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L'arte di Costruire presso i Romani (Jean-Pierre Adam), riassunto completo, Appunti di Storia Dell'architettura

Riassunto completo del libro relativo all'insegnamento di Topografia di Roma e dell'Italia Antica. (il testo potrebbe avere qualche errore di battitura che potrei essermi perso)

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 25/06/2023

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Scarica L'arte di Costruire presso i Romani (Jean-Pierre Adam), riassunto completo e più Appunti in PDF di Storia Dell'architettura solo su Docsity! Cap.1 La Topografia L’architettura, i lavori pubblici, i catasti, non appena si configurano come risultati di tecniche sistematiche, hanno sempre come premessa un’operazione topografica. La topografia è indispensabile mediazione tra il progetto dell’architetto e la realizzazione pratica, e conserva la stessa importanza nel procedimento inverso, restituendo la pianta di un monumento o di uno spazio naturale sulla base di ciò che resta. Le tre operazioni che definiscono questa disciplina sono: stabilire gli orientamenti, misurare le distanze, stimare le altezze. Mentre siamo in grado di conoscere il geometra egiziano grazie ai testi amministrativi, funerari ed altre figurazioni, del suo omologo greco parla solo la letteratura, mentre per quello romano si torna ad avere fonti esaurienti. Del geometra greco conosciamo comunque l’alto livello tecnico e la precisione degli strumenti di cui disponeva, grazie ad alcuni ritrovamenti. Erone di Alessandria ha descritto il nucleo essenziale delle operazioni di topografia, come lo scavo di una galleria partendo da due estremità o il calcolo della distanza di due punti inaccessibili. Per effettuare le misurazioni effettuate nel suo trattato, Erone ricorda l’uso di strumenti di goniometria come la diottra. Per le operazioni più semplici, gli strumenti adoperati dagli agrimensori non differiscono in nulla da quelli usati ancora ad inizio del nostro secolo negli ambienti rurali: la riga graduata o cànone; la funicella, utilizzata per gli allineamenti e le misurazioni, prototipo della catena dell’agrimensore; la squadra; la funicella con due picchetti: tutti strumenti che permettono di tracciare al suolo cerchi e archi di cerchio. Conosciamo l’agrimensor romano, soprattutto grazie ai trattati tecnici, tra i quali figurano i frammenti superstiti del trattato sull’agrimensura di frontino. Questi testi, confluiti nei Gromatici Veteres, definiscono i metodi pratici propri della professione, nonché l’ambito amministrativo in cui agiva. Per nostra fortuna i reperti archeologici di età romana integrano il bagaglio teorico, ed in questa sede ci soffermeremo su due strumenti: la groma ed il corobate, le cui applicazioni complementari compongono il nucleo essenziale delle operazioni di topografia, ossia quelle che permettono l’impianto di un edificio, di una via o di un acquedotto. Per meglio intendere la scelta di questi strumenti, è opportuno ricordare il carattere dei lavori di agrimensura. L’allineamento, o picchettatura di una linea, è la prima e più elementare delle operazioni; la parola stessa suggerisce il carattere di tale operazione, permettendo l’impianto degli assi e dei limiti propri di qualsiasi costruzione. L’allineamento, che concretamente si traduce nella disposizione di funicelle sulle brevi distanze o di picchetti, può trovare ostacoli su terreni accidentati. In presenza di un pendio l’agrimensore procede attraverso una successione di mire oblique che mantengono i picchetti sempre su un piano verticale. Se oltre all’allineamento si deve procedere anche alla misurazione, allora conviene effettuare misure orizzontali a gradini, una procedura detta cultellatio, la coltellazione del moderno geometra. L’operazione goniometrica più elementare e più frequente, consiste nel traguardare secondo assi ortogonali, ed è l’operazione che permette l’impianto della stragrande maggioranza degli edifici; sul terreno possono presentarsi due situazioni particolari per la quale si richiede il ricorso a tale operazione: sia che da una linea nota e picchettata si debba tracciare una direzione perpendicolare (si alza la perpendicolare), sia che a partire da un punto isolato si debba tendere una linea retta (abbassare una perpendicolare). Lo strumento che permette di effettuare queste operazioni deve dunque comprendere un dispositivo dotato di due assi di traguardo perpendicolari, che dividono lo spazio in quattro quadranti: tale strumento era la groma. Gli scavi di Pompei ci aiutano nel ricostruire questo strumento, poiché una delle due rappresentazioni su stele funerarie arrivate fino a noi, assieme all’unica groma rinvenuta, provengono da lì. Essendo il principio base quello dei traguardi ortogonali, il meccanismo di funzionamento dello strumento si traduce in una croce a quattro bracci perpendicolari e di uguali dimensioni, costituenti la squadra di direzione; da ciascuno dei bracci pende un filo a piombo, i “perpendicula”, formanti piani di traguardo. Per evitare l’ostacolo del piede la squadra è montata ad un braccio mobile, ed i suoi bracci hanno una lunghezza ad esso maggiore per poter ruotare liberamente. Il piede infine è dotato di una punta che consente di fissare lo strumento su un terreno friabile, mentre in presenza di un suolo roccioso l’operatore disponeva verosimilmente di un treppiedi o un cavalletto, in modo da tenere la groma in una posizione verticale. La messa in posizione avveniva in due tempi: il mensor piantava il piede dello strumento, quindi facendo ruotare il braccio mobile portava l’asse della squadra a piombo con la posizione da definire, infine posizionava la squadra in funzione dell’asse principale della direzione da seguire. La fotografia aerea ci ha restituito oggi le tracce della centuriazione romana, e non è difficile presupporre che per quest’operazione la groma sia stata lo strumento privilegiato. I cippi rinvenuti in Tunisia (e meno frequentemente in Italia) precisano anche in che modo l’agrimensore dividesse lo spazio; lungo le due direzioni principali (cardo e decumanus) e poi sulle rette limitanti le centurie, i mensores collocavano nei punti d’incrocio dei cippi sulla cui superficie segnavano le due direzioni perpendicolari (decussis), mentre sulla faccia verticale la posizione rispetto a cardo e decumanus maximus. Le difficoltà nel ricostruire la situazione originaria dipendono dall’eventuale spostamento dei cippi (basta anche che vengano rovesciati), e dal fatto che l’agrimensore non seguiva il sistematico orientamento polare. Da uno studio di Joel Le Gall è emerso che da quattordici tracciati topografici studiati, solo quello di Augusta Raurica è rigorosamente orientato secondo i punti cardinali. Questo, unito al fatto che le città e le centuriazioni contigue non sempre seguissero lo stesso orientamento, lascia intuire che la scelta degli agrimensori fosse prettamente pratica. Attraverso i cippi si può ricostruire il percorso seguito dall’agrimensore: alle lettere iniziali, che davano la posizione rispetto al cardine ed al decumano, venivano aggiunte le cifre relative la distanza da questi assi di riferimento in centurie. Nel migliore dei casi i cippi delimitavano 25 centurie, formando un quadrato denominato “saltus”, con il lato lungo 5 centurie. Si può immaginare che a volte gli agrimensori conoscendo il teorema di Pitagora effettuassero controlli sulla diagonale; la stabilizzazione del sistema era data dalla misura delle due diagonali, la cui equivalenza dai piedi verticali, provvisto di un alloggiamento e lateralmente con linee di riferimento perpendicolari alla riga, coincidenti con i fili a piombo quando lo strumento giace in posizione orizzontale. La cavità costituisce una livella ad acqua utile in caso di forte vento. Secondo le indicazioni di Vitruvio, lo strumento aveva dimensioni impressionanti: 20 piedi di lunghezza (6m), prova dell’esigenza di precisione da parte del geometra incaricato della costruzione di un acquedotto. Vista la poca manegevolezza ed i problemi relativi a dimensioni del genere, non è difficile pensare che venissero usati anche versioni dello strumento di dimensioni più modeste. Dato che raramente il corobate verrà usato su un terreno perfettamente orizzzontale, lo strumento viene posizionato poggiando una delle sue estremità su zeppe per poter raggiungere così l’orizzontalità. Per verificare la sua esatta posizione, si può riempire la cavità finché l’acqua non affiori; fatto ciò si può procedere con la livellazione, ponendo l’occhio a livello della riga, in asse con i due mirini che facilitano gli allineamenti. Il geometra può far uso di molti sistemi, ma il più generalizzato è la coltellazione ad altezze costanti. È sufficiente situare il picchetto di misura ad una distanza variabile, tale che chi opera il corobate lo vedrà nella sua linea di mira. La differenza di livello sarà sempre uguale all’altezza conosciuta del picchetto, meno quella del corobate. Non potendo usare questo metodo per le lievi pendenze o le brevi distanze, si procede alla lettura dell’altezza su un’asta graduata che oggi chiameremmo “stadia”. Cap.2 I materiali da costruzione 1- La Pietra L’utilizzazione della pietra come materiale da costruzione inizia dalla raccolta in superficie dei frammenti di minerali staccatisi dalla massa rocciosa per effetto di intemperie o vegetazione. Questi elementi di dimensioni variabili permettono la costruzione di muri di pietra a secco, la cui stabilità è assicurata dall’uso di blocchi di grandi dimensioni e forma regolare che fungono da paramento e racchiudono un riempimento di pietrisco. I ciottoli marini e fluviali, per dimensioni e regolarità, rappresentano un materiale di prima qualità, ma la loro rotondità impedisce un’opera a secco costringendo a ricorrere ad una malta d’argilla, due prodotti non sempre reperibili insieme in natura. Indipendentemente da questa raccolta di materiali di superficie, l’architettura di qualità deve ricorrere all’estrazione di una pietra che possa esser lavorata secondo le esigenze e le mode. Come per la raccolta in superficie, l’estrazione comincia da giacimenti superficiali. Numerose cave si limitano ad essi vista l’abbondanza di materiale. Il costruttore richiede alla pietra un certo numero di qualità meccaniche ed estetiche, le quali non solo porteranno i materiali a selezionare i materiali locali, ma anche ad importarne da luoghi molto lontani. Le qualità fisiche del materiale vengono valutate dal tagliatore sulla base di tradizione ed esperienza ed in relazione alla durezza del taglio. Questa classificazione comprende sei categorie così definite: molto tenera, tenera, semicompatta, compatta, dura e fredda. Alla prima categoria i calcari gessosi, le arenarie e i tufi vulcanici poco coerenti, all’ultima marmi e graniti. In genere gli architetti romani ricorreranno per quasi tutte le parti di un edificio alla roccia locale, importando solo materiali destinati alle parti nobili e decorate o ai paramenti. Tracciare la pietra, spesso nelle immediate vicinanze, non è difficile, al contrario tracciare le lastre di marmo richiede una complessa ricerca a causa della sistematica importazione in età imperiale. Tra le pietre di importazione più pregiate: -Marmi • Marmo di Chemtou, l’antica Simitto, con venature gialle (Tunisia) • Marmo di Chio, grigio-blu (isola di Chio) • Marmo cipollino, con venature bianco-verdi (Eubea) • Marmo del Filfila, bianco (capo di Garde, Algeria) • Marmo di Lesbo, bianco-giallo (isola di Lesbo) • Marmo pario, bianco intenso (isola di Paro) • Marmo Pentelico, bianco (monte Pentelico, Attica) • Marmo di Portasanta, con venature policrome, rosso-bluastro, viola, nero, bianco (Iasso) • Marmo proconnesio, bianco con venature bianche e nere (isola di Proconneso) • Marmo dei Pirenei, bianco (Saint-Béat) • Marmo rosso “rosso antico” (Capo Matapan, Peloponneso) • Marmo di Taso, Bianco, a grana grossa (Isola di Taso) • Marmo serpentino, verde (Tebe d’Egitto) -Altre pietre: • Alabastro, bianco (Tebe d’Egitto) • Basalto nero, basalto verde (Alto Egitto?) • Granito grigio, granito nero (Assuan) • Granito rosa (Assuan) • Porfido rosso (Egitto) • Porfido verde (Capo Matapan, Peloponneso) Anche in Italia si possono trovare rocce preziose, come ad esempio il Marmo di Carrara (Lunense bianco, Luna grigio-blu), ed il travertino romano dalle cave di Tivoli. I materiali più comuni per la preparazione di pietre da costruzione sono molto numerosi e non di importazione, in alcuni siti tuttavia sono state trovate pietre di qualità diverse. È opportuno quindi ricordare i casi di Roma e Pompei. -Roma: Sette tipi di tufi vulcanici (Aniene, Campidoglio, Cappellaccio, Fidene, Grotta Oscura, Monteverde, Peperino), ai quali va aggiunto il travertino, per un totale di otto pietre da costruzione. -Pompei: lava dura, lapilli, tufi vulcanici (Nocera, Pappamonte, giallo), calcare, per un totale di sei tipi di pietre regionali. A causa di una produzione locale così varia, i costruttori possono scegliere in base alle loro proprietà o al loro aspetto. A questo proposito Vitruvio fa alcune constatazioni: “le pietre tenere hanno il vantaggio di poter essere tagliate facilmente e trovano la loro migliore utilizzazione nei luoghi coperti, ma, qualora vengano impiegate all’esterno, per effetto del gelo e della pioggia si disintegrano facilmente”. In un altro passo raccomanda una pietra “del territorio di Tarquinia” dall’eccellente invecchiamento, essa risulta eccezionale anche per le modanature più sottili: “possiamo vedere grandi statue, piccoli bassorilievi e motivi decorativi estremamente delicati, rappresentanti rosette e foglie d’acanto, che, nonostante la loro vetustà, sembrano essere stati ultimati da poco”. Infine per pietre tenere e tufi vulcanici, consiglia di “estrarli d’estate e non d’inverno, e di esporli all’aria in un luogo scoperto per due anni prima di metterli in opera”. Un accorgimento che permette alle rocce porose di perdere umidità, mentre le intemperie favoriscono la selezione di pietre migliori. Con l’esperienza il cavapietre impara a riconoscere sul terreno gli strati non adatti a fornire pietre da costruzione; nello sfruttamento di superficie è opportuno eliminare per prima cosa lo strato esterno, tale metodo è detto coltivazione a giorno o a cielo aperto. La coltivazione a giorno può fornire uno strato inferiore utile per produrre ciottoli d’imbrecciatura, in tal caso lo si può definire terreno di riporto. Messa a nudo la massa rocciosa, il cavapietre può iniziare il lavoro di estrazione. Per scalzare i blocchi può sfruttare strati e fessure naturali, sfruttando una forma già modellata estraendola con cunei e leve. Un sistema utilizzabile solo raramente, dovendo quindi disegnare dei blocchi incidendo solchi nella roccia, in modo che essi abbiano forma e dimensioni prossime a quelle della messa in opera. Dopo aver inciso una parete verticale e una orizzontale, il cavapietre scava a destra ed a sinistra del blocco, determinando infine la facciata posteriore. Questi solchi sottili venivano realizzati con il piccone (fossoria dolabra), che lasciava sulla roccia segni curvi. Un ultimo solco veniva inciso sotto il bocco, in esso venivano conficcati con il martello (malleus) i cunei di ferro (cunei); Se i solchi erano abbastanza profondi, poteva bastare far leva su uno di essi per ottenere l’isolamento del blocco, infilate alle estremità, e ruote di legno tra cui venivano inseriti i blocchi, trainati dai buoi. I lavori al tempio di Baalbek, dai paramenti di dimensioni colossali (i blocchi del trilithon misuravano 19,50, 19,30 e 19,10 metri di lunghezza, alti 4,34m e profondi 3,65m, con un peso medio di 800 tonnellate) ci mostrano anche come blocchi megalitici venivano estratti e spostati senza il bisogno di sollevamento. A mano a mano che la pietra veniva scalzata, essa veniva posta su rulli, con argani e paranchi che assicuravano il lento avanzare di questa gigantesca massa. A parte questi casi eccezionali, il trasporto avveniva su carri trainati da buoi, come già in ambiente greco e come l’iconografia romana ha spesso riprodotto. 2- Il taglio, gli attrezzi Per dividere i blocchi si ricorreva al sistema dei cunei inseriti nelle cavità, e per fare ciò il cavapietre disegnava con il gesso delle linee sulla faccia meno grezza, e poi su queste linee venivano scavati con punteruolo e mazzetta gli alloggiamenti per i cunei. Dopo aver picchettato una linea punteggiata per definire il punto di rottura, si batte con violenza con la mazzetta su un cuneo, provocando l’apertura delle rocce. La sega veniva largamente impiegata per tagliare i grossi blocchi, offrendo le stesse prestazioni dei cunei senza rischiare tagli imperfetti, seppur i tempi di lavorazione fossero più lunghi. Se la pietra da tagliare è relativamente tenera, la lama dell’attrezzo è dentellata, per il taglio di rocce dure invece una lama liscia e un abrasivo (sabbia). In entrambi i casi la linea di rottura viene preparata con la punta per evitare che la sega devii, e durante l’operazione viene versata acqua per raffreddare il ferro. Questi strumenti erano a due manici, e le caratteristiche peculiari lasciavano segni inequivocabili sulla pietra, i quali però sono visibili solo sulla faccia posteriore dei blocchi messi in opera. Per i blocchi di notevoli dimensioni la lama era mantenuta in tensione mediante un telaio di legno. una volta squadrato il blocco, il tagliapietre gli dava la forma definitiva con l’aiuto di attrezzi diversi. Si distinguevano due categorie principali: arnesi per percussione diretta e arnesi per percussione indiretta. I primi si utilizzano da soli e son composti da un elemento di metallo munito di manico che da loro l’aspetto di un’ascia o un martello. Sono strumenti poco precisi, usati per squadrare i blocchi e sbozzare i paramenti. Nella seconda categoria si usano in coppia, con uno strumento la cui punta viene poggiata sulla superficie della pietra, e sulla cui testa si colpisce con la mazzetta o il mazzuolo. Il primo e più rozzo degli strumenti della prima categoria, è un piccone con due punte (2), che in dimensioni minori viene già usato nella fase d’estrazione. Quando attacca la pietra lascia chiare tracce, e l’operato dell’operaio crea un paramento ruvido picchiettato, detto gradinato. Il martello-piccone, più piccolo del piccone, è attestato a partire dal Medioevo e può essere di due tipi: con una testa avente un lato a sezione quadrata e l’altro a punta, o al posto della punta una penna parallela al manico (ascia-martello o tagliente)(1). Abbiamo numerosi esempi di martelli a due punte, i quali di fatto sono piccole martelline e asce a doppio taglio (dolabra). Ancora una volta, però, questi strumenti sono rappresentati accanto ad uno scalpello ed è probabile si tratti di arnesi di battere. Se la doppia ascia ha un tagliente in asse col manico e l’altro perpendicolare allo stesso, prende il nome di picozza a tagli ortogonali o scalpellina (3). Questi non è altro che uno strumento molto utile per il tagliapietre, potendo attaccare le superfici senza assumere posizioni complicate, e privilegiato per la lavorazione di pietre tenere. La forma della scalpellina, come di altri strumenti, si è mantenuta fino ad oggi per molti strumenti, i quali si sono fissati in età romana e conservati nella forma fino al XX secolo. Nell’attaccare pietre dure il tagliente liscio rischia di perdere il filo e smussarsi, perciò si usa un tagliente dentato: il martello dentato (o maglietto dentato), o il martello a grossi denti. Ad oggi non abbiamo tracce nelle rappresentazioni o negli esemplari rinvenuti, ma i segni lasciati sulla pietra sono caratteristici per uno strumento del genere; non essendo stati trovati scalpelli dentati, è evidente che dovettero esistere o gli uni o gli altri o entrambi. Al secondo grande gruppo di attrezzi appartengono quelli con cui l’attacco della superficie avviene mediante il colpo di un percussore. Questo strumento viene usato preferibilmente su scalpelli con manico di legno ed è destinato alle pietre tenere. Se il percussore ha la testa metallica prende il nome di mazzetta (4): la sua potenza è maggiore, minore la precisione, impiegato soprattutto su scalpelli senza manico e per le pietre dure. Il primo di questi attrezzi, per tagli preliminari e sbozzature grezze, è il mandrino o punteruolo o punzone (5). A seconda che la pietra sia attaccata perpendicolarmente o obliquamente si otterrà un taglio a schegge ravvicinate, simile al taglio gradinato, o un taglio a solchi paralleli, verticali, obliqui o curvilinei. È con questo strumento che i tagliatori di pietra (quadratarii o lapidarii) intraprendono il lavoro di messa in opera del blocco. Quest’ultimo viene messo in cantiere tracciando un solco periferico che disegni il piano rettangolare di una delle facce, controllandone il tracciato con riga e squadra. Sbozzato il blocco, il tagliatore rifinisce il lavoro con lo scalpello; se questo è a taglio liscio prende il nome di scalpello diritto (scalprum)(6), se il taglio è dentellato si ha la gradina (7). Essendo lo scalpello molto più preciso, le tracce lasciate sulla pietra permettono di distinguere se lo strumento usato sia un maglietto dentato, uno scalpello, una martellina o una gradina. Per finire la lista degli scalpelli bisogna aggiungere i bedani, dal taglio più spesso che lungo, i punzoni, dal taglio formante un angolo quasi retto per gli spigoli, e le sgorbie (8), dal taglio ricurvo usate per modanature curve. Per la rifinitura dei paramenti dei blocchi, delle cesellature d’inquadramento, del riquadro d’anatirosi e, a fortiori, delle sculture, si usano gradine più sottili con tagli molto ravvicinati, ricorrendo talora a levigatura delle superfici o molatura, sfregando roccia bagnata con pietra a grana dura molto compatta. Se il tornio è conosciuto soprattutto per la lavorazione del legno, va segnalato il suo utilizzo in età romana per sagomare nella pietra tenera tamburi di colonne, capitelli dorici e basi. Seppur le sue tracce siano perfettamente percepibili, non sono state fatte scoperte della sua raffigurazione o ritrovamenti dell’attrezzo. Per accelerare e semplificare la lavorazione delle modanature, lo scultore estende l’uso del trapano alla preparazione “in puntinato” della maggior parte dei motivi decorativi. 3- Misurazioni e controlli Durante le varie fasi della lavorazione, il tagliapietre si assicurava una corretta messa in forma con l’aiuto di misurazioni e controlli. La riga graduata (regula) viene usata costantemente, dato che determina la posizione degli spigoli del blocco nel senso dell’altezza (se inserito in una struttura isodoma) e della larghezza (se si tratta di un blocco con larghezza uguale allo spessore del muro – diatono). La riga romana è in realtà un piede graduato, di legno con le estremità in ferro o più spesso di bronzo. Il valore del piede romano è stato oggetto di numerosi studi, Digitus 1/16 di piede 1,848cm Palmus ¼ di piede 7,392cm Pes 1 piede 29,57cm Palmipes 1 e ¼ di piede 36,96cm Cubitus 1 e ½ di piede 44,355cm Gradus 2 e ½ di piede 73,925cm Passus 5 piedi 1,478m Actus 120 piedi 35,48m Milia passum 5000 piedi 1478,5m ma per quanto ci riguarda accettiamo i valori del piede e dei suoi multipli e sottomultipli generalizzati in età imperiale. La dimensione tipo del piede ci è fornita dai piedi bronzei, i quali costituiscono sicuramente gli esempi più precisi seppur anche le steli funerarie possono essere ugualmente utili, dato che ad oggi abbiamo reperti simili con rappresentazioni su pietra fedeli della riga. Le squadre (normae)(9) pervenuteci sono di bronzo e di dimensioni variabili. Alcune, dette squadre a L o a spalla, hanno lungo uno dei bracci un allargamento che consente di lasciarle in posizione. Altre (false squadre o calandrini) hanno bracci articolati e consentono di riportare qualsiasi tipo di angolo. Altri tipi di squadre venivano usate in tutt’altro modo, spesso per rilevare la perfetta orizzontalità d’un piano di assisa. Questo archipendolo (libella cum perpendicolo) si compone di una squadra a forma di A dall’apice del quale pendeva un filo a piombo (perpendiculum). Queste squadre avevano una tacca verticale, la linea di fede (linea) segnata al centro della traversina, la quale doveva coincidere con il filo a piombo per avere un piano orizzontale perfetto. Il compasso (circinus), usato da tagliapietre, muratori e carpentieri, permetteva di disegnare circonferenze e parti di circonferenze, ma anche di riportare con precisione le misure. 4- Il sollevamento, il trasporto Una volta preparati per la messa in opera, i blocchi dovevano esser trasportati fino al cantiere, montati e accostati. Il trasporto a terra si effettuava facendo scorrere i blocchi su rulli di legno sfruttando corde e leve, oltre che rampe che permettevano di evitare operazioni di sollevamento per i filari di fondazione e sostruzione. Quando i blocchi dovevano esser messi in posa sui filari dell’alzato, si ricorreva a macchinari la cui potenza variava a seconda del materiale utilizzato. Per le opere in muratura di piccole pietre o mattoni bastava che gli operai si caricassero in spalla i materiali, ma per materiali più pesanti venivano sfruttati macchinari per il sollevamento. Tenendo fede a Vitruvio i Romani non inventarono nulla di nuovo dato che i Greci avevano già messo a punto le “machinae tractores” adatte a qualsiasi tipo di carico. La più semplice di queste macchine è la puleggia (orbiculus) la quale però non può superare il peso dell’operaio come sollevamento. La prima demoltiplicazione dello sforzo appare con il verricello (sucula), la cui immagine ci appare familiare per via dei pozzi. La manovella, dal braccio superiore al raggio del tamburo, alleggerisce lo sforzo richiedendo un giro più ampio, arrivando a sollevare un carico tre volte superiore la forza impiegata. Va notato che il verricello antico non aveva “manovelle”, ma era manovrato per mezzo di barre sporgenti dal tamburo stesso che rendevano il movimento discontinuo. La puleggia e il verricello potevano essere associati in una macchina sollevatrice il cui uso si è perpetrato fino ai nostri giorni: la capra o biga (rechanum). Vitruvio descrive chiaramente questa macchina: “si prendono due pezzi di legno di misura adeguata alla grandezza dei pesi da sollevare. Essi vengono rizzati, legati in cima e divaricati in basso. Vengono mantenuti in questa posizione per mezzo di tiranti fissati alla sommità e disposti intorno a essi; al vertice viene appeso un bozzello (trochlea)”. L’iconografia romana integra felicemente questa e altre descrizioni di macchine complicate offerte da Vitruvio, e ci offrono visivamente la descrizione di capre a verricello e puleggia manovrate da due operai con un piccolo argano, il quale è azionato grazie all’uso di leve che vengono alternativamente introdotte nei buchi presentano con pareti rigorosamente verticali, e la loro posizione, esattamente nell’asse dle centro di gravità dei blocchi, non consente di attribuire loro altra funzione: conviene pensare a fori per l’uso di tenaglie, i cui braccisi divaricavano nella cavità nel momento in cui il carico veniva sollevato. Congegni simili sopravvivono fino ai giorni nostri con il nome di olivelle a chiusura automatica, ed hanno il vantaggio di adattarsi a qualsiasi tipo di foro anche non troppo preciso. Con l’uso delle tenaglie (ferrei forfices) i lavori preliminari sono ancora più ridotti. Venivano praticati due fori simmetrici nelle pareti verticali del blocco e, tirando le barre superiori delle tenaglie, i due bracci inferiori si stringevano assicurando la presa. Quando i fori sono praticati nelle facce accostate con altri blocchi, il sistema risulta invisibile e superiore a quello dell’olivella per rapidità, ma se vengono praticati sulla facciavista e quella posteriore, il paramento conserverà una miriade di buchi. Le tenaglie erano utilizzate però più per blocchi di dimensioni medie o modeste a causa della limitata apertura delle barre delle tenaglie. 5- L’accostamento ed il fissaggio I blocchi dell’opera quadrata dovevano poi essere accostati perfettamente al blocco vicino, e fissati sul piano orizzontale e verticale. Per questo le pietre venivano preparate al momento del taglio, venendo prefissato l’orientamento. La facciavista poteva essere finemente lisciata o conservare un bugnato più o meno accentuato, mentre le facce inferiori e superiori (piano di posa e piano d’attesa) dovevano essere rigorosamente piane. Sempre per assicurare una resistenza ottimale alle pressioni, i blocchi vengono appoggiati sullo stesso lato sul quale poggiavano in cava, rispettando l’orientamento orizzontale degli strati naturali. Esistono eccezioni naturalmente, come ad esempio materiali sufficientemente resistenti da resistere ad una situazione innaturale. Le facce laterali, non trasmettendo particolari pressioni, non richiedevano trattamenti speciali. Per questo bastava rifinire il riquadro di anatirosi, levigato con gradine fini, mentre il centro della parete veniva lavorato con martellina o punteruolo. A seconda del tipo di monumento e posizione della pietra, il riquadro di anatirosi poteva interessare tutti e quattro i lati della faccia di giunzione o solo quelli ad angolo con la facciavista. L’ordine secondo il quale venivano montati e accostati richiedeva l’uso di segni di riferimento che consentissero di montare i blocchi seguendo la forma specifica imposta ad ogni pietra ed alla struttura generale dell’edificio. L’esempio più comune è quello dei tamburi delle colonne il cui diametro si riduce progressivamente man mano che si sale, o addirittura il numero di tamburi poteva variare, quindi era importante sapere di quale tamburo e di quale colonna si trattasse. Il blocco veniva collocato nell’esatta posizione a mano se di dimensioni modeste, o più spesso con l’aiuto di leve per le quali occorreva predisporre fori nei blocchi. Questi venivano praticati nel piano d’attesa delle pietre già in posa, e spesso si trovano uno o più fori dovuti a una o più leve. L’accostamento può essere fatto anche a partire dalle impalcature di costruzione, in senso trasversale, con l’aiuto di fori identici. L’inconveniente estetico scompare quando i fori sono scavati nel piano d’attesa. Si preparano allora due cavità per la leva nello spigolo del blocco già in posa e l’altra nella faccia laterale del blocco che va accostato. Se l’accostamento di blocchi a giunti vivi ha rappresentato un sistema di costruzione generalizzato, i romani hanno ripreso dai greci l’uso di rendere solidali gli elementi di una costruzione per mezzo di grappe di legno o metallo, che evitavano aperture di giunti provocate da eventuali movimenti d’insieme. Il profilo adottato per primo è quello a doppia coda di rondine, il quale si prestava molto bene alla fabbricazione di tenoni di legno duro. Nel VI secolo a.C. i greci passarono al piombo con tenoni sempre a doppia coda di rondine, con il piombo colato in uno stampo, introdotto nelle mortase, e poi martellato fino ad aderenza. Tecniche arcaiche che a volte sono sopravvissute in età romana, visto il maggior utilizzo da parte dei romani del ferro, utilizzato pressoché ovunque in questo caso. Nel corso del I secolo si registra una scomparsa delle grappe a coda di rondine, con il maggior utilizzo non delle grappe a doppia T greche, che richiedevano più lavoro, quanto più quelle a forma di Pi greco, rapide da produrre. A differenza di quelle a doppia T, la cavità nelle quale andavano inserite quelle a pi greco non richiedevano troppa precisione, e lo spazio rimanente veniva riempito con una colata di piombo che poteva fissare solo i due denti verticali o ricoprire il tutto. Al collegamento orizzontale delle grappe poteva accompagnarsi un legame verticale, con perni metallici inseriti nel piano d’attesa ed introdotti in una cavità del piano di posa. Questo sistema nel mondo romano era utilizzato più diffusamente nella messa in opera di colonne. Per le colonne dal diametro modesto si usava un unico perno, mentre per le più grandi ne venivano utilizzati in proporzione all’ingrandirsi delle superfici a contatto. Diffidando della stabilità dei loro edifici, i romani imperniarono a volte anche le chiavi di volta, cosa che rende l’arco estremamente solido, opponendosi allo slittamento laterale delle chiavi di volta dato dalla pressione dell’acqua nei giorni di piena. L’uso di malte nelle strutture a blocchi fu relativamente ridotto: l’accuratezza nel taglio nelle facce di giunzione si prestava meglio all’uso di grappe. Il ricorso a una malta di calce si trova solo in monumenti costruiti in opera quadrata con pietra mediocre, talvolta destinata anche a ricevere un rivestimento. La presenza di questo sottile strato di malta non migliorava la solidità, ma offriva comunque il vantaggio di assicurare un’eccellente distribuzione delle pressioni, anche se i piani di posa e attesa non erano perfettamente lavorati. Per contro i cordoni di malta colati nei solchi verticali dei blocchi usati nei condotti degli acquedotti, nei bacini o nelle fontane, assicuravano la tenuta stagna di queste costruzioni. Se i monumenti possedevano un paramento in opera quadrata aderente a un nucleo in opus caementicium, quest’ultimo entrava necessariamente in contatto con i blocchi del paramento, qui la malta funge da legante tra paramento e nucleo. forno (da “solea”, sandalo), dotata di fori che fungono da condotti per il passaggio del calore. Se la superficie della suola è ampia, allora poggia su pilastri o addirittura la stessa camera di riscaldamento può essere formata da gallerie dalle quali si dipartono i condotti. La parte superiore del forno, ove vengono posti i mattoni e chiamata il “laboratorio”, viene caricata da una porta d’accesso che verrà murata durante la cottura. La parte superiore del laboratorio viene lasciata sempre aperta in modo da assicurare il tiraggio, e l’operaio a seconda di vento o eventuale pioggia, può anche decidere di porre sopra i mattoni un certo numero di tegole evitando una copertura ermetica. Il tempo di cottura varia a seconda delle dimensioni del forno, delle condizioni atmosferiche e del materiale utilizzato. Esiste anche un altro sistema per cuocere i mattoni, la cottura “a mucchio”, che non prevede la costruzione di un forno. I mattoni crudi vengono impilati e alla base della pila vengono allestite una o più camere di riscaldamento, nelle quali si installa direttamente il focolare. In tal modo si possono cuocere grandi quantità di materiale, dovendone però eliminare un notevole strato periferico di mattoni. Non sappiamo però se questo procedimento fosse già in uso nell’antichità. Come i manufatti ceramici, anche tegole e mattoni venivano bollati. Inizialmente solo brevi iscrizioni con il nome del fabbricante (fino al I secolo), in età traianea si arricchiscono arrivando a fine II secolo a fornire una serie di indicazioni (nome del proprietario del terreno da cui arrivava l’argilla, nome del monumento, ecc.). 9- Calce e malte, la preparazione della calce L’invenzione di un legante che derivasse dalla cottura di una pietra sembra essere molto antica. Già nel sesto millennio a Çatal Höyük rivestimenti di gesso decoravano le pareti, ma pare sia stato l’Egitto del terzo millennio ad avere per primo l’idea di legare le pietre con una malta di gesso. Ci è voluta l’età ellenistica perché questa tecnica arrivasse, anche solo sporadicamente, nell’architettura greca. Per quanto conosciuta dai greci, la malta era utilizzata soprattutto per stucchi, intonaci e rivestimenti delle cisterne, è l’apporto del mondo romano che porterà ad utilizzare sistematicamente la calce per preparare malte leganti la muratura di pietra, sostituendo l’argilla. La calce (dal latino calx, calcis) si ottiene per calcinazione di una pietra calcarea a circa 1000°C. Nel corso di tale operazione la pietra perde il suo gas carbonico (CO3Ca (carbonato di calcio) -> CO2+CaO(ossido di calcio)). Il prodotto che resta è la calce viva. Si ottengono quindi pietre polverulente in superficie, che se idratate formano un legante. Questo idratante o “spegnimento” si fa immergendo nell’acqua le pietre, le quali si sciolgono liberando un forte calore, trasformandosi in una pasta che è la calce spenta, la quale viene mischiata con gli aggregati (o inerti) ottenendo le malte (CaO (ossido di calcio)+H2O -> Ca(OH)2 (Idrossido di Calcio)) Va comunque notato che la presenza di altri corpi sensibili alla reazione chimica può provocare mutamenti nel fenomeno e rendere diverso il prodotto finito. L’analisi di installazioni di forni a calce in vari paesi mediterranei, dove le tecniche non sono cambiate dall’antichità, ci permette di descrivere lo svolgimento di questa operazione in età romana. Si possono distinguere tre sistemi: cottura al forno con focolare alla base, cottura al forno per impilamento, cottura in un’area scoperta. Il forno a calce funziona esattamente come un forno per la ceramica: è una costruzione a pianta circolare troncoconica, grande dai 2 ai 7 metri di diametro e altezza. Quando possibile il forno è costruito alla base di un pendio in modo da beneficiare di efficace isotermia e comodi accessi. Il terreno argilloso è ricercatissimo, perché indurendosi con il calore offre un involucro isotermico eccellente. Le pareti interne della camera sono rivestite con pietre refrattarie legate con argilla, o con pietre qualsiasi mischiate con cocci di ceramica. Nella parte centrale il fornaciaio predispone una superficie circolare che costituisce la base, intorno alla quale impila le pietre lasciando libero un volume ovoidale che forma la camera di riscaldamento. Al livello più alto delle pietre impilate, ci sono due alternative: nella prima si lascia un piano orizzontale costituito dall’ultimo strato di pietre, le quali verranno eliminate perché mal cotte. La seconda soluzione consiste nella costruzione sulla sommità di un cono con pareti a 45° chiamato “lamia” nel Napoletano, dotato di aperture laterali ricoperte di calce grassa. Questa copertura offre un duplice vantaggio: nelle regioni piovose su di essa l’acqua scorre velocemente, e l’impermeabilità aumenta la temperatura, rendendo la cottura delle pietre più omogenea. In Tunisia in alcune fornaci vengono cotti contemporaneamente calce e mattoni, seppur nessun accenno nei testi e negli indizi archeologici ci permette di dire se questo utilizzo logico del forno venisse praticato nell’antichità. A Apertura per l’immissione del combustibile B Evacuazione delle braci C Ventilazione D camera di riscaldamento E rivestimento con mattoni refrattari F sfiatatoi G Lamia H Strato di calce grassa I cumulo di pietre da cuocere J riserva di combustibile K setaccio per la brace L Fornaciaio Accesa la fiamma, il combustibile deve sprigionare un forte calore con alte fiamme (“cottura a fiamma alta”), per questo dev’essere di piccole dimensioni, molto secco, e deve sprigionare velocemente i suoi gas infiammabili. La cottura continua ininterrottamente per vari giorni a seconda di dimensioni del forno, tipo di combustibile ed eventualmente anche clima. La cottura del gesso avviene negli stessi forni ma richiede meno tempo. La temperatura necessaria per trasformare la pietra in pasta (solfato di calcio idratato CaSo4(OH)2), il quale non reagisce con l’acido cloridrico permettendo di dividere il gesso dalla calce, in solfato di calcio anidro (CaOSo3), è relativamente bassa, ed in generale bastano 48 ore. Le pietre vengono poi tritate ottenendo una polvere che mischiata con l’acqua forma un legante a presa rapida. Vitruvio per la cottura della calce dedica uno spazio ridotto, al contrario di Catone che nel De Agricultura descrive minuziosamente la preparazione del forno. Il secondo sistema di cottura al forno consiste nell’impilare, sopra una camera di riscaldamento più piccola, strati alterni di pietre calcaree e combustibile a legna ignizione, venendo quindi definita “cottura a fiamma corta”. Questo metodo permette di alzare la temperatura di cottura e ripartire meglio il calore, tuttavia il tempo perso a impilare e vagliare i materiali dopo la cottura pare abbia fatto preferire il primo metodo al secondo, almeno nelle installazioni contemporanee. Pur essendo citato nella Encyclopédie, non è attestato per l’antichità. Il terzo sistema, molto più arcaico, è la cottura in un’area scoperta. Su una superficie orizzontale viene steso un sottile ed uniforme strato di pietre di gesso, coperto da uno spesso strato di combustibile composto da sterco animale. Il fuoco viene acceso ad una delle estremità, dopodiché inizia una lenta combustione che dura diversi giorni. Questo metodo utilizzando cotture molto basse è utilizzabile solo cono il gesso. Una volta uscite dal forno, le pietre calcaree conservano lo stesso volume ma un peso minore, prendendo il nome di “calce viva”. Per essere utilizzate come legante, vanno trasformate per idratazione durante lo “spegnimento”. I calcari puri erano a presa estremamente lenta, cosa apprezzata dai costruttori antichi poiché man mano che si procedeva in altezza questo permetteva un lento e progressivo assestamento della costruzione ed un’omogenea distribuzione delle spinte. I fornaciai avevano notato come marmi e calcari bianchi rispondevano perfettamente a queste caratteristiche, dal momento che avevano constatato che se le pietre contenevano inclusi a loro sconosciuti, i fenomeni legati allo spegnimento risultavano attenuati. Oggi sappiamo che la cosa è legata all’argilla presente, ed in seguito al grado di argilla presente abbiamo: • Calci aeree: cosiddette in quanto il fenomeno di cristallizzazione avviene solo in presenza di aria. Queste si dividono in: o Calce grassa: risultante dalla calcinazione e spegnimento del calcare puro o contenente tra 0 e 1% di argilla. o Calce magra: risultante dalla calcinazione e spegnimento del calcare contenente tra 2 e 8% di argilla. • Calci idrauliche: devono il loro nome alla capacità di poter fare presa per mezzo di un liquido. Si ottengono con calcari contenenti più dell’8% di argilla. Se i calcari contengono più del 20% di argilla non sono utilizzabili per la calce. È doveroso infine parlare del cemento, termine che ricorre frequentemente nei manuali di architettura romana. “Caementum” non designa il legante, ma le pietre mischiate al legante nella costruzione dei muri (come nell’opus caementicium). struttura è rimasta inalterata a dispetto di distruzioni e restauri. Nelle case più antiche i muri laterali ed interni (le facciate erano in calcare o tufo) sono in muratura di pietra o opus africanum, con riempimento di pietrisco legato con malta molto terrosa recante noduli di calce, segno dell’utilizzo della stessa ma anche della sua qualità scadente. Nei grandi monumenti eretti alla fine dell’indipendenza della città troviamo invece murature legate con una malta di eccellente qualità. I resti archeologici trovati invece a Roma confermano invece come l’opus caementicium fosse in uso almeno dalla fine del III secolo a.C., basti pensare ad esempio al Porticus Aemilia, la cui resistenza della muratura con paramenti in opus incertum attesta questa tecnica. Interessante notare come questa tecnica edilizia, che non ricorreva più a blocchi squadrati di grandi dimensioni bensì minuti frammenti di pietra sommariamente tagliati, comincia ad affermarsi quando Roma dopo le vittorie contro Cartaginesi, Greci ed in Spagna, può beneficiare di un grosso apporto di manodopera servile. Manodopera che poteva essere rapidamente addestrata al lavoro di preparazione dei materiali da costruzione, così come della messa in opera nei cantieri. Grazie alla rigorosa divisione del lavoro, fondata sull’uso di materiali prefabbricati adattabili agli edifici di qualsiasi dimensione e destinazione, i Romani si avviano a fare dell’architettura un’arte universale, con tempi d’esecuzione straordinariamente brevi. Un esempio importante è la differenza tra il tempio di Apollo a Didima e monumenti come il Pantheon: il primo fu iniziato nel 332 a.C. da Alessandro Magno, ed i suoi lavori durarono fino all’età di Adriano (130 d.C.) lasciandolo però incompleto, il secondo invece fu iniziato proprio da Adriano nel 118 e terminato nel 125. La standardizzazione dei materiali edilizi è uno dei segreti di questa rapidità d’esecuzione, ma non vanno dimenticati la pianificazione del lavoro nei cantieri e la disponibilità di manodopera. 13- Le impalcature Uno dei molteplici vantaggi della muratura consiste nelle ridotte dimensioni delle pietre e dei mattoni, i quali semplificano il trasporto dalla cava o dalla fabbrica, oltre che le operazioni di sollevamento. Per gli edifici di modeste dimensioni non vi era bisogno di macchine sollevatrici, e per un edificio a due piani una puleggia era abbastanza per sollevare pesi dai 10 ai 30 chili. Se con la muratura con grandi blocchi squadrati gli operai potevano lavorare e circolare sul muro stesso, i muratori avevano qualche difficoltà a fare altrettanto, per questo furono costretti ad innalzare una struttura in legno provvisoria parallela alla costruzione: le machinae scansoriae, o impalcature. Si tenga presente che nelle regioni povere di legno l’accesso ai livelli di posa avveniva per mezzo di cumuli di mattoni crudi. Sia che si tratti di opera quadrata o muratura concreta, il ponteggio resta una costruzione leggera, fatta per il peso di operai e materiali e non per le macchine di sollevamento o per blocchi di grandi dimensioni. Il tipo più semplice è quello mobile su cavalletti, ma quando l’edificio supera i tre metri e diviene inaccessibile mediante questo tipo di impalcatura, si passa ad un ponteggio a più piani che può essere isolato o appoggiato all’edificio. Alla prima categoria appartengono le impalcature indipendenti: esse devono poggiare a terra e presentare una stabilità autonoma. A seconda dello spessore del muro vengono costruite su uno o entrambi i lati dello stesso. I supporti verticali consistono in lunghi pezzi di legno scortecciato che conservano il loro profilo naturale, le pertiche (pertica) o antenne o candele, fissati a terra a incastro o cementati. Ad altezze regolari corrispondono i piani di lavoro, laddove vengono quindi posti elementi orizzontali che collegano le candele, alcuni situati nel senso della lunghezza (paralleli al muro) e si tratta dei traversoni, altri su un piano trasversale che sorreggono il tavolato, i travicelli. La stabilità è data da elementi in diagonale di controventatura disposti a bandoliera o a croce di sant’Andrea e dai puntelli obliqui che poggiano a terra. Per risparmiare sul legno ma mantenendo la struttura stabile, i romani ricorrevano a ponteggi ad incastro, sostituendo il sostegno delle pertiche con un appoggio nel muro stesso. Alzando il muro gli operai facevano in modo di lasciare dei fori sormontati da un piccolo architrave, allineati sullo stesso piano rizzontale laddove si inserivano le estremità dei travicelli (fori pontai). I travicelli potevano attraversare completamente il muro e sostenere il tavolato anche dall’altra parte. La presenza di un piccolo architrave impediva che il muro poggiasse sui pezzi di legno, in modo che questi potessero essere recuperati a fine lavori. Se nei paramenti di pietre informi o di assise regolari l’incastro dei travicelli non poneva problemi pratici o estetici, nelle murature in opera reticolata la questione era più complicata, obbligando a ricorrere ad impalcature indipendenti o ad optare per fori dalla forma di rombo o di un triangolo dalla punta verso il basso con un breve arco nella parte superiore. 14- Il legno, l’abbattimento “Gli alberi devono essere abbattuti tra l’inizio dell’autunno e l’epoca che precede quella in cui soffia il vento Favonio: in primavera, infatti, gli alberi stanno per dare le gemme e i frutti che ogni anno producono, ed è per questi che essi impegnano tutta la loro energia. Inoltre l’umidità di cui sono pieni li rende porosi e deboli, proprio come le donne durante la gravidanza: nessuno garantisce sulla loro buona salute allorché vengano vendute quando sono gravide [Come schiave]” Per definire il periodo migliore in cui tagliare alberi, Vitruvio ricorre ad una metafora antropomorfica, la quale pur di basso livello ci ricorda anche quale fosse la situazione quotidiana romana. In teoria viene raccomandato l’inverno in quanto la gran parte della linfa è perduta e le fibre si sono richiuse, ma in pratica gli alberi venivano abbattuti in ogni periodo dell’anno a seconda delle necessità, ed in caso i tronchi venivano fatti seccare in un secondo momento. Sarebbe inutile stare ad elencare tutti i tipi di legno e le loro qualità, ma basti pensare che alberi come la quercia – a crescita molto lenta – sono maggiormente resistenti e duraturi, dato che le fibre nel tempo acquistano un’intima coesione impossibile per gli alberi a crescita rapida. L’età ottimale per abbattere un albero dipende dal tempo di crescita, quindi se si può abbattere un pioppo di 30 anni o un abete di 80, per la quercia bisogna aspettare 200 anni. Uno scarto che si ritrova confrontando la densità degli stessi. A seconda del rapporto dell’albero con lo spazio (contatto con aria e umidità) la durata del legno varia notevolmente: • A contatto con il suolo: o Quercia, castagno, olmo – 10 anni o Abete, pioppo – 3-4 anni • Non a contatto con il suolo, allo scoperto: o Quercia, castagno, olmo – 60-120 anni o Pino – 40-80 anni o Abete – 30-50 anni o Pioppo – meno di 30 anni • Non a contatto con il suolo e al coperto: o Quercia, castagno, olmo – 200 anni e più o Pino – 150 anni o Abete – 50 anni e più o Pioppo – 50 anni • Carpenteria in ambiente secco e ventilato: la maggior parte delle essenze raggiunge i 500 anni di durata. La quercia ed il castagno possono largamente superare questi limiti. • Legno totalmente immerso in acqua dolce: la conservazione è praticamente illimitata (basti pensare alle palafitte). Gli strumenti del taglialegna (il lignarius) sono solo di tre tipi: asce, cunei e seghe. L’ascia (ascia, dolabra) è l’attrezzo più importante, la quale nella maggior parte dei casi assolve da solo alla funzione di abbattimento dell’albero. Nel vocabolario tradizionale si usa il termine scure (dal latino securisi, da secare, tagliare). Il suo ferro ha bordi paralleli ed è relativamente stretto, più spesso dalla parte del manico. La testa assume l’aspetto di un martello. La sua funzione è quella di penetrare nel tronco dell’albero, attaccando le fibre perpendicolarmente (nel senso della maggior resistenza), perciò la lama deve essere molto resistente. Il tronco d’albero viene attaccato da due lati e il solco più profondo determina la direzione della caduta. Per evitare che nel momento della caduta le fibre laterali si lacerino, viene praticato un piccolo intaglio 17- La struttura a grandi blocchi, l’opera megalitica e poligonale Si può parlare senza problemi di architettura greca parlando del tempio di Apollo a Corinto ed il grande altare di Pergamo, seppur divisi da un mare e quattro secoli ed il non esser appartenuti allo stesso paese se non durante la parentesi alessandrina, ma non possiamo parlare di architettura romana descrivendo le città del Lazio tra V e III secolo a.C. Analizzando l’architettura preromana (o nel migliore dei casi repubblicana) il nome di Roma non riesce ad imporsi. Sorte migliore per gli etruschi o i Greci della Magna Grecia e della Sicilia, uni e gli altri permettono di salvare gli abitanti di Pompei dall’anonimato dei barbari montanari. Eppure con le rozze fortificazioni delle alture del Lazio meridionale che inizia la tipologia delle costruzioni realizzate con grandi blocchi di pietra. Come i micenei, gli italici cingevano le loro città d’altura con mura megalitiche, tanto che esse vennero appellate mura pelasgiche, di cui però non esiste alcun rapporto con le mura costruite dai micenei almeno mille anni prima. Il taglio sommario dei blocchi messi in opera nelle mura ciclopiche (o opus siliceum) è indice dell’antichità dei muri realizzati con questa tecnica e della rozzezza dei costruttori. Una tecnica continuata ad usare nelle zone dell’interno quando sulla costa e nelle zone di influenza greca ed etrusca va ad affermarsi una bella architettura a blocchi parallelepipedi di etrusca disciplina o isodomum. I paramenti si contraddistinguono per l’aspetto del taglio dei blocchi, il quale può essere molto diverso sulla facciata esterna e su quella interna, e l’aspetto può essere molto rozzo. L’opus siliceum, la forma più accurata di opera poligonale, si trova ad Alatri, mostrandoci la finezza dei blocchi accostati e paramenti picchiettati. Da notare che in angoli e stipiti delle porte i blocchi sono sostituiti da pietre più grandi, disposte orizzontalmente per bloccare lo slittamento degli altri blocchi. L’architettura difensiva non è stata l’unica a ricorrere all’opera poligonale, la quale ricorre frequentemente nei podi dei santuari e nei muri di sostegno e nelle strutture di sostegno delle strade. I resti archeologici di questo tipo di mura ci mostrano come i Romani conquistatori mutuassero dai vinti architettura e forse anche architetti, basti pensare ad esempio alle fortificazioni di Falerii Novi costruite con il sistema etrusco, ed a Paestum dove queste furono erette con il sistema greco. Il puntare alle tecniche edilizie regionali sino alla fine del III secolo a.C. dimostra la scarsa padornanza artistica e tecnica romana al momento della conquista della penisola e della Sicilia. 18- L’opera quadrata I più antichi monumenti di Roma storicamente databili si riferiscono alla dominazione etrusca (616-509 a.C.), e secondo Varrone prima dei Tarquini i colli della città dovevano avere semplici strutture difensive costituite da cumuli di terra (murus terreus). Le più antiche testimonianze dell’architettura in pietra sono le mura in cappellaccio di VI secolo a.C. e parte de delle fondazioni del tempio di Giove Capitolino (VI sec. a.C.). Due strutture in opera quadrata così come le cosiddette mura serviane (costruite probabilmente dopo il sacco dei gallidel 390 a.C.). I santuari al contempo derivano dagli etruschi il podio e dai greci gli ordini architettonici. Questi ultimi rimarranno grandi ispiratori dell’architettura romana ed architetti greci lavoreranno a Roma, con il conseguente utilizzo di materiali edilizi importati dalle isole dell’Egeo. La scelta della Grecia come esempio si forma nel corso del II secolo a.C., a partire dall’impulso ellenistico, il quale è definibile impulso più che modello grazie alla capacità dei romani di dirottare verso Roma squadre specializzate, idee e forme, creando un’arte architettonica che diventerà loro propria. La prima manifestazione estetica fu quella dell’opera quadrata, la cui struttura si adattava ottimamente solo agli edifici regolari. 19- Le fondazioni Il fatto che il tempio di Giove Capitolino avesse fondazioni alte ben 5m dimostra il desiderio di stabilità dell’architettura e la sua priorità fin dalle prime manifestazioni di architettura romana, retaggio diretto del costume greco-etrusco. La prima preoccupazione dell’architetto sarà quella di trovare il “solidum”, ossia lo strato di terreno sufficientemente compatto, in grado di reggere uniformemente il peso della costruzione senza che essa sprofondi; il solidum per eccellenza è la roccia per Greci e Romani. Prima i Greci e poi i Romani scavavano profonde fondamenta, e stupisce come a volte la quantità di pietra usata per le fondamenta era maggiore di quella usata per l’alzato. Vitruvio raccomanda fondamenta più larghe dell’alzato, questo per sopportare l’intero peso della costruzione, ed al contempo evitare l’infossamento dividendo uniformemente il peso dell’alzato. È ciò che si dice la “suola” di fondazione, ed in alcuni casi i romani hanno preparato artificialmente il terreno anche quando risultava friabile anche a grandi profondità. Quando tra i romani si diffuse la muratura concreta, le fondazioni non vennero fatte più in opera quadrata ma in opus caementicium, qualunque fosse il tipo di costruzione. Nei territori di Roma, dove il terreno è costituito da compatta sabbia vulcanica, i costruttori hanno potuto rivestire le loro massicciate di fondazione con sbatacchi posti contro le pareti di scavo, sostenuti internamente da pali verticali. Malta e pietre venivano gettate in queste casseforti, ed ancora oggi nelle pareti di fondazione possiamo vedere le impronte delle tracce. Da non trascurare le fondazioni adattate a terreni paludosi, consistenti in elementi lignei inseriti a battipalo. Vitruvio non si sofferma a descrivere il battipalo, ma è ragionevole supporre si tratti di una struttura di legno verticale provvista di guida, lungo la quale poteva scendere e risalire velocemente il battipalo, ossia una sorta di martello, in maniera tale da spingere i pali in profondità. 20- L’alzato L’aspetto dei paramenti in opera quadrata varia sensibilmente in relazione a vari fattori, primo tra tutti la disposizione delle pietre nel muro ed il trattamento delle facciaviste. Le pietre che occupano tutto lo spessore del muro e che quindi hanno due facce visibili sono chiamate diatoni. Il diatono può essere inserito con il lato lungo perpendicolare all’asse del muro (disposto per testa), se l’asse è parallelo a quello del muro ed il blocco poggia per il lato lungo e stretto si dice che è disposto per alto, se invece poggia sul lato lungo e largo si dice disposto per lungo. La muratura richiede un’alternanza di questi diatoni, e la muratura concreta semplificherà il tutto limitandoli ai paramenti con la connessione con il nucleo mediante blocchi disposti per testa che penetrano nel nucleo. La messa in opera dei blocchi per filari alternati perdurerà fino all’età imperiale, guadagnandosi il favore di molti costruttori soprattutto per la sistematicità della messa in opera, iscrivendosi perfettamente nella mentalità romana di pianificazione, efficacia e rapidità di costruzione. Sempre più diffusa la messa in opera di queste pareti isodome, i cui giunti erano spesso cesellati per poter essere enfatizzati e messi in mostra, talvolta anche per regolarizzare strutture non puramente isodome. È stato notato che spesso i blocchi si riducevano di dimensioni ad aumentare dell’altezza, questo per facilitare le operazioni di spostamento e posa. 21- Colonne e pilastri in opera quadrata Colonne e pilastri, ossia supporti verticali isolati a sezione circolare o quadrata, sono la più significativa traduzione in pietra dell’architettura in legno. La base su cui poggiano e il capitello, non sono altro che il ricordo dello zoccolo di pietra che i solava il palo di legno dal suolo e dalla copertura ad aggetto, rafforzando la testa del pezzo. Le stesse scanalature possono ricordare le venature del legno o delle lunghe linee lasciate dall’ascia. L’uso della pietra, resistente e durevole, permetteva un’altezza virtualmente illimitata grazie alla sovrapposizione dei tamburi, ma paradossalmente sono monolitiche le colonne più alte dell’architettura romana. Prevalente nel taglio delle colonne monolitiche il granito ed il marmo. Le colonne ed i pilastri addossati o inseriti nel muro costituiscono strutture diverse, poiché non avendo più quel carattere di supporto isolato divengono semplici sporgenze del muro con il quale sono solidali, appartenendo più alla classificazione di decorazioni che di sostegni. Esempi di questo tipo si trovano nei templi pseudoperipteri, le cui semicolonne o pilastri creano l’illusione di un peristilio completo attorno al muro della cella. A-Filari alterni per testa e per taglio (1-Filari alterni per testa e per taglio su due pareti a facciavista 2-filari alterni per testa e per taglio, ma ciascun filare è costituito da ortostati e diatoni giustapposti) B-Sistema a diatoni e ortostati alternati all’interno di ciascun filare (1-Muro con due pareti facciavista prive di riempimento 2-paramento di un muro con nucleo in muratura) C-Muro isodomo perfetto a giunti simmetrici D-Muro pseudoisodomo a giunti asimmetrici 26- Strutture con pietre di piccole dimensioni: le fondazioni Le norme da rispettare nel costruire le fondazioni di edifici in opera quadrata restano sempre le stesse, qualunque sia il tipo della struttura in alzato, così come resta invariato il modo di realizzare le fondazioni di edifici in muratura. Nelle regioni d’Italia settentrionale lo strato di terra arativa è spesso profondo, ed i costruttori non si sono spinti fino allo strato di roccia ma arrestati ad un livello in cui le fondazioni poggiano su un terreno sottoposto agli effetti di gelo e disgelo, cioè a circa 50-70cm a seconda del clima. Le stesse fondazioni formano una struttura a scarpa, conclusa spesso da un filare di conci piatti a spuntoni, continuando poi fino al piano di calpestio con spessore decrescente. L’uso, a partire dal II secolo a.C., di murature in piccole pietre legate con malta di calce, doterà i romani di una straordinaria tecnica edilizia. Non solo verranno sfruttati tutti i tipi di roccia ma verranno sperimentati tutti i modi possibili e immaginabili di taglio, accostamento e di paramento. 27- L’Opus Incertum Questo tipo di paramento mette in opera pietre piccole e informi, talvolta lavorate nella facciavista, non è altro che il rivestimento dell’opus caementicium. In termini generali va ricordato che il cuore delle murature, a seconda dei secoli e dei paramenti, rimarrà un riempimento qualsiasi privo di rapporto (tranne l’opus incertum) con il paramento, sia per aspetto che per natura dei materiali. L’opus incertum, unito con pietre a forma grossomodo di parallelepipedo, ricorre a Pompei già dal III secolo, così come a Roma anche nel II secolo a.C., tra monumenti e fortificazioni, quest’ultime erette tra 100 e 91 a.C. Non vanno dimenticate opere come l’acropoli di Ardea o il tempio di Giove Anxur a Terracina. Quest’opera va verso la scomparsa verso la fine dell’età repubblicana, seppur con un certo stupore la ritroviamo in un ninfeo del 40-30 a.C. o nella “casa ad atrio” di Bolsena, oltre che in un monumento funerario di Capua (la Conocchia) di I secolo d.C. In sintesi l’opus incertum è stato impiegato in qualsiasi epoca, con un declino in età sillana e la sostituzione con l’opera reticolata, in connessione ad un’evoluzione socio-economica che aveva interessato tutta la penisola, con una razionalizzazione del lavoro dei tagliapietre e muratori e con una massiccia produzione di elementi del paramento pronti per qualsiasi destinazione. L’abbandono e sostituzione con queste nuove tecniche è dovuto quindi alla totale standardizzazione delle pietre, le quali erano di forma poligonale, variabile, con il muratore che doveva effettuare un minimo di scelta o ritagliare qualche scheggia per effettuare un accostamento perfetto degli elementi. 28- L’opus quasi reticulatum e l’opus reticulatum Il passaggio da opus incertum all’opus reticulatum avviene nell’ultimo quarto del II secolo a.C: Il ricorso a questa nuova disposizione delle pietre poneva un problema per l’accostamento degli angolo, dal momento che non si trattava di assise orizzontali. Un problema che in un primo momento fu risolto con l’adozione di catene angolari di mattoni con taglio a dente di sega, o più spesso pietre o mattoni orizzontali dal taglio simile a quello delle catene angolari nelle strutture a grandi blocchi. La scelta di disporre le pietre a quarantacinque gradi può sembrare insolita, ma va letto nell’opera di standardizzazione e semplificazione portata dalla fine del III secolo dall’abbondanza di manodopera servile. Questa razionalizzazione aumenta il rischio che le pietre, disposte ora diagonalmente, finiscano per allinearsi verticalmente. Di contro era più semplice accostare questi blocchetti nelle cavità ortogonali preparate dall’assise di posa. Vitruvio considera questo tipo di muratura il più rappresentativo della sua epoca: “ci sono due generi di muratura, il reticolato ampiamente usato attualmente e quello più antico detto incerto”. Sembra che il reticolato si sia diffuso tra Italia centrale e meridionale tra I sec. a.C. e I sec. d.C. seppur non tutta la penisola aderirà a questa nuova “moda”, ed i centri a sud della Campania non hanno restituito che rari esempi, mentre nell’Italia settentrionale non c’è traccia di quest’opera. L’acquedotto del Gier, che alimenta Lione, forse ricostruito a metà I secolo, è una presenza insolita poiché salvo questo monumento non si trova altra traccia di opera reticolata in Gallia se non negli horrea di Narbona (tardorepubblicani) e sotto forma di qualche pannello su bastioni ed acquedotto di Fréjus. Anche in Italia centro e centromeridionale va a scomparire pian piano verso la metà del II secolo, soppiantato dal crescente uso del mattone, materiale ancor più standardizzato. 29- L’opus vittatum Questa tecnica, la quale può sembrare la più logica e convenzionale, consiste nella disposizione semplice di blocchetti quadrangolari alla stessa altezza su file orizzontali, un’opera isodoma o pseudoisodoma in miniatura. Nonostante la sua apparente semplicità, l’opus vittatum non è molto diffuso prima dell’età augustea. Nel corso del I secolo a.C., con l’uso del tufo vulcanico, questi blocchetti (tufelli) vengono usati soprattutto nelle catene angolari. I primi esempi di Opus Vittatum fanno parte del restauro delle mura sillane di Segni e Cori (seconda metà I sec. a.C.), ed in età augustea verrà sistematicamente utilizzato per le opere di fortificazione. Le prime opere interamente fatte con tufelli sono i piloni del sistema d’adduzione dell’acqua di Pompei, d’età augustea. Nella stessa Roma fu pressoché inutilizzato prima della metà del II secolo d.C., per poi esser interrotto in età antonina e ripreso sotto Massenzio, diventando un sistema generalizzato a causa della facilità di sfruttamento di materiali di età precedenti. In altre regioni, prima tra tutte la Gallia, l’opera si impose come tecnica tipica dell’architettura parallelamente all’opera quadrata, rimanendo tale sino alla fine dell’età romana. Anche in altre province come Spagna, Asia Minore ed Africa Settentrionale furono usate piccole pietre quadrangolari, senza però che l’architettura ne fosse caratterizzata. La Gallia non conoscerà nessun’altra tecnica fino ad inizio II secolo, ed anche dopo l’introduzione dei mattoni la presenza delle pietre quadrangolari rimarrà dominante. 30- L’opus mixtum Questa denominazione raccoglie vari tipi di murature, di cui in parte si è già parlato. In termini generali si può descrivere come opera mista quei paramenti nei quali vengono impiegati insieme pietre e mattoni. Già a partire dalle prime realizzazioni in opera reticolata i mattoni venivano usati per creare le catene angolari a dente di sega, e nella zona vesuviana la ceramica verrà usata nelle costruzioni molto prima che a Roma. A Pompei l’opera è talmente utilizzata che pare quasi impossibile enumerare esempi di muri, catene angolari e colonne in cui è usata. All’inizio del II secolo l’opera mista convivrà con la reticolata, già quasi in disuso, ma presto verrà 34- Colonne in muratura Numerosi sono gli esempi di colonne in muratura in piccole pietre. Il primo esempio è quello della basilica di Pompei (120 a.C.), dai fusti scanalati centrali (11m e larghi 1,06m) costituiti dalla sovrapposizione di mattoni tagliati in modo da formare un fiore composto da un nucleo rotondo e circondato da 10 “petali” pentagonali, con 10 segmenti a losanga che disegnano 20 scanalature. Il dispositivo si alterna in ciascun piano di posa in modo da far incrociare i giunti, innestandosi intorno al tubo centrale di mattoni cilindrici. Una volta terminate venivano rivestite di stucco bianco nel quale venivano ricavate scanalature per creare l’illusione del marmo. Sempre a Pompei si possono ammirare colonne in muratura rivestite in opus reticulatum mixtum. 35- Archi e volte, le origini della volta a cunei La volta a cunei è considerata uno degli elementi fondamentali della conquista dello spazio raggiunta dall’architettura romana, una tradizione la cui origine si attribuisce da tempo al mondo etrusco. La costruzione di modelli ai quali si sarebbero ispirati i romani viene riferita ai Tarquini già nel VI sec. a.C., ma la realtà è molto più complessa. Abbiamo la sicurezza, grazie ai resti di Falerii Novi – costruita per accogliere gli abitanti di Falerii Veteres distrutta dai romani – che nel 241 a.C. sia romani che etruschi conoscessero questa tecnica. Né a Roma né nei dintorni abbiamo elementi per affermare volte anteriori al II secolo a.C. I romani, sebbene abbiano attribuito agli etruschi invenzioni fondamentali, non considerarono questi ultimi maestri in questo campo, e sappiamo da Seneca come essi consideravano i greci gli inventori dell’arco voltato. Dobbiamo guardare alla Magna Grecia per poter trovare modelli di confronto alla Volta Romana, e sebbene la Sicilia non ci abbia offerto finora testimonianza, le città di Paestum e Velia offrono esempi importanti. Attraversando l’Adriatico e l’Egeo troviamo un discreto numero di testimonianze riferibili al IV e III secolo nel mondo greco. In conclusione possiamo ammettere che la tecnica delle volte si è diffusa gradatamente nella penisola e che greci ed etruschi furono i più progrediti, elaborando i primi modelli conosciuti dai romani. Questi ultimi però adottarono la tecnica e la perfezionarono fino ad averne una padronanza assoluta in forme e materiali, oltre che nella valutazione delle spinte e della portata. 36- Meccanica dell’arco ad aggetto e dell’arco a cunei Nel ricordare le costruzioni megalitiche del Lazio e le tombe etrusche, si è fatto menzione di strutture con copertura realizzata con un progressivo aggetto delle pietre. Un sistema, il più primitivo e sommario per la copertura di uno spazio, non è altro che l’estensione del principio dell’architrave: in mancanza di un materiale capace di sopportare un grande peso su una notevole lunghezza, la portata di un unico architrave viene ridotta grazie a una successione di punti d’appoggio sporgenti gli uni sugli altri, creando l’aggetto. Dal punto di vista statico, l’aggetto è costituito da un blocco avente una parte appoggiata e l’altra sporgente, con la prima sufficientemente pesante per evitare sbilanciamenti. L’aggetto artificiale è in realtà una forma naturale, la quale può verificarsi spontaneamente, ad esempio in seguito a frane in caverne. L’architettura romana a grandi blocchi squadrati, contrariamente a quella etrusca, non ricorse mai a questa tecnica. Al contrario, il semplice aggetto (riduzione della portata dell’architrave) fu universalmente impiegato. Nella costruzione di volte in muratura troviamo talora sfruttato l’aggetto per sovrapporre più rapidamente i singoli elementi, ma in questo modo di costruire l’aggetto non svolgeva più funzione meccanica particolare poiché l’elemento essenziale era svolto dalla coesione assicurata dalla malta. Se nella meccanica ad aggetto il principale nemico è l’attrazione verso il vuoto, ossia il rischio di sbilanciamento degli elementi, al contrario nell’arco a spinte l’attrazione verso il vuoto garantisce che tutti gli elementi dell’arco (cunei o conci) siano solidali fra loro. Per ottenere quest’attrazione è necessario che ogni elemento si appoggi ai vicini a mezzo di un profilo ad angolo che ne impedisca la caduta. I primi costruttori che utilizzarono le volte si resero conto che l’appoggio di ogni concio sul suo lato largo, tendeva ad allontanare i conci vicini per seguire il proprio movimento di caduta: da ciò derivavano forti spinte laterali che potevano determinare l’allargamento dei supporti delle volte (spalle). Per molto tempo il calcolo delle spalle furono inesistenti, motivo per cui fino al II secolo a.C. Greci e Romani misero in opera archi e volte a spinta solo come aperture entro masse possenti, come opere sotterranee o con strutture dotate di appoggi a terra (i ponti). Sono gli architetti romani tardorepubblicani ad aver sfruttato tutte le possibilità spaziali della volta: non più solo un buco in una massa ma un volume libero. Nonostante queste difficoltà, come mai è stata proprio la volta a spinte a offrire all’architettura il modo di conquistare lo spazio, e non il più semplice aggetto? La prima risposta risiede nel guadagno di spazio e nel risparmio di materiale conseguenti l’adozione dell’arco a sesto pieno per superare la medesima distanza. Un arco è tanto più stabile quanto gli aggetti sono vicini alla verticalità, quindi un aggetto di grande portata ha notevole altezza. Inoltre la necessità di caricare la coda degli elementi porta alla costruzione di spalle molto più solide di quelle necessarie a contenere le spinte di una volta della medesima portata. Infine le possibilità d’incontro di volte a sesto pieno consentono di moltiplicare all’infinito, grazie alla resistenza alle spinte, gli incontri di volumi, di aperture, di passaggi o di fonti di luce. Non sappiamo i metodi utilizzati dagli architetti romani per valutare la consistenza da dare ai supporti delle volte, ma in termini generali sappiamo che all’altezza delle spalle l’arco a cunei genera una spinta obliqua, risultante R1 delle spinte di ciascun cuneo. Per contenere questa spinta il costruttore dovrà creare una spalla il cuo carico verticale P sarà superiore alla suddetta. Bisogna però a ciò aggiungere le spinte esterne, come l’assestamento delle fondazioni, la pressione del vento ed eventuali sovraccarichi dell’edificio. Perciò la massa P della spalla dovrà essere sempre maggiore della forza R1. Si comprende, dunque, che tnato è alta una volta quanto la spalla dovrà essere spessa alla base. Se inizialmente e nella maggior parte delle sue applicazioni l’arco a spinte ha un profilo semicircolare (a tutto sesto), in realtà si possono ottenere tutte le forme in grado di chiudere una linea curva. Se conserva una forma curva l’arco può essere “rialzato” è se è più alto che largo, “ribassato” se è più largo che alto; può essere diviso in due semiarchi, essere a ferro di cavallo (il cerchio si ferma al di sotto del diametro orizzontale) o polilobato, se risulta dall’incontro di più archi di cerchio. Queste ultime forme sono essenzialmente di età più recenti, ed i romani utilizzarono solo archi a sesto pieno, ribassati o a piattabanda, cioè architravi voltati. L’arco a spinte ha il vantaggio di spostare lateralmente le spinte che riceve, trovando quindi anche altre applicazioni oltre alla semplice copertura di un’apertura. Viene usato anche come elemento di scarico al di sopra di architravi diritti e permette di creare reti di rinforzo che dirigono le spinte verso punti di maggiore resistenza. Dal punto di vista plastico e pratico, l’integrazione di una forma circolare nel muro ha creato qualche problema ai tagliapietre, che si sono imbattuti nel taglio di blocchi dal profilo acuto che dovevano incastrarsi con i conci dell’estradosso. Questo sistema è il più funzionale, in 5. Secondo anello con mattoni e frammenti tufacei. 6. Calotta terminale con blocchetti di tufo e lava alveolare. I materiali più pesanti ricorrono negli strati inferiori, con materiali via via più leggeri salendo verso l’alto. All’esterno un paramento in mattoni nel quale si scorgono gli archi di scarico, determinando linee verticali che contengono le spinte e scaricano le forze verso punti di maggior resistenza. 39- Intersezioni, incroci Tra le innumerevoli possibilità offerte dalla volta in concreto, appare anche la soluzione al problema di due volumi provvisti di volta. Se i greci erano capaci di coprire con volte a botti i loro ambienti, solo nella città di Pergamo vediamo esempi di incroci di volte. Si potrebbe pensare che i romani avrebbero aggirato il difficilissimo problema stereotomico costituito dalle dimensioni dei cantonali, ma così non fu. Al contrario, quando si presentava il rischio di intersezioni, spostavano le volte a botte in modo che l’innesto di una si trovasse sempre superiormente rispetto alla chiave dell’altra. L’unico monumento della penisola con una volta a crociera è il Mausoleo di Teodorico, costruito a Ravenna nel 530. Il perché evitavano le intersezioni è molto semplice: lo sviluppo della muratura legata con malta e la facilità con cui potevano esser realizzate a partire dalle centine di legno, hanno permesso molto presto l’incontro di volte in qualsiasi punto e tutte le direzioni. Per quanto diversi, gli incroci si possono dividere in due tipo: Intersezione (Quando si incontrano a livelli differenti), Volte a crociera (quando hanno il punto di innesto alla stessa altezza). Entrambi offrono il vantaggio di permettere aperture per il passaggio o per la luce senza nuocere alla stabilità della volta. 40- La carpenteria, Pavimenti e soffitti Se la Gallia romana, la Germania e la Britannia hanno restituito esempi di pavimenti di legno nei pianterreni delle case, in Italia e in altre regioni dell’Impero i pavimenti dei piani bassi furono costruiti esclusivamente in pietra o, negli edifici rustici, in terra battuta. Il pavimento in legno è più frequente nelle regioni settentrionali, essendo un materiale facilmente sostituibile e d’uso più confortevole. Le vestigia dei pavimenti delle case di Bavay consistono in lunghe palanche disposte su un piano di terra battuta, un tipo di pavimento sicuramente molto diffuso nelle regioni ricche di legno, e che ha lasciato tracce sul terreno attraverso gli strati neri, in genere interpretati come “strati d’incendio”, ma che potrebbero essere il risultato di una lenta carbonizzazione. Resti ben preservati in Inghilterra ci mostrano come i costruttori di questi pavimenti lo tenessero ventilato ed isolato dall’umidità, creando un autentico “vuoto sanitario”, secondo una tecnica immutata fino ai giorni d’oggi: degli incassi nei muri, a 50cm da terra, accoglievano le estremità delle travi correnti che sorreggevano il pavimento; questi elementi poggiavano su pilastrini di pietra intermedi, mentre alcune aperture assicuravano la ventilazione di questo volume isolante. Grazie ai ritrovamenti di Ostia, Pompei ed Ercolano, conosciamo perfettamente i pavimenti dei piani superiori. Il pavimento di un piano superiore, oltre a offrire una copertura calpestabile, deve fungere da soffitto per il piano inferiore. La soluzione nelle abitazioni dalle misure non superiori ai 5m consiste nel porre una serie di travi correnti poggianti su una sporgenza nel muro o in apposite cavità; le travi hanno uno spessore che varia a seconda del peso da sostenere. I fori sono talvolta accuratamente inquadrati con materiali ceramici che isolano il legno dalla muratura e permettono di sostituirlo, in caso di bisogno, nel modo più semplice possibile. Sopra e perpendicolarmente le travi correnti, veniva posato un tavolato di palanche di legno, il quale costituiva un piano di supporto. Su di esso veniva posato uno strato di malta che riceveva un rivestimento in opus signinum (malta con inclusi lapidei e ceramici) o in mosaico. Il muratore, quindi, ricomponeva nel piano superiore un pavimento identico al piano terra. Vitruvio fornisce l’indicazione di alcuni accorgimenti, come stendere sul tavolato uno strato di paglia prima di sovrapporre lo strato di malta, così da non far entrare il legno in contatto diretto con la calce. Con un procedimento simile si creava un pavimento molto pesante, da qui lo spessore delle travi; il vantaggio era nell’eccellente isolamento e nel ruolo di incatenamento tra muri svolto dalla rete di travi. Se la larghezza del pavimento supera i 5m, bisognerebbe usare travi così spesse da rendere eccessivo il consumo di legno, dunque lo spessore delle travi rimane invariato ma si assicura loro un ulteriore punto d’appoggio che determina una migliore distribuzione del peso. Si tratta di una o più travi maestre che vanno da un muro all’altro e ricevono il peso delle travi correnti. In genere queste travi venivano nascoste da un soffitto che poteva anche essere decorato; al di sotto delle travi correnti venivano affissi elementi lignei sottili che potevano essere canne, sui quali si gettava uno strato di intonaco. Spesso in tal modo si crea anche una finta volta, dei soffitti curvi detti “camarae” (così chiamati da Vitruvio); la loro forma curva veniva ottenuta incastrando le travi per disegnare un profilo curvilineo, creando di fatto una centina permanente. 41- Le scale di legno Nella maggior parte delle case conservate l’esistenza di un piano superiore è segnalata dalle tracce di scale nei muri. In una città come Ostia, dove le scale erano perlopiù in muratura, problemi di identificazione non ne esistono, ma anche le scale di legno hanno lasciato segni inequivocabili. Il più delle volte la scala si innesta su uno zoccolo in muratura di 1-3 gradini, sul quale vengono incastrati i supporti (montanti) che ricevono i gradini. L’inclinazione è sempre molto ripida, si legge chiaramente attraverso il segno lasciato sul muro che corrisponde in genere ad un’interruzione dell’intonaco. Ad Ercolano sono riconoscibili due scale di legno: a gradini pieni ed a pioli. La scala di legno era talvolta isolata dal locale mediante un tramezzo di legno o in opera a graticcio, la traccia del quale si può ancora vedere sull’ultimo gradino dello zoccolo in muratura. Da quel punto in poi la costruzione è interamente in legno fino al piano superiore. Il collegamento con il piano superiore è segnato dal limite superiore di un solco di incastro praticato nella parete. Le travi del piano superiore potevano sia essere poggiate su correntini poggianti su mensole, sia essere incastrate entro fori nel muro. La seconda categoria di scale identificabili è quella delle scale a pioli, la quale a giudicare dalle tracce nei muri doveva essere molto più usuale rispetto a quelle a gradini. Il motivo risiede nell’ingombro minore, ma anche la leggerezza ed il risparmio di materiali hanno influito sulla sua fortuna. Queste nella maggior parte dei casi venivano installate in un angolo dell’ambiente, da cui parte uno zoccolo in muratura che sostiene alcuni gradini e termina in un piccolo pianerottolo dal quale parte la rampa di legno. 42- La carpenteria di copertura Come tutte le strutture lignee, anche quelle usate per le coperture si sono poco conservate. Anche ad Ercolano e Pompei ci restituiscono solo le tracce dei punti di appoggio o di incastro dei tetti di modeste dimensioni, dalle soluzioni tecniche molto rozze. Dei sistemi di copertura usati nei grandi edifici non resta traccia, l’ultimo rimasto era la basilica di San Paolo fuori le mura, ma l’incendio del 1823 lo distrusse completamente. Vitruvio si dilunga molto nelle descrizioni delle diverse qualità di legno utilizzabili, ma si sofferma poco sul modo di assemblare gli elementi lignei. Distingue due tipi di carpenteria: quella destinata a coprire grandi spazi (maiora spatia) e quella destinata alla copertura di spazi minori (commoda). – mentre le loro dimensioni variano di regione in regione. Le tegole più grandi ritrovate sono quelle del sacellum di Paestum (75x110,5 cm). I coppi possono avere due tipi di profili: corinzio (diedro) e laconico (semicircolare), più rozzo ma anche più diffuso. La Gallia abbandonerà l’uso delle tegole alla fine dell’età romana, conservando solo gli imbrices a sezione conica, divenendo le tegole usate ancor oggi in Francia, mentre in Italia la copertura a tegole e coppi è ancora d’uso generale. Ai bordi del tetto, lungo la gronda, ogni fila di coppi era conclusa da un’antefissa, ossia un coppo la cui sezione era chiusa anteriormente da una piccola lastra decorata raffigurante in genere una palmetta o una testa di Mercurio. I bordi dei quattro spioventi formavano il compluvium. L’impermeabilità del colmo era assicurata da una fila di coppi normali, legati con malta o da coppi particolari con elementi laterali destinati ad accogliere l’incastro dei coppi. 44- La pietra L’architettura funeraria greca faceva uso di materiali indistruttibili e sostituiva con la pietra tra tutti quei materiali che potevano essere utilizzati in un edificio destinato ai vivi. Questi monumenti erano provvisti di camere molto piccole, le quali permettevano di sopprimere senza rischi la carpenteria o sostituirla con capriate di pietra, costruendo tetti in tegole di marmo identiche a quelle di terracotta. I romani seguiranno questa tradizione per le edicole più modeste, mentre le grandi tombe riceveranno un tetto di pietra nella quale venivano scolpite delle scaglie. Non era una pura e semplice invenzione decorativa, ma esistevano realmente sotto forma di sottili lastre esagonali a copertura del tetto. Queste tegole di pietra piatte erano probabilmente molto diffuse in Gallia ed in tutte le regioni dove gli scisti possono essere ridotti in lastre sottili. 45- I vegetali Molti edifici rurali furono coperti sicuramente con materiali rustici diversi, come paglia, canne o altri vegetali, non lasciando però ad oggi nessuna traccia. L’ipotesi della loro esistenza si basa sulla totale assenza di frammenti di tegole nei pressi di questi edifici di campagna, specie in quelli in cui sono presenti resti di murature rustiche (argilla). 46- I metalli Il già citato Pantheon aveva il privilegio di possedere un tetto di tegole di bronzo, in seguito saccheggiato da Costanzo II. L’uso del bronzo per i tetti resta un fatto eccezionale, ma fu senza dubbio impiegato dai costruttori romani. 47- I rivestimenti, gli intonaci: la struttura L’uso intensivo della muratura e delle malte di calce portò i romani a rivestire le pareti degli edifici con intonaci atti a proteggere e decorare. Sull’esempio greco coloniale i primi intonaci erano leggeri, di colore bianco, mischiati con calce e polvere di calcare, la cui funzione era di nascondere i blocchi di tufo. Gli intonaci applicati alle murature o ai blocchi divengono man mano sempre più spessi per livellare le irregolarità e accogliere incisioni atte ad evocare un paramento. L’uso di intonaci spessi preparati con vari strati di malta è accertato in Campania a partire dal III secolo a.C., ed il sistema di applicazione è rimasto pressoché immutato, perlomeno a Pompei, e la tecnica sembra avere quattro o cinque varianti tutte fondate sullo stesso principio. Secondo le raccomandazioni di Vitruvio, gli intonaci di buona qualità dovevano essere costituiti da sette strati di diversa composizione: un primo strato grossolano, tre strati di malta con sabbia e tre strati di malta mista a polvere di marmo. Più modestamente Plinio ne raccomanda cinque: tre di malta di sabbia e due di calce e marmo. Questo tipo di preparazione della parete, atta a ricevere decorazione dipinta, solo molto raramente è stato ravvisato nei monumenti studiati, solitamente i tectoria si compongono solo di tre strati sovrapposti. Il primo strato, applicato direttamente sulla muratura, aderisce senza difficoltà ai muri costruiti di mattoni o pietre irregolari di piccole dimensioni. Se la parete è d’argilla è opportuno preparare la parete con incisioni, visibili sulla parete se si è conservata o sul rovescio dell’intonaco. Il primo intonaco si compone di calce e sabbia non vagliata, così da conservare granulosità, il suo spessore varia a seconda della natura del supporto e delle irregolarità della superficie, è sempre il maggiore di tutti. Talvolta la superficie di questo primo strato risultava troppo levigata, quindi i tectorii (muratori specializzati per l’intonaco) disegnavano con la cazzuola linee per favorire l’aderenza. Un altro sistema prevedeva l’introduzione di frammenti ceramici o di marmo in questo strato preparatorio, tale metodo – tutt’ora in vigore presso i muratori napoletani – tendeva a dare a questo spesso intonaco solidità durante la presa, evitando il formarsi di crepe ed aumentando l’aderenza del secondo strato. Questa seconda applicazione, spessa 2-4cm, era costituita da una malta di sabbia più fine e vagliata, ed a seconda del precedente la superficie del secondo strato veniva lisciata con il frettazzo per permettere la posa di un intonaco di finitura molto accurato. L’ultimo strato, che poteva essere anche solo di 1-2mm, era frequentemente costituito da calce pura accuratamente lisciata. Se in luogo della calce si usava la malta, la sabbia del composto veniva raffinata al massimo o sostituita con calcare, gesso o marmo polverizzato. 48- La tecnica della decorazione dipinta I muri che dovevano essere decorati con pitture non venivano rivestiti di intonaco allo stesso modo di quelli che dovevano ricevere una protezione esterna. La preparazione della parete era più minuziosa, ma le fasi cronologiche per cui il lavoro veniva iniziato dall’alto restavano le stesse. Questo tipo di pittura viene generalmente definito “affresco”, uno dei sistemi più usati per assicurare alle pitture parietali una lunghissima durata. Il procedimento consiste nell’apporre i colori sullo strato di malta di calce prima che la presa sia ultimata, e quando la presa è conclusa il colore risulta sigillato nella pellicola superficiale di carbonato di calcio. È necessario dunque che il pittore disponga di uno strato di intonaco ancora fresco, e che quindi lavori il più velocemente possibile. Vitruvio dice esplicitamente “riguardo ai colori, accuratamente applicati sull’intonaco umido, essi non si staccheranno mai ma resteranno per sempre”. L’artista deve dunque preparare – o far preparare – una superficie di intonaco limitata, costituita dallo spazio che è in grado di decorare, cominciando sempre dall’alto per non sporcare il lavoro già fatto. L’ultimo strato di intonaco a la sua decorazione scendevano a fasce orizzontali corrispondenti alle giornate di lavoro. Questo sistema chiedeva un’estrema abilità per non mostrare i punti di raccordo tra le fasce, seppur a volte si creavano comunque sottili fessure. I pittori, consapevoli di ciò, cercavano di far coincidere la conclusione del lavoro giornaliero con una fascia orizzontale che separava due zone decorative. Spesso accade anche che una parte della decorazione venga posta a posteriori, formando un leggero rilievo sul fondo. Non essendo applicata sull’intonaco, la sua tenuta viene assicurata mischiando colla al pigmento, formando la tempera. Talvolta alcuni particolari in bianco venivano semplicemente dipinti con la calce pura su un fondo colorato, oppure si poteva aggiungere un colore mescolato con calce e applicato come ulteriore strato di intonaco. Nella maggior parte dei casi l’artista aveva un buon tocco che gli consentiva di disegnare d’un solo getto col pennello, ma talvolta per fissare gli assi e le linee divisorie della parete si serviva di tracciati preparatori eseguiti con l’aiuto di una cordicella o di una riga. Come per la malta, anche per le pitture sono state ipotizzate varie “ricette”, si cita ad esempio l’uso dell’encausto (colori, sciolti nella cera fusa e liquefatti su una fonte di calore prima dell’uso), della cera e di altri inclusi organici. Vitruvio prescrive, dopo l’applicazione del rosso vermiglio, di spalmare la parete di cera ed olio e strofinarla, quando ne è impregnata, con uno straccio imbevuto di sego. Un espediente probabilmente usato per ravvivare e proteggere il colore. Ciò che invece non è mai stata dimostrata è l’introduzione di cera e sapone nella preparazione dei colori, prodotti che sembrano incompatibili con gli affreschi. I pigmenti erano abitualmente d’origine minerale, cosa che permetteva di non alterarsi mischiandosi alla calce. Vitruvio si dilunga molto a riguardo, enumerandone sette naturali, estratti direttamente da un minerale tritato, e nove composti – talvolta ottenuti da lavorazioni complesse. Tra questi sedici colori, due sono di origine organica: il nero, ottenuto dalla calcinazione della resina o della vinaccia, ed il celebre rosso porpora che si estrae dal murice, pur essendo una tintura più che un colore. Le analisi chimiche 53- I Pavimenti, i lastricati Il modo più semplice per render solido il piano di calpestio di una strada consiste nel ricoprirlo di lastre di pietra, appoggiate direttamente sul suolo o inserite in uno strato di preparazione di sabbia e ghiaia. Questo è il sistema usato per lastricare le strade o gli spazi pubblici delle città romane. Il lastricato varia a seconda del tipo di circolazione a cui è sottoposto: certi spazi pubblici erano riservati soltanto ai pedoni (palestre, aree sacre intorno ai santuari), a Pompei ad esempio il lastricato era realizzato con pietre sottili su un piano di terra accuratamente livellato, costituito da uno strato di tufo calcareo frantumato; se le strade erano riservate alla circolazione dei carri, queste erano realizzate con lastre di pietra molto spesse e dure, inserite in uno o due strati di ghiaia, sabbia e ciottoli. Le zone antistanti i monumenti pubblici, gli interni di questi e delle case private, essendo sottoposti solo all’usura dei passi venivano rivestiti con sottoli lastre di marmo fissate su uno strato di malta. Queste potevano essere disposte in un’infinità di modi: dalla semplice divisione in lastre quadrate o rettangolari, fino all’opus sectile più raffinato. Negli spazi riservati ai pedoni le lastre potevano essere sostituite con lastre di terracotta. Per ovviare all’usura del materiale, i mattoni venivano disposti per taglio e a spina di pesce. 54- Malte e calcestruzzi usati nei pavimenti Le lastre sottili ed i mattoni venivano fissati su uno strato di malta di spessore variabile che poteva esso stesso fungere da rivestimento. In realtà negli edifici costruiti secondo le regole, la preparazione di un pavimento era sempre uguale, che ci fosse o no il rivestimento di lastre o mosaico. Per prima cosa si preparava lo statumen, rivestimento di ciottoli a secco per assicurare lo scolo delle acque d’infiltrazione, poi un primo strato di calce, sabbia, ghiaia o ciottoli che formava un calcestruzzo spesso detto “rudus”. Si stendeva infine un ultimo strato di malta di tegole, il “nucleus”, che riceveva il rivestimento o fungeva esso stesso come rivestimento; in questo caso il nucleus veniva mischiato a grossi frammenti di ceramica o di marmo, le crustae, gettati a caso o disposti con più o meno ricercatezza in forme geometriche. Pavimenti di questo genere si chiamano “opus signinum”. 55- I mosaici Vitruvio, che parla diffusamente della pittura, del mosaico ricorda soltanto le tessere, che rappresentano uno dei materiali che possono essere fissati nel nucleus. L’arte del mosaicista da infatti molta importanza alla qualità della superficie, ma non per questo va trascurata la raffinata composizione delle tessere. Furono probabilmente i contatti con l’Oriente a ispirare ai Greci i loro primi mosaici, seppur la creazione spontanea di pavimenti di ciottoli colorati, via via più elaborati, non va esclusa. I grossolani mosaici che si trovano in Grecia e nel mondo romano sono semplici imbrecciate, costituite da ciottolini disposti secondo un disegno geometrico o sagome via via più definite, un pavimento realizzato in Grecia fino all’età di Alessandro Magno. I mosaicisti si resero conto che frantumando i ciottoli potevano ottenere una superficie piana più adeguata alla realizzazione, ed alla fine del IV secolo a.C. il taglio si affinò a tal punto che il mezzo ciottolo divenne un cubo: la tessera. Sembra che l’opus tessellatum fosse definitivamente adottato in Sicilia e nella Magna Grecia per mosaici di qualità. L’uso di quesit minuscoli frammenti permetterà al mosaicista di gareggiare con il pittore nella ricerca di forme espressive sempre più raffinate, fino alla perfezione raggiunta dal II secolo a.C. dal mosaico policromo, come dimostrato dal celebre mosaico di Alessandro e Dario nella casa del Fauno di Pompei. L’opus musivum (“opera ispirata dalle muse”) deve probabilmente il suo nome all’uso che se ne faceva per decorare le fontane, in ricordo della fonte di Ippocrene intorno alle quale le Muse si riunivano. L’opera conoscerà numerosi stili e correnti, con due tendenze fondamentali: una geometrica e l’altra figurativa, le quali nei cloisonné potevano anche combinarsi. Le esecuzioni maggiormente realistiche e raffinate (opus vermiculatum) venivano realizzate con tessere piccolissime dei marmi più diversi, arricchite con paste vitree colorate. Queste opere più accurate e costose riguardavano in generale superfici ridotte, costituivano “l’emblema”, ossia un pannello più raffinato inserito al centro di una composizione. 56- I programmi tecnici: L’acqua – la raccolta, la captazione L’approvvigionamento dell’acqua, che ha sempre rappresentato la preoccupazione maggiore e determinato la scelta dei luoghi da parte dei primi raggruppamenti sedentari, non poteva non assumere un posto di grande rilievo nel contesto tecnico romano. Le tappe di questo perfezionamento costante tendente alla fornitura di acqua corrente ci sono fornite dalla storia dell’approvvigionamento idrico di Pompei. La città primitiva sorgeva su uno sperone roccioso contornato da un fiumicello, il Sarno, il quale per molto tempo sarà sfruttato per fornire l’acqua necessaria ai primi pompeiani. A partire dal VI secolo a.C. le case si dotarono di cisterne che immagazzinavano l’acqua piovana, ed a tale scopo fu predisposta l’apertura del tetto, o compluvium, centrato sull’atrium. L’acqua era raccolta in un orifizio di presa, la cui ghiera diventerà un elemento decorativo. Anche gli edifici pubblici si dotarono di cisterne destinate all’uso pubblico (terme). Parallelamente la necessità di disporre di riserve d’acqua inesauribili sollecitò i pompeiani nel VI secolo a.C. a cercare una falda freatica per lo scavo di pozzi, profondi dai 25 ai 39m. A causa dello spessore e della durezza della colata lavica su cui sorge la città, sono poco numerosi. In epoca augustea le necessità della città richiedevano quantità d’acqua considerevoli, portando infine alla costruzione di un acquedotto. Questo raccoglieva un’abbondante sorgente sull’Appennino, dirigendosi a Napoli con una diramazione verso Pompei. I differenti procedimenti rinvenuti a Pompei si trovavano in tutte le città romane di qualche importanza, ed in assenza di acquedotti, pozzi e cisterne assicuravano il rifornimento d’acqua. Si ritiene però che le cisterne fossero un’usanza dei paesi mediterranei, mentre nelle regioni ricche di pozzi (come la Gallia) questi rappresentavano un elemento costante di ogni abitazione. La costruzione di pozzi appare rozza, con le pareti di blocchi grossolani, collocati a secco seguendo una sezione circolare, molto più sicura di quella quadrata. La pietra non era l’unica utilizzata, ritrovamenti sono di pozzi quadrati rivestiti di tavole di legno giustapposte, straordinariamente conservati. Le cisterne non ci hanno lasciato (se non raramente) la possibilità di rilevare il loro sistema di alimentazione, fortunatamente le installazioni pompeiane sono sufficientemente esplicite. Gli architetti inclinavano i piani dei tetti secondo il principio del compluvium, con l’acqua che colava sulla sponda, sia su tutta la lunghezza della grondaia sia attraverso tubi di scarico, raccolta al suolo nel bacino posto nell’atrium, o ancora dentro un canaletto di pietra o in muratura. L’impluvium oltre ad una funzione ornamentale, serviva per la decantazione delle acque, le quali abbandonavano sul fondo di esso le polveri che avevano potuto raccogliere sui tetti. Un’apertura di preferenza, situata poco al di sotto del fondo, conduceva alla cisterna scavata sotto l’atrium. Nel peristilio il canaletto, dotato di una pendenza, conduceva in seguito l’acqua a una cassetta o vaschetta che fungeva da bacino di decantazione, nella quale, in basso, si apriva il condotto della cisterna. La raccolta dell’acqua dalla cisterna avveniva attraverso una sorta di pozzo di presa aperto nell’atrium (o talvolta nel peristilio) la cui vera, detta puteal, era un cilindro di marmo o di terracotta spesso decorato. preziosi tubi di piombo che li costituivano. Vitruvio in effetti descrive il sifone come uno dei mezzi più comodi per superare una depressione, raccomandando di costruire sul fondovalle un acquedotto dal tracciato rettilineo al fine di ridurre l’altezza della caduta e moderare la corrente, collegandolo per mezzo di variazioni dolci per evitare il “colpo d’ariete”. L’enorme quantità di piombo richiesta, il suo costo elevato ed il ricorso a manodopera altamente specializzata, oltre alla scarsa sicurezza delle saldature ed i costi di manutenzione, impedirono l’adozione generalizzata dei sifoni, portando i romani a preferire tracciati più lunghi o acquedotti sopraelevati. Indipendentemente dall’aspetto esterno, la canalizzazione adotta una struttura e sezione assai standardizzate: si presenta come una galleria scavata nel suolo o nella roccia, o sopraelevata, sufficientemente ampia da permettere il passaggio di un uomo, ed il cui fondo è reso stagno da uno spesso strato di cocci. La copertura è assicurata generalmente da una volta che nei passaggi sopraelevati poteva essere sostituita da lastre piatte; a distanze regolari dei pozzetti (putei) permettevano ispezioni e riparazioni. 58- La distribuzione urbana Le acque, portate nella parte alta della città, dovevano iniziare un nuovo percorso partendo dal bacino di raccolta per giungere fino all’utenza. Le tecniche relative a questa rete ed alla loro politica di gestione, ci sono giunte grazie al “De aquaeductibus urbis Romae” di Frontino, curatore delle acque sotto Nerva. Quest’opera risponde pressappoco a tutte le domande che ci possiamo porre a riguardo. Ci fornisce nome e data di costruzione di tutti gli acquedotti di Roma, il costo di alcuni, la natura dei lavori per l’allacciamento degli acquedotti, le fontane e le fognature, l’organizzazione amministrativa dei servizi delle acque e l’inventario delle fontane di Roma. Sfortunatamente se il trattato e gli acquedotti sono giunti fino a noi, la rete urbana è conosciuta solo parzialmente in installazioni isolate. Nonostante la cura posta nella ricerca della sorgente, l’acqua poteva sempre trasportare impurità da eliminare prima che giungesse alle strette canalizzazioni urbane. Vennero installati dei filtri sotto forma di griglie e bacini di decantazione, allo sbocco dell’acquedotto e durante il suo percorso (piscinae limariae), bacini che dovevano poter essere isolati e svuotati per la periodica pulizia. Secondo il clima, ed al fine di prevenire la siccità, era saggio prevedere delle riserve d’acqua entro grandi cisterne, le quali spesso erano cisterne più antiche per la raccolta d’acqua piovana. Questi grandi bacini degli acquedotti richiedevano tecniche più complesse, dividendosi in tre categorie: • Stanze a pilastri o a colonne, come la “Piscina mirabile” di Miseno o la “yerbatan Saray” a Istanbul. • Camere con volte a botte. Sono le più numerose, apparendo come una semplice galleria a tutto sesto. • Camere parallele. Una variante o un moltiplicatore della soluzione precedente. In questo caso si costruisce una serie di gallerie a volta parallele e comunicanti. Si può rendere la decantazione più efficiente ricorrendo a questo sistema, nel quale l’acqua passa da una camera all’altra attraverso un passaggio ad una certa altezza. Pompei, pur avendo un’installazione idraulica relativamente modesta, ci è arrivata interamente ai giorni d’oggi. Il castellum aquae è costruito nel punto più alto dell’altopiano, 34m al di sopra del punto più basso – a soli 750m. Un dislivello considerevole, del quale gli architetti dovettero tener conto. L’edificio nel quale sboccava lo specus dell’acquedotto è di pianta trapezoidale, chiuso da una sala circolare a cupola. Al suo arrivo nel castellum aquae, l’acqua passava attraverso una griglia all’ingresso del bacino di decantazione, circondato da ogni parte da un marciapiede di servizio. Una seconda griglia era posta al centor del bacino. Infine, all’uscita, l’acqua doveva superare una lamina di piombo alta circa 24cm, per poi riversarsi entro tre condotti che costituivano i tre rami principali della distribuzione urbana. Una struttura simile all’analoga struttura dell’acquedotto di Nimes. Le condutture per l’addizione dell’acqua erano realizzate in piombo: le lamine venivano arrotolate intorno ad un calibro ed i bordi piegati e saldati, o anche semplicemente giustapposti e guarniti da due cordoni di argilla entro i quali si colava del piombo. I raccordi nel senso longitudinale erano assicurati da un corto manicotto nel quale si incastravano le due estremità. La malleabilità e bassa fusione del piombo permettevano di adattarlo a tutte le forme, ed anche alla distribuzione dell’acqua nei punti più difficili da raggiungere ed in tutte le parti di un edificio (entro i limiti imposti dalla pressione). I calibri delle differenti canalizzazioni avevano ricevuto (almeno in epoca augustea) una normalizzazione, la quale secondo Vitruvio era stata fatta a partire dalla larghezza e dal peso della lamina di piombo utilizzata. Tale larghezza condizionava il diametro. Questi riferimenti quantitativi, impreicsi a causa della lunghezza variabile della piega di giunzione, furono regolamentati all’epoca di Frontino, in diametri. Questi erano espressi in quarti di dito, quadrantes, e dita, digiti. Possiamo distinguere due tabelle: Proprio come i prodotti ceramici, i tubi in piombo potevano ricevere un marchio che specificava a quale opera fossero destinati, chi fosse il proprietario, il fabbricante e, per gli acquedotti di Roma, l’imperatore. “Imperatoris Caesaris Traiani Hadriani Augusti Sub cura Petronii Surae Procuratoris; Martialis servus fecit”, particolare come in una società come quella romana, nel marchio di fabbrica venga ristabilità una sorta di uguaglianza accostando al nome dell’imperatore quello del costruttore e dello schiavo che aveva fabbricato il prodotto. Le canalizzazioni di piombo della rete urbana di Pompei portavano semplicemente il marchio d’appartenenza alla città. Il piombo aveva un unico inconveniente: il costo elevato. Il materiale grezzo era oneroso di per sé, la sua lavorazione richiedeva manodopera specializzata. Per questo veniva sostituito con altri materiali, in particolare tubi di terracotta che si incastravano tra di loro, il cui raccordo veniva reso stagno attraverso la malta (Vitruvio raccomandava di impastarla con olio per accrescere l’impermeabilità). Sempre Vitruvio era diffidente verso le canalizzazioni in piombo, accusate di avvelenare l’acqua, accostando confusamente il piombo con la biacca di piombo (cerussa), un potente veleno. Nelle province era ancor più economico il legno, laddove si scavavano canalette nei mezzi tronchi o veri e propri tubi scavati nei tronchi stessi attraverso succhielli elicoidali. I raccordi tra due tubi di legno erano assicurati per mezzo di manicotti di cuoio o di pezzi metallici, fissati grazie a un dado di pietra perforato e chiuso in un canaletto rivestito d’argilla. Tornando a Pompei, seguendo il percorso delle canalizzazioni Piccole canalizzazioni di piombo, calibrate in diametro Grandi canalizzazioni di piombo, calibrate in superfici di sezione pressione collegata alla rete urbana. L’impianto funzionava così bene che nella bottega si è ritrovato il proprietario (o il suo gerente) che teneva stretto in pugno il considerevole incasso di 1089,5 sesterzi. 59- Lo scarico dell’acqua Naturalmente l’acqua sporca e quella in eccesso doveva essere evacuata. Abbiamo già citato come dalle fontane e cisterne l’acqua in eccesso scorreva sul selciato delle strade, sistema utilizzato per tutte le installazioni – talvolta anche le latrine. Mentre l’acqua dei tetti veniva fatta affluire nelle cisterne, le latrine dei piani superiori erano evacuate per mezzo di grossi tubi di terracotta che scaricavano il tutto in una fossa o sul selciato. A Pompei, a discapito della sua agiatezza, nel 79 non era ancora presente una capillare rete fognaria, di cui era fornito solo il Foro. Fortunatamente l’allacciamento dell’acquedotto e le fontane avevano risolto questo problema igienico: lasciando scorrere giorno e notte l’acqua dalle fontane si assicurava una pulizia efficace delle strade, poste in pendenza. In tal modo l’acqua lasciava la città scorrendo sotto la cinta muraria attraverso appositi sfoghi ai piedi delle mura. L’incombenza della presenza d’acqua costante era risolta con pietre squadrate ad intervalli regolari che permettevano l’attraversamento della strada. È probabile che difficilmente se Pompei fosse sopravvissuta si sarebbe dotata di una rete fognaria, la quale richiederebbe lo sventramento di tutte le strade ed elevati costi. Nei centri romani dopo la conquista la rete fognaria faceva parte del progetto urbanistico, quindi è più facile trovare tali installazioni nelle più “moderne” borgate gallo-romane che negli antichi centri in centro e sud Italia. Nelle città fornite di impianto fognario, le canalizzazioni seguono i tracciati delle strade, e la loro scoperta permette di ritrovare l’asse delle vie antiche. Solitamente ci si sforzava di creare una rete coerente di canalizzazioni secondarie che sboccavano in un collettore principale, il quale conduceva le acque putride fuori città, come ad esempio la Cloaca Maxima che conduceva nel Tevere. L’aspetto e la struttura delle gallerie variano poco e si ritrovano ovunque in dimensioni più o meno precise (0,40m di larghezza per 0,80/1,00m di altezza), con una copertura a botto o ad aggetto, da un tetto a doppio spiovente composto da due tegole, due lastre o una sola lastra messa di piatto. Gli edifici costruiti in pendenza costituivano degli ostacoli che potevano trasformarsi in sbarramenti per lo scarico delle acque utilizzate. Se si trattava di una casa priva di scantinato, una canaletta in muratura condotta lungo la parete a monte incanalava le acque lateralmente, mentre se l’edificio non aveva funzione abitativa, i tubi di terracotta attraversavano i muri conducendo direttamente le acque a valle. Le installazioni sotterranee o di sostegno richiedevano precauzioni più rigorose, raccomandate da Vitruvio, come ad esempio la creazione di intercapedini vuote tra terra e muro dell’ambiente, ottenendo un passaggio ventilato a distanze regolari entro cui si spandono le infiltrazioni d’acqua, mentre il muro visibile all’aria aperta è completamente isolato dall’umidità. I criptoportici rappresentavano installazioni particolarmente vulnerabili a causa del notevole sviluppo sotterraneo e sono muniti di questa specifica sistemazione. 60- Il riscaldamento, le terme. Le tecniche di riscaldamento L’abitazione romana dei primi secoli non ebbe altri dispositivi di riscaldamento se non quelli usati in tutte le società primitive: un focolare nell’atrium. La comparsa della cucina nel IV o III secolo spostò (o soppresse) il focolare domestico, dando al fuoco una funzione più specifica e appropriata. Nella cucina il fuoco era sistemato su un piano elevato che poggiava su un blocco in muratura, dove su un treppiedi si collocavano i recipienti da riscaldare. Il fumo e i vapori della cottura erano evacuati attraverso una o più aperture nel tetto. Questo isolamento del focolare costrinse a ricorrere ad altri dispositivi per il riscaldamento, come bracieri mobili entro i quali venivano poste le braci. A causa dell’assenza totale di camini e della chiusura delle aperture della casa durante la notte, i rischi di intossicazione, aggiunti agli inconvenienti del fumo, indussero i romani a utilizzare solo legna molto secca o carbone di legna. L’efficacia di un tale riscaldamento risultò mediocre, pur essendo il solo usato nella stragrande maggioranza delle abitazioni, oltre che l’unico utilizzabile nei piani superiori delle insulae. Le abitazioni non erano le sole ad esser scaldate così, gli stabilimenti termali della prima generazione erano muniti di bracieri direttamente proporzionali alla grandezza degli ambienti. Ci si può chiedere: perché i romani, così ingegnosi, non abbiano pensato a dei camini per riscaldare le loro case, essendo questo un dispositivo da loro conosciuto? È una domanda alla quale non possiamo dare risposta. Può darsi che il camino a condotto abbia fatto la sua comparsa nelle regioni settentrionali, ipotizzando la sua presenza notando la particolare grandezza del focolare, situato entro piccole absidi. Sfortunatamente gli elevati di queste tracce non sono giunti fino a noi, non potendo dire se si prolungassero fino ad aperture del tetto, o se dei tubuli li trasformassero in veri e propri camini. In ogni caso bisognerò aspettare l’XI secolo per vedere i camini far parte dell’architettura domestica. La vera innovazione si ebbe nel II secolo o all’inizio del I secolo a.C., con la comparsa del riscaldamento per ipocausti (riscaldamento sotterraneo), il cui nome tradisce un’origine greca seppur i romani attribuirono l’invenzione ad un certo C. Sergius Orata. Condotti di riscaldamento nel sottosuolo erano già presenti nel 300 a.C. nei bagni di Gortys, Olimpia e Siracusa. All’origine di tutto il sistema di riscaldamento si trova naturalmente un focolare, il cui calore è dispensato sia per irraggiamento diretto, sia mediante un contenitore o un tramezzo riscaldato. Il focolare (praefurnium) funzionava nel A-Bocca del forno o praefurnium B-Malta grigia C-Tubuli D-Cocciopesto grossolano E-Mattoni F-Cocciopesto grossolano G-Malta Grigia H-Lastre di marmo I-Pilastrini di mattoni J-Mattoni bipedales K-Lamina di piombo isolante L-Calcestruzzo con frammenti di tegole M-Malta grigia N-Lastre di marmo sottosuolo entro un vano di servizio ventilato e concepito per ricevere una notevole quantità di combustibile; vi è una semplice apertura nel muro, fornita di una porta metallica con bocca di ventilazione e preceduta da un’area dove si potevano raccogliere le ceneri. Nelle grandi terme questi impianti di servizio erano installati nella parte posteriore o laterale e si disimpegnavano all’esterno per mezzo di una galleria. Il calore del praefurnium si spandeva nel sottosuolo dell’ambiente da riscaldare, prima di esser evacuato attraverso condotti verticali. L’ipocausto non era semplicemente uno spazio vuoto con un forno, ma era coperto da un pavimento “sospeso” (suspensura) che poggiava su un gran numero di pilastrini sui quali erano collocati mattoni lunghi circa due piedi. Il pavimento sospeso possedeva una struttura analoga a quella di tutti i comuni pavimenti, con la differenza che poggiava su questi pilastrini che fungevano da sottofondo. Al di sopra si trovava un primo strato di cocciopesto, seguito da una malta più fine che riceveva un lastricato di marmo o un mosaico. Lo spessore totale oscillava tra i 30 e i 40cm, aggiunti ai 50cm dei pilastrini dava un’altezza non superiore al metro. I bacini delle sale calde venivano installati nelle esedre o nel fondo dell’ambiente, al di sopra della bocca del focolare per ricevere più calore possibile. L’isolamento talvolta veniva aumentato da una lamina di piombo che rivestiva interamente la vasca. La fuoriuscita dell’aria calda e del fumo venivano usate per riscaldare gli ambienti attraverso le pareti, per questo anziché sistemare il condotto sul lato opposto a quello die focolare, si è sempre lasciato un vuoto tra il muro portante e il paramento, un vuoto che arrivava fino al soffitto e che poteva interessare anche le volte. Per ottenere il completo isolamento della faccia interna del muro, vennero fabbricati mattoni piatti quadrati o rettangolari, muniti di speroni o di quattro o cinque mammelle sporgenti (per questo detti “tegulae mamatae”). Non è escluso che questi mattoni fossero stati inventati in un primo momento per isolare le pareti dipinte negli edifici soggetti ad infiltrazioni di umidità. Tegole di questo genere sono state trovate anche in ambienti privi di ipocausto, utilizzate probabilmente in maniera soltanto isolante, come raccomandato da Vitruvio. Tuttavia la leggera sporgenza degli speroni e il fatto che l’intercapedine interessasse tutta la superficie, non favoriva un buon tiraggio, determinando quello che viene definito “effetto d’onda”, ossia la formazione di vortici che frenavano la salita dell’aria calda provocandone talvolta anche il ritorno. Per risolvere ciò nel corso del I secolo d.C. furono inventati i tubuli, condutture di terracotta che costituivano altrettanti condotti per il fumo. Alcuni di questi tubuli erano provvisti di aperture laterali che permettevano il passaggio di aria calda da una tubatura all’altra. I tubi appoggiati ai muri venivano fissati con uno strato di malta e spesso imperniati ad due a due con grappe metalliche a forma di T. Venivano poi ricoperti con uno strato di intonaco che poteva anche essere dipinto o rivestito con lastre di marmo. Non possiamo datare con esattezza la comparsa dei tubuli, dato che questo sistema appare in tutti gli impianti di riscaldamento conservati, generalmente di età imperiale. Possiamo notare come le terme di solo definivano il tracciato delle strade ed alla loro costruzione, ma intervenivano anche nella centuriazione del territorio. Roma disponeva di un’amministrazione riguardo queste cose sotto la responsabilità dei censori, ma da Domiziano è l’imperatore a decidere la creazione di strade e grandi lavori pubblici. A seconda della loro importanza le strade avevano una classificazione gerarchica tramandataci da un documento amministrativo del I secolo del geometra Siculus Flaccus: • Strade pubbliche (viae publicae): costruite a spese dello stato e con il nome del costruttore • Strade con funzione strategica (viae militares): costruite dall’esercito, diventeranno strade pubbliche • Vie minori (actus): costruite e mantenute dai pagi • Strade private (privatae): costruite e mantenute dai proprietari all’interno dei propri possedimenti La quasi romantica visione della via Appia nel tratto extraurbano, dalla carreggiata rivestita da larghi basoli di lava, non può essere estesa a tutte le strade romane, men che meno a tutta la tratta dell’Appia stessa. La pavimentazione delle strade di città veniva fatta con estrema cura, e le sezioni effettuate sulle strade romane mostrano in genere questo tipo di struttura: • Su un suolo piano (naturalmente o artificialmente) si dispone un acciottolato con la duplice funzione di render contatto il terreno ed evitare il ristagno dell’acqua; prende il nome di statumen • Successivamente si pone uno spesso strato di sabbia o ghiaia, talvolta mescolato ad argilla (rudus) • Si sovrappone uno stato di rivestimento (spesso ciottoli battuti, a volte lastra di pietra dura). Lo spessore totale della pavimentazione e dello strato preparatorio può oscillare tra 1m e 1,5m • Ai lati le strade sono spesso delimitate da banchine di pietra e da fossati che raccolgono l’acqua piovana, evitando il riversarsi su strada dei rivoli provenienti dalla vicina campagna. Da notare come nella costruzione delle strade non compaia la malta di calce, utilizzata a quanto sembra solo in casi eccezionali. Bisogna quindi cercare di dimenticare i rigidi schemi derivati da un’errata interpretazione di Vitruvio, per cui i rivestimenti del suolo sono da essere estesi alle strade. Sembra che la lastre non siano mai state usate prima dell’inizio del II secolo a.C., in mancanza di conferme archeologiche disponiamo di un passo di Tito Livio in cui afferma che nel 174 a.C. le strade dovevano essere lastricate nei tratti urbani, ma semplicemente rivestite di sabbia e ciottoli in campagna. La più antica pavimentazione conosciuta è quella della via Appia (296 a.C.) tra porta Capena e il tempio di Marte, per un miglio. La via fu pavimentata fino a Bovillae, ma all’età di Nerva e Traiano i lavori erano ancora incompleti; un miliario del Lazio meridionale ci informa che al tempo di Caracalla (212-217) fu curata la pavimentazione del tratto tra Terracina e Formia. L’attraversamento della pianura pontina da parte dell’Appia aveva costretto gli ingegneri romani a costruire il selciato su un possente terrapieno rinforzato, il limes o agger, termini usati anche per bastioni difensivi. Quando tale soluzione non era realizzabile, i romani ricorrevano a tecniche locali: fondavano cioè il selciato su una struttura di legno detta “racchetta”, su cui venivano poste le lastre di pietra legate con l’argilla, e sulla quale infine si gettava un letto di ghiaia e ciottoli costipati. I solchi visibili sulle strade sono dovuti al passaggio dei carri, dei quali possiamo calcolare anche la distanza tra le ruote: la media è intorno ad 1,30m, seppur una tipologia precisa è impossibile da dedurre per le numero se varianti. Sulle strade di montagna o litoranee, i solchi venivano praticati artificialmente per guidare i veicoli e impedir loro di uscire di strada. La stessa larghezza del selciato varia a seconda dell’importanza della strada e la natura del terreno, ma non è possibile trovare norme rispondenti a prescrizioni ufficiali. Le vie secondarie dovevano garantire il passaggio di due carri contemporaneamente, per cui la larghezza stimata è intorno ai 3m. 63- Le opere di ingegneria Strade ed acquedotti sono stesso accomunati, poiché accomunati dal medesimo scopo: affrontare gli stessi ostacoli naturali. Ma una strada non deve rispettare necessariamente la debole pendenza richiesta da un acquedotto, potendo attraversare senza viadotti e sifoni ampie vallate. Una collinetta non è per forza un ostacolo da aggirare o forare, e ciò ci porta alla filosofia degli architetti romani di seguire percorsi semplici ed economici, il più possibile vicini alla linea retta. Il modo più semplice per superare un ostacolo consiste nel tagliare nella roccia il passaggio per la via. Questo è il tipo di lavoro realizzato in genere in regioni montane o litorali scoscesi. Nei limiti del possibile il taglio veniva effettuato su un solo fianco della roccia, in tal modo la strada era a sbalzo. Esempio eccezionale di questo tipo di lavoro si può ammirare all’uscita meridionale di Terracina, dove la parete rocciosa fu tagliata per un’altezza di 36m. Talvolta invece di aggirare l’ostacolo o di scavare una galleria, veniva scavata una trincea quando la roccia era tenera. La galleria era l’ultima soluzione possibile, quando il taglio o la trincea non erano possibili. Le vie tagliate sui fianchi dei monti o che dovevano attraversare piccole depressioni, litorali frastagliati o un ponte, venivano fondate su terrapieni sostenuti su uno o entrambi i lati da muri di sostegno, prendendo forme di rampe, viadotti e ponti. Molti ponti di pietra sono arrivati a noi, permettendoci di definire le caratteristiche tecniche di opere in cui, la costruzione e fondazione dei piloni rappresenta il momento più difficile. Nelle regioni mediterranee i corsi d’acqua sono spesso a secco per diversi mesi, quindi i lavori non differiscono da quelli di un cantiere terrestre. Se l’acqua è invece alta, bisogna ricorrere a palizzate impermeabili che isolino la superficie ed il volume necessari per il pilone. Vitruvio descrive minuziosamente la messa in opera di questa palizzata, per la quale ne esistono due tipi: • Si costruisce un cassone di pali di legno stretti tra loro da catenature (traduzione incerta, probabilmente le parti in legno erano di spessori diversi, a incastro e incavigliate), poi all’interno di questo volume si getta un calcestruzzo legato con malta di pozzolana, che deve arrivare al livello superiore della cassaforma. Si attende la presa della malta e si continua a costruire al di sopra delle acque. • Si costruisce un cassone con una doppia parete di pali entro i quali vengono ammucchiati sacchi di giunchi pieni d’argilla, ottenendo così uno sbarramento a tenuta stagna. Terminato questo lavoro, con l’aiuto di una macchina elevatrice si toglie l’acqua dal cassone sino a liberarne il fondo, ora lavorabile. A seconda della natura del fondale, i costruttori potevano accontentarsi semplicemente di livellare la roccia, o di scavare più in profondità fino a raggiungerla, o ancora inserire pali su cui poggiare la soletta delle fondazioni. Consapevoli degli effetti dell’erosione dati dalla corrente, dalla pressione sui piloni e dei danni che possono provocare i tronchi d’albero trascinati, gli ingegneri romani avevano previsto tre diverse soluzioni: • Per ridurre al minimo la superficie sottoposta alla corrente si cercava di diminuire il numero di piloni, dunque delle arcate, realizzando archi giganteschi. Numero ridotto di arcate ed utilizzo di arco a tutto sesto davano al ponte un’altezza considerevole, pertanto questo veniva costruito con un profilo a schiena d’asino o con una rampa che partiva dalla riva. Il problema non si poneva per corsi d’acqua incassati o dove era sufficiente un’unica arcata. • Per limitare l’azione diretta dell’acqua sul pilone questo poteva essere dotato di uno sperone frangiflutti, mentre nella faccia rivolta a valle un altro sperone si opponeva ai mulinelli d’acqua che si venivano a creare. • Il pilone che separava due arcate rischiava di formare una barriera alle piene, perciò in esso veniva ricavato un archetto per lo sfogo delle acque impetuose. Molto spesso gli ingegneri romani, sia per semplificare il percorso e sia per il puro gusto di realizzare un’opera prestigiosa, gettarono i propri ponti su profonde depressioni o vallate, spesso per mantenere la strada sempre sullo stesso piano. Tutti questi viadotti presentano un nucleo in muratura con paramento in struttura a grandi blocchi, ma talvolta troviamo una muratura accuratamente rivestita di mattoni. I ponti, grazie all’aspetto monumentale ed alla funzione di punto di passaggio obbligato, sono stati a volte decorati con uno o più archi di trionfo, un’abitudine che almeno in origine doveva rappresentare la norma. 64- Le locande, le stazioni di posta Contemporaneamente alle strade, vennero predisposti tutti i servizi indispensabili ai viaggiatori, ossia gli “alberghi” (tabernae), dove si poteva trovare da mangiare, bere, un riparo per la notte e per le proprie cavalcature. Questi sorgevano prevalentemente nei punti del tragitto ove si imponeva una sosta, che sia a causa di guadi, colline, sorgenti, foreste o zone desertiche, o ancora all’ingresso della città. La creazione da parte di Augusto di un corriere ufficiale (cursus publicus) con il compito di riferire a Roma “quanto avveniva in ogni provincia”, portò alla creazione di posti di ristoro ufficiali, le mansiones (alberghi) e le mutationes (ove si potevano cambiare cavalli), nei quali si doveva esibire un passaporto recante il sigillo imperiale o essere muniti di gettoni particolari (tesserae hospitales). Questi edifici isolati non sono sopravvissuti all’Alto Medioevo, sono scomparsi, trasformati in piazzeforti o dato luogo ad abitati. Possiamo supporre che questi antichi luoghi di ristoro fossero distanti dai 10 ai 40km l’uno dall’altro. Uno dei documenti più interessanti è costituito dall’itinerario di un anonimo che nel 333 fece un viaggio verso Gerusalemme, che nel “itinerario Burdigalense sive Hierosolymitanum” "ricorda il percorso tra Bordeaux e Arles. In questo itinerario, su un tragitto di 550km, sono segnate 30 mutationes e 11 mansiones, con una distanza media di 18km tra una mutatio e l’altra, lungo un percorso relativamente accidentato. Ricordiamo che le distanze indicate sui cippi si contavano in passi (passus) o miglia. Il passo (in realtà un doppio passo) corrispondeva a 5 piedi, ossia 1,48m, mentre un miglio conteneva 1000 passi (da qui il nome), ossia 1480m. Nella Gallia le misure erano espresse in leghe – come apprendiamo anche dalla Tabula Peutingeriana. Al fondo dell’atrio e in asse con le fauces, si trovava quasi sempre il tablinum, vasto ambiente aperto che formava una sorta di esedra e fungeva da “studio” del padrone di casa. Un ambiente che è la sopravvivenza dell’alcova dove si poneva il letto dei coniugi (torus genialis). Il tablino era la concreta espressione dei rapporti tra il padrone di casa e l’esterno. Le Alae, esedre aperte come il tablino, erano disposte ai due lati dell’atrio, prive a quanto pare di una precisa funzione. Le fauces d’entrata erano quasi sempre disposte lungo l’asse della casa e gli ambienti che si aprivano a destra ed a sinistra potevano essere indipendenti oppure comunicanti con esse. Nelle case dove vivevano anche i servi, questi schiavi o liberti dormivano nei cubicola adiacenti all’entrata, mentre gli altri membri occupavano le camere che si affacciavano sull’atrio o sul peristilio. Il posto del letto, evidente testimonianza della funzione dell’ambiente, è spesso indicato da una leggera cavaità nella parete che permetteva di recuperare un po’ di spazio; in alcune camere lo spazio del letto è indicato da un mosaico nel pavimento, ed a volte nella parete di fondo e sul soffitto viene realizzata una vera e propria alcova. Si è fatta allusione al ruolo di pozzo di luce attribuito al compluvio, il quale per quanto ristretto era molto più utile rispetto alle piccole finestre, poste in alto per motivi di sicurezza, la cui poca luce doveva essere per forza compensata con l’uso di lampade ad olio. Nel corso della seconda età sannitica, la domus si arricchisce con un elemento architettonico tipico greco: il peristylium. I romani faranno uso di questo spazio, circondato da un portico, un giardino interno arricchito a piacimento di una folta vegetazione, fontane e statue, che diventerà il luogo delizioso preferito della famiglia. A seconda dell’importanza riservata al giardino il peristilio venne circondato da vari ambienti. Attorno al peristilio, oltre ai cubicoli, si trovavano ambienti che nella casa italica primitiva non esistevano; la distribuzione degli ambienti non sarà mai subordinata ad uno stereotipo, registrandosi una grande libertà. La cucina e i pasti avranno diritto ciascuno ad un ambiente specifico; il focolare viene installato in una culina o coquina, tranne in rare eccezioni era un ambiente molto piccolo con uno zoccolo in muratura che costituisce il piano di lavoro e sul quale si accendevano uno o più fuochi per cuocere i cibi. La latrina, quasi sempre installata a fianco della cucina, si ritrovava ad avere lo scarico attraverso una fossa, o talvolta attraverso una canaletta che sfociava in strada. Prima di diventare uno degli ambienti più importanti aperti sull’atrio o sul peristilio, la sala da pranzo spesso si trovava al piano superiore con il nome di cenaculum, nome rimasto per indicare gli ambienti superiori; in mancanza di primo piano il pasto prendeva atto nel tablinum, usanza conservatasi nelle case modeste. Nella maggior parte dei casi però le case avevano un vasto ambiente riservato ai pasti, il triclinium (nome dal triplice letto utilizzato). Attorno a una tavola (mensa) si disponevano tre letti a tre posti, ove si sistemavano gli ospiti secondo una gerarchia ben precisa: letto di sinistra (lectus imus) il padrone di casa, la moglie e uno dei figli, letto di fondo (lectus medius) agli invitati di rango ed uno dei posti era contrassegnato da “posto consolare”; sulla destra infine il lectus summus, dedicato agli altri invitati. I bambini partecipavano assieme agli adulti ma ad una tavola più piccola. Se vi erano solo due letti, si chiamava biclinium, con questi disposti ad angolo retto. Secondo questa struttura si organizzava spesso la sala da pranzo estiva, nel giardino. I lettini di queste sale da pranzo estive sono sempre in muratura, stuccati e dipinti. Se il tablino e il triclinio spesso si identificavano, esiste talvolta un altro ambiente che fungeva da sala di riunione per invitati e famiglia, il salone, definito come oecus (dal greco oikos=casa) dove si prendevano i pasti quando gli invitati erano numerosi. La parola è generalizzata dagli archeologici ed usata raramente in latino, seppur Vitruvio ne fornisca varie definizioni. Il termine exedra, riferito ad ambienti aperti, risulta invece conforme al loro aspetto. Ambiente riservato ad alcuni privilegiati, il bagno privato compare in alcune case pompeiane molto prima dell’età imperiale. Questi ultimi potevano essere alimentati ancor prima che la città venisse rifornita da un sistema d’acqua sotto pressione, utilizzando anche serbatoi sui tetti della casa. A casa dei crolli dei tetti stessi, ci è difficile però trovare tracce di questi ultimi, molto rare. I bagni privati, nella loro definizione più semplice, erano composti da due ambienti: il primo fungeva anche da spogliatoio e da tepidarium, il secondo era il caldarium nel quale si trovava la vasca. Per conservare un’alta temperatura questi ambienti erano quasi ciechi, illuminati solo da un piccolo oculus o un lucernario, mentre il calidarium era accessibile solo dal tepidarium. Quasi sempre posti accanto alla cucina, i bagni si riscaldavano attraverso un focolare aperto nel muro che la separava dal caldarium. Il pavimento dei due ambienti del bagno era sopraelevato, mentre quello della cucina più basso, così che il focolare potesse riscaldare comodamente lo spazio ricavato sotto le due sale vicine. Alcune dimore disponevano di un’installazione più completa, come ad esempio la casa del Criptoportico ove il bagno, situato nel sottosuolo, era costituito da quattro ambienti: uno spogliatoio (apodyterium), un bagno freddo, un tepidarium e un caldarium. In altri casi il frigidarium era dotato di un’autentica piscina allo scoperto, una natatio paragonabile a quella delle terme pubbliche. Le case che potevano disporre di uno spazio sufficiente, conferivano al loro peristilio dimensioni tali che assumeva l’aspetto di un ampio giardino, l’hortus. Molto spesso per sfruttare al più possibile lo spazio, il giardino si estendeva fino ai muri di recinzione ed era privo di portico. Le numerose pitture pompeiane in cui sono raffigurati giardini ci suggeriscono quali fossero i tipi di piante, da quelle più comuni ad alberi oggi scomparsi del tutto, potendo riconoscere acacia, quercia, cipresso, oleandro, platano e molti alberi da frutto (mandorlo, ciliegio, castagno, fico, melograno, noce, ulivo, melo, pero). Il limone pone un problema di difficile soluzione: non è attestato in Italia nel I secolo, pur essendo riprodotto in una pittura nella casa del Frutteto. In realtà le immagini potrebbero riferirsi tanto ai limoni quanto al cedro alla mela cotogna. Come gli alberi, anche fiori, piante ornamentali e ortaggi sono riconoscibili sulla base delle pitture. L’accurato scavo dei giardini ha permesso di individuare l’esatto profilo del terreno antico, sono stati riconosciuti addirittura disegni di composizioni floreali “alla francese”, le quali formavano sul suolo figure geometriche con piante di colori diversi. Attraverso gli scavi di Spinazzola sono state individuate anche tracce di anfore interrate, le quali probabilmente erano adibite alla conservazione di vino o olio in mancanza di una cantina in alcune case, non molto diffuse a Pompei. Queste si distinguevano in due tipi, il criptoportico e la cantina propriamente detta. Il primo non è altro che una lunga galleria sotto il peristilio o sotto il giardino, utilizzata come appendice dell’abitazione o come polo attorno a cui si distribuivano gli ambienti. Per cantina si intende un ambiente voltato, privo di ornamenti e usato esclusivamente per conservare alimenti e vino (con cella vinaria). L’accesso ai piani superiori era dato da scale, che potevano essere sia in muratura che in legno. Va notato che al contrario degli ambienti al piano terra, quelli ai piani superiori godevano di notevole illuminazione grazie ad ampie finestre, se non a gallerie colonnate. Queste finestre si affacciavano spesso su un balcone, ma potevano anche essere aperte in un aggetto del muro in opera a graticcio, molto frequenti in tutti i quartieri di Pompei. Questi tratti di muro molto instabili attestano la presenza di un piano superiore, ma all’interno della città sono assai rare le case nelle quali si può distinguere la presenza di tre livelli sovrapposti, a causa di assenza di murature che oltrepassano lo strato di lapilli. Le case costruite sulle mura, lungo il limite sudoccidentale della città, sfruttavano in altezza lo spazio che non potevano disporre a terra. Alcune scale partivano direttamente dal livello del marciapiede, disposizione che ci dimostra come le case di Pompei non appartenessero ad una sola famiglia ma abbiamo già unità pluriabitative pur non a livello di Roma o Ostia. 67- L’artigianato, il commercio. Il vino, l’olio I romani derivarono dai greci quasi tutti i sistemi di vinificazione, al tempo stesso l’amore per i vini prodotti in Grecia rimarrà intenso, pur avendo fin dall’età repubblicana un’eccezionale produzione nazionale. I vini prodotti in Italia, benché conosciuti molto presto dai viaggiatori, sono esplicitamente attestati con le loro denominazioni solo a partire dal 121 a.C. Da questo momento in poi, con lo sviluppo delle proprietà agricole, l’Italia accrescerà intensamente la produzione vinicola, fino alle conquiste territoriali d’età Giulio-Claudia che determineranno profondi e nefasti cambiamenti nell’agricoltura romana. Gli ambienti in cui si produceva il vino rappresentavano il quartiere produttivo della villa e comportavano strutture integrate all’architettura ben conservatesi in molte ville della Campania. Come per il vino, pur esistendo importazioni d’olio (specie da Spagna ed Africa settentrionale), i romani preferirono sempre gli oli nazionali. L’area geografica della coltura degli ulivi è sempre rimasta più o meno la stessa: regioni costiere e collinari. Molte ville possedevano sia un impianto vinicolo e sia un oleificio. La villa rustica della Pisanella a Boscoreale, vicino Pompei, illustra chiaramente la doppia produzione di vino e olio in una residenza agricola; questa villa rappresenta un modello campano della seconda metà del I secolo, e 70- Lavanderie e tintorie Altra categoria di artigiani i fullones (follatori), lavoro che consisteva nello sgrassare i pezzi di lana appena tessuti e nel ripulire stoffe e abiti; il sapone, ancora poco usato, era sostituito da fiori di piante saponifere o dall’urina. Per rifornirsi di urina il follatore collocava davanti la propria bottega delle anfore che i passanti erano invitati a riempire, a meno che egli non andasse a prelevarla nella latrina pubblica (forica) pagando una tassa imposta da Vespasiano. Quest’urina, nella quale si immergevano i tessuti, veniva versata in piccoli bacini bordati ai lati da muretti ai quali il follatore si appoggiava mentre pestava i tessuti. Dopo la smacchiatura con l’urina, i tessuti venivano trattati con terra per follatori mischiata con acqua, questo prodotto era in pratica semplice argilla per le sue proprietà smacchianti. Dopo molti risciacqui le stoffe ed i tessuti venivano messi ad asciugare, i drappi di lana pettinati e cimati; le stoffe bianche su una gabbia di vimini, inzolfate per farle diventare più bianche, con l’aiuto di un fornellino su cui veniva bruciato il minerale. L’ultima operazione era la stiratura, per la quale si utilizzava una grossa pressa a vite. La lavanderia della lana e la tintoria erano in relazione sia con i follatori sia con i tessitori. Questi laboratori disponevano di installazioni più semplici, costituite da grossi calderoni di terracotta, incastrati in una struttura muraria sotto la quale era situato un focolare. Entrambe pressoché identiche, possono essere distinte solo sulla base di residui sgrassanti o di coloranti. 71- Le concerie La conceria (officina coriariorum), quantunque temuta per i cattivi odori, era comunque un’installazione inserita in città, almeno a Pompei. Sono state ritrovate le tavole sulle quali le pelli venivano raschiate e le tinozze in cui venivano messe a macerare tra due strati di tanno, ed addirittura gli strumenti del conciatore: trincetto e raschietto. 72- Il vasaio ed il ceramista Del forno del ceramista abbiamo già parlato, di queste botteghe invece sappiamo che per le abbondanti fumate venivano installati fuori dalle zone residenziali. Abbiamo diversi reperti relativi a quartieri dei ceramisti, e non solo a Pompei. 73- Il vasaio ed il ceramista I ritrovamenti di oggetti all’interno di botteghe sono spesso indizi più sicuri per l’identificazione che non impianti architettonici troppo rovinati o spogliati di elementi metallici determinanti. A Pompei è stato fatto ritrovamento di una bottega di uno scultore, ove son state ritrovate statue ed arnesi, o ad esempio la bottega del faber aerarius, fabbro presso il quale fu ritrovata la groma. Conosciamo un gran numero di attività sulla base di iscrizioni o pitture che potevano figurare all’interno o all’esterno della bottega, o ancor meglio sulle iscrizioni elettorali ove si citano gruppi o corporazioni di artigiani. Le iscrizioni delle ultime elezioni pompeiane hanno permesso di elencare più di cinquanta mestieri. Lessico illustrato delle modanature più frequenti ce vs quarto di cerchio quarto di cerchio dich diritto rovescio ao gda scanalatura toro 0 bastone diritta cyma reeta eyma reversa astragalo: SPIGOLO cordone e listello A LISTELLO = == _ se cyma recta coma reversa scozia efo trochio RUDENTE LISTELLO _ STILOBATE, ____ ++ base attica» i base «ionica» I secondo Vitruvio, m, 5 BASE ATTICA ____ listello o filetto IS 0 _ anaco f PETE i = FASCIA —— ECHINO FILETTI — i GORGERINO ASTRAGALO — TORO 0 CORDONE LISTELLO -SCOZIA Capitello dorico Capitello ionico ECHINO A OVOLI. ABACO VOLUTA i 2) ‘ OCCHIO PERLINE E ì GORGERINO A FUSAROLE à b % PALMETTE ABACO VOLUTA BALAUSTRO BALTEO
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