze del tutto distinte. La prima determina il suo valore di scambio, l’altra costituisce il suo valore d’uso. Che sia necessaria una mezza giornata lavorativa per tenerlo in vita per ventiquattro ore, non impedisce affatto all’operaio di lavorare per una giornata intera. Dunque il valore della forza lavoro e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze differenti. A questa differenza di valore mirava il capitalista quando comperava la forza lavoro” (ivi, pp. 211-212). La distinzione analitica tra valore d’uso e valore di scambio della forza lavoro, perno dell’economia politica critica marxiana, chiarisce l’origine del sovrappiù capitalistico: “Il nostro capitalista ha preveduto questo caso, che lo mette in allegria. Quindi il lavoratore trova nell’officina non solo i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di sei ore, ma per quello di dodici ore ... Il colpo è riuscito, finalmente. Il denaro è trasformato in capitale“ (ivi, pp. 212-213). Il processo di valorizzazione, tira quindi le fila Marx “non è altro che un processo di creazione di valore prolungato al di là di un certo punto. Se il processo di creazione di valore dura soltanto fino al punto nel quale il valore della forza lavoro pagato dal capitale è sostituito da un nuovo equivalente, è processo semplice di creazione di valore; se il processo di creazione di valore dura al di là di quel punto, esso diventa processo di valorizzazione” (ivi, pp. 213-214). È evidente che nel primo termine della comparazione, quella che abbiamo definito come la situazione immaginaria di flusso circolare, i rapporti relativi in cui si scambiano le merci saranno pari ai valori di scambio; come è anche chiaro che una analisi del secondo termine della comparazione, che corrisponde alla situazione capitalistica effettiva, deve inizialmente assumere la permanenza proprio di quei rapporti di scambio se non vuole confondere l’indagine sull’origine del sovrappiù capitalistico con quella sugli effetti di una sua redistribuzione. Il paragone tra le due situazioni può essere effettuato al termine di ogni circuito capitalistico. Si individua così una priorità logico-storica del momento del valore rispetto al momento del prezzo. Interpretata in questo senso, e perfettamente corrispondente alla nostra ricostruzione, ci sembra da condividere l’opinione di Napoleoni: “Bisogna dare un’interpretazione non engelsiana della tesi di Marx che i valori sono il prius non solo logico ma anche storico dei prezzi di produzione; il che significa concepire questa precedenza storica come avvenuta non una volta per tutte in una certa epoca determinata, ma come realizzantesi in ogni atto della circolazione capitalistica” (Napoleoni 1991, p. 31; corsivo mio). [30] Concordiamo con la relazione di Benetti-Cartelier 1997, presentata al Convegno internazionale di Bergamo, nel ritenere che l’originalità di Marx stia nel sottolineare “l’unità di produzione e circolazione”; ma ne traiamo conclusioni meno drammatiche di quelle che gli stessi autori (come pure Aglietta e De Vroey, in ambito francofono; non pochi esponenti dell’approccio della forma valore originato in Germania dagli scritti di Hans Georg Backhaus e poi diffusosi anche in area anglosassone; e infine anche da noi, dopo una iniziale resistenza, Marcello Messori) ne hanno dedotto nel corso degli anni ottanta, e che li ha condotti ad abbandonare presto o tardi la teoria del valore lavoro. Per una critica in larga misura condivisibile a questa deriva si veda De Brunhoff 1979. A noi pare che l’unità di produzione e circolazione, che appare dapprima immediata all’inizio del Capitale, venga poi da Marx costruita nel corso di tutto il primo libro e dell’ideale prolungamento costituito dai due volumi successivi. [31] Ovviamente, questa procedura di determinazione del prezzo, dove domanda e offerta sono eguali, potrebbe essere interpretata come corrispondente a un equilibrio neoclassico di perfetta concorrenza più che a un’autentica impostazione marxiana. Ma – come ha osservato Graziani (1979, p. 14) in un contesto parallelo – è anche possibile leggerla come raffigurante una situazione dove le imprese hanno il potere di vendere i prodotti finiti a un prezzo elevato a sufficienza da garantire loro i margini di profitto desiderati. Si ipotizza qui che tali margini diano luogo al saggio di profitto medio alla Marx. [32] Sul ruolo centrale che gioca nella teoria marxiana l’indeterminazione a priori della parte non pagata della giornata lavorativa, e quindi della quota del lavoratore nel prodotto – vero e proprio carattere distintivo del capitalismo rispetto alla situazione precapitalistica, dove vigevano norme legali, consuetudinarie, o magari arbitrarie, che definivano la parte spettante al servo e al signore – la migliore lettura è ancor oggi ciò che scrive Rosa Luxemburg nel capitolo sul lavoro salariato della sua Introduzione all’economia politica (cfr. Luxemburg 1970, pp. 227-265). Si tratta di un punto essenziale per intendere correttamente la teoria della crisi da lei esposta nell’Accumulazione del capitale (Luxemburg 1968), e che viene viceversa di solito trascurato negli scritti sulla marxista polacca. Per parte nostra, vi abbiamo richiamato l’attenzione in Bellofiore 1980b e 1989. [33] Il duplice ruolo del “lavoro” in Marx, che del capitale sarebbe a un tempo quota parte e insieme totalità, è affermato da Colletti almeno dalla fine degli anni sessanta, quando la realtà capitalistica veniva da lui definita come contraddittoria. Colletti, che da buon allievo di Della Volpe aveva inizialmente demonizzato ogni rimando di Marx a Hegel, si apre ora a una problematizzazione del rapporto tra i due autori, pur nella ferma (e condivisibile) condanna della logica dialettica. La duplicità contraddittoria del “lavoro” viene però dapprima (si vedano, almeno, Colletti 1968, 1969, 1970) considerata come il tratto originale e positivo della riflessione marxiana rispetto all’economia politica classica, ciò che la qualificherebbe insieme come scienza e rivoluzione. Successivamente, essa diviene però la principale prova a carico di Marx, cattivo filosofo e quindi cattivo scienziato (cfr. in particolare, dopo l’interlocutorio Colletti 1974, il più netto Colletti 1978). A essere difettosa era piuttosto, pur nel suo indubbio fascino e i suoi non pochi meriti, la lettura di Marx dello stesso Colletti “marxista”. [34] Una lettura filosofica di Marx basata su “la lutte des classes [qui] devient elle-même un facteur de l’accumulation” – lotta di classe dal lato del lavoro, a cui fa da contraltare quella lotta di classe dal lato del capitale che si incarna nella incessante, anche se discontinua, rivoluzione nei metodi di produzione (si vedano su questo le sez. 5 e 6) – la si trova nell’interessante volume di Balibar 1993. [35] Su questo punto rimangono valide ancor oggi le critiche di Rowthorn 1974 all’approccio neoricardiano. Torneremo sulla questione nelle sez. 7 e 8. [36] Detta altrimenti, l’analisi della totalità logica del capitale, che sino a questo punto sembra dipanarsi nel Capitale come un processo senza soggetto – e in effetti, nel meccanismo capitalistico, il soggetto non è né il lavoratore né il capitalista, ma nient’altro che il capitale medesimo (per così dire, un soggetto con la maiuscola) – deve, al procedere dell’analisi, aprirsi alla storia (alle esperienze e alle lotte dei soggetti con la minuscola). Vi sono qui gradi di libertà, grazie ai quali gli esseri umani in carne e ossa intervengono a limitare e, in certa misura, a indirizzare il movimento di quella struttura sistemica che comanda le loro vite. Da questo punto di vista, è possibile dare ragione tanto ad Althusser (cfr. Althusser 1967 e Althusser-Balibar 1968) quanto a E.P. Thompson (Thompson 1978). [37] Cfr. Braverman 1978; tra le risposte critiche, particolarmente pregnante Burawoy 1978. Il dibattito sul processo di lavoro è sintetizzato in Thompson 1983. Di La Grassa si veda da ultimo quanto contenuto nel lavoro collettaneo De Marchi-La Grassa-Turchetto 1994. [38] Si vedano, a mo’ di esempio, Roemer 1982 e 1986, e per una critica Foley 1989. In un brillante contributo, David Schweickart chiarisce come la struttura dell’argomentazione marxiana sull’origine del plusvalore (da noi richiamata nella sez. 4) consenta di rigettare la tesi di Roemer, e di gran parte del marxismo analitico, secondo cui la forza lavoro non sarebbe unica, nel senso che il Teorema Fondamentale di Morishima potrebbe essere esteso a qualsiasi merce, dimostrando che il profitto è positivo solo a condizione che abbia avuto luogo lo “sfruttamento” di una qualsiasi merce base, sia essa grano, cotone, acciaio, o le famigerate noccioline. Contro l’affermazione che la forza lavoro non ha nulla di speciale, Schweickart replica a ragione: “la caratteristica che distingue la forza lavoro da tutte le altre merci che costituiscono gli input è che le condizioni tecniche non determinano la massa dei valori d’uso (giornate di lavoro) che il capitalista riceve quando acquista una unità di merce (un lavoratore per il periodo di produzione). Data una definita tecnologia, quando uno staio di grano viene acquistato come input di una particolare industria, la quantità degli altri input e la quantità dell’output è determinata. Quando viene acquistata una unità di forza lavoro (un lavoratore per il periodo di produzione), la quantità degli altri input rimane indeterminata, una circostanza che è senza dubbio ‘una fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto un’ingiustizia verso il venditore’” (Schweickart 1989, p. 295). È lo sfruttamento del lavoro, semmai, a spiegare lo “sfruttamento” del grano alla Roemer, senza che l’uno e l’altro possano essere in alcun modo messi sullo stesso piano. [39] La sequenza opposta ci sembra invece al centro di alcuni importanti lavori di Maria Turchetto. Si veda, per esempio, Turchetto 1981. [40] Questo, si badi, è vero anche del carattere forzato del lavoro, una volta che si faccia riferimento al lavoro di soggetti giuridicamente liberi. [41] La tesi che l’astrazione del lavoro formi il contenuto peculiare dello sfruttamento capitalistico la si trova anche in Napoleoni 1989. La sua argomentazione, però, diverge dalla nostra tanto in filosofia quanto in economia. Basti qui ricordare che in Napoleoni l’astrazione del lavoro si esaurisce nell’alienazione dei soggetti nello scambio sul mercato quale nesso sociale meramente indiretto, senza che mai si chiarisca che quest’ultima è la forma di manifestazione necessaria del più fondamentale carattere capitalistico del comando sul lavoro nella produzione. Di conseguenza, la riconduzione dello sfruttamento capitalistico al lavoro alienato viene proposta da Napoleoni come la via d’uscita dalle contraddizioni reputate irresolubili della teoria del valore lavoro marxiana – ancora una volta, di fatto, ridotta alle sue radici ricardiane – mentre l’identità tra astrazione nella produzione (per il carattere forzato ed eterodiretto della prestazione lavorativa) e sfruttamento del lavoro è per noi, in fondo, proprio il tratto distintivo di quella teoria. [42] È qui che la costruzione marxiana si avvicina di più al contributo di Schumpeter (cfr. Bellofiore 1982, 1983). Sul ruolo della concorrenza dinamica in Marx importante il lavoro di Grossmann 1971. Un utile punto di riferimento per una lettura di Marx dopo Schumpeter è Egidi 1971; come anche Messori 1986.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved