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L'arte e il mestiere, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Riassunto del libro consigliato per l'esame di Storia del Teatro e dello Spettacolo di Allegri

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017

Caricato il 11/03/2017

gaia_pipitone
gaia_pipitone 🇮🇹

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Scarica L'arte e il mestiere e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! L’arte e il mestiere Un attore si definisce come colui che “recita, interpreta una parte in uno spettacolo”, oppure chi “recita interpretando la parte di un personaggio in uno spettacolo”. Da un attore ci aspettiamo che reciti, che faccia spettacoli e che interpreti una parte e inoltre che abbia un bel portamento. Un individuo fuori dalla norma con una voce educata ed espressiva, con particolari predisposizioni che gli permettano di calarsi credibilmente nei personaggi che deve rappresentare. L’abilità dell’attore è infatti quella di saper esprimere sentimenti ed emozioni non suoi, di fingere una personalità che non gli appartiene, di produrre gesti, parole, passioni, atteggiamenti “finti” ma che sembrano “veri”. La nozione di attore non è stabile e muta secondo il momento storico e il contesto culturale, perchè il teatro è il luogo fisico e simbolico in cui ogni società ha decodificato i propri miti, è il luogo in cui ogni cultura ha rappresentato a sè stessa i propri valori e modelli sociali e psicologici, quindi il proprio voler essere. E quindi l'attore è il fulcro e lo strumento di questa grandiosa macchina antropologica e sociale, prima che artistica e ludica. La vita quotidiana è tuttavia piena di azioni, tutti noi ne compiamo senza per questo essere “attori”: e allora l'azione dell'attore deve avere caratteristiche particolari. L’azione dell’attore è il recitare o il rappresentare, funzioni che racchiudono una ripetizione e che dunque non valgono a schiodare la concezione dell'attore dalla sua funzione di operatore della finzione. Gli studi antropologici ci dicono che, così come non esistono società senza una qualche forma di gioco, non esistono società senza una qualche forma di “teatro”, a testimonianza del fatto che queste attività rappresentano la risposta a un bisogno che può assumere forme diverse, di maggiore o minore intensità, ma resta ineliminabile e necessario. L’attore sa che l’azione nella quale si sta impegnando, anche se è molto simile a quella della vita quotidiana, non è da prendere seriamente, perchè si svolge in un campo delimitato nel tempo e nello spazio, entro il quale ci sono delle regole particolari e diverse rispetto a quelle della vita reale. Il campo d’azione dell’attore deve avere quindi confini precisi, un perimetro che definisca con nettezza un “dentro” e un “fuori” e istituisca una soglia che non si oltrepassa con leggerezza. Naturalmente l'effetto di sogno è più forte nei luoghi di spettacolo istituzionalizzati come teatri o arene, e dunque ancora più trasgressiva è la violazione dello spazio di chi dalla platea pretende di salire sul palcoscenico o dalle tribune scende sul campo di gioco. Ma dopo gli oltraggi delle avanguardie, le irruzioni degli spettatori nello spettacolo sono quasi sempre finte e previste, sono invenzioni di regia. Quando però sono gli attori a sconfinare nel luogo destinato agli spettatori, da lì viene uno spaesamento, una sorta di sottile inquietudine, come se gli spettatori avvertissero una minaccia alla sicurezza del proprio territorio, come se un soggetto intriso di una dimensione altra invadesse la quotidianità di chi si sentiva protetto da una soglia trasparente, ma avvertita come invalicabile. Lo spazio scenico ha in sé le connotazioni del sacro, e la perimetrazione da cui parte l'evento risuona dell'eco lontana ma ancora avvertibile dell'istituzione dello spazio sacrale. Per questo la contiguità con l'attore che invade il nostro territorio è vagamente inquietante, perchè l'attore giunge sempre da un “altrove” popolato da presenza che non appartengono al nostro mondo: divinità, spiriti inquieti, demoni, fantasmi. Ma anche il tempo, che contiene l'azione dell'attore, deve essere perimetrato. I segnali di inizio e di fine della performance sono codificati nelle forme istituzionali dello spettacolo (aprirsi e chiudersi del sipario, accendersi o spegnersi delle luci), ma sono di solito percepibili anche nei fenomeni meno formali. L’attore si qualifica per il fatto di occupare uno spazio con un’azione, che è dotata di caratteristiche, particolari tali da qualificare in modo diverso rispetto alla quotidianità anche il tempo e lo spazio in cui si colloca. Bisogna definire queste particolatirà. La teoria del linguaggio di Roman Jakobson viene definita una funzione “poetica”, ossia una modalità di usare il linguaggio in cui la parola è allo stesso tempo “autoriflessiva” e “ambigua”, quindi attenta alla propria forma e aperta ad una possibilità di riferimenti semantici e culturali che favoriscono una lettura a diversi livelli. Così come per Jakobson la funzione poetica non appartiene solo all'estetica ma ad ogni uso “creativo” del linguaggio, dallo slogan politico alla frase pubblicitaria, la “teatralità” del gesto non appartiene solo all'azione dell'attore, ma anche ai gesti della quotidianità. Il problema teorico non sarà allora quello di distinguere due categorie, quella dell'azione “teatrale” e quella dell'azione “quotidiana”, ma di intendere la “teatralità” come una qualificazione dell'azione, di ogni azione. Nell'azione quotidiana la teatralità sarà allora presente in maniere irrilevante e non dominante, fino a divenire invece totalizzante nell'azione dell'attore. Tanto che una stessa azione può passare da quotidiana a teatrale quasi impercettibilmente, solo superando una piccola frontiera che sta nella mente di chi guarda. Il grande scrittore e drammaturgo Heinrich von Kleist inserisce una sorta di parabola nel suo breve saggio del 1810, Sul teatro di Marionette. Riesce a definire le nozioni che andiamo trattando. Quando il giovane compie il primo gesto, si tratta di un'azione quotidiana, che ha il solo scopo concreto di asciugare il piede. Quando viene raddoppiato dalla visione dello specchio, il gesto non è più lo stesso, perchè perde la referenzialità della funzione pratica per cui era stato prodotto, e diviene il “segno” di un gesto. Per questo assume connotazioni estetiche, ricerca parallelismi artistici ed è attento esclusivamente alla sua forma. Nella visione dello specchio, attraverso la coscienza e l'occhio del giovane, quel gesto si fa allora artificiale, allusivo, costruito, finto, insomma “teatrale”. In questo racconto c'è poi la descrizione di un terzo gesto, quello che il ragazzo ripete tre, quattro, dieci volte, solo per mostrarlo al suo interlocutore. E si tratta di un gesto da “attore” perchè, oltre che teatrale, diviene anche “spettacolare”, cioè si costruisce “in favore” di qualcuno che guarda, così che il suo senso non sta più solo nel ricercare una forma ma nello stabilire un atto di comunicazione, condizionato dallo sguardo dell'altro, che diviene non solo il destinatario ma la ragione stessa della costruzione del gesto. Kleist attribuisce a questa volontarietà di comunicazione la perdita della grazia, perchè quell'eccesso di consapevolezza produce affettazione. (superiorità della marionetta sulla gestualità umana, in termini di grazia, proprio perchè la mancanza di coscienza le impedisce l'affettazione). La nozione della diversità tra un gesto “quotidiano” e un gesto “teatrale”, cioè cosciente della propria forma, e poi anche quella, che è quasi un'opposizione, tra un gesto “teatrale” e un gesto “spettacolare”, cioè prodotto in funzione di qualcuno che guarda, per cui alla coscienza della forma si aggiunge la coscienza dello sguardo dell'altro. Solo perchè sa che il pubblico si collocherà in quella posizione, l'attore produce quel gesto e non un altro, fa quel percorso sulla scena, assume quell'atteggiamento, mostra quel profilo, usa quegli accessori. La coscienza dello sguardo determina la forma del gesto, che è pensato ed eseguito proprio “in favore” di quello sguardo. E come mostra il racconto di Kleinst, ma anche l'esperienza di chi prova un innaturale irrigidimento quando si scopre improvvisamente nell'inquadratura di una telecamera, ciò può produrre affettazione, cioè fastidiosa artificialità di atteggiamento. Ma l'attore è proprio colui che è chiamato a dominare questo processo, che deve essere padrone della propria gestualità, capace di mantenere una grazia che allontani l'affettazione, se è questa la sua poetica, o al contrario le qualificazioni dell'attore come interprete, proprio come mediatore tra la parola del poeta e gli spettatori. Questo dialogo ci indica già tutta la dimensione fascinatoria, il potere seduttivo esercitato dall'attore sullo spettatore, la sua capacità di indurgli emozioni e di trascinarlo in un universo diverso da quello della quotidianità. Dal rapsodo all’attore tragico, il percorso da descrivere è ancora lungo. All'inizio del processo che conduce alla tragedia sta il coro, ovvero un “attore collettivo”, ma più vicino alla dimensione del celebrante di un rito, che a quella di un interprete. Non ci sono ancora personaggi, nè intrecci da interpretare, ma solo le evoluzioni e il canto di un coro che rappresenta la comunità ed esprime la voce del dio, appunto nel contesto festivo e cerimoniale del rito in onore degli dei, soprattutto di Dioniso. Come nel ditirambo, da cui probabilmente prende origine la tragedia, che è una danza eseguita in circolo da cinquanta coreuti che si accompagnano con il canto. Molto poco sappiamo del processo attraverso cui dal ditirambo si passa alla forma strutturata della tragedia e poi successivamente alla commedia. Nel corso del VI secolo a.C., presumibilmente all'epoca di Pisistrato, tra il 535 e il 533, già sono istituiti gli agoni tragici ad Atene e la tragedia, definita dal rapporto tra il coro e un attore, ha assunto la sua struttura fondamentale. La tradizione assegna a Tepsi l’introduzione della figura dell’attore che interagisce con il coro e permette lo sviluppo dell’azione drammatica, alla quale non era evidentemente sufficiente la precedente divisione del coro in due semicori. Quell'attore viene indicato con il nome di hypokrites, tradizionalmente inteso come “colui che risponde” al coro, ma che alcuni intendono anche come estensione romantica di “colui che interpreta i sogni”, facendo in tal modo dell'attore colui che rende palese agli spettatori il personaggio e le parole che sta interpretando, simile a chi rende comprensibile un linguaggio altro e misterioso come quello dei sogni. Originariamente, nella cultura greca, il termine hypokrites non possiede quelle connotazioni negative che, soprattutto ad opera della tradizione cristiana, gli saranno successivamente attibuite, per cui il derivato “ipocrita” è colui che mente coscientemente. Attore è colui che che rende palese agli spettatori il personaggio e le parole che sta interpretando. L’attore greco possiede connotazioni elevate, è persona eminente e rispettata, cui vengono riconosciuti particolari privilegi, come l'esenzione dal servizio militare. E proprio per questo la funzione dell'attore è inacessibile alle donne, il cui status sociale nella civiltà greca è evidentemente inadeguato a ricoprire un ruolo così alto di rappresentanza dei valori della comunità, tanto che è addirittura in dubbio se le donne, nel periodo classico, possano assistere agli spettacoli. Sono attori nelle loro tragedie gli autori stessi, specie nel primo periodo: certo lo è Tepsi, Eschilo, Sofocle. Dalla metà del V secolo le due funzioni, di drammaturgo e di attore, si scindono con una progressiva personalizzazione dell’attore. Comincia ad essere l'interprete a determinare il successo di un evento, più che il drammaturgo. Ma l'attore non è più solo a “rispondere” al coro, perchè Eschilo ha introdotto il secondo attore e più tardi il terzo. Nella seconda metà del V secolo la struttura della tragedia è definitivamente fissata. Le rappresentazioni hanno luogo nel contesto delle feste ateniesi dette Grandi Dionisie o Dionisie cittadine, in primavera, che hanno forma di una gara. A questa gara partecipano tre tragediografi, che sono tenuti a produrre una tetralogia composta da tre tragedie e un dramma satiresco. E diversamente da quanto avviene nella cultura moderna, legata a un patrimonio di opere di repertorio, i testi sono legati all’occasione di spettacolo per cui sono prodotti; solo in un momento successivo, a causa della mediocrità dei nuovi tragediografi, sarà consentita la ripresa delle opere del periodo aureo. La scelta dei tragediografi, tra i candidati che si offrono, è operata dall'arconte sulla base di anticipazioni che i poeti sono tenuti a sottoporgli. Gli spettatori pagavano un biglietto di ingresso e lo stato pagava il biglietto ai cittadini meno abbienti. Alla fine dell'agone, una giuria espressione delle tribù che compongono il popolo ateniese proclamava i vincitori tra i poeti e tra gli attori. A conclusione delle feste si tiene un assemblea in cui vengono valutati l’andamento degli spettacoli e il funzionamento dell’organizzazione. Gli eventi spettacolari si inseriscono in un complesso sistema festivo, che comporta la sospensione di gran parte delle attività civili nella città. Le feste si aprono con un corteo di traslazione della statua del dio. Dal 444 tale cerimonia si tiene nell’Odeon, che Pericle ha fatto costruire vicino al teatro. Il giorno successivo si tiene il corteo con la sfilata di enormi falli, simboli di fertilità, verso il tempio di Dioniso, luogo del sacrificio al dio di frutti della terra e di un animale. Nel corso della giornata hanno luogo gli agoni ditirambici, in cui si affrontano cori di dieci persone, e alla sera una festa liberatoria, che arriva a tributare il giusto omaggio al dio dell'ebbrezza e della trasgressione. Dimensione sacrale e festiva in cui si inseriscono gli spettacoli. La teatralogia di ogni autore viene rappresentata in un'unica giornata. Alla fine delle tre giornate dedicate alla tragedia, in un'unica giornata vengono rappresentata cinque commedie di autori che partecipano all'agone comico. Una struttura non diversa presiede all'organizzazione delle altre feste teatrale della Grecia antica, le Lenee che si svolgono in gennaio-febbraio e prevedono un pubblico quasi esclusivamente ateniese, e le Dionisie rurali, ospitate nelle campagne a dicembre. Alle Lenee le opere devono essere nuove, come nelle Grandi Dionisie, in un contesto che appare più dedicato alla commedia. Non che manchino gli agoni tragici, ma i tragediografi sono solo due e solo due anche le tragedie presentata da ciascun poeta, mentre sempre cinque sono le commedie. E sono documentati prima gli agoni comici, dal 442, degli agoni tragici. Ma il canone del teatro greco è quello che si può vedere nella Grandi Dionisie, e soprattutto nella tragedia. Lo spettacolo avviene prima nella piazza civile, l’agorà, e solo dopo in un edificio specifico, che tuttavia mantiene le stesse caratteristiche di luogo aperto, sociale, relazionato con lo spazio circostante. La struttura fondante del teatro è l'orkhestra, spazio prima trapezoidale e poi circolare che deve il suo nome al verbo orkheomai, ovvero ballare, ed è originariamente il luogo deputato alle evoluzioni del coro. Gli spettatori siedono su sedili di legno collocati a circondare parzialmente l’orchestra sulle pendici della collina. In epoca classica gli elementi di arredo scenico sono elementari, come volevano le convenzioni del teatro greco. La skené, da cui poi “scena” ma originariamente “baracca”, un edificio ligneo tangente o secante il cerchio dell'orchesta, di fronte al luogo degli spettatori, che offre la propria facciata come fondale dell'azione e come immagine del palazzo davanti al quale si svolgono le tragedie. Logheion, parte sopraelevata da cui parlano gli attori e la ricca facciata del palazzo dietro di essi, affiancata da due avancorpi aggettanti. Mekhane, macchina per far salire in aria qualche personaggio o per far discendere dal cielo qualche dio, da cui appunto la locuzione deus ex machina Ekkuklema, marchingegno mobile o girevole per far apparire in scena i cadaveri morti fuori scena, perchè la cultura greca non ammette la rappresentazione teatrale della morte, tranne forse che per un paio di scandalosi casi euripidei. Esiste dunque un'attività non secondaria di organizzazione dello spettacolo, di “messa in scena” in termini moderni, che assume anche il compito di istruire e guidare attori e coreuti. Gli attori sono probabilmente pagati dallo stato, mentre le spese per il coro sono sostenute dal corego, un cittadino ricco cui lo Stato conferisce questo oneroso privilegio. Il coro, formato da dodici elementi al tempo di Eschilo e da quindici da Sofocle in poi, tutti con la maschera, entra in scena preceduto da un flautista senza maschera e di regola si esprime all'unisono, come un singolo personaggio collettivo, cantando e producendosi in movimento coreografici. Secondo la testimonianza di Polluce, il coro solitamente entra nell'orchestra con la formazione geometrica di un rettangolo composto di cinque file di tre coreuti, il coro comico è invece formato da ventiquattro coreuti. Tranne in qualche caso in cui è portavoce di entità divine o di gruppi stranieri, il coro rappresenta la comunità del luogo in cui si svolge l'azione, attraverso una sua componente (anziani e donne). Per questo può assumere quel ruolo che gli è peculiare, di funzione intermedia e mediatrice tra gli spettatori e gli attori, perchè in fondo partecipa della dimensione di entrambi, attore collettivo nella rappresentazione, ma portatore in essa del punto di vista degli spettatori, e dunque dei valori, timori e dei desideri della comunità. È un personaggio a tutti gli effetti, ma è insieme luogo di commetto, di giudizio e di interpretazione dell'azione stessa. Gli attori sono tre, gerarchizzati in protagonista, deuteragonista e tritagonista, a cui si aggiungono attori muti e comparse. Le comparse come corteggio per re e regine e gli attori muti per la complessità del meccanismo di distribuzione delle parti. Essendo solo tre gli attori, ma più numerosi i personaggi, ogni attore dovrà rappresentare più personaggi in una sola rappresentazione. Un attore interpreta più ruoli con un rapporto tra attore e personaggio difficilmente comprensibile alla nostra sensibilità contemporanea, consentito solo dalla convenzionalità che regola tutto il meccanismo. A identificare il personaggio non è l’attore ma la maschera e talvolta gli accessori. Gli attori sono solo maschi, pur in presenza di tanti personaggi femminili di grande intensità e centralità drammaturgica, per cui è già in partenza negata ogni possibilità di immedesimazione e di verosimiglianza. Diversamente da quanto avverrà nel teatro elisabettiano, in cui i personaggi femminili saranno interpretati da giovinetti, ossia maschi che presentano caratteri sessuali ancora incerti e dunque il più vicino possibile alla condizione femminile, nel teatro greco le parti di donna sono affidate ai medesimi attori che interpretano le parti maschili, senza alcuna ostentazione mimetica. Si riferisce infatti a un'epoca tarda, quando la rappresentazione tenderà a spingersi sempre più nella direzione della verosimiglianza. Perchè a dare credibilità all’azione tragica non è la verosimiglianza, ma la convenzione che si instaura tra attori e spettatori. È la parola, e il sentimento che è imprigionata in essa, che rende visibili agli spettatori lo scontro drammatico, le tensioni, le passioni. Tutto questo è reso possibile da due condizioni: 1) risiede nel carattere comunitario del teatro greco che fa si che attori e spettatori non siano reciprocamente “altri”, ma condividano contesto sociale e culturale di riferimento. Il tragediografo non inventa le sue storie ma affonda le mani nel patrimonio comune di miti e racconti che sono già presenti alla memoria della comunità. Questa condivisione è la base su cui si colloca la convenzionalità della struttura formale della tragedia, ed è da questa piattaforma che nascono il coinvolgimento spirituale e la commozione degli spettatori. 2) la particolarità del rapporto tra psicologia e azioni, del tutto diverso da quello moderno. Per la psicologia moderna, le azioni non sono che il frutto del carattere e dei sentimenti che albergano nell'intimo delle persone. Il movimento è dunque dall'interno dell'animo umano all'esterno del suo comportamento. Per la drammaturgia moderna sarebbe ipotizzabile un dramma senza azione, ma non senza caratteri e psicologia. Per la cultura greca è il contrario: un personaggio deve primariamente compiere determinate azioni, anche perchè il Fato presiede allo svolgimento delle vicende, e solo in dipendenza delle azioni che deve compiere è fornito di un carattere che le renda possibili. Una tale concezione muta radicalmente l'approccio al personaggio che è consueto per la cultura moderna: nella tragedia il personaggio è definito dalle sue azioni e dai suoi discorsi, dal destino di cui è portatore, e non dalla credibilità delle sue motivazioni psicologiche. Dunque spettatore. Gli spettatori convengono in un luogo funzionalmente costruito per partecipare ad un evento-rito, non per riconoscersi come comunità, ma per assistere, come singole persone irrelata le une alle altre, ad uno spettacolo a cui li lega solo una relazione visiva. La differenza tra la condizione greca e romana è proprio quella che passa tra la comunità e la massa. La relazione spaziale tra l'arena e le gradinate è di totale estraneità. La spettacolarità si trova anche in tutte le altre attività sociali e civili come i “trionfi”, i funerali pubblici, e quella che viene chiamata “politica spettacolo”, la “pompa”, la sfilata simbolica per le strade della città per l’apertura dei “ludi”, i giochi spettacolari. Questa spettacolarità, poiché è un fenomeno favorito e regolato dal potere civile, diviene anche uno strumento di dominio e un espediente politico. E proprio per questo, i governatori ostacolavano la costruzione dei teatri, per non dare stabilità e riconoscibilità istituzionale al luogo in cui lo spettacolo si fa non solo apparato e azione ma parola e discorso, quasi temendo la potenza di questo strumento. Consentendo l'insulto rivolto dal popolo anche ai potenti durante le pompae ma vietanto invece a teatro ogni giudizio sulle persone. Quando i teatri vengono costruiti sono pensati molto più in funzione dell'acustica che della visione, dunque come contenitori di parola e musica. (De architectura di Vitruvio) Nelle intenzioni, dovrebbe istituirsi una separazione tra la visività degli spettacoli circensi e la percezione prevalentemente uditiva degli spettacoli teatrali. (al circo le corse, il pugilato, la lotta, le gare dei carria e alla cavea del teatro il canto e la musica). Fino all'ultima età repubblicana, la coscienza civile tenterà di mantenere questa distinzione, delegando al teatro anche una funzione sociale e politica. Quando ancora il teatro rappresenta opere letterarie, non è inconsueto che gli spettatori interpretino certe battute come allusioni alla politica contemporanea, inducendo gli attori a ripeterle con intenzionalità.Ma la stagione del teatro letterario anche con valenza civile sparirà lasciando spazio al puro intrattenimento e visività. In questo passaggio dello spettacolo teatrale da evento letterario e musicale che si acolta a fenomeno la cui principale valenza comunicativa è affidata all'apparato scenico, e dunque indirizzata a quelli che Orazio definisce incertos oculos, è qui che avviene per la cultura classica la degradazione del teatro e il definitivo assestarsi della dimensione spettacolare, che si basa proprio sul meccanismo comunicativo che corre sul filo dello sguardo. Ed è questa risoluzione dell'evento teatrale totalmente in spettacolo che porta anche a quella particolare forma di estremo e crudele “realismo” degli spettacoli del primo Impero, che indicano soprattutto la ricerca di “effetti speciali” a forte impatto spettacolare. Queste forme e questo tipo di rapporto con il pubblico rendono sempre più lo spettacolo teatrale, all'interno delle strutture sociale e delle gerarchie dei valori, un fenomeno sostanzialmente non diverso dagli spettacoli circensi. Gli spettacoli teatrali si svolgono da sempre all’interno dei ludi, precisamente tra la pompa che li precede e i ludi circenses che devono concludere necessariamente il ciclo delle feste. Ciò che importa è il comune contesto antropologico e di fruizione tra teatro e circo, per cui la disposizione psicologica degli spettatori non muta nella sostanza tra uno spettacolo e l'altro. ma è impressionante comunque, sul piano sociologico, lo straordinario numero di giornate dedicate alle feste e agli spettacoli. Questa contiguità con la dimensione festiva e circense si palesa anche nella struttura degli spettacoli. E del sangue e delle morti in scena che producono in teatro le stesse emozioni forti e feroci del circo. Ma anche al di là di quegli eccessi, la condizione dell'attore romano è comunque ben differente da quella dell'attore greco. Le compagnie sono comandate da un dominus gregis che ne è il capocomico e il primo attore e sono formate prevalentemente da schiavi. Sul palco, davanti alla imponente scaenar frons, la facciata dell'edificio che recupera con maggiore magnificienza la skené greca, ricoperta di materiali luccicanti che riverberano la luce del sole filtrata e colorata dai veli gialli, rossi e verdi che coprono l'edificio, agisce un attore che solo nel caso delle commedie e delle tragedie si affida alla tradizione dell'interprete della parola del poeta. lo spettacolo si affida molto alla macchineria e all'accumulo di effetti. Il costume è l'elemento fondamentale della rappresentazione, con i suoi colori e ricami. L’attore tragico porta la corona, l'abito purpureo, i coturni, mentre l'attore della commedia indossa un calzare più basso, il socco e presenta costumi più vivaci e variegati, chiaramante codificati e convenzionali e le parrucche che identificano i personaggi, a partire da quella rossa per gli schiavi. Il coro, quando compare, non ha più funzione di intermediazione e di commento che aveva nella tragedia greca, ma diventa puro accessorio esecutore di canti e coreografie. L'adozione, dal II secolo a.C, di un sipario meccanico che si alza e si abbassa, serve a istituire ancora di più la scena come luogo separato, spazio dell'illusione e della meraviglia, aperta di colpo agli sguardi di un pubblico che chiede solo di essere stupito. A marcare la diversità con la cultura teatrale greca, la tradizione ci tramanda che gli attori romani all'inizio recitano senza la maschera, introdotta a metà del I secolo a.C., forse dall'attore Roscio. All’inizio la maschera era proibita agli attori perchè riservata ai grandi patrizi che recitano nelle atellane e dunque per non confondere questi ultimi con la condizione degli attori professionisti, che sono prevalentemente schiavi o liberti. Discredito sociale di cui soffrono gli attori e la dimensione culturale, di cui la maschera è chiara espressione, non appartiene alla cultura teatrale romana. La maschera probabilmente venne introdotta, in un contesto che non le appartiene, proprio per portare la dignificazione di cui è segno a una professione così degradata. Ma la fortuna della tragedia e della commedia sta scemando e sono ormai altri gli spettacoli di grande successo, come il pantomimo (che prevede una maschera piccola e leggera) e soprattutto il mimo in cui la maschera è assente. E proprio il favore popolare decretato al mimo e al pantomimo testimonia il ruolo di assoluta centralità dell’attore nella macchina spettacolare romana. L'attore latino, dal punto di vista della tipologia della recitazione e del rapporto che instaura con il pubblico, è paragonabile all'attore ellenistico, che aveva fatto della propria azione il fulcro della rappresentazione, che produceva recital in cui far risaltare la propria abilità tecnica e non la parola del drammaturgo. E proprio perchè si offre come oggetto di spettacolo e non come partecipante ad un evento, l’attore romano rompe definitivamente l’unitarietà dell’azione teatrale greca, distinguendo in funzioni specifiche e distinte le azioni del cantor, actor e histrio, contraddistinte dall' uso del canto, della parola e dell’azione. L'analisi della storia semantica di actor e histrio mostra la differenza di connotazioni sociali tra i due termini e dunque le due figure. Se actor possiede valenze più positive, o comunque meno negative di histrio, la ragione sta nell'uso della voce che avvicina l'actor all’orator. ma alla fine la figura dominante della scena romana, a partire almeno dalla fine dell'età repubblicana, è quella dell’histrio. tutte le tradizioni in cui affonda le proprie radici spingono l’attore romano nella direzione della corporeità piuttosto che verso la parola, proprio perchè è l’azione a fare lo spettacolo. Si manifesta quello spirito comico, grottesco e derisorio che di necessità fa dell'attore il centro dell'evento. Ancora di più nelle atellane, così chiamate perchè rappresentate a partire dal IV secolo a.C. nella città di Atella, con quei tipi fissi in cui spesso si è voluto vedere l'antecedente e la radice della Commedia dell'Arte. L'attore, in questi casi, non può più essere il portaparola dell'autore, che in qualche modo lo anima e ne predetermina l'azione, ed è invece una presenza corporea, raggrumata in tipologie comportamentali fisse come nelle atellane. E si tratta di teatro non-letterario non solo perchè buona parte dell'azione è demandata all'improvvisazione dell'attore, ma proprio perchè è l'azione a fare lo spettacolo. Un evento dunque che si vuole sin dall'inizio fondamentalmente spettacolare, ed essenzialmente comico. La stessa idea di teatro, che colloca l'evento in una dimensione visivamente e psicologicamente spettacolare, produce anche il mimo e il pantomimo, che soppiantano quasi totalmente il teatro letterario, in età imperiale. Il mimo, dalla prima metà del II secolo a.C diviene lo spettacolo principale dei Ludi Florales e fenomeno di grande successo. Gli autori imbastiscono un semplice canovaccio e su quella base gli attori improvvisano azioni, spesso oscene, sempre attenti ai desideri del pubblico. Il pantomimo è spettacolo che la tradizione dice introdotto a Roma nel 23 a.C da due danzatori proveniente dall'Oriente, Batillo e Pilade, e subito destinatao ad un grande successo. In esso un attore-danzatore, maschio, indossando ricchi costumi di foggia orientale e assumendono maschere diverse, rappresenta da solo, con i soli gesti, con passi di danza e con l'accompagnamente di diversi strumenti musicali, vicende di contenuto mitologico, mentre un coro fuori scena canta descrivendo l'argomento. Si basa su una riconosciuta convenzionalità dei gesti. La codificazione dei gesti è di natura comunicativa più che espressiva, affidata a due discipline rigorose che codificano i movimenti delle mani, la chironomia, e del corpo, l'orchestica. Ma anche nel mimo, la mimica, in un volto senza machera, è codificata, specie per la parte superiore, con il movimento e l'espressione degli occhi, e le sopracciglia dei cattivi ad accento circonflesso. E le persone buone si muovono lentamente, al contrario dei personaggi negativi, dei parassiti, degli schiavi, la cui agitazione arriva al culmine con il topos canonico del servus currens. L’attore è dunque il centro dello spettacolo teatrale romano. L'attore diviene il fulcro dell’evento e dell’organizzazione teatrale proprio quando la sua posizione sociale è più screditata. La “soglia” di accesso al palcoscenico teatrale si abbassa, per essa passano soggetti sociali più bassi, che dunque non possono, culturalmente e socialmente, rappresentare altro che se stessi, rinunciando a farsi portatori di quei valori che invece la società greca riconosceva nei suoi attori. L'unico elemento portante di una teatralità così bassa è un soggetto che, sul piano culturale e sociale, sia ugualmente basso, cioè l'attore stesso. L'innovazione straordinaria è l’entrata delle donne in scena, negli spettacoli di mimo. Nel teatro greco la presenza della donna era inconcepibile proprio per l'aura alta e sacrale in cui era collocato l'evento, mentre in uno spettacolo culturalmente degradato e usato solo per un divertimento spesso osceno, affidato sul piano comunicativo alla corporeità dell'attore, anche un soggetto sociale dequalificato come la donna può salire su un palco che si è, simbolicamente, molto abbassato. Poiché la donna diviene elemento di attrazione anche sessuale attraverso la nudità e i non casti comportamente sulla scena, promuovono fenomeni di divismo e successo sociale anche fuori dal teatro. È nuovo che la presenza femminile induce nello spettacolo, in termini di fascinazione, di seduzione e anche di eros. Capita spesso infatti che il giullare si metta al servizio esclusivo di un signore o di una municipalità, divenendone uno stipendiato e acquisendo una stabilità di ruolo sociale. In quei secoli non c'è corte che non abbia al proprio servizio un numero considerevole di cantori, musici o danzatori addetti ai divertimenti. Il XIII secolo è anche l'epoca in cui viene definitivamente a maturazione un processo già iniziato nel secolo precedente, che sarà fondamentale per l’evoluzione futura dello spettacolo in Europa: la separazione tra la funzione di autore e quella di esecutore, con la distinzione tra giullari che eseguono e trovatori che compongono. Il passo successivo è l'individuazione della figura del trovatore, autore che non vuole più essere uomo di spettacolo ma si trasforma in intellettuale, divenendo addirittura “dottore in poesia”. Guiraut rivendica uno statuto più alto per i trovatori, non solo in nome della parola di cui è portatore, ma sopratutto in nome della parola scritta, che è l'unica a resistere nel tempo. La rivendicazione di superiorità culturale e di ruolo sociale viene dalla contrapposizione tra performance effimera e scrittura duratura, dunque tra evento e testo scritto, in nome della letteratura contro lo spettacolo. Il giullare, unico esponente della teatralità laica per tutto il Medioevo, nella sua declinazione colta del trovatore del XIII secolo, chiede e ottiene una dignificazione culturale e il riconoscimento di una funzione sociale positiva solo a patto di impadronirsi della parola scritta e di uscire dalla dimensione dello spettacolo. In questo processo di allontanamento dell'uomo di cultura dalla pratica dello spettacolo sta la migliore definizione dell'attore nell’epoca medievale, almeno nella sua forma più specifica che è quella del giullare. Anche nella trattatistica cristiana, il giullare non è mai condannato come “mentitore”, cioè perchè assume personalità e comportamento di un personaggio e pretende di essere ciò che non è. La condanna investe il giullare proprio per cio che è, vale a dire un professionista dell'esibizione di sé. L’attore medievale non è dunque un soggetto che interpreta o rappresenta, come nel teatro classico o moderno, ma solo “uno che agisce”. Ma in questo senso la qualifica gli compete completamente, perchè lo spettacolo consiste proprio in questa azione offerta alla visione degli spettatori. Il giullare non interpreta il personaggio ma lo spresenta, sta sempre davanti al personaggio e non dietro, con una tipologia di spettacolo che non dovrebbe discostarsi molto da quella di Dario Fo in Mistero Buffo, che drammatica il racconto prestando voce e atteggiamenti ai diversi personaggi senza mai sparire dietro di essi. Non è dunque la giulleria che porterà alla ridefinizione delle forme del teatro. La figura del giullare non esaurisce il quadro dell'attoralità medievale, la figura del giullare non è l’unica in tutta l’attoralità medievale, bisogna trovare posto anche per altre due tipologie, l’attore delle diverse forme di dramma sacro e quella dell’attore del teatro comico profano, in cui, diversamente che per il giullare, almeno parzialmente è in opera un meccanismo di rimando da attore a personaggio, anche se ancora lontana dalla concezione antica e moderna di interprete. Esiste anche il teatro religioso che appere una sorta di paradosso della storia, se si considera la campagna ideologica della cultura cristiana contro lo spettacolo. Durante tutto il medioevo non cessanto canoni dei Concili, gli interventi delle autorità ecclesiastiche e antiche condanne nei confronti dello spettacolo e dei suoi interpreti, anche se si riferiscono ormai a una forma culturale che non esiste più. La storia ha cancellato la nozione stessa di teatro e farà molta fatica a riconquistarla, ma proprio perchè si è perduta non si ha una precisa coscienza di questa teatralità. La riprova è nell'imbarazzo e nell'impressionante oscillazione dottrinaria della cultura cristiana medievale quando si trova a fare i contri con un fenomeno nato all'interno stesso delle proprie strutture e dei propri riti come le varie forme del treatro religioso, dal dramma liturgico in latino, le Laude in volgare e tutte le forme di spettacolarità complessa e grandiosa come i Misteri, le Passioni o le rappresentazioni cicliche del tardo medioevo. In quei casi, le riflessioni dei moralisti e dei teologi variano dal non riconoscimento delle valenze teatrali in queste rappresentazioni che vengono chiamate cerimonie, a volte si riconoscevano e quindi scattava la condanna. Perchè solo se proiettiamo su quei fenomeni le nostre categorie moderne, possiamo riconosce in essi i meccanismi tipi del teatro, la rappresentazione, l'interpretazione di personaggi, la recitazione. Ma in realtà quello che per noi è “teatro” nelle intenzioni originaria è “cerimonia”. E dunque la figura dell'attore andrebbe vista in una dimensione vicina a quella del celebrante. Nel dramma liturgico gli attori sono i monaci benedettini prima e i giovani della schola poi, sempre attori maschi, e molto lontani per collocazione sociale e dignificazione morale dagli attori di professione. l’azione è rigidamente incardinata dentro la struttura liturgica. All'interno di questa situazione non si può pensare che possa instaurarsi un meccanismo di interpretazione. Innanzi tutto perchè non c’è mai un'oggettivazione dei personaggi, che dipendono sempre dalla narrazione: è il coro l’unico soggetto di azione. Ma poi soprattutto perchè c'è un'impossibilità teologica che renderebbe blasfemo per chiunque assumere le sembianze di Cristo, postulando un'analogia tra sé e il Figlio di Dio. Nessuno può assumere su di se questo personaggio, nutrendolo della propria psicologia e passioni, perchè vorrebbe dire precipitarlo nella concretezza dell’umano. Al massimo, questo personaggio si può citare o mostrare, e questo vale anche per le altre figure delle Sacre scritture, ma non vale meno per le figure maligne, perchè nessuno può permettersi di assumere su di sé la personalità del demonio, pena un grave pericolo di contaminazione morale e perdizione. La dimensione in quello che alla coscienza moderna appare come uno spettacolo ma che per la coscienza medievale è un atto cerimoniale, è esclusivamente simbolica. Vi è una consapevolezza delle possibilità comunicative dell'azione, e la preoccupazione maggiore non è tanto per l'espressività e la fascinazione del teatro come strumento di rappresentazione ma per la sua potenza comunicativa. La modalità di dizione delle parole, che devono giungere agli spettatori chiare e definite, anche a scapito dell'espressività. Funziona con un analogo dispositivo di tecniche comunicative anche l’attore comico del teatro profano del tardo medioevo. Anche perchè questo tipo di teatro è quasi sempre inserito nelle festività, dunque in un tempo e spazio esistenziali istituzionalmente delegati al rapporto con il mondo “altro” rispetto a quello della quotidianità. Questi attori sono spesso mascherati e dunque si collocano in un territorio di confine, popolato di presenze inquietanti. ma è proprio questo territorio del teatro che metterà il seme per la nascita del teatro moderno. Anche per questio teatro è difficile comprendere le modalità concrete della recitazione, sia per carenza di documentazione sia per distanza antropologica. (Poetria Nova di Goffredo de Vinsauf) 1- l'idea che l’espressione esteriore è specchio di quella interiore e che le due si muovono insieme 2- l'idea che la rappresentazione debba avvenire per accenni e non interamente La prima prescrizione sembra tendere verso la verosimiglianza, attraverso il meccanismo per noi oggi consueto dell'immedesimazione psicologica. Mentre la seconda ci appare del tutto moderna in quel giocare sulla distanza tra l'interprete e il personaggio, tra l'attività produttrice di segni dell’attore e il risultato che esso offre come prodotto all’attenzione dello spettatore. Ma analizzate nella loro relazione reciproca e all'inerno della cultura medievale, quelle due idee non sono contraddittorie. Entrambe rimandano ad una concezione estetica generale, che è quella di una convenzionalità comunicativa che non si regge sul principio della mimesi, della copia della realtà. Tutta l'arte e tutta la comunicazione medievale si appoggiano a una rigida convenzionalità delle formulazioni, assai più preoccupata della coerenza interna del sistema simbolico che costruiscono, che non del riscontro realistico con il mondo quotidiano. Per questo la recitazione non può denunciarsi che per ciò che è, un'operazione artificiale, simbolica, che pretende credito non in virtù della verosimiglianza ma per la coerenza dei segni che mette in campo. Il giullare, l'attore degli spettacoli religiosi, l'attore del teatro comico profano: sono queste le tre tipologie dell’attore medievale. Uno non ha personaggi da interpretare e resta inchiodato al suo ruolo di spettacolarizzazione di sé, l’altro è prigioniero di un meccanismo di significazione che gli impedisce l’assunzione in carico del personaggio, relegandolo al ruolo di supporto materiale di un icona al movimento, l’altro è attore in senso pieno ma collocato in un territorio ambiguo della festa e del rapporto con le potenze oscure rimosse dalla quotidianità del vivere civile. TEATRO DI CORTE E COMMEDIA DELL’ARTE. NASCITA DELL’ATTORE MODERNO In un panorama cultura in cui il teatro come istituzione è sparito, ed è praticamente dispersa la nozione stessa di teatro, le uniche notizie su questo fenomeno sono rintracciabili nella tradizione dei trattatisti cristiani. Sant'Agostino parla già di questa scissione tra parola e gesto, della parola del narratore che è necessaria per chiarire agli spettatori i significati dei gesti degli attori. Nella grande encicopledia che ha nutrito la cultura medievale, le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, agli inizi del VII secolo, questa ricostruzione è già riferita ad ogni forma teatrale dell'antichità. Da lì prende forma quella strana “idea di teatro” da cui siamo partiti. Più che la storia, è forse utile analizzare le ragioni e le forme di questi fraintendimenti. Il dato che più colpisce è la scissione netta tra dizione del testo e rappresentazione muta dell’azione, tra parola e gesto. Ma l’elemento decisivo è il libro, collocato in una centralità simbolica che è una testimonianza di assoluta superiorità istituzionale della parola e ancor più della scrittura nei confronti di ogni altro strumento comunicativo. L'autorità che promana dal libro investe colui che se ne fa interprete, esaltando il ruolo, e declassa chi da questo privilegio non è toccato, come gli attori muti. Da questi elementi occorre partire per intendere le ragioni di una descrizione, che, pur tentando di ricostruire un modello antico, in realtà tenta di ricondurre ad unità gli sparsi reperti di teatralità sopravvissuti durante i secoli del Medioevo, quando il teatro era il luogo del male e l'attore un soggetto sociale degradato ed emarginato. Da un lato c'è l'autorità e l'autorevolezza del libro, ci sono i testi dei drammaturghi antichi che erano stati recepiti per secoli solo nella loro valenza letteraria. E dall'altro lato c'è la tradizione di spettacolo incarnata dai giullari, tradizione senza autorevolezza e senza dignità, i cui interpreti sono costantemente rappresentati come soggetti deprivati della parola, portatori delle istanze negative della gestualità. È impossibile ricostruire la macchina della rappresentazione se il testo è solo letteratura e lo spettacolo si declina solo in quella figura particolare e anomala di attore che è il giullare. Ciò che manca al bagaglio culturale dei primi teorizzatori del teatro come istituzione è infatti un elemento fondamentale, che la cultura medievale aveva smarrito, quel meccanismo simbolico della rappresentazione per cui l'attore delega la significazione all'altro da sé che è il personaggio. La differenza tra le modalità operative del giullare inteso in senso lato e quelle dell'attore che interpreta personaggi risulta con evidenza proprio quando, in epoca moderna, si danno contemporaneamente le due tipologie. Ancora nel corso del XVI e XVII secolo si trovano i modi della spettacolarità giullaresca nelle esibizioni dei buffoni, sia di spettacoli pubblici sia nelle corte. Non interpreti di personaggi, i buffoni, ma raccontatori di facezie. questa modalità di spettacolo che rifiuta la rappresentazione viene rivendicata da un buffone che teorizza la propria arte, Bernardino Ricci detto il Tedeschino che è al servizio della famiglia de Medici nella prima metà del Seicento. riconoscibile e non sommaria. Di questo tentativo abbiamo un riscontro nelle fonti documentarie, che ci parlano di questo effetto di “realismo” della rappresentazione, in analogia con quanto avviene con le parallele descrizioni degli apparati scenici prospettici, illusionistici e portatori di un mirabile effetto di realtà. Funzionale a questo bisogno di credibilità dei personaggi e delle situazioni sceniche è anche la rinuncia a uno strumento come la maschera, che riapparirà nella Commedia dell’arte. La novità di una rappresentazione scenica “senza volti”, quindi senza maschere, così da rendere più evidente la mimica facciale e le espressioni, specchio dei sentimenti di cui si rendono interpreti gli attori. Nel frattempo ha fatto la sua irruzione sulle scene il fenomeno della Commedia dell'Arte, che insiste con decisione sulla necessità di usare le maschere per la rappresentazione di opere che non appartengano al genere della commedia all'improvviso. Nello spettacolo dei professionisti sono proprio gli elementi che qui sono banditi, le maschere e le donne attrici, a diventare delle vere, dirompenti novità. All'inizio della Commedia dell'Arte le donne non ci sono. La “fraternal compagnia” attesta la nascita di una sorta di cooperativa di attori professionisti, ossia di uomini che si propongono di vivere con i proventi del mestiere di attore. E non ci sono le donne, fino agli anni sessanta del Cinquecento, durante i quali anche i comici di professione si adattano alla consuetudine corrente dei ruoli femminili interpretati da maschi. Una “vera donna” può produrre sul pubblico maschile, un vero effetto perturbante, che poco deve alla dimensione estetica e molto a quella erotica. Sembra vero che, all'inizio e almeno per le compagnie di più basso profilo, la presenza delle attrici non risponda tanto a esigenze artistiche, di maggiore credibilità di un personaggio femminile affidato a una donna anziché ad un uomo, ma soprattutto alle esigenze di una consapevole strategia di mercato. Lo rileva, nonf acendo distinzioni tra le attrici e le donne usate come puro richiamo dai ciarlatani che spacciano prodotti miracolosi sulla piazza del mercano, uno dei più tenaci oppositori dei comici professionisti, Domenico Ottonelli, gesuita e oppositore dei comici professionisti . Per le compagnie, offrire spettacoli con donne in scena vuol dire promuoversi utilmente in un mercato difficile, già affollato di buffoni e saltimbanchi sulle piazze e mercati e di attori dilettanti e semiprofessionisti nelle sale e nelle corti. Per le attrici, salire sulla scena, in una società come quella del Cinque e Seicento che offre loro poche alternative, vuol dire accostarsi ad una una vita molto più libera e interessante, e ricevere onori e grandi presenti. Isabella Andreini una famosa comica. per molte quindi il mestiere di attrice sarà spesso pericolosamente contiguo a quello della prostituta, ma per altre sarà uno strumento di liberazione e di affermazione sociale. La funzione seduttiva, erotico ma anche teatrale, delle attrici è favorita anche dal fatto che le donne non indossano la maschera, a differenza degli altri maschi della compagnia. Perchè la maschera, che nella storia del teatro mai si addice alle donne, avrebbe tolto loto quella grazia e fascino che è parte fondamentale del loro stare sulla scena. La maschera appartiene invece ai personaggi comici delle compagnie di professionisti, ossia alle due parti di vecchio, alle due parti di servi; il primo astuto e intrigante, il secondo sciocco e pasticcione, che è il ruolo che arriverà a rivestire Arlecchino, e alla parte del capitano vanaglorioso (Capitan Spavento). Le compagnie vengono completate poi da due coppie di innamorati non mascherati La maschera di cuoio che lascia libera la parte inferiore del volto per consentire una completa libertà di parola, è evidentemente un lascito della festività di natura carnevalesca. Proprio per questo, perchè proviene da quel mondo della festività popolare pagana che per tutto il medioevo ha costituito il luogo simbolico del contatto e del confronto delle varie comunità col mondo non umano degli inferi e dei morti, ha chiare connotazioni diaboliche. per questo è scura, con i tratti somatici molto marcati e grotteschi. Per questo non può che appartenere ai personaggi comici, perchè comico era il ruolo di chi indossava la maschera diabolica nelle rappresentazioni di argomento sacro del tardo Medioevo e nelle ritualità popolari delle feste di inizio d'anno. Arlecchino è, nella sua storia preteatrale, un diavolo e Pulcinella, col suo vestito bianco, è una sorta di fantasma. Questi personaggi però, hanno sbiadito le loro valenze originarie e sono diventati delle incarnazioni di tipologie psicologiche. In questo sistema di ruoli fissi, l’attore si specializza per tutta la sua vita artistica in un unico personaggio, determinando un catalogo di varianti personali all’interno di uno stesso e caratteristico tipo. Ma la novità specifica del modello sta proprio nel modo in cui l'azione di questi tipi fissi si struttura in quel particolare tipo di spettacolo che gli attori non chiamano Commedia dell'Arte, che è termine tardo, settecentesco, in cui Arte vuol dire “mestiere”, ma “commedia all'improvviso” o “all'italiana”, come anche si dirà quando le compagnie cominceranno ad invadere piazze e sale. Questa modalità di teatro si costituisce in opposizione a quella di teatro letterario e costituisce i propri spettacoli sulla base di una partitura fatta di gesti, azioni, travestimenti, numeri comici e buffoneschi. La differenza tra questo teatro e il teatro letterario è quella quindi di affidare il senso e il valore dello spettacolo non alla centralità della parola, all'articolata costruzione dei dialogchi ma al gesto, all’azione e alla voce, che mira a divertire il pubblico. Ma questo non vuol dire che la parola sia bandita sulle scene della Commedia dell'Arte, perchè anzi ne è una componente essenziale, nei colloqui sospirosi degli innamorati, negli equivoci delle situazioni. Ma è una parola tutta al servizio dell'azione, anziché l'inverso, come avviene nel teatro letterario. E la riprova che i comici dell'Arte sappiano usare bene anche la parola letteraria e poetica, sta da un lato nel fatto che gli autori più colti, come Flaminio Scala o Giovan Battista Andreini, si producono anche come autori di commedie regolari, e dall'altro che in genere tutti gli attori, recitano anche commedie regolari scritte da letterati imparati a memoria e anche tragedie. È alla modalità di recitazione all’improvviso che i comici dell'Arte devono lo straordinario posto che occupano nella storia del teatro. Nel loro operare poco c'è di improvvisazione, cioè di un'azione e un dialogo che si costruiscono lì sul momento. Non c'è certo un testo scritto da seguire parola per parola, perchè è proprio da quella modalità che i comici dell'Arte rifuggono. Ma ci sono molti elementi che costruiscono la strututra dello spettacolo che sono già dati, condificati e assimilati, sia dal singolo attore che dall'insieme della compagnia. C'è un “canovaccio” o “soggetto”, cioè una struttura drammaturchia che sia pure a maglie larghe contiene lo sviluppo e gli snodi della vicenda da rappresentare. All'interno delle maglie larghe del soggetto c'è poi un altro fitto reticolo di elementi predeterminati, che permettono di condurre l'azione su binari rigidi, che danno l’impressione di un modo di recitare libero, naturale e grazioso. C'è la rigidità della tipologia psicologica e comportamentale dei personaggi. Ma poi c'è una quantità di materiali predefiniti che gli attori possiedono nel loro bagaglio culturale, che permette loro di sapere sempre cosa fare o cosa dire nelle diverse situazioni dello spettacolo. Nel gergo degli attori questi spezzoni di comportamento o di discorsi si chiamano “generici”. Spesso sono gli stessi comici a far passare l'idea che queste situazioni possono qualche volta essere inventate ma spesso sono invece frutto di studio, anche faticoso. La pratica di accumulare generici per poter offrire allo spettatore varianti nuove ed interessanti continua lungo tutta la Commedia dell’Arte, se nel 1733 un giovane Carlo Goldoni, incaricato dagli attori e attrici di una compagnia di “impinguare il loro generico”, con la sua facilità di scrittura riempire in poco tempo una quantità di fogli. Certo all'interno di queste maglie abbastanza rigide sono anche possibili i momenti di improvvisazione vera, dettati dalle particolari condizioni in cui si svolge lo spettacolo. Ma in linea generale lo spettacolo è preordinato, nel senso che le maglie larghe del canovaccio sono riempite dalla concretezza dei generici ma anche degli interventi musicali e dei singoli numeri comici. Il numero comico improvviso è l’elemento che ha maggiormente caratterizzato di più la comicità della Commedia dell'Arte. Nel lessico dei comici questi numeri sono chiamati “lazzi”, o lacci, perchè legano insieme vari momenti dello spettacolo o forse è solo l'abbreviazione della parola azione, a indicare appunto un'azione comica. Ma anche i lazzi sono codificati a priorim sia nella versione puramente d'azione sia in quella dialogata. Il riconoscimento di questa congerie di componenti preordinati non deve portare alla conclusione che i loro spettacoli siano a struttura chiusa e dunque differenti dalle rappresentazioni regolari solo per il fatto che il testo, anziché collocarsi a priori dell'evento, si manifesti nel contesto stesso dello spettacolo. Il dato caratteristico dell'operare dei comici professioniosti è proprio l’apertura della struttura dello spettacolo, una forma che lascia intera la centralità dell’azione all’attore. È questa la straordinaria novità. la scena non è più solo un luogo in cui il senso si manifesta ma è un luogo specifico dove il senso si costruisce. e l’agente di questa operazione può essere solo l’attore, non il letterato. Proprio nella loro professione, nelle tecniche e nella pratica della scena sta la ragione della diversita dei comici dell'Arte, che solo la professione può dare, come specifica Flaminio Scala. Certo, c'è la presenta perturbante delle donne, e ci sono anche situazioni e parole spesso oscene o poco caste. Ma alla fine è proprio questa struttura aperta dello spettacolo, che risulta molto pericolosa perchè non permette alcuna forma di controllo sociale o morale a priori, a costituire il frande “scandalo” della Commedia dell'Arte e ad attirare sui di essa il discredito della cultura ufficiale e di quella ecclesiastica. E tuttavia è su questa consapevolezza dell'autonomia estetica della scena che si appoggia la moderna figura dell'attore. L’ATTORE NELLA CULTURA TEATRALE DEL SEICENTO. Il processo che porta alla scena rinascimentale induce una trasformazione più radicale, perchè riorganizza le categorie del teatro secondo un asse che diventerà quello dello sguardo ci si aspetterebbe che alla lingua degli attori fossero contrapposte le orecchie del pubblico, come nell'orginale plautino (Menaechmi del 1488), e invece Poliziano propone quell'asimmetrico lingua\occhi apparentemente contraddittorio ma che in realtà ci fornisce un indizio significativo. Da un lato l’attore vuole persi come titolare della parola, perchè solo così può essere differenziato dalla degradata tradizione giullaresca, vissuta come luogo della sola corporeità, mentre dall’altro la relazione che instaura con lo spettatore è prevalentemente visiva. Il teatro moderno nasce da questo duplice movimento di pensiero e di prassi, che recupera la parola come luogo dell'elaborazione drammaturgica e come principale campo di operatività dell'attore, e impone lo sguardo come canale prevalente nel rapporto con lo spettatore. E il risultato è omogeneo e non contraddittorio perchè tutto risponde a una medesima preoccupazione, la finalizzazione di ogni azione alla buona riuscita dello spettacolo. In questa prospettiva si possono anche ridefinire i termini del rapporto tra testo e rappresentazione per cui, anziché risultarne subordinato, lo spettacolo dovrebbe dettare le proprie regole alla composizione del testo. Alle soglie del Seicento, lo teorizza Angelo Ingegneri, nel trattato Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, del 1598, quando esige che i drammaturghi si facciano spettatori di quanto scrivono. Un drammaturgo che si affidi solo alla pagina, che non si renda disponibile alle ragioni e necessità della rappresentazione, non ha più cittadinanza nella civiltà teatrale che si annuncia. Ed è singolare che sia proprio l’italia il luogo di elaborazione di questa nuova idea di un teatro trasformato in spettacolo. Singolare perchè, in confronto ad altri paesi, la produzione italiana di letteratura per il teatro, almeno filo all'affermazione della commedia goldoniana, non era molto fiorita. Perchè la cultura italiana, più che a quelle della drammaturgia, si rivolge a definire le nuove dimensioni dello spettacolo, con la centralità delll’attore e l’elaborazione teorica e tecnica della nuova spettacolarità basata sulla magnificenza degli apparati e dell’impatto visivo. Convenzionalmente si indica il 1576 come data emblematica per l’inizio del teatro inglese, perchè in quell’anno vengono costruiti i teatri che saranno prototipi delle due tipologie di spettacolo del teatro elisabettiano, The Theatre e la sala dei Blackfriars che stava in un vecchio convento dei domenicani, i frati neri. nel primo si instaura una compagnia di attori adulti, mentre nell’altra una compagnia di ragazzi, i coristi della Cappella reale. Le compagnie del primo tipo danno vita al fenomeno dei teatri “pubblici”, grandi e all’aperto, in cui trovano collocazione gli eredi diretti delle compagnie girovaghe e popolari dei decenni precedenti, mentre le seconde si identificano come un teatro “privato” facevano,ma pur sempre a pagamento, in edifici più piccoli e chiusi, di impianto e contenuti accademici, a fruizione più aristocratica e colta. Queste due tipologie percorrono strade parallele e spesso contrapposte lungo tutto l'arco dell'ecpo elisabettiana, intendendo genericamente con questa definizione non solo il periodo del regno di elisabetta, fino al 1603, ma anche quello di Giacomo I Stuart e Carlo I (1642). Mentre il teatro dei ragazzi viene accettato senza problemi dalla cultura e dalla morale ufficiale, il teatro degli adulti, proprio in quanto erede della pratica degli attori girovaghi, per sfuggire al discredito, dovette porsi sotto la protezione di un membro della corte o aristocratico. Così ad esempio la compagni di Shakespeare, si pose sotto il patrocinio del lord cancelliere. Ma anche con questa protezione, la stabilità delle compagnie non è assicurata. dopo la stagione londinese le compagnie si trasferiscono in provincia per continuare a lavorare. Pur tra la diffidenza delle autorità, la domanda di teatro è continua e le compagnie devono produrre sempre nuovi spettacoli. Il fenomeno del teatro dei ragazzi, che ha dei precedenti in altri contesti nelle confraternite che recitano i drammi sacri, come ad esempio le Sacre rappresentazioni fiorentine del Quattrocento, a questa altezza cronologica è un fatto peculiare della cultura inglese. E tuttavia, nonostante la rilevanza di queste compagnie di ragazzi, la straordinaria stagione del teatro elisabettiano si caratterizza soprattutto per gli spettacoli delle compagnie degli adulti. Adulti maschi perchè le parti femminili sono interpretate da ragazzi, che devono però essere impuberi, stato in cui non si sono ancora manifestati i caratteri sessuali secondari come la barba o la voce profonda. C’era anche la necessità della prassi del doubling, ovvero l’attore doveva interpretare più personaggi, che impone una considerazione su una recitazione così differente da quella che soprattutto la stagione naturalistica ha consegnato alla cultura corrente. È necessario intendere in modo diverso il rapporto di verosimiglianza tra attore e personaggio e in generale i meccanismi della rappresentazione. Tra l'attore e lo spettatore si deve instaurare una sorta di “contratto di credulità”, in cui lo spettatore è chiamato a sospendere le categorie di comprensione e di riconoscimento della realtà che utilizza nella vita quotidiana per dar credito, con l'aiuto della propria immaginazione, a quello che gli viene mostrato sul palco. In questo senso il Coro, nel prologo dell'Enrico V di Shakespeare, in qualità di portaparola dell'autore, esplicita con chiarezza questo mistero della finzione teatrale. Shakespeare sa che il teatro non potrà mai, né deve, imitare del tutto la vita, e che il suo compito è quello di alimentare la fantasia dello spettatore fornendogli materiali che non dicono tutto ma che possono significare un intero mondo. Perchè la parola, dunque l’attore, è il vero centro e motore dello spettacolo, con meccanismi di rappresentazione e di recitazione che sono favoriti anche dall’edificio elisabettiano. Gli attori recitano su un'ampia piattaforma, coperta parzialmente da un tetto, chiamato “cielo”. In fondo alla piattaforma, una costruzione con le porta da cui escono gli attori e una balconata in cui c’erano i musici e qualche spettatore particolare. il pubblico è disposto all’impiedi intorno alla piattaforma oppure in gallerie sovrapposte che delimitano il perimetro del teatro, a forma poligonale o ellittica. In questa struttura, che non si sviluppa in profondità come la scena “all'italiana”, non c’è scenografia e sono pochi gli oggetti di scena e gli arredi. i costumi sono contemporanei e poco costosi, che servono per accennare una condizione sociale o storica del personaggio. L’attore è circondato dagli spettatori, non è obbligato alla frontalità e offre una recitazione a tutto tondo, in cui la gestualità è al servizio della parola. Anche gli attori comici, infatti, molto più che alla gestualità, si affidano alla parola e a un buffonesco verbale. (clowns che interpretano i becchini nell'ultimo atto dell'Amleto). È dunque la forza della parola a creare tutto il contesto, una parola non più riscontrabile nella storia del teatro, insieme poetica e popolare, densa di riferimenti colti ma anche di giochi di parole scurrili, che alterna versi e prosa. Ed è l'attore, con la parola, che fa le veci di tutto quanto nel teatro “all'italiana” è demandato alla scenografia, alle luci e agli accessori. Per questo nei testi elisabettiani si incontrano spesso delle lunghe descrizioni del contesto in cui si svolge la rappresentazione e forniscono anche delle connotazioni ulteriori, tipo lo stato psicologico dei personaggi o descrizioni della notte, chiamate “scenografie verbali”. La parola crea il tempo e lo spazio e le connotazioni psicologiche. ma si tratta della parola detta dall’attore e non scritta dal drammaturgo, e dunque fondamentale è il modo di porgerla e di accompagnarla ai gesti, in una recitazione insieme efficace e controllata. (lezione di Amleto agli attori). Prima le parole, poi i gesti, poi le passioni e alla fine si vuole anche l’aderenza fisica dell’attore al personaggio. è questo l’ordine di priorità. E per noi, che siamo abituati a pensare questa priorità della parola prima di tutto dentro al testo, è difficile immaginare una situazione come quella dei testi shakespeariani, che non vengono mai pubblicati prima dello spettacolo. Shakespear pubblica i suoi testi poetici, quando si popone come letterato, ma non i suoi testi teatrali, che produce come attore e come impresario, affidandoli completamente alla precarietà effimera della scena. In questo senso il testo non ha una sua stabilità e dobbiamo leggerlo come una sorta di “semilavorato” funzionale al prodotto finale, tanto che è normale nella prassi del teatro elisabettiano il rimaneggiamento sia dei testi propri che di testi altrui che si mettono in scena. E proprio perchè l'attenzione non è al testo come “opera” ma al testo come copione per lo spettacolo, la drammaturgia elisabettiana non si pone problemi di canoni, mescola i generi, interpone il buffonesco al patetico, spezza la tensione tragica col grottesco, come ad esempio nel monologo del Portiere del Macbeth, che disquisisce comicamente delle conseguenze dell'ubriacatura dopo l'assassinio orrendo del re Duncan. È proprio questa mescolanza di generi, questo disinteresse per le regole di derivazione aristotelica di tempo, spazio e azione, questa rappresentazione convenzionale e non realistica che si attira le critiche dei contemporanei sostenitori di quelle regole classiciste che avevano trovato applicazione in Italia e di lì a poco informeranno il teatro francese. L’anomali del teatro elisabettiano scomparirà, normalizzata dall’adesione ai canoni dello spettacolo continentale quando i teatri inglesi saranno riaperti, dopo una chiusura di 18 anni, dal 1642 al 1660. in quel periodo la salita al potere dei Puritani di Cromwell, per le ragione che molto spesso abbiamo visto osteggiare il lavoro degli attori, porta alla chiusura dei teatri e alla proibizione degli spettacoli, che tuttavia sporadicamente continuano, a fatica, nell'illegalità. Con il ritorno di Carlo I, la vita teatrale riprende, le condizioni sono tuttavia profondamente mutate, perchè i due impresari William Davenant e Thomas Killigrew importano la modalità di spettacolo già dominante negli altri paesi, con le scenografie in prospettiva, la spettacolarità affidata alle musiche, alle coreografie, ai costumi, alle scene e alla presenze delle donne. In quest'epoca, lo spettacolo ha quasi ovunque tali caratteristiche. La commedia dell’arte vive un momento di splendore con le compagnie italiane che hanno ormai raggiunto tutti i paesi d'Europa. Il nuovo fenomeno spettacolare è quello che prevede la musica e la macchineria come componenti fondamentali, nelle corti ma anche nei nuovi teatri pubblici che dalla prima metà del Seicento cominciano a proliferare, per l'azione di impresari che si incaricano di allestire gli spettacoli e di proporli a un pubblico pagante. L’attore viene sottoposto non più al gradimento dei colti ma al favore del pubblico. Non è più la parola il centro dello spettacolo, e dunque l’attore deve esibire non tanto le sue capacità di declamatore, quanto le sue capacità virtuosistiche e la magnificenza dei costumi. La dimensione spettacolare del teatro ha imposto ovunque le sue leggi. Soprattutto per quanto riguarda la spettacolarità dell'apparato; ma anche l'attore riesce a ritagliarsi una sua rivincita. Partito da esperienze e da velleità di attore tragico, per le quali pare non possedere la presenza e la voce, Moliere sa poi con lucidità seguire le indicazioni della scena, divenendo forse il più straordinario autore e attore comico della storia del teatro. Erede consapevole della professionalità e della sapienza artigiana dei comici dell'Arte che avevano trovato a Parigi un'accoglienza favorevole, Moliere diviene un personaggio molto amato dalla corte e dal pubblico dei contemporanei, perchè in grado di coniugare le proprie capacità di scrittura e di intepretazione con le tecniche teatrali e le strutture drammaturgiche dei comici italiani. Sul piano della recitazione, Moliere rinnova l’agire comico tentando di unire l’inventiva e la libertà di azione dei comici italiani con il rigore e la credibilità psicologica che gli derivano dal suo essere creatore di caratteri e non di tipi psicologici codificati a priori. (maggiore verosimiglianza rispetto ad altri attori ma è un fenomeno ricorrente nella storia quasi che il percorso sia un continuo pocedere in questa direzione). Di certo Moliere ha colto dagli attori di farse della tradizione francese e italiana una gestualità più espressiva della statuaria compostezza richiesta agli attori tragici, una mimica facciale che è discendenza necessaria dalla scelta di non usare la maschera e un uso della voce non declamatorio ma più variegato e intimo. E anche quel difetto che i critici contemporanei gli rimproverano, di recitare di profilo anziché di fronte come richiede l'eloquio classicista, ha il senso di rendere la recitazione più verosimile, rispettando la credibilità quotidiana di chi si rivolge al proprio interlocutore e non allo spettatore in sala. Prototipo dell’attore-autore, ancora più di Shakespeare perchè è protagonista assoluto delle sue commedie, Moliere costruisce i suoi testi a partire dalla scena, li verifica e li modifica alla prova della rappresentazione, dimostrando di aver colto appieno il senso della raccomandazione di Angelo Ingegneri su quanto ai drammaturghi sia necessario tener conto nella scrittura di ciò che “s'accomodi o non s'accomodi sul palco”. adeguata alla situazione sociale e psicologica del personaggio e non necessariamente standardizzata in posture esemplari, questo tipo di attore ricerca la creazione unitaria e credibile del personaggio. La finalità è quella di umanizzare anche le figure tragiche, di riportarle ad una misura tale da attenuare la distanza tra gli eroi della scena e gli spettatori contemporanei della sala, contrastando quella distorsione magniloquente che ne fa dei personaggio fuori dal mondo. Come scrive Luigi Riccoboni, l'attore di tradizione italiana trapiantato in Francia che diventerà uno dei teorizzatori dell'arte dell'attore, nelle sue Pensées sur la declamation, del 1738. parla di una quotidianizzazione dei personaggi tragici che diviene una necessità quando nella drammaturgia iniziano ad affermarsi generi intermedi tra tragedia e commedia che prendolo la forma di tragedia borghese. In funzione di questa nuova dimensione della drammaturgia ma anche per le altre opere, il nemico principale di una recitazione “naturale” è la declamazione, quella “cantilena” che Riccoboni, nella sua opera teorica più famosa, il trattato Dell'arte rappresentativa del 1728, ritiene una conseguenza del tentativo di imitazione della recitazione tragica degli antichi. Per questo, è necessario non restare schiavi della sua struttura formale e forzarla per cogliere e trasmettere al pubblico il senso del discorso e dei sentimenti che per suo tramite si manifestano. Il parlare, e in parallelo anche il gesto, “naturale”, specchio del “vero”, sono ricondotti ad una misura originaria, proprio per caricare di innaturalità, quasi di “umanità”, tutti gli artifici che da questa modalità si discostano. E tuttavia perchè è lo stesso Riccoboni ad ammonire che sulla scena è comunque sempre necessario coniugare il vero con il bello, perchè la natura è imperfetta e capricciosa mentre, il compito dell’attore è quella di conferire dignità ai suoi personaggi tanto che obbligo dell’attore è quello di restituirgli sulla scena quella dignità che gli è propria. Ancora il “decoro” a costituire la soglia minima, l'attore deve “seguitare il naturale instinto, e muoversi senz'Arte”, ossia senza artificio, affidandosi a una sorta di regolatore interno, e non esteriore, imponendosi di provare in prima persona i sentimenti che deve rappresentare. L'esempio della recitazione “naturale” e non declamatoria, all'epoco in cui scrive il suo trattato, Riccoboni lo riconosce in Baron e nella “leggiadra Couvreur”, ossia Adrienne Lecouvreur. E dopo un viaggio a Londra anche in David Garrick, che domina le scene inglesi tra il 1741 e il 1776, come attore e impresario. Riccoboni vede un Garrick all'inizio della carriera, ma resta ammirato dalla sua capacità di rappresentare credibilmente un vecchio. Lo stupore e l'ammirazione di Riccoboni sono legittimi se si pensa alla differenza fra la standardizzazione del trucco e del costume presente nel teatro francese e la ricerca di verità nel teatro inglese che veniva scambiato per sciatteria. Gli attori francesi si truccano solo per rendere più espressivo il proprio aspetto e non per significare età o condizioni particolari. Si tratta di un trucco analogo a quello che i cittadini usano comunemente in società, perchè l'immagine che l'attore vuole dare di sé è quella di un uomo o di una donna da ammirare, con la parrucca bianca quale che sia il personaggio rappresentato, un trucco che ne valorizzi lo sguardo, vestiti e capelli alla moda. Questo gioco di rispecchiamento tra l'attore in scena e lo spettatore in sala è anche accentuato e complicato dalla prassi di accogliere sul palcoscenico degli spettatori privilegiati, che diventavano attori essi stessi. venivano fatti accomodare su panche ai lati della scena e questi spettatori resteranno a ingombrare i palcoscenici parigini fino al 1759. Nella cultura del settecento, quando al barocco si sostituiscono prima la dimensione rococò, più domestica e meno spettacolarizzata, e successivamente i primi segni del razionalismo illuminista, è inevitabile che la pratica e la riflessione sulla recitazione e si indirizzino a indagare i meccanismi e le tecniche specifiche del lavoro d’attore. Come se, dopo una stagione in cui la prassi costituisce quasi l'unico supporto all'apprendimento e le modalità recitative si trasmettono per imitazione, sia necessario il ricorso alla teoria per ridefinire i termini. E ancora una volta il dibattito si snoda sull'asse Francia-Inghilterra, con un curioso rimbalzo di teorie, originato dal trattato Le comédien del giornalista e letterato Rémond de Sainte-Albine, del 1747, tradotto in inglese e ritradotto in francese, cui risponderà Diderot con una riflessione culminata nel Paradosso sull'attore del 1777. Questo testimonia il bisogno culturale di una riflessione sulla professione dell'attore che comincia a interessare non solo gli attori, ma filosofi e letterati. Le due polarità di Sainte-Albine e Diderot, che configurano due modalità diverse di affrontare la questione. Per Sainte-Albine, l’attore deve possedere una dote naturale, l’esprit, quella sensibilità che gli è indispensabile per cogliere il senso generale di un personaggio e farlo suo, anche se poi è il feu (il fuoco) che infonde nella recitazione, a emozionare gli spettatori. Non basta infatti l'arte, la tecnica, che non riuscirà mai a supplire al sentimento e da sola non potrà che portare ad una recitazione falsa, ad un calore fittizio e inespressivo. Perchè l'attore deve davvero provare le emozioni e le passioni di cui è portatore il suo personaggio, anche se poi le tecniche sono necessarie a definire compiutamente intonazioni, gesti e comportamenti. Dunque l’attore, pur se gli è necessario caricare con la tecnica la voce e la gestualità per raggiungere una sorta di bellezza ideale che ripulisca il personaggio dai limiti di una rappresentazione che noi definiamo “naturalistica”, è per Sainte-Albine soprattutto un uomo dotato di sensibilità. Riccoboni figlio contesta la teoria di Sainte-Albine e anche del padre secondo cui l'attore deve necessariamente sentire in sé le passioni di cui si fa portatore, insistendo sull'argomento che la veloce successione delle emozioni di un personaggio nel corso della rappresentazione rende impossibile affidarsi a questo strumento per un attore che voglia costruire il proprio personaggio in modo armonioso e compiuto. Di tenore completamente opposto la risposta di Diderot. Delinea una rigorosa teoria antiemozionalista riassunta nella famosa massima “è l'estrema sensibilità che fa gli attori mediocri; è la sensibilità mediocre che fa l'infinita schiera dei cattivi attori; ed è l'assoluta mancanza di sensibilità che prepara gli attori sublimi”. L'attore che recita di istinto, dice Diderot, produrrà inevitabilmente una recitazione diseguale. L’attore deve avere la mente fredda, perchè a teatro ci sono delle convenzioni e la recitazione è un linguaggio codificato, risultato di studio, applicazione, prova, memoria, precisione. “rappresentare scrupolosamente i segni esteriori del sentimento”, dunque, non provare il sentimento. Ma questo studio e preparazione sono il contrario di una recitazione standardizzata e convenzionale, Diderot, infatti, criticava le abitudini e gli usi consolidati del teatro che rendono decenti e meschine le opere e le rappresentazioni. Rivendicando il proprio dilettantismo innovativo, di fronte al conservatorismo dei professionisti del teatro, Diderot dichiara di avere “un sistema di recitazione che è l'opposto” di quello corrente, fatto di posture frontali, sempre all'impiedi, di gestualità codificate. Lo studio e la precisione di gesti e intonazioni devono portare lontano dalle regole, devono sfidare le convenzioni. Tanto che Diderot arriva a immaginare, un secolo prima del teatro naturalista che ne farà uno dei punti qualificanti della propria idea di teatro, la linea della ribalta come “quarta parete”, vietando agli attori ogni contatto diretto con il pubblico, consigliando loro di recitare “come se il sipario non si fosse mai alzato”, facendo conto che lo spettatore non esiste e immaginando “sul limite del palcoscenico, un gran muro che li separi dalla platea”, come scrive nel saggio Sulla poesia drammatica, del 1758. E i modelli indicati sono infatti sempre gli attori che tendono a una recitazione “naturale”, come Baron o la Clairon o Garrick. Con Diderot il meccanismo della significazione della pratica recitativa ha dunque cambiato radicalmente senso, perchè ciò che conta non è più provare in sè una passione quanto trovare i segni esteriori che la rappresentino. Il filosofo e letterato Gotthold Ephraim Lessing, negli articoli che compongono la Drammaturgia d'Amburgo, tra 1767 e 1769, arriva a rovesciare radicalmente il percorso per la rappresentazione delle passioni, con un movimento di pensiero che sarà ripreso da tante teorizzazioni successive, specie novecentesche: non dall’interno verso l’esterno, quindi la passione provata dall’attore al suo comportamento sulla scena, ma dall’esterno verso l’interno, cioè dall’imitazione precisa e dettagliata dei segni esterni della passione all’acquisizione attraverso di essi della passione corrispondente. La posizione di Lessing non si confronta solo con il dibattito europeo, ma proviene anche dall'evoluzione subita dalla cultura teatrale germanica nel corso del 1700, con le riforme del filosofo e professore Johann Christoph Gottsched, autore dal 1729 di una campagna culturale tesa a conferire dignità ad una professione d’attore squalificata dalle performances degli attori girovaghi di ascendenza italiana che in quei decenni sono ancora prassi corrente in Germania. Per Gottsched è soprattutto imprescindibile ricostruire i fondamenti della drammaturgia regolare, la tragedia e la commedia secondo i canoni classici, e di conseguenza pretendere dagli attori la rigorosa esecuzione di un testo imparato a memoria. Ma in questo giro d'anni poco oltre la metà del Settecento, il clima culturale va modificandosi in tutta Europa. Anche in Italia, dove, fino alla riforma goldoniana le compagnie mantengono una struttura per lo più itinerante, dividendosi le piazze seconda una precisa gerarchia che vede le compagnie primarie toccare le città maggiori e le compagnie secondarie accontentarsi dei centri minori. Solo Venezia presenta una struttura organizzata di compagnie relativamente stabili, dipendenti dalle famiglie nobili proprietarie dei teatri. È Carlo Goldoni che si incarica poi di rivoluzionare le modalità della scrittura drammaturgica, insieme della organizzazione e dei modi della recitazione Goldoni diventa il prototipo del commediografo da compagnia, che compone i suoi testi non nel chiuso del suo studio, ma a diretto contatto con i suoi attori, scrivendo le parti secondo gli interpreti di cui dispone o assegnando i ruoli non in base alle gerarchie della compagnia ma individuando chi può al meglio adattarsi a quel personaggio. L'esempio classico è la rappresentazione di commedie come La serva amorosa o La locandiera. Ma per compiere questa piccola-grande rivoluzione, è necessario a Goldoni rimuovere le modalità recitative che vi fanno ostacolo, e dunque soprattutto le maschere, intese sia come ruoli fissi che come oggetto da indossare, disegnando caratteri individuali, scrivendo un testo da imparare a memoria e quindi abbandona la recitazione all’improvviso della tradizione della Commedia dell'Arte. Le maschere, in un sistema di recitazione che si basa sull'individuazione di caratteri particolari e non di tipi fissi, e che ha per questo la necessità di manifestare i sentimenti e le passioni che definiscono quel carattere, non possono che risultare di impedimento alla recitazione dell'attore. Per quanto riguarda le consegne agli attori, le sue idee sono in linea con quelle contemporanee dei teorizzatori europei del dramma borghese. Lo si vede bene nella commedia Il teatro comico, del 1750, in cui, come aveva fatto Moliere con L'improvvisazione di Versailles, espone in forma metateatrale i propri precetti affidandoli alle parole del capocomico Orazio. Anche Goldoni, analogamente a Diderot anche se con minore rigore teorico, vorrebbe isolare l'universo rappresentativo della scena da quello degli spettatori, e dunque trova intollerabile il vizio degli attori di rivolgersi al pubblico. E ancora come per gli altri rinnovatori della scena, fautori di una recitazione affidata ad una naturalezza scevra di artifici, l’imperativo primario è quello di far capire bene le parole, evitare la cantilena e servirsi di una gestualità naturale, anche se Goldoni raccomanda ancora alcune di quelle convenzioni che facevano invece inorridire Diderot. Quando nel 1762 abbandona l’italia per non farvi più ritorno e si trasferisce a Parigi, su invito della compagnia dei comici italiani, Goldoni rimane affascinato dalla tecnica di recitazione degli attori francesi. L'attore italiano, invece, non possiede ancora questa padronanza degli strumenti tecnici. espressioni del viso. Ma a teatro la questione è più complicata, sia per la mobilità e il susseguirsi in breve tempo di sentimenti diversi sia per la multiformità delle passioni, legate a caratteri individuali e a condizioni sempre differenti. È proprio nel 1799, che le due attrici francesi contrapposte sulle pagine del Paradossi di Diderot, la Dumesnil e la Clairon, affrontano la questione nelle rispettive Memorie, arrivando a conclusioni del tutto differenti. Per la Clairon, fedele alla concezione diderotiana di recitazione a “mente fredda”, fatta di studio e di preparazione, non esistono categorie generali, e dunque le passioni sono tutte differenti, legate alla condizione psicologica e sociale del personaggio, ogni volta diversa, per cui diverse e specifiche devono devono essere anche le modalità di espressione. Invece la Dumesnil, attrice istintiva e passionale, che non crede allo studio ma solo all’espressione delle passioni che le vengono da dentro, teorizza che le differenze “di tempi, paesi, usi e costumi” hanno tanta incidenza nell’espressione delle passioni quanto la lingua in cui sono scritti i testi quindi nessuna, perchè le passioni sono le stesse da un paese all’altro, quindi occorre solo provare al momento queste passioni e mettersi al posto del personaggio. E quelle che possono apparire differenze tra le passioni di un personaggio rispetto a un altro non sono che il frutto della combinazione tra le passioni fondamentali. È il caso proprio del confronto tra Didone e Arianna, dissimili solo per il fatto che la seconda coniuga amore e gelosia, a differenza della prima. In un'impostazione come quella della Clairon l'arte della recitazione può apprendersi solo con la pratica e lo studio individuale sul palcoscenico, poiché troppe e non codificabili solo le variabili psicologiche e comportamentali con cui è chiamato a cimentarsi l'attore. Mentre è solo sulle basi teoriche di cui si fa alfiere la Dumesnil che è possibile stabilire una tavola delle equivalenze tra gesti e passioni, da calare in precetti e definizioni. Esemplifichiamo a questo proposito con un manuale che costituisce l'approdo finale di una tale posizione, che estremizza l'assunto fino a stabilire una codificazione sistematica e abbreviata dei gesti e degli atteggiamenti cui corrispondono le passioni. Si tratta del Prontuario delle pose sceniche del grande attore Alamanno Morelli, del 1854, che in pochissime righe definisce gestualità e posizioni standardizzate, a significare le passioni pure o quelle miscelate. Johann Jakob Engel, nel trattato Lettere intorno alla mimica, pubblicato in tedesco nel 1785, partendo dall'assunto di Lessing, secondo cui i segni esteriori delle passioni sono perfettamente imitabili anche a freddo, Engel ritiene che le posture e la mimica siano catalogabili in un sistema, sulla base del presupposto che l’attore non ha a che fare se non con le sembianze esterne delle passioni, e gli deve importare poco dei meccanismi psicologici interni all’animo e molto invece dei segni riconoscibili con cui le passioni sono espresse dal corpo. Sarà dunque necessario comprendere ad esempio la differenza tra l'invidia e la malevolenza. uno stesso atteggiamento può dunque significare due o più passioni diverse, e sarà il contesto a chiarirne il significato, ma una stessa passione può e deve essere rappresentata da una molteplicità di gesti e azioni, come la gelosia di Otello. Al trattato di Engel fa poi riferimento molta della trattatistica successiva e alle Lettere, tradotte in italiano nel 1818, non poco deve anche la manualistica italiana che corre lungo tuto l'Ottocento, in cui la complessità di pensiero dell'originale viene spesso degradata in formule più superficiali. Ma la filosofia che vi presiede è sempre la stessa, quella che discende dai principi posti da Diderot nel Paradosso, quando teorizza che il “vero” a teatro non può assolutamente “mostrare le cose come sono nella realtà”, perchè “la nuda verità, l'azione sprovvista di qualsiasi artifizio, sarebbe meschina e contrasterebbe con la poesia di tutto il resto”. “Il vero sulla scena” è per diderot “la conformità delle azioni, dei discorsi, dell’aspetto, della voce, del movimento, del gesto, a un modello ideale immaginato dal poeta, e esagerato dall’attore”. Un “modello ideale” dunque. E perciò astratto e non naturale, anche se poi + proprio l'impressione di “naturalezza” che il talento dell'attore deve saper dare allo spettatore. La recitazione dell'attore di quasi tutto l'Ottocento, corre su questi binari. E tuttavia, a istituire un'apparente contraddizione e a complicare le categorie interpretative irrompe in tutta Europa la cultura romantica, che proprio nel teatro trova forse il suo campo d'azione privilegiato. Perchè il teatro è individuato come il luogo in cui l’erompere delle passioni, che è uno dei canoni della poetica romantica, trova il modo di esprimersi in maniera più viva e coinvolgente. La questione è naturalmente di grande complessità. E tuttavia l'attore “romantico” pur con la consapevolezza delle differenze di stile e di impostazione, anche se costruisce il suo mito sull’esasperazione espressiva del gesto e della declamazione, rimane un attore costruito, che codifica azioni e parole sulla base del “modello ideale” di Diderot. Edmund Kean è l'esempio tipico dell’attore tutto passionalità e istinto, un attore che è sempre “energia o non è niente”. Kean è poco attento alla costruzione complessiva del personaggio e si affida invece alla potenza espressiva dei singoli momenti, ma anche questi momenti sono costruiti. costruite sono le sue “controscene”, le azioni mute con cui anima il palcoscenico durante le battute altrui, che contrastano con l'abitudine corrente di disinteressarsi e quasi di estranirsi quando il fulcro dell'azione siano altri attori. “Il senso artistico” deve dunque essere soddisfatto. Quindi ancora un “modello ideale”, costruito a priori e fissato rigorosamente in gesti e intonazioni. Quel che rende peculiare la recitazione dell'attore romantico non è allore un esubero di passionalità, ma il mutamento dei modelli di riferimento per costruire la sua azione sulla scena. al posto della “naturalezza”, che era stata il canone da perseguire per l'attore settecentesco, si impone ora la passionalità. Ma come prima l'impressione di realtà doveva venire dai “segni” della naturalezza, ora l'impressione di passaionalità deve venire dai “segni” dell’eccesso o del tormento psicologico. Il gesto è dunque costruito e artistico; l’attore prende i propri modelli di recitazione dalle arti figurative, dall’oratoria, da un universo insomma che è gia esteticamente conformato, costruito secondi i parametri artistici del “bello” e dell'”espressivo”. A partire da questa impostazione, costruisce gesti e intonazioni coniugando un ideale di bellezza a priori e le necessità particolari della passione o dello stato d'animo da esprimere. La declamazione, la gestualità, la presenza scenica, l’occupazione del palcoscenico, l’abbigliamento, il trucco, tutto deve essere sempre espressivo e affascinante. La presenza dell'attore è una presenza carismatica, dalla quale il pubblico deve esserne sedotto. L’attore romantico è molto più “attore” che “interprete”, nel senso che, quale che sia il personaggio che deve interpretale, è preoccupato di porgere se stesso, la propria individualità, la propria presenza, il proprio aspetto: la propria immagine. È come se l'attore si collocasse “davanti” al proprio personaggio, e si servisse di questo per offrire in realtà se stesso alla contemplazione del pubblico. Per costruire questa sua centralità, l’attore romantico fa di se stesso e della propria presenza scenica il perno dell’operazione teatrale e tende a ridurre a sè ogni elemento dello spettacolo. Il grande attore protagonista subordina dunque alla propria centralità tutti gli altri interpreti, e per questo adatta il testo a se stesso anzichè adattarsi ad esso. In queste condizioni di spettacolo, è evidente che il grande attore incentra la propria presenza scenica sulla gestualità, ma anche e sopratutto sulla declamazione, su una voce potente e modulata. Questa importanza strategica della voce nella comunicazione teatrale non deve soprendere, in un'epoca che vede il grande successo dell'opera lirica, e anzi il suo prevalere su ogni altra forma di spettacolo. L’attore romantico ha come rivale il cantante lirico, gli deve contendere il favore del pubblico e l’utilizzo dei teatri, ed è normale che si produca una contaminazione degli strumenti espressivi, con l'attore che imposta la voce di testa come un tenore e il cantante che codifica gesti e atteggiamenti assumendo il modella della recitazione espressiva del grande attore. Esistono differenze tra l’attore primottocentesco e quello della metà del secolo come tra le diverse civiltà dello spettacolo, anche se la pratica sempre crescente delle tournée che gli attori compiono fuori dal proprio paese contribuisce ad attenuare le differenze e a rendere il panorama più omogeneo. È necessario delineare almeno alcuni percosi specifici. In Francia è soprattutto Francoi-Joseph Talma a sconvolge i canoni, con una recitazione che, possiamo definire più neoclassica che romantica. Talma si presenta in una rappresentazione del Brutus di Voltaire, nel 1790, con un vestito che imita la statuaria romana, con una toga di lana e le braccia nude. Con quel gesto provocatorio, venuto non a caso dopo che la rivoluzione Francese ha dignificato il modello antico come luogo delle virtà civili, che si compie una rottura. Talma è interprete sopratutto del repertorio classico francese e porta fermenti nuovi, con recitazione spezzata e con un pathos che libera quella passione che la forma rischiava di raffreddare. Ma non è questa la strada attraverso cui i fermenti della cultura romantica invadono le scene francese. Certo, quel percorso ha il suo culmine sul palcoscenico della Comédie-Francaise con la famosa battaglia di Ernani di Victor Hugo nel 1830, opera che diventerà un modello per la cultura romantica francese ed europea, scatendando uno scontro fra i tradizionalisti e gli amanti della nuova drammaturgia. In realtà è fuori dal tempio sacro della Comédie-Francaise che la nuova recitazione e spettacolarità trovano modo di palesarsi, in quei teatri che per aggirare i privilegi accordati alla Comédie- Francaise avevano dovuto inventare nuove modalità di spettacolo, in cui alla centralità della parola si era sostituita quella della scenografia e della musica. Quando, con la rivoluzione, cadono i privilegi per i teatri “patentati”, la riconquista della parola da parte dei teatri della fiera provoca un esplosione di forme mescolate, il mimodramma, la pantomima dialogata che diventano luogo della sperimentazione di diverse modalità di recitazione. Dopo napoleone solo 4 teatri, detti secondari, mantengono la possibilità di rappresentare queste nuove forme di spettacolo. Dal punto di vista della professione d'attore, le novità vengono dal vaudeville, una sorta di commedia con canzoni che è palestra per attori comici o attrici dalla recitazione leggera. Il melò è sicuramente figlio del dramma di Diderot e discendente diretto della comedie larmoyante di Nivelle de la Chausee, ma è certo anche debitore della sensibilità e delle nuove tematiche portate dalla cultura romantica. È in questi spettacoli che si forma e si stabilizza uno stile recitativo differente da quello classico della Comédie-Francaise, molto più esibito nelle proprie manifestazioni, con vistose sottolineature emotive affidate ad una gestualità esasperata, a una mimica fortemente espressiva, a una parola che si carica di pathos, alternando bruscamente esaltazione e languori, tenerezze e violenza. È lo stile che oggi definiamo melodrammatico, che raggiunge il culmine del patetico. i personaggi sono costruiti secondo tipologie fisse e l’attore si specializza in una tipologia di personaggio, ruolo che mantiene le medesime caratteristiche psicologiche e comportamentali pur nella relativa diversità dei testi. È all'interno di queste tipologie di personaggio che si forma quell’attore molto esteriorizzato e passionale che si vedrà poi sulle scene del teatro romantico. Esemplificando sul mélo, è dunque possibile intendere agevolmente una caratteristica organizzativa che nell’ottocento è comune a gran parte delle civiltà teatrali europee, ossia il sistema dei ruoli. Solo nei teatri stabili uno spettacolo viene infatti rappresentato molte volte di seguito. Ma la realtà europea è fatta di compagnie itineranti, che devono tenere in repertorio moltissimi testi per poterli la verosimiglianza. Questo porta di solito a identificare il palcoscenico con una stanza, che si offre alla visione degli spettatori come attraverso una parete trasparente, quella “quarta parete” che serve per vedere dentro la scena come se gli attori non si rendessero conto di essere osservati e dunque potessero comportarsi più naturalmente. È il drammaturgo Jean Jullien che per primo teorizza questa nozione della quarta parete. All'interno di un impianto visivo così intenso, Andrè Antoine, il regista più famoso del Naturalismo, può allora mostrare al pubblico il dorso dei mobili, che si intendono addossati alla quarta parete trasparente, o permettersi lo scandolo di attori che recitano con le spalle rivolte al pubblico. Dall'ossequio a questo generale principio di verosomiglianza, o di verità, viene la ossessiva ricerca di autenticità da parte di tutti i registi di ispirazione naturalistica. Ed è per questa presunzione di oggettività, questa aderenza degli strumenti della rappresentazione alla realtà da rappresentare che la drammaturgia, la messa in scena e la recitazione di derivazione naturalista, costituiscono un modello capace di resistere, agli assalti del Simbolismo e delle diverse Avanguardie novecentesche e di ripresentarsi ancora vitale nel mondo teatrale di oggi. Questa ricerca di autenticità e di verosimiglianza si ritrova sia nella teoria che nella pratica della recitazione, e anche qui il modello costruito sulle fondamenta dei principi naturalistici è riuscito ad arrivare sino ai giorni nostri, sopravvivendo alle forme di una cultura novecentesca che è antinaturalistica. Ancora oggi, nella cultura corrente e nei giudizi degli spettatori non specializzati, un attore tanto più è bravo quanto più “sembra vero”, quanto più è credibile nel suo tentativo di “essere” il personaggio che sta rappresentanto. E parallelamente il cattivo attore è quello che visibilmente “recita”, che si atteggia in modo artificiale e “teatrale”. La cultura teatrale naturalista è concezione da cui viene la concezione della scena come luogo privilegiato di una “impressione di verità” che è il fine ultimo della rappresentazione. A dispetto di ogni ricerca di naturalezza o di verità pare dunque che nell'immaginario collettivo la teoria e la pratica del teatro naturalista segnino una sorta di spartiacque, prima del quale la scena è soprattutto il luogo di una “teatralità” che è l'esatto contrario della “impressione di verità”. Dopo la poetica naturalistica, la scena dovrebbe diventare il luogo della “verità”, il luogo in cui l'attore, spogliandosi della volontà di sorprendere e affascinare con gli artifici della tecnica gestuale e della declamazione, raggiuna una semplicità e quotidianità che viene solo dall’osservazione della realtà e che ha come unico parametro la verosimiglianza e la credibilità. È vero che l'istanza della “naturalezza” si è affacciata frequentemente negli ultimi secoli della storia del teatro, ma si è visto che in realtà si trattava sempe di un processo che coniugava istanza di verità e riferimento ad un modello ideale, come voleva Diderot, e non della rappresentazione della realtà nuda e cruda, che lo stesso Diderot definiva “meschina”. E infatti era sempre il modello ideale a fornire i parametri della recitazione nella tipologia che viene definita del “grande attore”, gli attori della generazione che oltrepassa la metà dell'Ottocento e che in Italia vede emergere le grandi figure di Adelaide Ristori e degli allievi di Gustavo Modena, Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi. Per Salvini, l’attore deve sempre attenersi non ad un realismo che imiti semplicemente la vita, ma ad un “realismo artistico” che serve a impreziosire una rappresentazione troppo cruda della quotidianità. Oppure come scrive Adelaide Ristori, in un manoscritt di Teorie e precetti sull'arte drammatica: “l’attore non si stanchi mai dello studio profondo dell’estetica che lo condurrà a non mai trascurare il bello, perchè solo il bello è vero; e se qualche vero non è bello, l'artista studioso e pensatore saprà trovare il modo da renderlo meno spiacevole”. “La morte civile” di Paolo Giacometti, del 1861, è il dramma italiano più famoso del secondo 800, sia per i temi di cui tratta (l'indissolubilità del matrimonio, la “morte civile” dell'ergastolo) sia per le situazioni di grande effetto teatrale che ne fanno un banco di prova ideale per due o tre generazioni di attori. Il momento culminante è il finale, quando l'ergastolano Corrado, fuggito dalla prigione, si avvelena perchè si accorge di essere l'unico ostacolo alla felicità della figlia e della moglie, la quale gli è rimasta fedele ma potrebbe rifarsi una vita con un altro uomo se non dovesse rispettare il vincolo che la lega a lui. A portare al successo La morte civile è Tommaso Salvini, che interpreta questo personaggio e a una rappresentazione assiste Zola che apprezza Salvini per le qualità che dovrebbero definire l’essenza stessa della recitazione naturalistica, cioè quella verità che Zola sottilinea e che trova negli attori italiani e non in quelli francesi. Konstantin Staniskavskij, altro teorico della verità a teatro, che fa della recitazione di Salvini quasi il “monumento”, l'esempio assoluto cui conformare la propria attività teatrale. Sarebbe lecito dunque considerare Salvini come una sorta di campione della modalità naturalistica di stare sulla scena, l'attore che forse più di ogni altro, riesce a dare credibilità psicologica ai propri personaggi e “intensità di verità” alle proprie azioni. Nel 1902, quando Salvini è ormai alla fine della carriera e una nuova generazione di attori si sta affermando, su questa scena nasce una polemica tra Salvini e Ermete Zacconi, grande attore della generazione successiva. Zarconi rivendica le ragioni di una recitazione basata sul “metodo positivismo” e su una concezione di “verismo” senza aggettivi, immersa in una cultura che ha come base teoriche il positivismo e il verismo, che è la declinazione italiana del Naturalismo. La diversità radicale tra due tipologie, o meglio due teorie, di recitazione. Da una parte c'è una recitazione “romantica”, di cui sarebbe campione Salvini, guidata solo dall’”intuito”, ossia dall'immediatezza quasi “inconsapevole” del talento innato e della passione, nutrita di quel “verismo artistico” che ha come modello più la statuaria che il comportamento quotidiano delle persone e ha come scopo finale “l'effetto tetralmente immediato”, le “sensazioni”, il colpo di teatro spettacolare alla ricerca dell'applauso immediato, come se l'attore non fosse tanto diverso dai funamboli dello spettacolo circense. Dall'altra parte c'è una recitazione basata sul metodo positivo dell'osservazione della realtà, debitrice ai modelli della scienza e non dell'arte, fatta di studio e di rigore, nutrita di quotidianità più che di rispondenza a modelli astratti, di Zacconi. Resta però quella nozione di “verismo artistico”, rivendicata da Salvini e irrisa da Zacconi, che può davvero indicare una specificità dell'attore di quasi tutto il XIX secolo, e che permette a Salvini di “evitare lo sconcio di una morte anti-artistica”. Viene dunque enunciata la contrapposizione, ideologica, tra “bello” e “vero”, tra un gesto composto secondo i dettami dell'estetica e richiamato ai modelli già “artistici” della pittura e della scultura e un gesto obbligato dalla rispondenza alle logiche della fisiologia e della psicologia. Riprendiamo l'esempio della Morte civile: le fotografie ci restituiscono due immagini radicamente diverse di Zacconi e di Salvini. Mentre il primo si presenta senza barba, con la testa rasata, le vesti dimesse e il viso sofferente, il secondo ci viene incontro con una barba ben pettinata, baffi e capelli scuri, ben vestito. Ancora, l'uno, tendenzialmente “vero”, l'altro, programmaticamente “bello”. Ma se è questo il nodo teorico fondamentale, allora il parametro di giudizio non è più l'”impressione di verità”, che sta più negli occhi e nella cultura di chi guarda che nelle forme della recitazione, se è vero che proprio un teorico rigoroso della “verità” come Stanislavskij apprezza la “teatralità” intrisa di “realismo artistico” di Salvini. Sono le modalità di porsi, di fronte al personaggio e rispetto all’economia complessiva dello spettacolo che ora cambiano. Per l’attore “romantico” è fondamentale porre se stesso e la propria presenza fascinatoria al centro del rapporto con il pubblico, creare quella “corrente magnetica” tra attore e spettatore di cui parla Adelaide Ristori nei sui Ricordi e studi artistici, del 1887, condizione necessaria per accendere “quelle scintille che completano l'artista, e senza le quali ogni studio porta l'impronta dell'aridezza”. Questa centralità carismatica del grande attore è quella che gli permette di sedurre il pubblico, proprio come attore, ancora al di qua della rappresentazione del personaggio. Per l’attore “naturalista”, l'impostazione è radicalmente differente, perchè la sua preoccupazione principale è quella di mettere il personaggio davanti a se e fare di se stesso lo strumento per il manifestarsi del personaggio davanti allo spettatore. In questo senso si può dire che la sua presenza scenica sia più “democratica”, perchè guida l'attenzione dello spettatore alla comprensione del contesto e della situazione più che sulla propria centralità scenica. Rispetta molto di più i testi e accetta di condividere più armonicamente la presenza scenica tra i diversi interpreti. Dal punto di vista della recitazione, cerca i propri modelli nella realtà quotidiana, per cui i toni si abbassano, il senso si porge in maniera meno perentoria, più allusiva, più sfumata. L'istanza prevalente è ora quella della “verità”, intesa come un'azione che copia il più fedelmente possibile la vita quotidiana ed essere vera. Cambiamento di modalità recitativa che discende anche da un radicale mutamento di prospettiva riguardo al personaggio e alle sue dinamiche. Perchè questo nuovo attore trasferisce l'intensità emotiva e comunicativa dal fuori al dentro, sposta l’attenzione dal comportamento dei personaggi che interpreta alla loro interiorità, dal gesto all'emozione che lo muove, dall'enunciazione della parola alla passione che la produce. Se l'attore romantico si guarda da fuori, il nuovo attore si guarda da dentro. Un esempio: Antonio Morrochesi, il grande attore e teorico della recitazione della prima metà dell'Ottocento, raccomanda l’uso dello specchio per costruire la propria gestualità e le espressioni del viso, mentre l’attore che vuole costruire la gestualità del proprio personaggio a partire dalle emozioni l’uso dello specchio deve essere assolutamente bandito. È nota infatti la decisa ostilità di Stanislavskij all'uso dello specchio, proprio perchè costringe l'attore a guardarsi dal di fuori anziché dal di dentro. Ricordiamo il programma-minaccia di Ibsen: del personaggio non è più rilevante l’azione e il comportamento, che può anche essere falso e artificiale, e neppure la parola che si fa discorso manifestamente esibito. Se il fine di raggiungere è la verità, allora ciò che conta è il pensiero, l'intenzione, l'emozione che sta “dietro” le parole e i gesti. Rammentiamo la posizione di Engel: al filosofo potranno interessare le radici emozionali dei gesti, ma non all'attore, che è chiamato solo a riporodurre i segni esteriori dell'emozione. La nuova concezione della psicologia si assume quel compito che Engel assegnava alla filosofia e appunto vede nel comportamento il prodotto di pulsioni primarie che vengono dall'intimo della persona. L'attore deve rimodellare il proprio approccio al personaggio. Non sarà allora un caso che in questo ultimo scorcio dell'Ottocento cominci ad affermarsi la nozione e anche il termine di “immedesimazione” per definire il rapporto dell'attore col proprio personaggio. Toccerà agli attore della generazione successiva proseguire in quel percorso, divenendo prima di ogni altra cosa scandagliatori dell'animo, per trasportare il conflitto, che è la base di ogni azione teatrale, da un conflitto di azioni a un conflitto di psicologie. Il punto estremo di questa poetica della recitazione carica di verità sarà la pretesa di Stanislavskij di ottenere dagli attori la restituzione in scena di una vera passione, che provenisse dal vissuto e dalla memoria emotiva dell’attore e da questo prestava al personaggio. Ma perchè questo progetto di un attore che si cala psicologicamente nel personaggio possa essere messo in campo, anche al di qua dell'ipotesi estrema di Stanislavskij, è necessario un mutamento radicale delle condizioni di costruzione dello spettacolo. Perchè anche i grandi attori professionisti della fine dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento, eredi come “figli d'arte” della tradizione del grande attore ottocentesco, al di là delle intenzioni e delle dichiarazioni, restano pur sempre “attori” in senso forte. Basti pensare a Ermete Zacconi, che abbiamo visto ergersi a campione della nuova recitazione verista e di introspezione psicologica e che ci appare così “teatrale” in quella pur molto più tarda interpretazione cinematografica del Processo e morte di Socrate, del 1940. Ma anche le due grandi dive che dominano questa stagione teatrale europea, Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse, pur nella loro diversità stilistica, restano sempre “grandi attrici” nell'accezione ottocentesca del termine, attente alla posa plastica che rapprende il sentimento, a una gestualità espressiva, a una vocalità costruita con raffinato tecnicismo, all'edificazione e alla coltivazione del a cavallo dei due secoli: o tutto o niente, o purezza assoluta o rinuncia. C'è un modello perfetto di questa posizione radicale, ed è la dichiarazione di poetica di Konstantin Trepliov nel primo atto del Gabbiano di Cechov. Dichiarazione di scelta estetica che è anche uno sfogo esistenziale, l'urlo di rivolta contro le convenzioni del teatro borghese e la poetica naturalista ma anche un regolamento di conti privato nei confronti della madre attrice. Nuove forme, lontane dalla “volgarità scoraggiante” della rappresentazione realistica. A partire da questo assunto, il risultato può essere lo spettacolo di Konstantin descritto nel Gabbiano, con la scena spoglia affacciata sul lago in cui si rispecchia la luna, i fuochi sull'acqua rossi come gli occhi del Maligno accompagnati dall'odore di zolfo, con una giovane attrice vestita di bianco seduta su una grande pietra che recita ieraticamente un monologo concettoso e poetico, fatto di ripetizioni e di immagini. Oppure, nella realtà concreta della scena, solo gli spettacoli sperimentali del parigino Theatre d'Art diretto da Paul Fort, affidati alla creatività visiva dei pittori d'avanguardia o alle sinestesie percettive, come nel Cantico dei cantici del 1891, in cui a scandire le partizioni sono i diversi profumi prodotti in sala da vaporizzatori. Ma più in generale sono spettacoli meno ancorati alla necessità di rappresentare fedelmente la realtà quotidiana e più attenti invece alla consapevolezza della forma in sé, meglio ancora se lontana dalla quotidianità. Naturalmente la poetica simbolista può poi pervadere le scene in forme meno estreme, coniugandosi con i modi del teatro professionale dei grandi attori, ad esempio suggerendo gestualità meno realistiche e più plastiche o una vocalità meno espressiva. Ma se la proposta simbolista è assunta nella sua radicalità, le conseguenze nella teoria e nella pratica della recitazione non possono che essere più marcate. se la scena non è più il luogo dove si scontrano uomini reali, ma il “buco magnifico” dove la scrittura dà spettacolo di sé, è la figura stessa dell’attore che cade in sospetto, perchè un uomo, con la sua concretezza, inevitabilmente rende particolare e determinato ciò che il poeta ha immaginato indeterminato e assoluto. Aurélien Lugné-Poi, l'attore e regista che per diversi anni è l'interprete privilegiato del Simbolisto teatrale, sogna infatti messe in scene con maschere, pupazzi, ombre e oggetti, in una istanza di disincarnazione del teatro cui tenterà di accostarsi anche con la sua tipica recitazione non realistica. È proprio col Petit Theatre des Marionettes di Henri Signoret e Maurice Bouchor, tra anni ottanta e novanta dell'Ottocento, che si producono i primi esperimenti simbolisti a teatro, proprio perchè l'agente inanimato consente di non sovrapporre la personalità dell'attore all'idea da esprimere. Istanza che affiora anche nelle idee del maggiore drammaturgo del Simbolismo, Maurice Maeterlinck. È in questo contesto che irrompe l'Ubu re, che sconvolge allo stesso tempo i canoni del teatro tradizionale della pièce bien faite, cioè lo spettacolo costruito secondo le regole e convenzioni del teatro di tradizione ottocentesca, della nuova poetica naturalista che si sta imponendo e della risposta simbolista ancora rinchiusa nelle aristocratiche nicchie dei piccoli teatri degli intellettuali, artisti e poeti. Di fatto con questa rappresentazione nasce la stagione delle Avanguardie storiche, che rivoluzionerà tutte le regole e le modalità dello spettacolo teatrale, compresa la recitazione. E non è un caso, che questo testo, rappresentato nel 1896 da attori, nasca originariamente come testo per un teatro di marionette. Una trasposizione di codici che diviene un gesto rivoluzionario, anche sul piano teorico, come viene esplicitato da Jerry. “Perdere ogni responsabilità”, recitando con una maschera “per essere l’uomo interiore e l’anima delle grandi marionette che vedrete”. Come dire che, per raggiunger davverto l'interiorità e l'”anima”, la strada non è quella dell'introspezione psicologica e della verosimiglianza, ma al contrario quella della maschera e della rigidità delle marionette. Il presupposto teorico è enunciato con chiarezza da Jarry già nel 1896, anno del debutto dell'Ubu re, in un saggio intitolato Dell'inutilità del teatro a teatro. La nascente cultura del Novecento, almeno in quella componente che più si contrappone al lascito culturale dell'Ottocento, tende a rifiutare all’attore il ruolo di depositario di senso dell’operazione spettacolare, a svuotarlo di psicologia e di funzione per contrapporgli una sorta di mito della marionetta come utopia di un teatro puro, non inquinato dalle emozioni e dalle passioni di quello che è diventato un elemento di disturbo nella comunicazione spettacolare. Solo l'essere inanimato, proprio perchè lo fa passivamente, senza coscienza e passioni, può mettersi con esattezza al servizio del poeta e del suo personaggio. “della marionetta ci si può fidare. Essa risponderà alle intenzioni dell’autore senza contestazioni”. Un intero movimento di pensiero muove questa autopia dell'attore-marionetta in grado di restituire senza indesiderate interferenze il mondo poetico e il disegno dei personaggi immaginati dal drammaturgo. In un panorama culturale che contesta radicalmente i presupposti “realistici” della cultura naturalista, la marionetta viene individuata come una strada per allentare quel rapporto troppo stretto fra l'attore e il suo personaggio che era invece il punto d'arrivo qualificante della cultura naturalista. Nel tentativo di sciogliere il nodo attore-personaggio, le strade sono tuttavia differenti, a seconda dell'elemento sul quale si intende intervenite. C'è tutta una drammaturgia tra la fine 1800 e inizio 1900, che propone drammi “per marionette”, ma che solo in parte sono destinati al teatro per marionette e più in generale sono drammi per personaggi ridotti a marionette, personaggi di un'epoca degradata incapacedi esprimere caratteri con la ricchezza interiore di quelli delle epoche precedenti. Più interessente è il caso in cui questa volontà di marionettizzazione colpisce non il personaggio ma l'attore, all'inseguimento di un mito della trasparenze che permetti di eliminare le interferenze dell'attore nel rapporto tra personaggio e pubblico, per salvaguardare l'integrità del personaggio e la purezza del mondo poetico creato dal drammaturgo. Più che una possibilità concreta di sostiuirsi all'attore, eventualità che risulta marginale, la marionetta offe la prospettiva di un percorso possibile ai molti “riteatralizzatori” della scena novecentesca, sia sotto la forma forte di una sorta di utopia della marionetta sia sotto la forma minore della marionettizzazione degli attori, attraverso la ricerca di una recitazione depsicologizzata, ad esempio con una gestualità geometrica e non organica. Su questa linea troviamo Oskar Schlemmer, con il laboratorio teatrale del Bauhaus, che usa la marionetta oppure costringe l'attore dentro a costumi geometrizzati, che ne censurano l'umanità esaltandone la dimensione di forma astratta. Ma anche le serate dadaiste al Cabaret Voltair di Zurigo usano questi costumi costruiti col cartone, per nascondere le fattezze umane dell'attore e farlo diventare di nuovo il più vicino possibile ad una marionetta. E poi il futurismo ospita al proprio interno questa tendenza alla marionettizzazione dell’attore attraverso costumi e attrezzatura. Tutti esperimenti e teorie che, togliendo manità, intendono togliere coscienza e intenzionalità, costringendo l'attore ad essere solo “uno che agisce”. Ma c’è anche chi interviene sul terzo elemento del rapporto attore-personaggio. E allora la marionetta, l'essere inanimanto diventa il traguardo utopico di chi immagina lo spettacolo come una composizione creativa che deve rispondere ad un progetto preciso, in cui solo l’artificialità è in grado di eliminare il superfluo. In questo senso l’attore non può essere un interprete ma solo un attore-funzione, un soggetto senza autonomia creativa, una sorta di attore-manichino. A testimoniare un certo spirito del termpo a questo riguardo si può richiamare non un testo teorico ma un brano letterario, il Trattato dei manichini inserito nelle Botteghe color cannella dello scrittore polacco Bruno Schulz, del 1934, di cui si avvertà spesso l'eco negli spettacoli di Tadeusz Kantor, in quei fantocci custori della memoria nel suo Teatro della Morte. Noi umani abbiamo sempre invidiato il demiurgo per la sua possibilità di creare, ma questa possibilità appartiene anche a noi, con la differenza che la nostra opera può portare non a un universo perfetto e concluso ma a uno più labile. (Schulz) “Un attore per ogni gesto”. E inversamente, è chiaro, un gesto per ogni attore. Un attore per ogni gesto, quindi un attore in grado di fare un solo gesto, di pronunciare una sola parola. La rigidità, la fissità e l'immutabilità della marionetta o della maschera assunti come valori e come termini di paragone per gli attori, in quanto espressione non di limitatezza ma di profondità e di purezza, perchè quei gesti sono esatti, senza margini di intervento e di interferenza. Proprio perchè il gesto o il sentimento è unico, fisso e immutabile, può essere “elevato alla massima intensità”, poiché la sua assolutezza lo pone al riparo dalla contingenza e dall'aleatorietà del gesto umano. Questo discorso del gesto raggelato e immobile, dell'unica espressione del personaggio, compare poi anche nella versione del 1925 di Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello, in cui la didascalia di presentazione dei personaggi, quelli che arrivano sul palco con la pretesa di vivere il loro dramma, prevede che essi indossino “maschere espressamente costruire”. Pirandello scrive anche che questi impersonaggi devono indossare vestiario “con pieghe rigide e volume quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l'idea che sia fatto d'una stoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria”. Non dice come questi personaggi e i loro costumi devono essere concretamente ma indica come devono essere simbolicamente: esseri immobilizzati per sempre in un ruolo e dunque non sono quotidiani, indossano abiti che li rendono quasi marionettizzati. Ed è proprio questo il nucleo teorico fondamentale: il rapporto tra natura e artificio, tra la quotidianità della persona e l'artificialità della “figura costruita per arte”. La marionetta, o il mito della marionetta, serve ai teorizzatori del Novecento per indicare la strada di un teatro che sia il meno quotidiano possibile, quindi anche il meno possibile compromesso con quell'impasto di psicologia, passioni, verosimiglianza e credibilità che è l'attore naturalistico nel suo rapporto con il personaggio. Hoffman parla di automi, di giocattoli che si animano e congegni meccanici che prendono vita da soli, senza l’intervento di una mano esterna. Il congegno meccanico che si anima dal di dentro e molte volte sfugge al controllo dell'umani diventa sempre inquietante, perchè è il doppio, è la materia che si ribella allo spirito, è la creatura dell'uomo che diventa prevaricante e minacciosa per l'uomo stesso. Da qui viene tutta la discendenza degli automi, ma poi anche dei pupazzi che prendono vita, che sfociano da un lato nel grottesco e dall'altro nel minaccioso e nel terribile. Da qui vengono la tristezza, il patetico, il tragico anche, di un pezzetto di spirito imprigionato nella materia che a volte riesce a dar vita a questa materia, di cui si vedono le tracce in tanta cultura espressionista. Trasportato sul piano della recitazione,negli spettacoli dell’espressionismo tedesco dei primi decenni del Novecento, questo approccio alla materia produce attori-fantoccio, in cui è il trucco esasperato e grottesco a significare l’inquietudine patetica o terribile. Da questo stesso sentimento vengono i colori violenti, le luci di taglio, a generare contrasti violenti e ombre lunghe, la gestualità eccessiva, la vocalità spezzata. Come se l'attore tendesse all'imitazione del burattino o del fantoccio, della sua lotta tragica e impotente per liberare, dalla materia che lo imprigiona, l'assoluto. Perchè anche la cultura espressionista, come quella simbolista, sia pure attraverso istanze meno disincarnate e più compromesse con la materia, tende al recupero dell'assoluto contro il contingente della quotidianità. La linea di discendenza che nel XX secolo ha trovato maggiore successo è quella kleistiana, codificata nel Il teatro delle marionette, in cui si parla della marionetta in senso specifico, quella con i fili, che muove tutte le articolazioni e possiede un'agilità e una leggerezza sconosciute ai burattini animati dalla mano del burattinaio. Il narratore di Kleist sostiene che le marionette hanno molta più grazia di un attore o un danzatore perchè hanno la vis motrix, la forza che le muove, non dentro di sé, ma fuori da sé. Il danzatore rischierà sempre di mostrare affettazione in un gesto, perchè sempre in quel gesto si leggerà anche l'intenzionalità, lo sforzo speso a costruirlo. Il gesto è affettato, infatti, quando “si Ogni rappresentazione è come se fosse insieme un'opera e una dichiarazione di poetica e ogni pratica di attore la messa in forma di uno stile e una riflessione su questa stessa forma. Il novecento è un secolo di teorie, perchè non c’è un’idea di teatro definita e di conseguenza non ha un'idea unitaria di attore, ha invece cento teorizzazioni che provano a definire un’idea. La prima teorizzazione dell’attore novecentesco è quella che porta a compimento estremo i presupposti teorici del teatro ottocentesco, elaborata da Stanislavskij nel famoso “sistema”, che diventerà poi il “metodo” quando dagli anni Cinquanta venne imposto da Lee Strasberg come canone della recitazione cinematografica nell’ Actors Studio di new York. Punto nodale della teoria è tornare a riconoscere all'attore una centralità operativa e una funzione creativa che l'organizzazione dello spettacolo moderno aveva attenuato, a favore di altre figure come il regista o l’autore. Naturalmente si tratta di una centralità e di una creativistà del tutto diverse da quelle del grande attore ottocentesco o delle capricciose star del teatro sei e settecentesco, perchè sono comunque sottoposto alla verifica estetica e organizzativa del regista e perchè sono raggiunte per mezzo di una collaborazione approfondità e continua col regista-pedagogo. È il regista-pedagogo Stanislavkij che detta le regole per il lavoro dell’attore su se stesso e sul personaggio, elaborate a partire dal 1909 e raccolte poi in opere teoriche che assemblano vari materiali in modo non sistematico, pubblicate poi dal 1936: Il lavoro dell'attore su se stesso e Il lavoro dell'attore sul personaggio. Il regista-pedagogo deve provocare questo processo, prima aiutando l’attore a impadronirsi delle condizioni generali e del contesto in cui dovrà collocarsi la sua azione, attraverso l’analisi delle “circostanze date” (storia, intreccio, dinamiche dei personaggi, avvenimenti, tempo e luogo dell’azione, condizioni storiche e sociali in cui si svolge l’azione). Andrà poi ricostruita l’intera biografia del personaggio, immaginando la sua storia personale, il suo carattere, i suoi pensieri fuori e oltre i confini del testo e dello spettacolo. In tal modo si fornisce alla parte che si deve rappresentare, definita dai dialoghi e dalle didascalie del testo, un “sottotesto” che restituisce completessa, sfumature psicologiche e credibilità a quel personaggio. E ancora è il regista-pedagogo che deve stimoalre la creatività psicologica dell’attore proponendogli il famoso “se”. Una tale impostazione del lavoro richiede all'attore un coinvolgimento personate, perchè pretende che metta in campo non la copia delle passioni, come farebbe un attore rappresentativo di impostazione naturalista, non una generica passione emotivamente fascinatoria, come farebbe un grande attore di stampo romantico, ma una passione specifica, vera, che come tale non può essere attributo del personaggio ma deve essere quella privata e personale dell’interprete. Da questo momento la creatività appartiene all'attore, attraverso quelle due fasi di “reviviscenza” e “personificazione”. La personificazione è l'insieme delle tecniche fisiche e vocali con cui l’attore riesce a far assumere forma scenica a tutto il lavoro compiuto sul personaggio e all’emozione personale provocata dalla reviviscenza. Ma è la nozione di “reviviscenza” che costituisce la novità, anche problematica, della teoria staniskavskiana, perchè con essa si chiede all’attore di richiamare dalla propria “memoria emotiva”, passioni ed emozioni che si possano adattare alla situazione scenica e possono dunque essere conferite al personaggio. Così l’emozione dell’attore così sarà sempre vera e non verosimile, reale e non realistica. E la stessa percezione di realtà dovrà provarla lo spettatore, anche se la passione ripescata dalla memoria dell’attore non sarà è la stessa richiesta dal personaggio, ma una che comunque provoca effetti comportamentali analoghi. Ciò che è fondamentale per Stanislavskij è abolire la routine rappresentativa, la standardizzazione scenica dei gesti e della declamazione, la copia della quotidianità, ricercando una sorta di verginità emotiva e comportamentale, quasi una seconda e più pura nascita, stavolta al mondo dell'arte, imparando tutto daccapo. Ma proprio perchè l'evento teatrale, per quanto presupponga emozioni, è poi alla fine fatto di azioni, nell'ultimo periodo della sua riflessione Stanislavskij sembra apparentemente capovolgere i presupposti iniziali della sua teoria, ipotizzando una sorta di inversione di percorso, dall'esterno all'interno azichè dall'interno all'esterno, e dunque dalle azioni fisiche all’emozione. Questo approccio al problema della recitazione, vonferna il talento sperimentale di Stanislavskij, la sua volontà di proseguire nella ricerca anche contravvenendo ad un “sistema” che è ormai divenuto quasi proverbiale. All'interesse quasi esclusivo per i meccanismi psicologici, ora Stanislavskij contrappone una nuova attenzione per le azioni , che lo porta a ipotizzare l’acquisizione della parte attraverso una scomposizione del comportamento in singole sequenze, con un procedimento che tende a fissare le azioni alla loro coerenza con l’intreccio e la situazione, e che dunque necessariamente allenta i rapporti di dipendenza delle azioni dalle emozioni e dalle pulsioni dell'animo. Recitare l’intreccio “per episodi, per azioni fisiche”, alla ricerca non più di un moto che viene da dentro per dare forma al comportamento ma proprio di una forma, di un’azione, che troverà la sua giustificazione psicologica. La novità è proprio che Stanislavskij non propone più all'attore di chiedersi “se fossi in quella situazione quale emozione proverei” ma “se fossi in quella situazione quale azione farei”. Si tratta di un cambiamento importante della sua teoria, che la introduce nel filone delle teorie novecentesche e va in una direzione antiemozionalista, alla ricerca non di motivazioni psicologiche ma di azioni. Mejerchol’d (suo allievo) inizia delle innovazioni che partono dal presupposto che il teatro non deve essere il luogo di riproduzione della realtà, e dunque l’azione, i gesti e la voce devono affrancarsi dalla soggezione alla categoria del “naturale”. In queglis tessi anni, nel 1911, in quella sorta di manifesto del teatro antinaturalistico che è On the Art of the Theatre, Gordon Craig liquida il lascito culturale del naturalismo definindo i nuovi termini della questione: “bisogna abbandonare l'idea che esistano azioni naturali o innaturali, e suddividere invece le azioni in necessarie e inutili. Se un'azione è necessaria, si può dire che in quel momento è l'azione naturale”. Il primo esperimento che Mejerchol'd persegue per liberarsi sia dalle consuetudini di un naturalismo standardizzato che dalla pratica del sistema stanislavskiano basato sulla reviviscenza è quello del cosiddetto teatro “della convenzione”, ossia dell'artificialità non naturalistica, destinato a “liberare gli attori dall’anarchia del teatro naturalistico”. Liberare gli attori dall'”anarchia” del teatro naturalistico vuol dire allontanarli da una pratica affidata al riflesso casuale dell’agire quotidiano, anzichè alla “forma” di uno specifico linguaggio compositivo, come dovrebbe essere di regola per ogni creazione estetica. E dare forma all'azione vuol dire proporre una recitazione stilizzata, basata su una gestualità composta e non naturalistica. Individuato il nucleo fondante della verosimiglianza naturalistica nella profondità della scena, che permette all'attore di abitarla secondo gestualità e percorsi del tutto analoghi a quelli della vita quotidiana, Mejerchol'd propone allora per contrasto una scena molto poco profonda, in cui gli attori siano costretti a recitare come fossere figure che si staccano dal fondale, quasi bassorilievi animati che disegnano gesti lenti e quasi astratti. Ma la proposta teorica più nota è quella che definisce l’attore biomeccanico, enunciata all’inizio degli anni 20, prima intesa come una tecnica applicabile direttamenre agli spettacoli e poi successivamente solo come una pratica di training dell’attore a monte della sua specifica utilizzabilità sulla scena. Poiché non è il luogo di una gestualità naturale o naturalistica, per Mejerchol'd il teatro non può che essere il luogo in cui si ricerca e si sperimenta tutta quella gestualità che è nelle potenzialità fisiche del nostro corpo ma che non ha modo di esprimersi nella quotidianità in quanto sentita come “innaturale”. Per questo la biomeccanica si affida molto alla ginnastica e all'acrobatica, e alla rifunzionalizzazione del corpo secondo parametri alternativi a quelli che gli affidiamo nella vita di tutti i giorni. La biomeccanica contribuisce in maniera determinante alla definizione dello stardard teorico dell’attore novecentesco come portatore di azioni e non di passioni o psicologie. Il rapporto tra interiorità e azione deve essere rovesciato rispetto all'orignaria definizione stanislavskiana. Vi è l'indicazione di una direzione di marcia per l'attore novecentesco, verso una appropriazione delle regole del proprio corpo più che di quelle delle proprie emozioni, verso una definita presa di coscienza dello stare sulla scena come luogo dell'artificio e della forma. In questa direzione è significativo che Mejerchol'd incroci il percorso teorico dell'altro grande maestro della recitazione non naturalistica del teatro contemporaneo, Bertolt Brecht. Le loro strade artistiche in realtà non si intrecciano e i percorsi estetici sono anche molto differenti. Percorre l'intera teoresi mejercholdiana l'idea che lo spettacolo sia una creazione artificiale e che non si debba nascondere l’artificio, perchè proprio li sta il senso dell’operazione. E conseguentemente è costantemente preste la concezione di un attore che si presta a disvelare l’artificio, con il succo di mirtillo al posto del sangue nel Baraccone di Block messo in scena nel 1906, che diventerà un emblema del teatro antinaturalistico. Sembra descrivere la sostanza teorica dello “straniamento brechtiano”, quando contesta la recitazione basata sulla reviviscenza e ipotizza un attore che guarda il proprio personaggio dal di fuori e prende posizioni rispetto ad esso. Quell'attore che diventa difensore o accusatore del proprio personaggio, che rifiuta l'immedesimazione psicologica per mantenere la testa fredda e giudicare il personaggio favorendo così il giudizio dello spettatore, potrebbe venire dagli scritti di Brecht, per quanto centra con perfezione il meccanismo teorico dello straniamento, con cui lui vuole marcare la distanza tra l’attore e il suo personaggio e definire l’atteggiamento critico dello spettatore. Atteggiamento reso necessario dal ruolo sociale che Brecht assegna al teatro, che non è quello di divenire, emozionare o di consolare, ma quello di costringere a ragionare, a prendere coscienza dei meccanismi sociali, soprattutto delle forze che li muovono. In questo contesto teorico, è dunque necessario che i temi e le posizioni di cui sono portatori i diversi personaggi siano del tutto chiari e non inquinati dai convolgimenti emotivi dello spettatore. Per Brecht, lo spettatore deve essere “messo in grado, non di provare emozioni, ma di dover dare il proprio voto, non di identificarsi ma di prendere posizione”. Per questo è necessario un nuovo tipo di teatro, il teatro “epico”, che è di Brecht ma anche di un movimento più vasto nella cultura tedesca degli anni venti e trenta, e una “relativamente nuova” modalità recitativa. In questo tipo di teatro, l’attore, invece di calarsi completamente nel personaggio, “prende posizione”, lo giudica e lo “cita”, elaborando nella distanza prodotta da questo atteggiamento una strategia di recitazione che parte da presupposti antiemozionalisti che sembrano discendere dal Diderot del Paradosso sull'attore. All'interno di una strategia di spettacolo che “fa dello spettatore un osservatore” e, anziché coinvolgerlo dentro a vicende che lo chiamano ad un'adesione solo emozionale, “lo costringe a decisioni”, l'attore brechtiano deve sempre fare in modo che lo spettatore sia consapevole di trovarsi a teatro e dunque in una situazione artificiale, di fronte a uno spettacolo che è artificialmente prodotto proprio perchè lui lo osservi e ne tragga un giudizio, una presa di coscienza psicologica e comunitaria della compagnia e l'impegno libertario dei suoi spettacoli, un esempio per un intero movimento di teatro dei gruppi. Ed è Paradise Now, lo spettacolo presentato con grande scandolo e immediata censua al Festiva di Avignone nel 1968, che forse meglio di ogni altro può rappresentare l'ideologia e il modo di operare del gruppo. La coesistenza della formalizzazione dello spettacolo con la sua destrutturazione, spazio all’improvvisazione e all'irruzione sulla scena delle azioni vere della vita reale, rottura della separatezza tra attori e spettatori fino al coinvolgimento di questi nell’azione e poi irruzione del teatro nella vita reale, portando la propria carica eversiva nelle strade: c'è momento di grande rivoluzioni e fascino che è il sessantotto. E che richiede agli attori una disponibilità totale, una completa adesione alla progettualità del gruppo. La stessa adesione che chiede anche Jerzy Grotowski, regista e teorico polacco operativo prima in patria, dal 1959 in un piccolo teatro ad Opole e poi a Wroclaw, ma che porta poi i suoi spettacoli e laboratori in tutto il mondo. Il campo di intervento di Grotowki è il rapporto che lega l’attore allo spettatore e quindi il lavoro dell’attore, che è lo strumento usato dal regista per accendere quel rapporto. Per sottrarre lo spettatore alla sua abitudine di passività è necessaria una provocazione da parte dell’attore nello spettatore, ma perchè il coinvolgimento sia profondo la provocazione non deve essere estemporanea e deve invece mirare a convogliare lo spettatore in un esperienza di “auto- penetrazione”, di discesa nel profondo sia da parte dell’attore che da parte dello spettatore. Per questo, per indurre un'operazione analoga nello spettatore, l'attore deve mettersi a disposizione, donarsi senza resistenze in un atto quasi di sacrificio di sé. L'attore che esce da questa impostazione deve dunque essere molto lontano da quello tradizionale, che interpreta un personaggio soprattutto per mezzo della parola. È un attore che deve avere il pieno dominio dei suoi mezzi fisici, anche di tipo ginnico-acrobatico, ma che soprattutto attraverso di essi deve esprimere forza, intensità, urgenza e “necessità” del proprio agire. Per costruire questa tiplogia di attore, che non appartiene alla tradizione teatrale occidentale, è necessario insistere molto sull'attività laboratoriale e su un training fisico e psichico costante, che formi e tenga allenato l'attore come individuo ancor prima che come interprete di un determinato ruolo, forzandolo ad esplorare e superare continuamente i limiti fisici e psicologici, alla ricerca di una “purezza” da conquistare sotto le corazze del comportamento quotidiano e sociale. L’attività registica e teatrale di Grotowki durerà solo pochi anni. Apocalypsis cum figuris, del 1968, è il suo ultimo spettacolo e da allora in poi la sua attività sarà solo teorica, di produzione di saggi e conferenze, oppure di recupero di una dimensione di lavoro teatrale a piccoli gruppi, che però non sfocia mai in spettacolo, ma esplora in maniera più approfondita, proprio perchè sganciata dalle necessità e dalle costrizioni dello spettacolo pubblico, le tecniche di auto-penetrazione, la presa di coscienza del proprio corpo, la rivisitazione di tecniche popolari di altre culture. È il momento del cosiddetto “parateatro”, la ricerca di un “teatro delle sorgenti” che viene prima di ogni possibile spettacolo. La stessa istanza di cui si fa portatore Eugenio Barba, regista e teorico italiano che si forma con Grotowski e che fonda nel 1979 l’ISTA (International School of Theatre Anthropology) e ne dirige le sessioni. Emigrato giovane dall'Italia, fonda il suo Odin Teatret nel 1964 a Oslo e al 1966 in Danimarca. Qui sperimenta un teatro con un'intensa valenza laboratoriale, sottoponendo i propri attori ad un training collettivo e quotidiano, trasformando il gruppo di lavoro in una comunità esistenziale e richiedendo agli attori una profonda adesione personale al progetto e una disponibilità assoluta. Nel modello stanislavskiano si trattava di credere o non credere alle verità del sentimento rappresentato, qui si tratta di credere o non credere al senso di necessità e di urgenza di cui l'attore deve impregnare la sua azione, alla sua “autenticità”, che è cosa diversa dalla credibilità psicologica. Ed è in fornzo una ricerca di autenticità che induce l'Odin, a partire dagli anni settanta, a intraprendere una serie di viaggia in sud Italia e in America latina, inaugurando la pratica del “baratto”; ossia offrendo i propri spettacolo e le proprie capacità alle culture locali e chiedendo in cambio espressioni della cultura tradizionale del luogo. Ancora una dimensione antropologica dell'esperienza teatrale, ancora una ricerca di “sorgenti”, di forze, pulsioni, tecniche, che facciano uscire il teatro occidentale dalla palude della rappresentazione. Per questo l'attore dell'Odin non appartiene a questa tradizione ma è un attore che si esprime prima di tutto con la corporeità e poi è spesso anche musicista e danzatore. Questa figura di attore e questa ipotesi di lavoro teatrale basato sul gruppo comunitario costituiscono, negli anni ottanna, un modello per un intero settore del teatro internazionale, chiamato Terzo Teatro. Diverso e separato sia dal teatro di tradizione che dal teatro di ricerca, questo teatro di gruppo, spesso emarginato, costituisce una terza via, che affida il senso del proprio lavoro più all’urgenza esistenziale che alla necessità di comunicare. Ed è proprio questo “pagare di persona”, questo coinvolgimento esistenziale prima ancora che professionale, che può forse fornire la cifra riassuntiva del teatro del Novecento. PER UN ABBOZZO DI CONCLUSIONE. Nel corso del Novecento, scorre un'attività teatrale meno caratterizzata, fatta di sopravvivenze o di riprese di tecniche attoriche dettate da epoche precedenti. Si vede spesso, ad esempio, un approccio naturalista, magari temperato da impennate espressioniste; si vedono anche impostazioni da grande attore ottocentesco, con una centralità quasi divistica su un primo attore che si carica di passione e di segni di teatralità; si vedono esperienze d'avanguardia o di teatro di ricerca che recuperano elementi stilistici e tecnici dalla stagione delle Avanguardie storiche; si vedono recuperi della Commedia dell'Arte o dei narratori della tradizione popolare, dei giullari medievali. Ma anche in tutta questa attività ci sono le prove di routine e le grandi personalità, le ricerche e la ripetitività. Come non considerare ad esempio la grande lezione di professionalità degli straordinari attori della scuola shakespeariana inglese, da Laurence Olivier a John Gielguld, o degli attori americani uscita dall'Actors Studio che alternano teatro e cinema, come Marlon Brando o Al Pacino; oppure il professionismo di grande scuola di attori italiani come Vittorio Gassman o Giorgio Albertazzi; o la lezione civile di Eduardo De Filippo, tra recupero della tradizione popolare e naturalismo; o le prove oneste e creative di tanto teatro di ricerca, da Raffaello Sanzio a Magazzini Criminali; o la recitazione artificiale e lontana dalla quotidianità che Luca Ronconi impone ai suoi attori; o la lenta ed estenuante gestualità del teatro di grande impatto visivo di Bob Wilson; o la dolorosa intensità dell'attore di Tadeusz Kantor. Tra queste ce ne sono alcune che hanno segnato il teatro del secondo Novecento. Da un lato ad esempio tutto il filone del cosiddetto teatro-danza, felice incontro di due “generi” che solo la cultura occidentale aveva distinto, che porta drammaturgia nella danza e coscienza della gestualità come sede di elaborazione estetica nel teatro. Come Pina Bausch, grande coreografa tedesca che lascia un segno forte e inconfondibile nella danza e nel teatro degli anni ottanta e novanta, anche in Italia, a partire dalla straordinaria rivelazione di Café Muller al Festival di Parma del 1981. Pina Bausch compone una gestualità di chiara matrice coreutica con l'uso di oggetti e scenografie e con una struttura complessa che contempla, otlre alla musica anche l'uso della parola e dei suoni non articolati (il riso, piano, urlo, bisbiglio) in una “drammaturgia totale”. Gli altri casi sono quelli di tipologie di attore che escono dalle categorie e propongono modalità a sé, come quelle di Carmelo Bene e Dario Fo. Il primo, attore, regista, teorico e scrittore, usa dapprima gestualità esasperate, pose e trucco marcato da grande attore ottocentesco e soprattutto una dizione molto particolare, una voce spesso di testa, assai poco naturale, che spezza artificialmente l'andamento della frase o del verso, spostando gli appoggi a creare una musicalità per certi versi indipindente dal senso delle parole. E successivamente disarticola i linguaggi della scena fino alla loro distruzione, procedendo per sottrazione di segni, identificando l'azione teatrale con la pura phoné, ossia la parola, prevalentemente poetica, che si fa materia sonora. Il secondo, regista, drammaturgo, scenografo, premio Nobel per la letteratura, grande attore comico anche nella tradizionale struttura della commedia o della farsa, inventa dal 1969, con Mistero buffo, una modalità recitativa basata sul monologo, un'affabulazione mutuata dai modi dei giullari medievali ma anche dai narratori della tradizione popolare più moderna, in cui l'attore, senza costumi o scenografie, sulla base di una strepitosa tecnica gestuale vocale e rappresentativa, racconta storie con una lingua meticciata, arcaica e nuova, riuscendo a renderci presenti i vari personaggi solo alterando un poco il tono della voce o girando il capo dall'altra parte. Eppure c'è un dato che sembra accomunare gli attori del Novecento, al di là delle tecniche e degli assunti ideologici, ed è quello della consapevolezza. Consapevolezza tecnica e teorica, del proprio ruolo sociale e della propria funzione nei meccanismi dello spettacolo. Pier Paolo Pasolini, nel Manifesto per un nuovo teatro, del 1968, in cui propone un ritorno al teatro di Parola, intesa come parola forte e densa, che contrasti le due tendenze imperanti del teatro borghese della “chiacchiera” e del teatro antiborghese del “gesto” e dell'”urlo”, ipotizza per questo nuovo teatro un attore che “dovrà rendersi trasparente sul pensiero”. LE INTERFERENZE ORIENTALI. Il teatro orientale è da sempre più chiuso e codificato, attento custore delle proprie forme e delle proprie regole, talvolta anch'esso subisce una qualche influenza da parte di quello occidentale, come ad esempio col Kabuki giapponese, che in certe esperienze contamina parzialmene le proprie forme con quelle europee. Oppure con l'esplosione della cultura globalizzata degli ultimi decenni del Novecento, che produce una omogeneizzazione delle esperienze che è tuttavia figlia dell'imperialismo della cultura occidentale, capace di imporre il musical a Pechino o l'opera lirica in Giappone come simboli e veicoli dei valori e del modo di vita occidentale. È sempre dall'Oriente che arrivano in Europa forme teatrali nuove e strane, come venissero da un altro mondo e dunque cariche volta a volta di cuoriosità. Dall'Asia, specie dall'Asia Minore, possono ad esempio giungere in Grecia mimi e danzatori, ma tutto ciò che sta a Oriente è qualificato come “barbaro” ed entra con le connotazioni del nemico nelel categorie della tragedia greca. Meno inquietudini suscita il contatto con l'Oriente in una società espansiva e imperialistica come quella romana. Si pensi al pantomimo, che giunge a Roma dall'Oriente e riscuote un immediato successo proprio perchè viene a portare forme nuove in un contesto teatrale sfibrato e con poche prospettive di sviluppo. Perchè l'Oriente è stato spesso visto come luogo della raffinatezza e al limite della “mollezza”, specie in una società pratica e guerriera come quella romana. In una società insicura, piena di fantasmi e di paure, come quella medievale, la radiale diversità della cultura orientale è invece vissuta come minaccia più che come feconda possibilità di confronto. L'Oriente diviene allora un luogo favoloso e indistinto, ma necessariamente ostile. E L'ATTORE NUDO: CORPO, PAROLA, USO DELLO SPAZIO. L'attore è prima di tutto un corpo che si muove nello spazio, dunque in linea di principio, l'attore non è distinto dal danzatore. Gordon Craig nel suo Primo dialogo fra uomo del mestiere – il regista – e un frequentatore di teatro – lo spettatore, allarga il discorso e scrive addirittura che “il danzatore è il padre del drammaturgo”, volendo intendere che il teatro è forma del corpo, del gesto, dell'azione, prima di essere parola, espressione di sentimenti, intreccio. In tutte le civiltà teatrali, dunque, prima della divisione in “generi”, non esiste proprio una distinzione della danza in quanto forma separata dal teatro, e in molte poi la danza resta parte integrante e ineliminabile dell'evento, con la stessa dignità della parola o della musica. Nella tragedia greca, ad esempio, il coro compie evoluzioni ritmiche e formalizzate che sono tutt'altro che ornamentali e testimoniano il radicamento coreutico di un evento che ha alla fine affidato prevalentemente alla parola la propria capacità comunicativa. E il pantomimo romano è un danzatore e un attore insieme, perchè formalizza gesti e movimenti ma li carica di una volontà rappresentativa con la quale racconta storie accompagnate dal canto del coro e dal suono degli strumenti. E il giullare medievale è spesso suonatore e maestro di danze, e la giullaressa disponibile danzatrice. E danza c'è negli spettacoli medievali, negli eventi cortigiani del Rinascimento, nella Commedia dell'Arte, negli sfarzosi intermezzi e nel grande teatro barocco, nel melodramma nascente, nel mélo. E naturalmente nelle diverse forme del teatro orientale. Dal teatro-danza balinese, Antonnin Artaud trae la sua teoria, o utopia, di rinnovamento radicale della tradizione occidentale secondo quell'”idea fisica e non verbale del teatro” che in fondo percorre una gran parte della riflessione novecentesca. Nella cultura occidentale, questa sostanziale unità attore-danzatore si rompe quando in epoca romana, si scindono le funzioni di actor, che usa la parola, histrio, che usa il gesto e la corporeità, e cantor, che usa la parola in musica. Perchè nel corso della civiltà occidentale, anche per l'avvento della cultura cristiana, si assiste ad una progressiva dignificazione della parola, a scapito della gestualità e della corporeità, relegate ad un rango inferiore. In questo percorso, l'attore occidentale diviene allora sempre più un dicitore, con la subordinazione di ogni altro elemento dello spettacolo (gesto, movimento, accessori) alla centralità della parola e dei pensieri, delle passioni e dei sentimenti di cui essa si fa interprete. Lo si vede nella tradizione ottocentesca e negli ultimi testi di Samuel Beckett, raggelati in una inazione quasi totale, che a fatica lascia emergere qualche brandello di discorso, fino all'estremo del monologo Non io, detto da una Bocca ad un Ascoltatore “assolutamente immobile”. Un discorso analogo si potrebbe fare per la musica, relegata dalla nostra tradizione, a “musica fuori scena”, utile come sottolineatura della situazione emotiva dei personaggi, ma che in realtà nella storia è molto spesso componente ineliminabile della rappresentazione. La stessa tragedia greca, che siamo abituati a intendere e a recitare “in prosa”, ossia a voce dialogante, in realtà è “cantata”. E una sorta di “recitar cantando” c'è anche nello spettacolo religioso medievale e in tante forme della teatralità popolare. E i comici dell'Arte sono anche spesso provetti cantanti. E canto e musica ci sono negli spettacoli elisabettiani e nele commedie di Molière, nel mélo e nel vaudeville, nel cabaret francese e tedesco tra Otto e Novecento e negli spettacoli delle Avanguardie storiche. Una diversa accentuazione della recitazione sull'uso del corpo o sull'uso della parola comporta anche un differente rapporto dell'attore rispetto allo spazio della scena e alla sua relazione spaziale con gli spettatori. Quasi nulla sappiamo della recitazione degli attori antichi, e tuttavia è lecito supporre una maggiore articolazione dello spazio da parte dell'attore greco, che ha a disposizione un'area più ampia per le sue evoluzioni, rispetto all'attore romano, che l'utilizzo dell'orchestra come luogo per gli spettatori relega al solo proscenio davanti alla scaenae frons. Ed anche la frontalità istituzionale dell'edificio teatrale romano determina necessariamente un approccio allo spazio scenico più ristretto e mno libero rispetto allo spazio greco, più avvolgente e profondo. Il Medioevo nello spettacolo a tema religioso, sperimenta le più diverse forme di spazio scenico, dalla dispersione dei luoghi di spettacolo multipli nella chiesa o nella piazza alla scena centrale con il pubblico attorno, alle strutture con gli spettatori su due o tre lati. E dunque l'attore perde ogni riferimento alla frontalità per acquisire una nuova dimensione comunitaria di contatto ravvicinato con chi assiste. Ma il tema della frontalità riappare nuovamente con i grandi spettacoli della fine del Medioevo e soprattutto con l'invenzione della nuova scena rinascimentale prospettica, che fa appunto della frontalità tra attore e spettatore il suo dato maggiormente qualificante. L' l'attore è costretto a recitare davanti alla scena, per non alterare l'illusionismo della prospettiva, e pertanto a non dare profondità alla sua azione. Ed è il confronto con la quasi contemporanea scena elisabettiana che illustra bene la differenza dell'uso dello spazio da parte dell'attore, perchè qui la scena aggettante in mezzo al pubblico, la visione da tutti i lati, la stessa vicinanza fisica degli spettatori comportano una recitazione necessariamente più mossa, con una gestualità “a tutto tondo” che consenta la visibilità da ogni parte, con una più marcata espressività del gesto e della parola che devono supplire alla mancanza di scene e arredi, e dunque di contestualizzazione spaziale. Questa continua contrapposizione tra frontalità, che implica una separatezza tra attore e spettatore, e forme più comunitarie che cercano di ridurre questa alterità, percorre dunque tutta la storia del teatro. La frontalità è certo la struttura storicamente prevalente. Ma le forme diverse tendono sempre a riaffiorare come strutture ideali, come obiettivo verso cui tendere, e in questa prospettiva occupano buona parte del Novecento. Ma se l'attore vuole ridiventare quel soggetto d'azione che dovrebbe essere e che è stato in altre epoche, ha assolutamente bisogno di strutture spaziali che gli consentano di ritrovare la dimensione della plasticità, del movimento, della spazialità complessa, del ritmo. L'ATTORE VESTITO: MASCHERA, TRUCCO, COSTUME, ACCESSORI. Il teatro è da sempre il luogo dell'artificio, dell'eccessivo, del non comune. È con la nascita del dramma borghese, dalla seconda metà del Settecento all'apice di fine Ottocento, che il teatro tende a divenire il luogo della verosimile rappresentazione della quotidianità. Ed è dunque in questo periodo che tendono a ridursi quegli accessori che allontanano il corpo dell'attore dalla quotidianità. Niente maschere, allora, che sono l'elemento più caratterizzato della “diversità” dell'attore in scena. E niente trucco che serva a marcare questo stesso dato di non quotidianità, a favore di un trucco utile invece a far meglio funzionare la comunicatività (il nero intorno agli occhi per farne risaltare le espressioni) oppure a imitare condizioni o età che non si possiedono. Anche il costume non dovrà allontanarsi molto dall'abbigliamento consueto delle persone che assistono allo spettacolo, in un gioco di rispecchiamento che è uno dei dati costitutivi del dramma borghese. In quanto elementi di corredo che caratterizzano una condizione sociale o una dimensione psicologica del personaggio. Situazione che non è così consueta nella storia del teatro. Sono alcuni attori innovatori verso la fine del Settecento e poi soprattutto il rispetto del “colore locale” imposto dal Romanticismo che inducono a una maggiore rispondenza tra costume teatrale e verità storica. Nelle epoche precedenti, invece, questa corrispondenza non solo non è ricercata ma neppure ammessa. Perchè in questa concezione del lavoro dell'attore, in questa idea di teatro come luogo della meraviglia, il costume è attributo dell'attore e non del personaggio, e dunque serve a far meglio risplendere l'attore nella sua funzione fascinatoria e non a designare le caratteristiche storiche o sociali del personaggio. E anche nel teatro elisabettiano, il ricco costume serve solo allo spettacolo, ed è un vestito contemporaneo acquistato spesso di seconda mano dai servitori cui i gentiluomini lo lasciano in eredità. Il costume e gli accessori dello spettacolo religioso medievale assumono carattere simbolico, come l'abbigliamento sfarzoso del Cristo trionfante della Resurrezione. Un caso emblematico è quello del cosiddetto Jeu d'Adam, uno dei primi drammi in volgare, della metà del XII secolo, in cui la degradazione di Adamo ed Eva, colpevoli del peccato originale, avviene non con un passaggio dalle vesti alla nudità, ma con una discesa di rango sociale nell'abbigliamento, da vesti sontuose a vesti povere. E nel mondo antico non ci sono costumi caratterizzanti, se non per qualche “segno”, come lo scettro per i re o la pelle di leone per Eracle, oppure gli abbigliamenti e gli accessori caratterizzanti intere categorie di personaggi come i satiri greci o i servi romani. E pure gli oggetti di scena sono scarsi e puramente funzionali. Ma è indubbiamente la maschera l'accessorio che più di ogni altro serve a identificare l'idea di teatro di una cultura e a marcare l'azione dell'attore nella sua funzione alternativamente di distanza o di mimesi nei confronti della realtà quotidiana. Perchè la maschera è sempre lo strumento di un rapporto con entità non umane, divine o diaboloche, e dunque il segno massimo della non rispondenza tra teatro e quotidianità. La maschera dunque c'è nella tragedia e nella commedia greca, e poi anche romana, dove serve a costruire immagini lontane dalla quotidianità, figure mitiche e quasi non umane, destinate ad inoltrarsi nei territori inquietanti del rapporto col divino. Ne è testimonianza la decisa ostilità della cultura cristiana. La maschera è il luogo della contrapposizione tra vero e falso, tra naturale e artificiale e tra bene e male. Perchè la maschera non è la simulazione di un diverso tipo umani, ed è invece primariamente una sorta di abdicazione dell'umano. Abdicazione che può riempirsi di una ricerca di rapporti col divino o di un commercio con le forze infere e diaboliche. Ed è in quest'ultima accezione che la maschera compare nella teatralità del Medioevo, sia quando serve a rappresentare direttamente demoni e fantasmi, negli spettacoli a tema religioso o nella teatralità popolare delle festività di radice pagane cui la Chiesa è costantemente ostile, sia quando indica la “diversità” di soggetti e categorie comunque da emarginare, come i giudei, o rimanda ad un paganesimo implicito, e dunque diabolico, di rapporti magici col mondo animale. E poi la maschera appartiene al mondo degradato dei giullari, socialmente emarginato e moralmente screditato, anch'esso sospettato di commercio con le entità diaboliche della festa e della paganità. Da lì, dalla festività medievale e dal mondo dei giullari, viene poi anche la maschera della Commedia dell'Arte, anch'essa con connotazioni diaboliche. Col teatro moderno “regolare” la maschera sparisce tra gli accessori dell'attore, tranne quando occasionalmente serve a rappresentare personaggi mascherati o mostruosi. E a maggior ragione, nei secoli successivi, non trova alcuna cittadinanza in un teatro che sempre più tende ad avvicinarsi all'imitazione della realtà, che chiede all'attore credibilità psicologica e comportamentale. Ricomparirà nelle esperienze del teatro contemporaneo, negli esperimenti delle Avanguardie storiche, nei travestimenti marionettizzanti del Dadaismo e del Futurismo, nella grottesca tempierie dell'Espressionismo, persino a qualificare i personaggi nel Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello. E sempre comparirà appunto a marcare una differenza dal quotidiano, a segnare di artificialità e di “teatralità” la risposta novecentesca alla tradizione realista dell'Ottocento. ATTORE MASCHIO E ATTORE FEMMINA. L'attore di teatro, per un lungo tempo della sua storia, è esclusivamente maschio. È maschio l'attore greco, quello romano delle tragedie e delle commedie ma anche del pantomimo, quello della spettacolarità religioso medievale e della teatralità inserita nella dimensione festiva del tardo Medioevo come la farsa o la charivari, quello delle accademie e dei primi spettacoli rinascimentali, delle prime formazioni della Commedia dell'Arte, del teatro elisabettiano, di tante forme del teatro orientale. È dunque maschio l'attore quando la scena è un luogo alto, carico di valori, perciò inaccessibile a un soggetto sociale non altrettanto forte quale è la donna. Ma è maschio anche in altre situazioni meno nobili dal punto di vista sociale e antropologico, anche quando siano di grande rilevanza culturale, come nel caso del teatro elisabettiano. L'esclusione della donna non ha dunque sempre la stessa valenza. Ci sono casi in cui il problema nemmeno si pone, come in epoca greca, quando a nessuno potrebbe venire in mente che una donna possa entrare in scena, proprio per l'origine sacrale dell'evento e le modalità con cui esso nasce e si sviluppa. E una dimensione per certi versi analoga è quella delle cerimonie spettacolarizzate del Medioevo, che traggono origine dalla liturgia e vedono le prime apparizioni dentro ai monasteri benedettini, o quella delle forme originarie del teatro orientale. La teatralità profana e quella della religiosità tardomedievale ormai definitivamente risolta in spettacolarità, dalla farsa alla Sacra rappresentazione fiorentina del Quattrocento, devono invece l'assenza di donne alla struttura del soggetto che se ne fa carico, quello delle confraternite di giovani maschi. Differenti sono invece quelle in cui il privilegio accordato all'attore maschio può confrontarsi con forme differenti, nella stessa epoca o cultura, che prevedono la presenza della donna in scena. È il caso ad esempio del pantomimo romano e del teatro elisabettiano. Caso esemplare, il primo, nel quale un danzatore maschio rappresenta col movimento e la gestualità personaggi anche femminili. Ed è certo qui il nodo problematico, e dunque l'interesse per il nostro discorso, del pantomimo: perchè mai utilizzare maschi per rappresentare femmine quando le donne sono da tempo in scena a rappresentare se stesse negli spettacoli di mimo? Probabilmebte per il gusto dell'ambiguità sessuale, cui gli spettatori romani sono sensibili, ma forse anche per marcare una differenza, in nome di uno spettacolo che si vuole raffinato ma anche “ordinato e aggraziato”, rispetto agli spettacoli di mimo in cui la presenza della donna ha valenze erotiche più che estetiche, in uno spettacolo più greve meno ordinato e aggraziato. Il fine sarebbe dunque, pur nella impudicizia e nella effeminatezza di un uomo in atteggiamenti femminili di cui parlano i critici, proprio quello di utilizzare l'ambiguità di questo travestimento per salvaguardare lo spettacolo dal “disordine” e dalla volgarità della ostentazione della donna come oggetto di attrazione sessuale più che come oggetto artistico. Come se, di fronte ad una donna chiamata ad esibire le proprie nudità e a spettacolarizzare la propria sessualità, la rappresentazione artistica e convenzionale della sessualità feminile valesse a collocare il pantomimo su un piano differente di spettacolo, più elevato e nobile. Diverso è il caso dei ragazzi imberbi che sostengono le parti femminili nel teatro elisabettiano, che non devono confrontarsi con presenze femminili e dunque non devono marcare alcuna differenza. È pur vero che negli altri paesi europei, in quel periodo tra la fine Cinquecento e inizi Seicento, la presenza femminile a teatro è un fenomeno assodato, anche se non accettato, ma per la cultura inglese l'ammissibilità delle donne in scena partirà solo dal periodo della Restaurazione, dopo la chiusura voluta dai Puritani, quando i teatri riapriranno e importeranno modelli continentali. Anche nel caso del teatro elisabettiano la presenza delle donne in scena è impedita per non aggiungere impudicizia ad un evento come lo spettacolo teatrale già guardato con sospetto, ma la differenza rispetto a tutti gli altri casi in cui uomini rappresentano parti femminili sta nella scelta di attori maschi ma non adulti. Dunque, maschi “femminilizzabili” già per l'aspetto fisico e per la voce chiara, ancor prima che per gli artifici della recitazione. È necessario però collocare i modi di questa recitazione in un contesto che è totalmente differente da quello cui siamo abituati, per accettare, senza rompere il contratto di credibilità stabilito con lo spettacolo, un fanciullo che interpreta parti di donna matura alle prese magari con un uomo di mezz'età che interpreta suo figlio. Ma il successo straordinario degli spettacoli shakespeariani dimostra chiaramanete che questa condizione non è di ostacolo alla partecipazione emotiva e intellettuale degli spettatori. La donna attrice c'è nel mimo romano, nella spettacolarità diffusa del Medioevo sotto la forma della giullaressa, nel teatro inglese dopo la Restaurazione degli Stuart, nella Commedia dell'Arte subito dopo gli inizi e da lì in tutti gli spettacoli delle epoche successive, con l'esclusione del fenomeno quasi esclusivamente italiano dei castrati nell'opera in musica preottocentesca. E sempre, proprio per la sua eccezionalità nel contesto della civiltà teatrale nella quale compare, la donna in scena provoca uno sconvolgimento dei canoni sia estetici che sociologici, determinando un effetto di novità evidenziato costantemente dagli scritti dei commentatori. Ma il dato in qualche modo unificante è nell'uso quasi sempre strumentale che dell'irrompere della donna sulla scena è stato fatto da quella che potremmo chiamare l'industria dello spettacolo. Sia da parte di chi lo approva sia da parte di chi ne è fortemente disturbato, della presenza della donna è infatti sempre sottolineato il dato erotico, quando non a caso le attrici vengono spesso accomunate alle prostitute, nel mimo romano come nelle performancese delle giullaresse, nella Commedia dell'Arte come nel teatro della Restaurazione. La “vera donna” di cui si scandalizzano i moralisti avversi alla Commedia dell'Arte è costantemente un elemento perturbante nell'universo altrimenti maschile del teatro. Fino a quando, dal Seicento in poi, non ne diviene il centro imprescindibile, il fulcro emotivo e non più erotico. ATTORI DILETTANTI E ATTORI PROFESSIONISTI. A teatro il confronto tra dilettanti e professionisti prevede quasi sistematicamente un credito maggiore accordato ai dilettanti, di fronte al discredito che colpisce spesso i professionisti. Il fenomeno, pur rimanendo singolare, ha diverse spiegazioni. Se il teatro è gioco e divertimento, il quadro del confronto è chiaro, perchè si sa che giocare è dilettevole e psicologicamente utile ma chi fa del gioco una professione è uno sfaccendato, inutile alla società e pericoloso per chi gli si avvicina. Basta riandare alle condanne ecclesiastiche dei giullari medievali, accusati di essere inutili al sistema sociale e moralmente dannosi per i loro stessi spettatori. Se invece il teatro è un quasi-rito, un evento che si carica di valenze parareligiose, l'attore sarà dapprima un professionista della religione, e dunque un dilettante di teatro, e poi un professionista di teatro investito tuttavia di un ruolo sociale e antropologico che travalica l'evento teatrale in sé per riaffondare le radici nell'humus religioso da cui trae legittimazione. E qui i casi sono evidentemente quelli del teatro greco e dello spettacolo sacro del Medioveo. Se infine il teatro è attività estetica autonoma e riconosciuta come tale, la sua titolarità appartiene a pieno diritto ai professionisti di teatro. Ma il teatro è un meccanismo complesso, che comporta da un lato la necessità di investimenti economici e dall'altro il ritorno del favore del pubblico, per cui presenta molto spesso una evidente vischiosità estetica, un rischio di appiattimento nella routine delle convenzioni da cui i professionisti faticano ad uscire. In questo caso allora i dilettanti di talento, gli intellettuali o i professionisti i altri ambiti artistici intervengono sovente a rivoluzionare le modalità dello spettacolo e gli stessi presupposti estetici su cui si reggono, come accade ad esempio nell'Italia delle corti rinascimentali, nelle riforme teatrali del Settecento e dell'Ottocento o nella stagione delle Avanguardie storiche degli inizi del Novecento. Ed è naturalmente quest'ultimo il rapporto che dà continuamente materia di analisi e di riflessione nella storia del teatro. Negli altri casi infatti il rapporto è più chiaro. In Grecia gli attori sono professionisti e i coreuti sono dilettanti, perchè quella di attore è una funzione alta e riconosciuta. A Roma il rapporto si rovescia perchè su ogni attore cade il discredito sociale, ma per chi lo faccia per diletto, come i giovani delle Atellane o certi cittadini liberi, vale una classificazione sociale tra le humilia, le attività umili, mentre per gli schiavi o i liberti che lo facciano di professione la classificazione è tra le infamia, le attività infami e spregevoli. E anche negli spettacoli religiosi medievali, ai professionisti che vi intervengono, i mimi o le scurrae, toccano le parti meno nobili, quelle diaboliche o grottesche. Senza contare l'ostilità violenta che tocca ai comici dell'Arte, ma anche ai professionisti del teatro inglese o spagnolo, da parte delle autorità ecclesiastiche e della cultura cristiana. È dunque col Rinascimento italiano, in quel contesto in cui nascono i parametri essenziali del teatro moderno, che il confronto tra professionisti e dilettanti si fa più intrigante. Perchè sono soprattutto i pittori e gli architetti, che si fanno scenografi e allestitori, a dettare le nuove regole, superando le resistenze dei professionisti. Per quanto riguarda più specificamente l'attore, la polemica dei dilettanti nei confronti dei professionisti, accusati di ignoranza, superficialità e amoralità, è costante almeno fino ai primi anni del Novecento, con punte di particolare virulenza tra Settecento e Ottocento, in cui resta esemplare il caso di Vittorio Alfieri, costantemente indispettito dall'idea di affidare le sue tragedie agli attori di professione ecostretto a farsi lui stesso attore e allestitore con compagnie di scelti dilettanti. Ma caso ancor più emblematico è quello dello snodo tra Ottocento e Novecento, in cui gran parte delle esperienze più significative nascono da gruppi di attori che, almeno inizialmente, sono dilettanti. Basti pensare ad esempio ai grandi momenti della nascita della regia, quando per uscire dalle convenzioni in cui sono imprigionati i professionisti, gli innovatori, dilettanti essi stessi, devono cercare una sorta di verginità recitativa, costruirsi interpreti senza pregiudizi e preconcetti. È così per la compagnia del duca di Meiningen, per André Antoine e il suo Théatre Libre, per l'attività di Stanislavskij prima della fondazione del Teatro d'Arte. E anche Pirandello, pur non contrapponendo ad essi l'universo dei dilettanti, non cessa di polemizzare con “i signori professionisti del teatro”, che sono attori ma anche allestitori e drammaturghi, accusati di rimanere schiavi delle convenzioni su ciò che si può e non si può fare in teatro. E anche l'idea che esce da quel suo scandaloso Sei personaggi in cerca d'autore, cui deve una buona parte della sua notorietà internazionale, va nella direzione del discredito di quel mondo artificioso e grossolano di cui sono protagonisti gli Attori, di fronte alla purezza ideale del mondo dei Personaggi. Ma in quel periodo in cui Pirandello scrive Sei personaggi, gli anni venti del Novecento, il teatro ha da alcuni decenni subito l'invasione di campo di dilettanti che provengono da altri ambiti artistici. Si può anzi dire che la stagione delle Avanguardie storiche si caratterizza prorpio per questi continui e programmatici smarginamenti, in cui tuttavia il teatro, in quanto arte sociale e di grande penetrazione comunicativa, è prevalentemente visto come un territorio da conquistare. Anche negli altri decenni del Novecento prosegue poi una sorta di confronto sotto traccia tra il mondo del teatro ufficiale, con attori che provengono dalle scuole di recitazione e dalle Accademie, e un teatro di ricerca e di sperimentazione in cui la formazione degli attori è affidata alla pratica dell'autopedagogia, della laboratorialità sotto la guida di maestri che trasgrediscono le convenzioni. L'IMMAGINE DELL'ATTORE. Solo in alcune situazioni storiche all'attore è riconosciuto un ruolo sociale qualificato. Questo accade soprattutto nell'età greca, in cui l'attore è membro riconosciuto e rispettato della comunità proprio perchè titolare di una funzione di grande rilevanza sociale nella vita e nel sistema di valori della polis, e nel caso particolare dell'attore-celebrante della spettacolarità religiosa medievale, in cui i monaci o i membri delle confraternite spesso non hanno piena coscienza della dimensione teatrale in cui si inserisce la loro azione. Altrimenti, l'attore è un soggetto sociale degradato, emerginato o, quando anche accettato e onorato, come accade con le star del mimo romano o gli attori e le attrici “nobili” della Commedia dell'Arte e con i grandi attori dei secoli successivi, è comunque sempre tenuto in sospetto, titolare di un'ambiguità sostanziale, agente necessario e ammirato dell'universo del divertimento e della società dello spettacolo ma insieme portatore di disordine sociale e morale. La cultura cristiana è in gran parte responsabile di questo discredito sociale, all'interno di una violenta campagna antispettacolare della Chiesa, ed anzi è proprio Tertulliano, uno dei pià acuti scrittori cristiani, la segnalazione precoce di quella ambiguità, tra discredito sociale ed esaltazione divistica. Ma anche al di fuori della cultura cristiana l'immagine degli attori è spesso negativa, già Aristotele li considerava perversi e ubriaconi, e intellettuali laici come Diderot o Alfieri esprimono giudizi fortemente critici sulla loro qualità umana e la loro mancanza di sensibilità e di cultura- quella di venalità è un'accusa ricorrente, sia in epoca moderna, con Diderot e Alfieri, sia in epoca medievale a carico dei giullari, sia in epoca antica, a dar credito alla tradizione che ci tramanda il caso dell'attore Licone, che in una commedia inserisce con successo una richiesta di denaro ad Alessandro Magno. Col Medioevo poi, proprio perchè la cultura cristiana è divenuta la cultura dominante, l'emarginazione sociale e morale dei mimi, degli istrioni, dei giullari è radicale, sia perchè nell'attore si individua un residuo di paganesimo, sia per ragioni strettamente sociali. In un tessuto sociale come quello medievale, in cui ogni attività deve trovare una classificazione, all'attore non vengono riconosciute altre abilità se non quelle improduttive dell'agilità corporea, del canto, del ballo e dunque non gli viene attribuita alcuna funzione sociale. Si produce così un vuoto di legittimazione, un buco nella struttura sociale, che per la coscienza cristiana medievale è disponibile ad essere occupato dalle forze del male. L'ostilità religiosa nei confronti dell'attore continua anche nei secoli successivi, sulla base delle stesse argomentazioni, a cui si aggiungono poi le accuse di disordine morale, di promiscuità, di malefiche influenze sugli spettatori. E la condanna si fa ancora più netta quando lo spettacolo diviene un fenomeno più strutturato e di grande successo, specie con la Commedia dell'Arte, ma anche col teatro inglese in epoca postelisabettiana, quando i teatri vengono addirittura chiusa dai Puritani, che costringono gli attori ad una forzata emigrazione sul continente. Ma anche in epoche più recenti, e al di fuori di un contesto religioso, basterebbe pensare a quanti drammi e romanzi, tra Ottocento e Novecento, giocano sull'amore contrastato tra un gentiluomo e un'attrice, per comprendere come l'opera di accettazione sociale del mestiere di attore non sia mai stata completata, se non in anni molto recenti. Certo, il discredito aumenta, quando l'attore è un professionista dello spettacolo e soprattutto quando chi si esibisce a pagamento è una donna, che nelle prime situazioni in cui appare, è spesso accomunata alla prostituta. L'immagine dell'attore muta di segno, nelle diverse culture, non solo rispetto al ruolo sociale ma anche alle teorie e alle pratiche della sua professione. In alcuni contesti l'attore stesso si vede e si descrive come puro agente di divertimento, specie quando la sua condizione sociale è degradata, come a Roma o nel Medioevo giullaresco. Ma in contesti in cui la sua attività sia socialmente più protetta, l'attore rivendica anche una funzione più alta, educatrice. Ma ci sono epoche in cui questa funzione viene assunta con maggiore e più sincera consapevolezza. Naturalmente è così per l'attore greco, che all'inizio è lo stesso drammaturgo, in un'epoca in cui è ammissibile che l'attore Satiro insegni all'oratore Demostene come si recita e come ci si atteggia. E in certo senso è così anche per l'attore dello spettacolo sacro medievale, che assume su di sé una funzione di divulgazione delle storie e dei precetti religiosi, ma in realtà è lo strumento di una progettualità che appartiene al soggetto religioso che promuove e organizza lo spettacolo. È soprattutto nell'Ottocento, invece, che l'attore si propone con convinzione come soggetto educato. È il caso esemplare di Gustavo Modena, l'attore-patriota dell'Ottocento italiano. Nel corso del Novecento, poi, la dimensione in cui si cala l'attore è quella intellettuale, della presa di posizione esplicita, sulla professione, sull'estetica, sull'ideologia. Il meccanismo dal quale l'attore comunque non esce mai, quale che sia la sua condizione sociale e professionale, è quello in senso lato del divismo. In ogni epoca l'attore diviene il destinatario di un investimento proiettivo, perchè si vede in lui l'individuo fuori del comune, capace di suscitare passioni in quanto a sua volta capace di forti passioni, ing rado di porsi fuori dalle regole morali e civili. Quand'anche sia uno schiavo romano disprezzato come tale ma ammirato per qualche sua abilità spettacolare, o sia un turpis histrio non socialmente riconosciuto ma accolto con piacere ad allietare il banchetto di qualche signore medievale, o sia uno di quei poco raccomandabili comici dell'Arte che pervertono gli spettatori con l'esposizione di sconcezze e di donne poco vestite ma che anche duchi e principi vanno a vedere magari dietro grate che ne nascondono l'identità, l'attore suscita sempre un fascino particolare, seduttivo soprattutto per questa sua ambiguità. Fascino che naturalmente cresce a dismisura quando poi si tratti delle grandi star del Seicento, Settecento e Ottocento. L'ATTORE E LO SPETTATORE. Originariamente théatron è il luogo in cui, o da cui, si vede. Dunque non tanto il luogo in cui si svolge un'azione, quanto il luogo in cui si guarda un'azione che si svolge. E dunque parrebbe che il “teatro” voglia individuare il proprio nucleo di identità più profondo nella funzione di chi assiste all'evento. Ma qui siamo nella Grecia antica, in un contesto in cui chi guarda è più partecipante ad un evento che lo coinvolge anche esistenzialmente che uno “spettatore”, ossia uno che guarda a distanza, in una situazione di separatezza. Perchè il cittadino ateniese ha la chiara coscienza che quanto accade davanti a lui è cosa che lo concerne profondamente e non potrebbe accadere al di fuori di quel rapporto di natura comunitaria che lo lega all'evento-rito che si sta celebrando. Il coinvolgimento degli spettatori-cittadini è molteplice. Da un lato il popolo è indirettamente presente in scena attraverso i suoi servi-generali, dall'altro una parte di quella stessa comunità civile, la classe dei cavalieri, che ha pagato maschere e costumi “sponsorizzando” concretamente l'evento, è anche rappresentata dal Coro, e dall'altro ancora gli spettatori sono direttamente interpellati, attraverso il riconoscimento della loro intelligenza, dalle parole degli interpreti. Non c'è davvero separatezza tra chi agisce e chi guarda. Un altro caso in cui l'implicazione degli spettatori è parimenti forte e diretta è con la spettacolarità medievale a tema sacro, di tipo quasi liturgico all'inizio: ai partecipanti è chiaramente presente la dimensione religiosa di quanto accade, di coinvolgimento sociale oltre che psicologico, nei grandi spettacoli della fine del Medioevo; tutta la comunità è variamente coinvolta nella preparazione e nell'esecuzione dell'evento, i cittadini fanno gli attori e i figuranti, le confraternite e le corporazioni progettano e finanziano, chi assiste percepisce una vicinanza antropologica che lo fa sentire parte in causa e non solo “spettatore”. In nessun altro caso il coinvolgimento è così stretto e diretto, anche quando la comunità degli spettatori può presentare una sostanziale omogeneità sociale e di valori, come ad esempio nel teatro di corte del Cinquecente e del Seicento. Perchè in quel caso tuttavia la separatezza istituzionale tra chi agisce e chi guarda, tra “attori” e “spettatori”, si è ormai consumata e l'evento si è definitivamente risolto in “spettacolo”. Ed è questa la condizione più usuale del rapporto tra attori e spettatori, quella di una distanza, anche sociale e antropologica, che individua due funzioni separate che entrano in relazione solo sul filo dello sguardo, della parola, dell'emozione. Quel percorso è iniziato con la “laicizzazione” dell'evento teatrale in epoca romana, in cui l'attore non appartiene più alla comunità di chi assite ma è uno schiavo o un liberto. In quel contesto lo spettatore non ha più nemmeno un rapporto individuale con lo spettacolo e confluisce nella massa anonima e indiscriminata del “pubblico”: ed è questa nozione, quella del “pubblico”, che ci accompagna per gran parte della storia del teatro, quella con cui si trovano a confrontarsi il giullare medievale e il comico dell'Arte, l'interprete elisabettiano e quello del siglo de oro spagnolo, Moliére e l'attore del teatro impresariale nell'epoca dell'Antico Regime, il mattatore ottocentesco e l'attore nelle diverse forme di teatro del Novecento. In tutti questi casi, la preoccupazione costante dell'attore sarà allora quella di saldare in qualche modo quella frattura, di riannodare i fili che lo legano ad uno spettatore che lo guarda da fuori e lo giudica. Ma il pubblico, proprio perchè è un'entità indifferenziata, ha gusti e giudizi non omogenei, che necessariamente condizionano il lavoro dell'attore. Naturalmente sono molteplici e diverse le maniere e le tecniche con cui l'attore cercherà di riannodare quei fili, con l'intento di ottenere il favore del pubblico, da cui dipende non solo il successo del suo lavoro ma la sua stessa sopravvivenza. Ma in ogni caso userà sempre tecniche di seduzione fascinatoria, di soggiogamento dello spettatore con la presenza scenica e il carisma. Userà tecniche per farlo ridere o piangere, per coinvolgerlo emotivamente. Lo accompagnerà in mondi lontani con l'esotismo o gli racconterà storie in cui possa rispecchiarsi, lo interpellerà direttamente dalla scena o scenderà vicino a lui in platea. Lo coinvolgerà in un percorso esistenziale che tenderà a liberarlo dalla sua dimensione passiva di “spettatore” perchè di nuovo possa riappropriarsi del suo ruolo originario di “partecipante”.
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