Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

L' arte in italia e in europa nel secondo cinquecento, Schemi e mappe concettuali di Storia Dell'arte

Riassunto del libro del Professore Carmelo Occhipinti inerente al corso in "Museologia e Storia del Collezionismo" presso l'università di Tor Vergata

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2015/2016

Caricato il 05/11/2016

alessio.donzelli1
alessio.donzelli1 🇮🇹

4.6

(38)

8 documenti

1 / 30

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica L' arte in italia e in europa nel secondo cinquecento e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! LA ROMA DEI PAPI E LA “MANIERA MODERNA” La storia papale di Roma vista da Onofrio Panvinio Al padre agostiniano Onofrio PANVINIO dobbiamo una valutazione complessiva dei pontificati moderni e delle linee rispettive di politica culturale e di mecenatismo culturale. Nel 1562 egli curava la riedizione delle Vite di Platina, alle quali erano aggiunte le biografie degli ultimi papi da lui stesso composte, da Sisto IV fino a Pio IV; il modello umanistico della biografia imponeva di non trascurare le imprese architettoniche intraprese sotto ogni papa e dunque il suo testo ci offre uno spaccato della situazione politico/culturale mentre i lavori del Concilio di Trento erano in fermento, cioè quando le discussioni sulle ARTI FIGURATIVE con particolare riguardo all’ARTE SACRA, si facevano sempre più accese. Il primo papa da lui toccato fu SISTO IV, al cui luminoso esempio Panvinio auspicava che i pontefici di secondo Cinquecento continuassero a ispirarsi, così come avrebbe fatto, deliberatamente, Sisto V. Il papa Della Rovere fu attivo come promotore di iniziative di carattere civile; • Fece lastricare le STRADE di Roma • Fece costruire il PONTE Sisto • Fece costruire L’OSPEDALE di Santo Spirito e il PALAZZO di San Pietro in Vincoli • Fece restaurare L’Acqua Claudia e le CLOACHE pubbliche • Edificò la CHIESA e il CONVENTO di Santa Maria del Popolo e di Santa Maria della Pace Tra i suoi interventi più meritevoli si registrano quelli effettuati in vista del Giubileo del 1475 con il ripristino degli EDIFICI SACRI ANTICHI: fece “purgare e nettare” la Basilica Vaticana, disponendo il rifacimento delle vetrate e il rinforzo delle murature esterne che da tempo minacciavano di crollare. Mise in ordine la Basilica Lateranense oltre alle chiese dei Santi Apostoli, San Pietro in Vincoli, Santa Susanna, San Vitale, Santi Nereo e Achilleo. Tanto impegno appariva legato agli occhi di Panvinio, al fervore degli STUDI UMANISTICI che si conducevano presso l’allora istituenda Biblioteca Apostolica che era affidata alle cure di uno storico del livello di Platina. Perché tutta Roma fosse più bella e più ricca, Sisto IV aveva poi voluto che i CARDINALI della Curia seguissero il suo esempio. E l’esempio fu subito riproposto da INNOCENZO VIII e successivamente da altri papi del tempo. Sotto GIULIO II ci fu un sensibile cambiamento di rotta in quanto il papa secondo l’idea del Panvinio egli fu dedito all’armi più che a quello che si conviene a un sacrosanto pontefice; la sua più audace iniziativa fu quella di cominciare in Vaticano, sotto la mano dell’eccellente architetto BRAMANTE, la costruzione della nuova chiesa di SAN PIETRO, gettandone una parte della vecchia per terra. Una tale iniziativa si era alla fine rivelata del tutto PRIVA DI RISPETTO nei confronti di una moltitudine di OGGETTI e ORNAMENTI di millenaria antichità conservati sino ad allora dentro la basilica costantiniana, senza dire che, ancora a distanza di più di mezzo secolo dal loro avvio, i lavori del cantiere erano ancora lontanissimi dal completamento: • Alla morte di Michelangelo nel 1564, buona parte della basilica era stata costruita mentre il gigantesco tamburo si alzava fino all’attacco della cupola • Per il completamento della navata centrale e il rifacimento della FACCIATA attuale si dovette attendere l’intervento di Carlo MADERNO e del papa del tempo CLEMENTE VIII Donato Bramante in anni di controriforma, venne tacciato di essere stato un uomo senza religione, poiché aveva dato alla nuova fabbrica di San Pietro forme e schemi propri del TEMPLI PAGANI; era stato proprio Bramante a recuperare le regole dell’Architettura ANTICA: i primi cristiani, disprezzando gli schemi proporzionali che Vitruvio aveva cosi dettagliatamente descritto nei templi antichi avevano preferito adottare la forma della “BASILICA” perché, seppure ricevuta in eredità dalla stessa tradizione architettonica imperiale, non conteneva in sé alcun diretto riferimento al PAGANESIMO, trattandosi di una forma di edificio che era originariamente legata a ESIGENZE FUNZIONALI, essenzialmente civili come nel caso dell’amministrazione della giustizia. Dopo Bramante si erano succeduti maestri del livello di Raffaello Sanzio, Antonio da Sangallo e Michelangelo; quest’ultimo decise di ritornare all’idea iniziale di PIANTA A SCHEMA CENTRALE, escogitando quel suo ingegnoso e strabiliante organismo a CROCE GRECA CUPOLATA che si interseca meravigliosamente con un quadrato. Già sotto ADRIANO VI i lavori vaticani si erano arrestati a causa dell’odio dichiaratamente nutrito da quel papa Nordico nei confronti delle arti e dell’architettura. In definitiva; urgeva un ripensamento sull’intera tradizione dell’architettura cristiana, prima che i resti monumentali della venerata BASILICA COSTANTINIANA scomparissero per sempre; si sentiva la necessità di una seria riflessione sull’architettura ecclesiastica e sulla specificità dello spazio sacro che opponesse alle poetiche vitruviane una ricognizione sulle “Memorie della Santa Chiesa Romana”: impresa che fu assunta per la prima volta proprio da Panvinio. Allora Panvinio si impegnò a esaltare la magnificenza dei PRIMI EDIFICI CRISTIANI, soffermandosi sulla descrizione di ogni loro dettaglio, di ogni prezioso ornamento e oggetto antico, ancorchè di provenienza pagana, che vi apparisse reimpiegato senza però che vi si potesse osservare il minimo rispetto, da parte degli architetti paleocristiani e medievali, per le regole e gli ordini vitruviani. Una posizione completamente diversa da quella di Panvinio venne assunta dal VASARI, che si mostrò sempre favorevole nei confronti del “terribile ingegno” di Bramante il quale, per primo, aveva saputo imitare, ma con invenzion nuova, gli antichi ARCHITETTI ROMANI. Lo stesso Vasari però, nell’edizione del 1568 delle sue Vite, non fece mancare rimproveri al vecchio Bramante accusandolo di aver danneggiato o distrutto diverse sepolture di papi, di pitture e di mosaici e perciò essere responsabile dello smarrimento di molti ritratti di persone grandi che erano sparsi nella chiesa. Il pontificato di LEONE X si era invece mostrato molto rispettoso della secolare tradizione ROMANA; tanto si era preoccupato del risanamento delle chiese antiche, specie di quelle CAROLINGIE, risalenti all’età gloriosa di papa Leone III. Tra l’altro si impegnò nella ristrutturazione della fonte battesimale della Basilica del Laterano in completa rovina e la ricoprì di lamine e di piombo. Sotto il pontificato Mediceo, ripresero i lavori decorativi all’interno dei PALAZZI APOSTOLICI, in particolare nelle Logge e nelle Stanze affrescate da Raffaello: al cui interno Panvinio ritrovava illustrati gli eventi storici relativi al IX secolo relativi alla Giustificazione di Leone III, all’incoronazione di Carlo Magno, all’incendio di Borgo, alla Battaglia di Ostia. Fatto significativo è che all’interno delle moderne vite papali il nome di RAFFAELLO si trova associato al SOLO pontificato di Leone X; quasi che davvero Panvinio avesse inteso esaltare nel papa Medici il RESPONSABILE UNICO DELL’IMPRESA DELLE STANZA dalla volta, le logge e i cubicula. Inoltre a dimostrazione della cetralità che secondo il biografo dovette assumere il nome di Raffaello sotto quel pontificato, troviamo ricordati, nella stessa biografia di Leone X, gli arazzi di Fiandra eseguiti per la Cappella Sistina sui cartoni del Sanzio. Tanta ammirazione per Raffaello implicava la disapprovazione di Michelangelo, condivisa da sempre più numerosi uomini di Chiesa; figura cardine di questo concetto fu lo studioso GILIO che pronunciandosi contro l’ignoranza dei pittori contemporanei e, in particolar modo, contro gli ECCESSI STILISTICI di Michelangelo, prese a riconoscere proprio in Raffaello l’esempio mirabile di cui tutti gli artisti moderni avrebbero dovuto tener conto quanto a “osservanza de la verità istorica: Raffaello infatti aveva rivolto una grande cura nella RESA dei costumi, dei vestimenti, dei fondali architettonici e aveva sempre lavorato nel rispetto dei TESTI STORICI di riferimento. Michelangelo invece, troppo vincolato al proprio sentire personale, era ritenuto irrispettoso dei generi, del decoro di un luogo sacro, dei costumi, di quella “verità storica” di cui, insomma, le immagini avrebbero dovuto farsi portatrici. Anche la politica condotta da PAOLO III incontrava la piena approvazione del Panvinio; il palazzo costruito presso Campo de’ Fiori poteva competere, quanto a magnificenza, con i monumenti della Roma antica, specie riguardo ai suoi ornamenti interni e alle statue che vi erano raccolte. ammorbidendone la solidità plastica in ragione di un soffuso, malinconico sentimento della forma di lontana derivazione GIORGIONESCA. La Roma di Pio IV e la dottrina delle immagini Papa PIO IV scelse di intraprendere programmi di politica artistica così straordinari e audaci, che parevano ostentatamente ispirati a una profonda ammirazione per la CULTURA CLASSICA e per l’arte del MONDO PAGANO. L’immagine di Paolo IV venne fatta preda del “furioso popolo” che “andava bestemmiando” come “senza cervello”, secondo la testimonianza di Panvinio; allora la statua papale, opera di Vincenzo de’ Rossi lodata da Vasari e da Borghini, subiva la decapitazione e la mutilazione della mano destra trascinandone la testa per tre giorni consecutivi fino a lasciarla inghiottire dalle acque del Tevere. Episodi del genere non facevano che rafforzare la convinzione che anche a Roma si ponesse l’assoluta urgenza di una disciplina imposta dall’altro che facesse chiarezza, in mezzo a tanta confusione, in MATERIA DI IMMAGINI. Non solo, dunque, in materia di Immagini Sacre. Il fatto è che la distruzione di un’IMMAGINE era da considerarsi un atto sempre esecrabile, in certi casi addirittura demoniaco; soprattutto se, per il tramite dell’immagine, l’intenzione fosse stata di colpire il PROTOTIPO: quasi che l’immagine ne sostituisse la presenza, funesta e minacciosa. Del resto , di lì a poco, dentro la Casina di Pio IV ormai ornata di magnifiche STATUE DI IDOLI PAGANI E DI AFFRESCHI, il ricordo di simili atti di iconoclastia politica restava ben vivo. Accanirsi contro un’immagine era usanza popolare e sacrilega che i preti dovevano impegnarsi a estirpare, giacché essa presupponeva la falsa convinzione che alle immagini appartenesse una vita propria, un potere intrinseco, persino malefico. Nello stesso tempo Torquato Tasso sentiva il dovere di affermare quanto fosse inutile e degno di castigo percuotere con mano e oltraggiare con parole “ una figure di Cristo o d’alcun Santo” dato che in sostanza un’immagine sacra non contiene nulla del suo prototipo. Ma a Roma, finalmente, sotto il pontificato di PIO IV, dentro gli ambienti di Curia sembrava farsi strada l’idea per cui ogni forma di ostilità contro le immagini (immagini sacre, ritratti di uomini illustri del passato e del presente e anche contro le figure di antichi idoli pagani) dovesse essere vista come segno di arretratezza, di ignoranza culturale, di ritorno al Medioevo, giacchè le figure non potevano in alcun modo nuocere ad alcuno, prive com’erano di qualsivoglia facoltà di agire superstiziosamente sugli uomini o sulle cose. La questione che stava a cuore al pontefice era quella di SALVAGUARDARE un patrimonio culturale immenso, fatto di opere d’arte, di immagini di tutte le epoche e di tutti i generi, di cui soprattutto le CHIESE erano state depositarie nel corso dei secoli; si trattava cioè di difendere, insieme a questo immenso patrimonio, un’identità culturale che in quel patrimonio intendeva rispecchiarsi. Pio IV volle mostrarsi un grande estimatore di STATUE ANTICHE, statue antiche che stavano a rappresentare il livello di PERFEZIONE raggiunto dagli artefici del mondo classico ma anche una magnifica e ormai del tutto inoffensiva testimonianza della vasta saggezza morale e del sapere filosofico degli antichi. In definitiva Pio IV auspicava quell’umanistica CONCILIAZIONE tra CULTURA CLASSICA E TRADIZIONE CRISTIANA; il suo programma venne dunque esaltato da Panvinio che inoltre mise in risalto le iniziative architettoniche promosse da questo grande papa come lo sforzo per ultimare il cantiere di San Pietro e di “cristianizzare” le Terme di Diocleziano, restaurare le Porte Salaria Nomentana e Pia, la risistemazione della Via Flaminia, il ripristino Dell’Acqua Vergine e alla fortificazione di Castel Sant’Angelo. il progetto di trasformazione del BELVEDERE mirava, proprio nello stesso tempo, a fare dell’immenso cortile una vera e propria “scola de’ Virtuosi, che cercano d’imparare dalle antiche sculture”; la medesima intenzione ispirava gli ornamenti del “Casino del Boschetto” ICONOCLASTIA IN FRACIA E NEI PAESI FIAMMINGHI Notizie dalla Francia Correva l’anno 1562. in Francia infuriava la guerra civile. Il cardinale Ippolito II d’Este, incaricato allora di difendere gli interessi cattolici in Francia, a sostegno della regina Caterina de’ Medici, si trovò a riferire presso la corte papale capitanata da Pio IV di come sul suolo francese infuriasse la furia ICONOCLASTA contro chiesa, immagini sacre, reliquie, altari, le icone e contro l’immenso patrimonio artistico che, a causa di tali eventi, stava per essere cancellato. Gli ICONOCLASTI francesi, che si richiamavano al divieto veterotestamentario di produrre IMMAGINI IDOLATRICHE, condannavano in questo modo le ostentazioni di magnificenza della Chiesa di Roma, appellandosi a una presunta povertà dei primi secoli cristiani, seguendo l’esempio di quanto si era già verificato in diverse città della Svizzera e della Germania dove, dietro istigazione dei Calvinisti si era fatto scempio di opere d’arte a Zurigo, Ginevra ed Augusta. A Rouen gruppi di eretici davano alle fiamme i sacri ornamenti, abbattevano altari e immagini. A Tolosa le forza armate di parte cattolica sembravano essere riuscite a sgominare gli Ugonotti, che avevano preso possesso della città. A Blois cadde un’intera abbazia data alla fiamme dagli ugonotti, mentre nella famigerata Tours la famosa Abbazia costruita da San Martino di Tours subiva ingenti devastazioni. Il 4 Luglio 1562 giunsero notizie da Parigi; nella chiesa di Saint-Médard il Santo Sacramento era stato profanato e addirittura calpestato, sotto i piedi di ogni profanatore; per far fronte a queste manifestazioni di odio religiose, vennero annunciate delle SANTE PROCESSIONI, processioni il cui lo stesso Ippolito d’Este avrebbe fortemente incoraggiato una volta rientrato nella sua Tivoli come governatore della città Già nel 1544 il cardinale Ippolito aveva dimostrato la propria profonda sensibilità verso la pietà popolare all’epoca del suo primo soggiorno presso la CORTE DEI VALOIS, quando era vivo Francesco I: dopo aver fatto decorare l’antica cappella abbaziale di Chaalis facendovi eseguire, per mano del PRIMATICCIO, quegli affreschi che si rivelano così visibilmente ispirati a certo plasticismo michelangiolesco, il cardinale ordinò che fosse celebrata una devota processione per festeggiare la ricollocazione dei “Corpi Santi”mentre il pittore modenese BELIN era pagato per avere miniato i corali nuovi della Cappella. Il cardinale Ippolito intendeva così ribadire quanto contassero gli ornamenti dentro una chiesa, insieme alle reliquie e alle immagini sante: l’eco delle violenze religiose era giunta pure nella corte di Ferrara. Le lettere inviate dal cardinale dalla Francia a Carlo Borromeo non mancavano di fare qualche riferimento a certi aspetti del mecenatismo di corte, con particolare riguardo alle iniziative architettoniche condotte da CATERINA DE’ MEDICI. Accadde, nel Marzo 1562, che la regina volesse concedersi qualche giorno di riposo recandosi nel castello di Montceaux-en-Brie, nei pressi di Parigi, chiedendo di essere accompagnata proprio dal nostro cardinale perché era sua intenzione mostrargli l’edificio del castello e il giardino i cui lavori ornamentali erano allora in fase di realizzazione; possiamo immaginare dunque a quanta attenzione fosse rivolta verso la Grotta Rustica realizzata dall’architetto Philibert Delorme. La stessa regina stava per affidare allo stesso Delorme la realizzazione e la direzione del grande cantiere del Palazzo delle TUILLERIES situato a ovest del Louvre, i cui giardini non facevano che riproporre il modello dei Giardini Estensi di Tivoli, nell’incrocio assiale dei viali e nella ripartizione geometrica di tutta quanta la superficie verde. L’iconoclastia nei Paesi Bassi raccontata da Karel Van Mander Tra le motivazioni che indussero Karel Van MANDER a dedicarsi allo studio delle biografie dei pittori fiamminghi, olandesi e tedeschi era la preoccupazione che in tempi di così forte insicurezza, la loro memoria non andasse del tutto perdendosi. L’intero territorio dei Paesi Bassi era infatti devastato da carestie continue, mentre infuriava la guerra di religione in cui le chiese venivano depredate e le numerose opere d’arte al suo interno distrutte. Van Mander si riferiva in particolare agli eventi che portarono, tra il 1566 e il 1579, alla definitiva separazione delle province meridionale di fede cattolica da quelle settentrionali riformate; un testimone diretto della situazione fu il letterato LAMPSON che era uno dei massimi esperti in fatto di arti figurative ai cui esempi e scritti Van Mader avrebbe guardato con devota attenzione. Il censimento delle opere andate distrutte ci racconta di un patrimonio immenso dal valore inestimabile andato perduto per sempre; tra le opere di maggiori spiccano quelle di Jan Van SCOREL (colui che inaugurò la consuetudine del viaggio in Italia) che dopo essersi fatto esperto di Statue Antiche divenne il pittore di papa Adriano VI. Sempre ad Amsterdam si erano viste bruciare dalla follia iconoclasta la bellissime opere di Pieter AERTSEN; ma come Van Mander ricordava, delle molte opere di Aertsen si conservavano i cartoni e i disegni, che iniziavano ad alimentare un mercato europeo vastissimo; grazie alle loro INCISIONI era possibile individuare il grado di eccellenza raggiunta da costoro in quel periodo remoto, visto che le loro pitture sono ormai del tutto scomparse. Aertsen è oggi meglio conosciuto soprattutto per le sue Scene di Genere, per i suoi dipinti raffiguranti mercati, banchi di carne, cuoche, venditori di pollami che, anticipando il genere secentesco della Natura Morta, erano già all’epoca oggetti particolarmente ricercati dagli amatori d’arte e dai collezionisti. Così Van Mander diceva di Willem KEY, rimasto famoso soprattutto come formidabile Ritrattista per il semplice fatto che la sua produzione sacra andò completamente distrutta durante l’iconoclastia. Allo stesso modo parlava delle opere sacre di Anthonie BLOCKLANDT, pittore poliedrico che arrivò ad assimilare certi aspetti della maniera italiana. Van Madern si riferiva anche ad opere del 400 che si salvarono dalla furia iconoclasta perché attiravano le attenzioni dei collezionisti, degli amatori d’arte e degli esperti: • Crocefissione di Hugo Van de GOES • Sportelli di Polittico di Gerard HORENBOUT • Dipinti vari di Jan Cornelisz VERMEYEN Approfittando di simili disordini, gli spagnoli poterono liberamente depredare l’intero territorio nordico: motivo per cui diverse opere di Van HEEMSKERCK, molto amato da Filippo II e dal suo primo ministro, vennero sottratte alla distruzione perché razziate dagli agenti del Re di Spagna. ARTE E CULTURA ANTIQUARIA NEI PAESI ASBURGICI Van Mander e la geografia artistica europea Nella sua opera, Van Mander riteneva inevitabile prendere le distanze dalle Vite di Giorgio Vasari; già solo perché quegli specifici valori espressivi che avevano così fortemente contraddisto l’intera tradizione FIGURATIVA NORDICA, per vasari altro non erano che Disvalori. Una valutazione decisamente riduttiva della PITTURA NORDICA sembrava che si potesse fare risalire nientemeno che alla viva voce di Michelangelo. Già nei Diàlogos em Roma redatti a Lisbona da Francisco de Hollanda al suo rientro dall’Italia, nel 1548, si leggevano queste parole, non a caso messe in bocca al grande maestro italiano: Il loro modo di dipingere consiste di stracci, murature, verzure di campo, ombre di alberi, e fiumi e ponti, che chiamano paesaggi, e molte figure di qua e di là. Si pretendeva dunque che la Pittura Fiamminga si contraddistinguesse per la sua mancanza di vigore e bontà, priva di vera armonia, tale da soddisfare esclusivamente le esigenza devozionali piuttosto che venire incontro al gusto degli intenditori e dei collezionisti; insomma, in Italia si consideravano le opere dei maestri fiamminghi come di mera PRODUZIONE DEVOZIONALE, lontani come parevano essere dalle moderne ambizioni qualitative. Già sulle pagine dello stesso Francisco de Hollanda emergeva una prima visione delle scuole PITTORICHE NAZIONALI, distinguendovisi bene tra “Italia”, “Germania” e, ormai, pure “Francia; ma nessuna nazione o gente può perfettamente soddisfare nell’imitare il modo di dipingere dell’Italia, che è quello greco antico. Nel 1572 il letterato Lampson individuava questa evidente differenza tra pittura nordica e pittura italiana: come nella città e nell’intera regione si concentrassero molti più pittori che in ogni altra parte del mondo; Anversa sembrava o assomigliava a una madre degli artisti, come sul essere Firenze, in Italia. L’elenco dei pittori celebri prendeva l’avvio da Van Eyck, ritenuto l’inventore della pittura ad olio; tra i maestri viventi Guicciardini rendeva omaggio a Frans FLORIS, a Anthonis MOR, a Lambert LOMBARD di Liegi e all’incomparabile Pieter BRUGEL. Il grande successo delle ESPOSIZIONI D’ARTE, che ad Anversa erano collegate al fenomeno di vastissima dimensione del mercato di quadri ad olio, dovette impressionare oltremodo Guicciardini, che ricordava il cosiddetto “Panto delle dipinture” nei pressi della Borsa; in occasione delle fiere che si svolgevano nelle ricorrenze religiose, i pittori avevano modo di esporre in pubblico, dentro appositi padiglioni, i loro quadri per venderli e fu nel 1540 che la Municipalità mise a disposizione di artisti e commercianti d’arte la GALLERIA SUPERIORE DELLA NUOVA BORSA che divenne così il primo mercato d’arte permanente in Europa. Nel 1547 fu istituito un vero e proprio MERCATINO DEL VENERDI, in una piazzetta pressa la Scheda, dove si vendevano all’asta i quadri esposti, appesi alle pensiline delle botteghe. Simili iniziative produssero l’effetto di svincolare l’artista dalla committenza religiosa, incoraggiandolo a rispondere alla richiesta di un mercato di amatori e di collezionisti che prediligevano generi sempre più diversificati, dal paesaggio, alla natura morta e al ritratto borghese o la copia di quadri divenuti famosi grazie alla circolazione delle cosiddette stampe di traduzione. Lampson e la “Lamberti Lombardi vita” Durante la preparazione della seconda edizione delle Vite, Giorgio Vasari, fu in grado di raccogliere svariate informazioni sugli artisti nordici. Egli potè fare riferimento sia agli artisti da lui personalmente incontrati in Italia; in special modo coloro che erano attivi a Firenze al servizio del Granducato mediceo come Jan Van der Straet, pittore attivo presso lo Studiolo di Francesco dentro Palazzo Vecchio, e il futuro celeberrimo Jean de Boulogne. Oltre alla consultazione di STAMPE da lui meticolosamente raccolte e allo studio della Descrittione di Guicciardini, egli potè avvalersi dello scambio epistolare con uno dei più esperti dell’epoca in fatto di pittura nordica, e cioè Dominique LAMPSON. Quest’ultimo si era stabilito nella città di Liegi da dove intratteneva contatti epistolari nientemeno che con Tiziano, con Giulio Clovio e con l’archeologo Louis de Montjosieux. Ad attirare Lampson verso gli interessi figurativi era stato il pittore Lambert LOMBARD da lui incontrato nella stessa Liegi. Lombard dopo aver viaggiato tra Germania, Francia e Italia, al suo ritorno nella terra natia decise di fondare un’accademia ispirandosi dichiaratamente allo scultore fiorentino Baccio BANDINELLI, il quale a Roma, in prossimità degli ambienti che nel Belvedere Vaticano erano adibiti ad abitazione degli artisti, aveva dato vita ad una vera e propria scuola. L’ammirazione nei confronti di Lombard fu così grande che Lampson decise di dedicargli una biografia latina che venne data alle stampe nel 1565. a distanza di breve tempo, nel 1572, sempre Lampson pubblicava le Effigies, una raccolta di ritratti e pittori della tradizione nordica, da Van Eyck fino all’epoca presente; volume di cui Van Mander fece tesoro. La biografia dedicata a Lombard si apriva con un’acuta riflessione circa le differenze tra la pittura fiamminga e la pittura italiana moderna: • I grandi maestri ITALIANI potevano tutti essere considerati interpreti della BELLEZZA GRECA in quanto essi non avevano fatto che IMITARE LA NATURA ispirandosi alle opere d’arte degli antichi; bellezza raggiunta attraverso uno studio attentissimo dei costumi, degli abiti, di tutti gli accessori antichi come moderni, nonché delle espressioni del viso e dei gesti • I maestri FIAMMINGHI, erano invece sempre stati in difetto per ciò che concerneva la necessaria FORMAZIONE CLASSICISTA; egli era consapevole come il loro stile fosse caratterizzato da affannosa affettazione, da una certa faticosa applicazione che non produceva altro che un effetto di “tedio” e di “nausea” Prima di divenire di lì a poco un fervente e devotissimo ammiratore di Tiziano, preferiva ancora schierarsi a favore della plastica solidità di Michelangelo, di Bandinelli e di un pittore e incisore come Mantegna. Ora, le pitture venete, si caratterizzavano perlopiù per quegli effetti legati alla “velocità” e alla “seduzione dei colori”. Tiziano, in particolare, si distingueva per la gradevolezza e la vivacità cromatica, nel senso che simili effetti coloristici erano in grado di sedurre l’osservatore alla prima vista, conquistando per via di tanta naturalezza di resa. Lampson non mancava di formulare alcune riserve nei confronti di un colorismo così libero ed esibito, disegnativamente poco rigoroso: quest’arte di rendere le figure seducenti, carnose e floride tendeva in generale a non essere rispettosa delle regole del disegno. Il Tiziano a cui si riferiva Lampson, era quell’artista che oramai non credeva più nella forma, che andava alla ricerca di risultati del tutto inediti, di non finito, di fermentazione e addirittura di disintegrazione delle figure nella profondità vaporosa di spazi atmosferici incredibili. Secondo Lampson, nelle opere di Mantegna, di Michelangelo e di Baccio Bandinelli, erano riconosciuti una stessa intelligenza, un solido plasticismo, una sicurezza di mano e un rigore formale che non si poteva altrimenti definire, secondo lui, che adoperando il termine greco “grammatica”; in definitiva la maniera di questi maestri era in certo qual modo più facilmente assimilabile alla tradizione nordica, molto di più di quanto non lo fossero, di certo, i Veneti e Tiziano in particolare. Una simile concezione era la conseguenza della familiarità che Lampson aveva acquisito con le INCISIONI: essa presupponeva una concezione del disegno legata alle valenza più illustrative e descrittive che non a quelle espressive. La percezione dell’arte di Michelangelo non poteva che essere estremamente riduttiva, in quanto le opere del maestro erano note a Lampson, appunto, attraverso le RIDUZIONI GRAFICHE; tant’è che l’umanista sentiva il dovere di elogiare più di ogni altra cosa la perfezione LINEARE DEI CONTORNI: per questa ragione dichiarava di prediligere la tecnica del DISEGNO A PENNA, nella quale lo stesso Lombard amava esercitarsi. Altro aspetto della personalità di Lambert riguardava le curiosità erudite e antiquarie che egli aveva iniziato molto presto a coltivare orientandosi verso lo studio e l’interesse delle antichità francesi e tedesche; lo stesso Lampson non mancava di sottolineare come Lombard sapesse apprezzare e talora imitare fedelmente le OPERE POSTCLASSICHE e MEDIEVALI, in particolare le antichità del REGNO DEI FRANCHI. Il cosiddetto “Album d’Arenberg” contiene studi di rovine, statue, monete e dipinti risalenti al soggiorno ROMANO di Lombard che dimostrano quali interessi archeologici egli avesse già all’epoca preso a seguire. Filippo II d’Asburgo e Tiziano Giunto al potere dopo l’abdicazione del padre Carlo V nel 1556, Filippo II diede vita a un grande programma di mecenatismo presso il monastero dell’Escorial presso Madrid. Alla direzione dell’immenso cantiere dell’Escorial spiccavano le personalità di due architetti spagnoli; il primo JUAN BATISTA de Toledo formatosi nella Roma farnesiana sotto Antonio da Sangallo il Giovane e Michelangelo. Il secondo fu Juan de HERRERA che elaborò un proprio stile improntato alla severità, e che coerentemente assimilava gli spunti diversi provenienti dai progetti vaticani sangalleschi e michelangioleschi sui quali anche Herrera si era formato. Ma il sovrano spagnolo volle che, speccie la FACCIATA DELLA CAPPELLA DELL’ESCORIAL, si prendessero in considerazione e si confrontassero progetti appositamente disegnati da artisti italiani, tra gli altri da Jacopo Barozzi da Vignola, Andrea Palladio e Pellegrino Tibaldi; ma alla fine fu sempre Herrera a prevalere sugli architetti italiani in conseguenza dell’importanza assunta dal linguaggio classico dell’architettura cristiana. Per volere del Re, dentro il palazzo dell’Escorial venne raccolti i pezzi di una quadreria straordinaria che vantava capolavori della pittura FIAMMINGA del XV secolo, fino agli esiti più recenti della pittura FIAMMINGA. Van Mander, con le sue testimonianze, ci regala una descrizione limpida e vivida della situazione e del volere di Re in persona; esempi del volere del Re ci sono ben descritti con le relative opere su cui mise mano: • Deposizione di Rogier Van der Weyden proveniente dalla chiesa di Lovanio. Il dipinto entrò a far parte del patrimonio di Maria d’Ungheria prima di ritornare in possesso della Corona di Spagna, per finire quindi tra i quadri che si trovano nel Museo del Prado a Madrid Il Re si avvalse sei servigi di Michel de COXCIE per realizzare una copia dell’opera più famosa di Van Eyck, il più volte ricordato Polittico dell’Agnello mistico il cui originale il re di Spagna non era riuscito in nessun modo a sottrarre ai cittadini di Gand. Di Coxcie era apprezzata la capacità di imitare, nelle scene PROFANE e MITOLOGICHE, quei modi pittorici all’italiana da lui assimilati grazie a un soggiorno a Roma, nel corso del quarto decennio del cinquecento. Altra opera su cui cercò in tutti i modi di mettere le mani, fu il Trittico di san Giovanni realizzato da Quentin METSYS per l’altare della corporazione dei falegnami di Anversa, che nonostante le esorbitanti cifre offerte dal sovrano, queste non vennero accettate. Ma Filippo II manifestò vivo interesse anche nei confronti della PITTURA NORDICA ispirata al gusto all’italiana che stava imperversando nelle corti europee del tempo: recatosi in visita nei Paesi Bassi intorno all’anno 1549, il sovrano acquistò ad Utrecht un dipinto raffigurante il Sacrificio di Abramo, e lo portò con sé in Spagna, insieme ad altre opere di Schoorel. Nello stesso tempo il cattolicissimo re di Spagna non fece mancare il suo sostegno a tanti artisti anche se accusati di simpatizzare per la confessione riformata, tra cui spicca la figura di Antonio MORO che divenne uno dei massimi ritrattisti dell’epoca; egli nel 1554 venne inviato a Londra per ritrarre Maria Tudor, in occasione delle sue nozze con il re di Spagna. Per il matrimonio del re, vennero fatte arrivare opere meravigliose provenienti dall’Italia, specialmente di TIZIANO, artista sommamente apprezzato dal monarca, che acquistava sovente i suoi lavori. Il primo incontro tra il sovrano e il veneziano, risaliva al tempo del Ritratto del Museo del Prado che il pittore gli fece nel 1551, in occasione del suo secondo soggiorno ad Augusta, chiamatovi da Carlo V in persona. Grazie all’opera di numerosi collaboratori e apprendisti, la BOTTEGA TIZIANESCA si avviava a diventare davvero internazionale: un’intensa attività si era avviata nella stessa Augusta dove il maestro aveva dovuto per brevissimo tempo lavorare; lo stesso Van Mander avrebbe ricordato i tanti maestri fiamminghi che si lasciarono sedurre dalla pittura di Tiziano fino, in certi casi, a volersi fare suoi seguaci; così numerosi maestri nordici finirono per seguire il maestro direttamente a Venezia per apprendere da lui il mestiere, per poi propagarne l’insegnamento in patria: • Jan van CALCKER seppe assimilare la maniera del maestro, lavorando al suo fianco nella bottega veneziana, al punto che dopo alcuni mesi di apprendistato era diventato “massimamente difficile distinguere le loro opere” • Dirck BARENTSEN si formò a Venezia, presso Tiziano • Lambert SUSTRIS fu operoso per quasi tutta la vita nella città lagunare e che divenne uno dei principali responsabili della divulgazione internazionale dei generi e di modi pittorici, specie nelle vedute di paesaggio, riconducibili all’insegnamento dello stesso Vacellio Rientrato dunque da Augusta, Tiziano si ritirò a Venezia da dove avrebbe cominciato a spedire in Spagna i quadri della serie cosiddetta di “POESIE”. Il 10 Settembre del 1554 il veneziano si apprestò ad inviare la “poesia” di Venere e Adone, delle altre serie opere che egli avrebbe dovuto realizzare possiamo identificare solo la Liberazione di Andromeda. Nelle intenzioni di Filippo II, c’era quella di destinare l’intera serie mitologica a un proprio “CAMERINO” al cui interno si sarebbe dovuta apprezzare, CONFRONTANDO un dipinto dopo l’altro della serie, la resa di ogni singola figura in MOVIMENTO, ove cioè ogni singola figura COLYN; alla corte dell’imperatore fu attivo anche uno dei più celebri esperti che all’epoca vi fossero in fatto di monete antiche e di statuaria romana: JACOPO STRADA. Grazie alla mediazione di Strada, che era in contatto anche con Pirro Ligorio, molte STATUE ANTICHE dall’Italia, soprattutto da Tivoli, furono spedite alla corte asburgica, a Vienna e a Praga. Ultima citazione per quanto riguarda il pittore e architetto SUSTRIS che tra le sue imprese architettoniche più illustri ricordiamo la Chiesa gesuitica di San Michele di Monaco. ARTE E CULTURA ALLA CORTE DI FRANCIA Fontainebleau, il “paragone” e il ricordo di Leonardo da Vinci In apertura del trattato sui Bagni et essercitii dei Romani, composto dall’antiquario lionese Guillaume du CHOUL possiamo leggere uno dei più antichi elogi della Galleria di Francesco I a Fontainebleau. L’autore vi metteva in atto quegli stessi espedienti descrittivi di tradizione letteraria che stavano allora tornando di moda tra gli scrittori francesi dietro la forte sollecitazione della fama di Leonardo da Vinci, dei suoi dipinti presenti nello stesso castello di Fontainebleau, ma soprattutto dei suoi scritti. Tali espedienti descrittivi riguardavano: 1. il confronto fra fusis e techne 2. la “natura” che, superata, diventava invidiosa dell’ “arte”, al punto che persino la Roma dei Cesari e la Grecia antica avrebbero potuto “invidiare” la moderna Fontainebleau 3. l’ “inganno” dell’arte, che era in grado di dare la sensazione, ad esempio, che le finte ghirlande di frutta, sia dipinte che di stucco, fossero davvero profumate, talmente esse apparivano vere 4. la maggiore “durata” della bellezza artistica rispetto a quella naturale, che è effimera 5. infine il “sorriso”, provocato nell’osservatore, nel momento in cui questi si accorgeva, avvicinatosi al dipinto, dell’inganno della vista Re Francesco I aveva deciso di affidare a ROSSO FIORENTINO e a Francesco PRIMATICCIO la realizzazione dei suoi ambiziosi progetti decorativi che avrebbero trasformato il vecchio castello di F in una magnifica residenza moderna; entrambi gli artisti, abili nell’arte della pittura e delle arti plastiche, potevano competere con il ricordo che di sé aveva lasciato a corte l’indimenticato Leonardo. I risultati delle scelte di Francesco I furono presto sotto gli occhi di tutti e parvero decisamente di una clamorosa novità: all’interno della Galleria di F, all’interno dei perduti Chambre du Roi e Padiglione di Pomona si trovarono esaltate ai massimi livelli le possibilità di confronto tra PITTURA e la SCULTURA, vista nei diversi materiali e nei diversi gradi di rilievo; gli osservatori contemporanei sembravano essere bene informati sulle fondamentali questioni teoriche del “PARAGONE”, di ascendenza leopardiana. Nel cosiddetto Trattato della pittura ritroviamo raccolti quei pensieri che Leonardo aveva lasciato manoscritti; la sezione dedicata al PARAGONE, al confronto tra pittura e scultura, ma pure tra pittura e poesia, si rivela la più organicamente compiuta; i pensieri che ne fanno parte risalgono perlopiù agli anni del primo soggiorno milanese dell’artista e approfondiscono le implicazioni teoriche del confronto tra linguaggi diversi: quello BIDIMENSIONALE della PITTURA, e quello TRIDIMENSIONALE delle ARTI PLASTICHE. Simili riflessioni leonardiane conobbero una notevole risonanza all’interno dei diversi centri italiani coi quali il maestro era entrato in contatto; è possibile credere che la gran parte dei pensieri che il maestro era solito esporre anche oralmente, si fosse tramandata pure per via orale, per attecchire variamente e per dare vita, quindi, alle diverse tradizioni locali. Le idee di Leonardo sul “paragone”, anche dopo la sua morte, non avevano mai smesso di circolare; il letterato Etienne DOLET - curatore dell’edizione francese del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, opera nella quale si trovano discussi svariati argomenti teorici riguardanti la diversa “durata” di scultura e pittura – a elaborare alcune riflessioni sul “paragone” tra le arti, con particolare attenzione al tema della “DURATA”: se la durata dell’architettura equivaleva quasi a quella della poesia, l’opera figurativa, pittorica e scultorea, è destinata a perire più rapidamente. Già Leonardo aveva osservato come la SCULTURA DI MARMO fosse soggetta alla ruina, che non è il BRONZO; dall’altro il francese CORROZET osservava come spettasse soprattutto all’ ARCHITETTURA assicurare eterna gloria ai principi e ai sovrani di ogni epoca. Si dovette, intanto, all’architetto Sebastiano SERLIO una rimeditazione su idee leonardiane: dalla grande attenzione che Leonardo aveva rivolto al problema di una corretta FRUIZIONE delle statue e di una adeguata loro esposizione alla luce derivavano, infatti, certe preoccupazioni espresse dall’ architetto bolognese riguardo alla necessità di esporre le statue antiche sotto un fascio di “lume celeste, possibilmente dentro “una stanza che ricevesse il lume di sopra. I valori chiaroscurali di una scultura erano determinati da condizioni ambientali, di luce e di visibilità, che riuscivano talmente variabili da sfuggire il più delle volte al controllo delle scultore; ne derivavano, nel Trattato della pittura, argomenti svariati a dimostrazione della SUPERIORITA’ DELLA PITTURA la quale richiedeva maggior artifizio rispetto alla SCULTURA: perché il pittore, impegnato nella restituzione nella restituzione dei multiformi aspetti del mondo visibile, doveva farsi dominatore assoluto della natura e delle sue leggi, quindi anche della LUCE e delle TENEBRE, di modo che quei rapporti di chiaro e di ombra definitivamente fissati su un dipinto non potessero essere falsati o variati da condizioni di fruizione inadeguate. Le figure di BRONZO realizzate da Primaticcio, riproducenti le più famose statue di marmo che si trovassero a Roma, furono esposte dentro la Galleria di Francesco I dove, inevitabilmente, furono giudicate a confronto con la prima delle previste 12 figure PORTATORCIA d’argento che Cellini presentò al re, il perduto Giove. Parve a tutti evidente come Cellini avesse inteso recuperare la concezione antica di colosso, ovvero della figura dotata di piena AUTONOMIA SPAZIALE, collocata sopra un alto piedistallo, perdipiù provvisto di ruote di modo che la figura potesse essere ammirata da ogni lato e addirittura sembrasse muoversi da sola, come fosse “viva”; il Cellini si dichiarò vincitore per avere “trapassato” gli antichi, per avere cioè conferito al colosso la libertà di visioni molteplici, ma persino il movimento e, quindi, la vita. Francesco I, memore delle acute riflessioni di Leonardo riguardo ai diversi modi di fruizione delle figure dipinte e scolpite e sul relativo differente coinvolgimento dello spettatore, amava toccare le figure di marmo, di bronzo o di stucco, invitando anche i propri ospiti a toccarle per meglio apprezzarne il rilievo, la qual cosa meravigliava oltremodo gli osservatori della corte dell’epoca. Analoghe considerazioni sulla possibilità di “vedute” diverse intorno a una stessa figura dovettero essere stimolate dal celebre SPINARIO capitolino, allorchè una sua moderna riproduzione bronzea venne regalata proprio da Ippolito d’Este a Francesco I: per compiacere il sovrano, la figura dello Spinario era stata per l’occasione sistemata sopra un dispositivo girevole così da permetterne la fruizione completa, come se la figura si muovesse da sé. Altro personaggio da analizzare fu il fiorentino VARCHI che pose la questione se fosse più NOBILE la pittura o la scultura: Varchi sollecitò diversi pittori e scultorei contemporanei perché esprimessero in proposito un loro parere e, nello stesso tempo, rivisitassero, declinandoli secondo il proprio profitto, motivi che erano in una buona parte di derivazione leopardiana. Le questioni allora dibattute avrebbero avuto a Firenze grande risonanza: esse sarebbero state oggetto di rinnovata discussione in occasione delle dispute sorte intorno agli allestimenti realizzati per le esequie di Michelangelo, allorchè Cellini sarebbe ancora tornato a difendere la superiorità della scultura contro Vincenzo BORGHINI che, alleato col VASARI, parteggiava invece per la pittura. Lo stesso Van Mander ricorda come nella Fontainebleau di Francesco I, le teorie del “paragone” vi avessero trovato una decisiva risonanza, fra gli artisti e dentro la corte tutta: Van Mander scriveva come molti pittori fiamminghi fossero attirati dal fervore culturale delle botteghe artistiche di Parigi, dove si perpetuavano le ormai tradizionali dispute sul paragone; del resto, ancora prima, era stato Giovanni GILIO a ricordare quanto Francesco I avesse apprezzato certi espedienti inventati dai pittori, direttamente collegati alle teorie del “paragone”; in particolare egli si riferisce a un dipinto del Ritratto di Gaston de Foiz di Girolamo SAVOLDO dove si vedeva “un uomo armato che mostrava la tutta la schiena, e l’artista per far in modo che ad egli venisse mostrata anche la parte dinanzi, egli dipinse uno SPECCHIO IN MANO, nel quale dimostrava il viso, col petto e tutto il resto”. Per mettere in risalto l’importanza che stavano assumendo le discussioni sul “paragone”, possiamo analizzare il recente rinvenimento di una copia a olio di uno degli affreschi presenti nel Padiglione di Pomona, raffigurante L’unione feconda di Vertumno e Pomona. Il re in persona era stato l’ispiratore della tematica derivate dal racconto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio; la scena di partenza dipinta da ROSSO FIORENTINO raffigurava Vertumno che, assunte le fattezza di una insidiosa megera, riusciva a introdursi nell’impenetrabile giardino per avvicinarsi a Pomona, oggetto del proprio ardente desiderio; nel racconto la giovane Anassarete, crudele e impassibile come una pietra, diventò davvero una pietra per divina punizione: così trasformata in una STATUA, la sua persona rimase per sempre prigioniera dentro le fredda e inerte materia. Il motivo della STATUA INTESA COME FIGURA VIVA era molto consueto nella letteratura ellenistica, ma lo stava diventando anche in quella umanistica, pure dentro la stessa corte di FRANCIA: l’idea che una statua potesse tener prigioniero uno spirito vitale sottratto all’umana esistenza, immobilizzato per l’eternità nella materia oggettivamente fredda, era uno degli argomenti più seducenti a cui si richiamassero i letterati di corte per esaltare le statue stesse della collezione del re. Lo stesso racconto ovidiano raffigurato dentro il Padiglione di Pomona era probabilmente noto già dal tempo del soggiorno francese di Leonardo da Vinci dato che il suo fedele seguace Francesco Melzi aveva dipinto la scena di Vertumno e Pomona nel dipinto che oggi si conserva a Berlino. Nella scena dipinta da ROSSO FIORENTINO di cui parlavamo all’inizio, le dita fiammeggianti della vecchia commentano diabolicamente il racconto della metamorfosi ovidiana: la storia è talmente struggente che non è difficile immaginare con quale compiacimento il re in persona la andasse raccontando ai proprio ospiti in visita al Padiglione, quasi per dar voce a quella vecchia terrificante, decrepita e astuta, disegnata dal Rosso. La stessa scena sarebbe stata più tardi raffigurata in un anonimo dipinto francese di metà Cinquecento ispirato alla maniera di Nicolò dell’Abate: anche qui si impone l’idea che la pittura fosse più “viva” della scultura. La PITTURA permette di vedere la Vita, il Calore, il Colore, il Movimento, i sentimenti nella vivezza degli sguardi e dei gesti insieme all’infinita vastità della natura di fronte alla quale lo scultore non può che rimanere inibito. Brantome. Opere d’arte e immagini “lascive” Brantome fu nella sua vita assiduo frequentatore della corte di CARLO IX, facendosi testimone di abitudini e costumi, pure dei più smodati. Tra le sue opere, tra cui ricordiamo le DAME GALANTI, ci daranno un’idea su quegli aspetti della sensibilità cinquecentesca che erano collegati alla grande circolazione delle cosiddette IMMAGINI “LASCIVE”; a offrire a Brantome occasione di aneddoti spassosi, riferiti agli aspetti più depravati della vita di corte, erano spesso le opere d’arte. Eccone alcuni esempi celebri: • l’Ercole marmoreo di Michelangelo; veniva notato il suo membro del mezzo ritenuto troppo piccolo e irregolare e poco corrispondente al corpo colossale • Giove argenteo di Cellini; egli squarciò con un gesto provocatorio e plateale, il velo che teneva nascosto il “sesso”, così da lasciare scandalizzata madame d’Etampes, nemica acerrima dell’artista • Venere Cnidia riprodotta in bronzo da Primaticcio; le cui forme nude, offrivano l’occasione per richiamare le più impudiche citazioni pliniane riferite nientemeno che alla perversione dell’agalmatofilia finalmente esaltato la pittura di Clouet, Cousin e di Caron in opposizione a quella degli stranieri Michelangelo, Tiziano e Raffaello. PASSATO E PRESENTE. MONUMENTI MEDIEVALI VISTI NEL SECONDO CINQUECENTO Montaigne: le arti figurative e la storia Nelle sue perlustrazioni romane, compiute nel 1581, il grande filosofo francese aveva provato a lasciarsi guidare dalle tante mappe e dai tanti libri che si pubblicavano riguardo alla ricostruzione dell’antica forma Urbis della città eterna. Al filosofo risultavano ripugnanti tanto questi testi, quanto gli intenditori di antichità romane, accusati di perdersi nelle misure e nelle regole, veramente convinti di riuscire a ridare all’architettura antica dopo avere ridotto a regola, a sistema di misure e di proporzioni la silenziosa bellezza degli edifici in rovina, in modo da poterne sottrarre “l’infinita grandezza” alla dimensione del tempo, al panorama turbolento della storia. In definitiva, tutto questo specialismo tecnico era lontanissimo dal trasmettere il più antico sentimento della bellezza antica e, appunto, della storia. Troviamo in un passo dei Saggi di Montaigne la descrizione degli EFFETTI PSICOLOGICI che suscitava nel popolo dei devoti la VASTITA’ OSCURA DELLE CHIESE FRANCESI, i cui ornamenti medievali, insieme al suono degli organi, destavano un senso di profondo turbamento, addirittura di fremito e di orrore; turbamento che il filosofo non riuscirà mai a provare dentro nessuna delle CHIESE DI ROMA al cui interno non trovava quegli elementi che rispondessero all’idea a lui tanto cara di “bonne forme”: un’idea che il filosofo aveva potuto formulare in riferimento allo stato di buona conservazione della ANTICHE CHIESE GOTICHE da lui visitate durante il suo viaggio compiuto tra il 1580 e il 1581 dalla Francia meridionale alla Svizzera all’Italia. Egli cita alcuni esempi: • Chiesa di Mulhouse; la struttura e gli ornamenti apparivano ben conservati nel loro antico ordine e nel loro magnifico splendore, pure dopo i disastri dell’iconoclastia, a differenza di quanto non fosse accaduto nei territori francesi • Chiesa cattolica di Lindau; apprezzata per in ragione della sua antichità; costruita nell’anno 866, al suo interno ogni cosa si trovava in uno stato di perfetta conservazione • A Basilea; il filosofo era già rimasto affascinato dalla bellezza degli edifici sacri nonostante i recenti disordini religiosi Le attenzioni che il filosofo rivolgeva sui monumenti artistici del passato erano motivate soprattutto da una profonda SENSIBILITA’ STORICA, che sapeva tener conto di tradizioni locali molteplici all’interno del vasto scenario di una geografia religiosa che le riforme avevano recentemente ridisegnato. In definitiva, allo specialismo dei TECNICI Montaigne non intendeva opporre altro che il proprio personale SENTIMENTO DELLA STORIA. A Meaux, per esempio, un curioso ritratto di pietra di evidente povertà qualitativa, sembrava acquistare valore in senso propriamente storico-documentario; alla luce di certe curiosità di erudizione nazionale che quegli anni stavano fortemente affermandosi nella cultura francese, Montaigne credette infatti di riconoscervi il mitico personaggio della Chanson de geste, OGIER LE DANOIS, che secondo la leggenda era vissuto nell’VIII secolo; ma agli occhi di ogni storico dell’arte i trattati di questo ritratto non richiamano altro che la nozione di “stile romanico”!!! Altro esempio è la TOMBA DI ILDEGARDA nei pressi di Kempten, la maggiore attrattiva che si potesse vedere all’interno dell’abbazia, cattolica, dei benedettini. Come voleva la tradizione, nell’anno 783 Ildegarda in persona aveva fondato l’abbazia, le cui strutture architettoniche, per tale ragione, si potevano ritenere secondo Montaigne veramente risalenti a epoca tanto remota; la presenza delle spoglie della santa motivava la grande SUGGESTIONE SIMBOLICO-SACRALE di cui il monumento di caricava, mentre gli antichi arredi ivi conservati contribuivano a rafforzare un senso forte di identità storica del luogo sacro. Allo stesso modo, dopo aver visitato l’abbazia benedettina di FUSSEN, Montaigne era in grado di raccogliere sommarie informazioni relative all’antica fondazione dell’edificio, nonché ad alcuni oggetti sacri del Tesoro che si dicevano essere appartenuti nientemeno che a san Magno; anche in tale caso l’aurora di SACRALITA’ promanata dagli antichi arredi finiva per investire le stesse architetture che ne facevano da scrigno, cossichè queste ultime potessero davvero considerarsi dell’epoca lontanissima della prima fondazione, risalenti addirittura alla personale iniziativa di re Pipino, secondo un’ISCRIZIONE che il filosofo segnalava. Secondo l’idea del nostro filosofo, i restauri, i rifacimenti, le demolizioni e i rimodernamenti avevano ovunque comportato a Roma, in funzione soprattutto dall’esigenza di ridefinizione tridentina dello spazio sacro, la rimozione di svariate TESTIMONIANZE FIGURATIVE appartenenti al passato: venivano all’epoca rimossi da dentro le chiese molti dei TABERNACOLI GOTICI e TARDOGOTICI, detestati tanto da Vasari quanto dai preti; venivano inoltre cancellate molte di quelle PITTURE VECCHIE contro le quali si era appuntata pure la critica di un osservatore come Onofrio Panvinio che le aveva ritenute “inette” al confronto delle eleganti basiliche di epoca costantiniana che invece andavano maggiormente valorizzate. Non sorprende dunque il fatto che egli non rimase per nulla affascinato dalla BASILICA VATICANA, al punto che nelle pagine romane del Journal l’attenzione sarà tutta per l’impressionante e antichissima cerimonia popolare che si celebrava in occasione dell’ostensione della “Veronica”; solo una visita alla BIBLIOTECA APOSTOLICA riservò al filosofo momenti di euforia autentica, specialmente nel trovarsi di fronte agli antichi CODICI MINIATI, che lo infiammarono di curiosità. Al riguardo egli si soffermò sul cosiddetto “VIRGILIO” Vaticano; egli si curò in questo modo di descriverne la scrittura come di maniera Gotica: l’estrema “grossezza” di ogni lettera e il mancato rispetto della sua proporzione; questa maniera di scrittura prendeva nome dai GOTI, il popolo dei barbari dominatori dell’Italia contro i quali Giustiniano aveva fatto una guerra gloriosa, celebrata da tutti gli storici di tradizione bizantina. Seguiamo adesso Montaigne nei suoi spostamenti italiani e nei giudizi da lui a mano a mano espressi sugli antichi monumenti che incontrava: • Bolzano; si presentava ai suoi occhi come cittadina vecchia e piuttosto brutta, col suo duomo trecentesco e le sue strade strette e tortuose • Trento; gli appariva sgradevole, perché non aveva più nulla della graziosa atmosfera tipica delle città tedesche; il duomo di Trento si rivelava appartenente a un’epoca in definitivamente lontana • Analogo contrasto sembrava opporre le austere e tristi strutture militari del vecchio castello del Buonconsiglio e la ricchezza dei suoi interni moderni, ornati degli affreschi di Dosso Dossi e di Girolamo Romanino • Verona; una certa considerazione meritavano le Arche Scaligere, benissimo conservate; per quanto riguarda la chiesa duecentesca di San Giorgietto, l’attuale San Pietro Martire, dalla semplice facciata a capanna lontanissima dalla stupefacente magnificenza decorativa delle chiese gotiche. A Verona solo le rovine antiche, particolarmente i ruderi dell’Arena, riuscivano a destare lo stupore più grande del filosofo • Padova: appariva poco bella per via delle sue strade strette e sporche; della Basilica del Santo destavano ammirazione le cupole perché rivelavano nella loro struttura la prodigiosa abilità d’ingegneria di chi le aveva costruite; all’interno della basilica tra le tante cose vecchie si potevano osservare le svariate statue di marmo e di bronzo; secondo i preminenti interessi storici, agli occhi di Montaigne riuscivano di grande presa i tratti scultorei di Tito Livio e di Pietro Bembo • Ferrara; grande ammirazione destava la cosiddetta “addizione erculea”: vi risaltava il Palazza dei Diamanti, circondato da strade larghe e dritte, tutte ben pavimentate e pulite • Bologna; presentava un aspetto in parte vecchio e in parte moderno; la Torre degli Asinelli incuteva terrore perché minacciava rovina, mentre l’Archiginnasio era di certo una delle architetture più belle e funzionali d’Italia • Firenze; fatta eccezione per la Cupola di Santa Maria del Fiore e per il Campanile di Giotto, la città lo deludeva • Siena; città che lasciava in lui poco stupore, ma apprezzava fortemente i Rivestimenti Esterni del Duomo Senese che nobilitavano una struttura fatta di quegli stessi mattoni cotti che venivano da sempre usati, in tutta Italia, per costruire palazzi e chiese • Urbino; non gli era piaciuta sempre a causa del largo utilizzo di Mattoni Crudi Il filosofo era molto attento nei confronti di quegli aspetti della sensibilità religiosa che erano legati al culto delle IMMAGINI SACRE: secondo lui queste ultime erano in passato servite, al pari delle reliquie, a dare un “corpo sensibile” all’ “incomprensibile grandezza di Dio”. A differenza che nelle altre città medievali, le chiese di PISA, principalmente il Duomo, non erano costruite di umili mattoni bensì di PREZIOSI MARMI, molti dei quali di REIMPIEGO; di fronte a una simile città il filosofo non nascondeva il proprio entusiasmo descrivendo come al suo interno si integrassero perfettamente varie testimonianze del passato, come le “pitture antiche” del Camposanto e il pulpito di Nicola Pisano nel Battistero. La luminosa magnificenza dei materiali, assicurava anche alla Certosa di Pavia l’etichetta di bellissima chiesa. Nei confronti dell’arte PROFANA, l’atteggiamento del filosofo cambiava completamente: meritarono la sua più grande ammirazione le architetture civili volute da papa Boncompagni; dobbiamo ricordare che uno stesso elogio era spettato all’arciduca Ferdinando II d’Austria e a Francesco I de’ Medici. Il filosofo si soffermò sugli affreschi della SALA REGIA nei Palazzi Apostolici, da pochissimo ultimati e dipinti; Così a CAPRAROLA egli ricordava gli affreschi, affollati di ritratti di personaggi illustri contemporanei, del Palazzo Farnese, dove anche si segnalava la sala con “il globo terrestre, le regioni e la cosmografia”. E poi, a FIRENZE, gli affreschi vasariani del SALONE DEI CINQUECENTO, nel Palazzo della Signoria, si basavano su di uno studiatissimo programma di celebrazione storica. L’entusiasmo più grande del filosofo doveva esprimersi di fronte alle più spettacolari ville moderne, visitate a TIVOLI, a CAPRAROLA, a BAGNAIA e a PRATOLINO, che meritarono lo spazio di ampie descrizioni, tra le più accurate di tutto il Journal. Tre esempi: Du Tillet, Thevet, Corrozet Riprova dei nascenti interessi per il PASSATO MEDIEVALE, per quel passato dinastico nel quale era possibile ritrovare le radici della moderna CULTURA NAZIONALE, si offre nell’opera alla cui composizione e illustrazione per lungo tempo aveva lavorato Jean DU TILLET. Questo personaggio, antiquario, storico e giurista, nelle sue funzioni di protonotario reale e cancelliere del Parlamento di Parigi aveva avuto facile accesso agli archivi e ai documenti che gli permisero di scrivere la storia della MONARCHIA. Le illustrazioni che egli fece realizzare a ornamento del sontuoso, celeberrimo CODICE MINIATO dimostrano quanto impegno egli avesse profuso nella ricerca delle più antiche EFFIGI REALI, che si presumevano “vere” e “autentiche” in considerazione della loro antichità: ritratti ufficiali, statue funerarie, pagine miniate, monete, medaglie furono presi a modella nella realizzazione delle moderne illustrazioni della sua opera; le moderne illustrazioni riproponevano la stessa cura meticolosa nella resa di tutti gli attributi del potere, dei vestimenti reali, dei minimi dettagli cromatici che rispondevano a precise valenze araldiche. Interessi in certo qual modo analoghi aveva contemporaneamente coltivato Andrè THEVET, scienziato e cosmografo di corte, che realizzò anch’egli una sua opera dedicata alla celebrazione di UOMINI ILLUSTRI. Le ILLUSTRAZIONI che compongono la sua opera, sono il frutto di lunghissime ricerche che impegnò l’autore durante i suoi viaggi nel Mediterraneo, l’Oriente e le Indie Occidentali, nel reperimento delle FONTI ICONOGRAFICHE “autentiche”: stampe, monete, ritratti pittorici, ritratti funerari, statue celebrative, fonti a cui dovettero attenersi i disegnatori da Thevet incaricati di restituire le fattezze dei PERSONAGGI ILLUSTRI DEL PASSATO, lontano e vicino. l’ARCHITETTURA MEDIEVALE, vista dallo stesso Van Mander come espressione di decadenza e di imbarbarimento della latinità: il fatto è che la percezione delle maniere costruttive medievali, stava ovunque facendosi chiara solo in concomitanza con l’affermazione dei nuovi modi di costruire direttamente ispirati allo STUDIO DEGLI EDIFICI della CLASSICITA’ ROMANA. Così, nella vita di Pieter Cock van AELST che era diventato famoso per aver tradotto gli scritti di Sebastiano SERLIO, Van Mander gli attribuiva il merito di aver riportato “la luce nei Paesi Bassi”, indicando, “alla smarrita arte di edificare, il retto sentiero dell’architettura”. Il corretto modo di costruire venne indicato da Aelst, affinchè si potesse abbandonare la maniera moderna; è veramente un peccato che sia tornato ancora una volta in uso l’indegno stile moderno, di cui sarà molto difficile liberarsi, benché esso non sia adottato in Italia. Nel corso del secondo Cinquecento, la moderna vitalità della maniera gotica, era ancora viva all’interno degli immensi cantieri che suscitavano grande ammirazione di un osservatore come Ludovico Guicciardini; positivi apprezzamenti nei confronti di edifici contemporanei che continuavano l’antica TRADIZIONE GOTICA, si devono a un osservatore come Montaigne. In ITALIA, una chiarissima valutazione delle vecchie maniere di costruire era stata espressa dal Vasari, che nel 1550 aveva formulato il suo famoso giudizio storico nei confronti di quella “specie di lavori che si chiamano tedeschi”: un giudizio storico che gli era stato suggerito probabilmente da Michelangelo in persona. Poco prima di Vasari, a riportare valutazioni riferite alla viva voce di Michelangelo, era stato anche FRANCISCO DE HOLLANDA che aveva conosciuto personalmente il Buonarroti. Francisco usava così distinguere tra “ANTICO” (arte classica) e “VECCHIO” (l’arte medievale), e vecchio significava in buona sostanza, “pessimo e senz’ordine”, come lo erano i monumenti medievali di Portogallo e di Castiglia a lui familiari. A proposito dei disastri dell’ICONOCLASTIA, agli occhi di Francisco de Hollanda, era ben chiara la percezione storica di un’Europa tornata indietro nientemeno che alla barbarie post- antica: Roma aveva sempre rispettato le immagini, ma il popolo luterano stava intando comportandosi senza riguardi delle testimonianze figurative del passato come si comportarono i Vandali, gli Unni, i Gori e altre genti barbare che posero fine a tante delle bellezza raccolte all’interno della città di Roma. Nella stessa Roma prendevano avvio le prime attente riflessioni sulla specificità delle ARCHITETTURE PALEOCRISTIANE, che si prestavano a essere esaltate nel loro splendore e nella loro magnificenza ancora tutta imperiale, nella stessa misura in cui si continuavano umanisticamente a disprezzare gli esempi della cosiddetta “MANIERA TEDESCA”, ritenuti espressione di una decadenza medievale che era stata provocata esclusivamente da spinte esterne e barbariche. Onofrio PANVINIO dedicò maggior parte delle proprie risorse a indagare la storia monumentale di ROMA CRISTIANA; analizzando il ciborio gotico di San Giovanni in Laterano, esso si caratterizzava per essere di tipo germanico; allo stesso periodo del ciborio risalivano le finestre gotiche risalenti al Cinquecento, anche queste finestre erano di tipo germanico. Per una geografia monumentale dell’Italia barbarica. Nello stesso periodo, a Ferrara, PIRRO LIGORIO si dedicava allo studio delle locali memorie storico-dinastiche, prima incentrate su Roma, sul quadro più largo dell’Italia settentrionale, fino a ricomporre una geografia storica dell’Italia antica e post-antica come la si poteva percepire a quell’epoca, mettendo a CONFRONTO LE DIVERSE CULTURE CITTADINE. A Ravenna, Ligorio era stato guidato dalle informazioni già nel XV secolo raccolte da Biondo Flavio e dal ravennate Desiderio Preti; basandosi su una conoscenza diretta dei monumenti, Ligorio riusciva a farsi un’idea di quella commistione singolare, “misticanza o corruzione” come lui la chiamava, che ebbe a verificarsi dopo la caduta di Roma, fra MATRICI CULTURALI DIVERSE, tanto bizantine che latine, su di uno sfondo di barbarica decadenza ove però si intravedevano i germi di una cultura nuova. La chiesa di SAN VITALE si ammirava nella sua magnificenza ancora tutta imperiale, costruita sul modello della Santa Sofia di Costantinopoli. Un giudizio completamente negativo rispetto all’architettura, era quello riguardante la SCULTURA che attraverso annotazioni di carattere storico-stilistico accusava la DECADENZA BIZANTINA: le sacre immagini “greche” gli parevano scimmie insensate e mostruose, mentre i RITRATTI DEGLI IMPERATORI ORIENTALI apparivano “una cosa astratta, che appena i nomi loro scritti intorno alle intitolazioni fanno la differenza tra essi. La percezione cinquecentesca dei MONUMENTI FIGURATIVI DI ETA’ LONGOBARDA veniva intanto influenzata dalle pagine più descrittive dello storico Paolo DIACONO; famosa era divenuta la pagina riguardante la principessa Teodolinda, che aveva ornato il proprio palazzo di Monza di pitture raffiguranti le gesta longobarde: pitture interessanti già agli occhi di Diacono, che le apprezzava alla stregua di veri e propri documenti sui modi di vestire e persino di acconciarsi di quella gente barbara. Anche Ligorio avrebbe attinto a quelle descrizioni di Diacono per ricavare spunti utili a caratterizzare le maniere architettoniche e scultoree di quell’età; il loro stile “goffo” era infatti riconducibile alla forma fisica, così ANIMALESCA, della gente barbara come appunto la descriveva Paolo Diacono. A riprova degli interessi storici, certe architetture longobarde che ancora di vedevano tra Milano e Pavia attirarono pure l’attenzione di Vasari: in modo particolare la famosa TORRE DI PAVIA, crollata nel 1584, oggi essa è conosciuta grazie a un disegno di Giuliano da Sangallo la cui didascalia suggerisce di far caso alla povertà dei semplici mattoni cotti coi quali ne era costruita la scarpa; al vasari la torre pareva davvero bella, composta di pietre cotte e di materiali di spoglio secondo la consuetudine di quella gente che, nello stesso tempo, non faceva che rivestire le prorie chiese di pitture di maniera greca. A Bologna, sullo sfondo della storia cristiana della città, anche gli antichi edifici ecclesiastici iniziavano ad essere percepiti nella loro Alterità Epocale, ovvero nella loro Realtà Visibile, proprio in considerazione della maniere costruttive. Durante il periodo di Teodosio, le arti figurative si erano deteriorate, ma in quella stessa epoca era vissuto PETRONIO, che si era impegnato a fare la sua città ricca di edifici sacri, primo fra tutti il Duomo, inteso dal Ligorio come lume e splendore delle sue opere. L’aggettivo “BASTARDO” nei testi ligoriani poteva assumere accezioni diverse, ma un altro aggettivo vi ricorre in riferimento ai MONUMENTI POST-CLASSICI: MODERNACCIO. Con quest’ultimo termine si voleva indicare qualcosa di non ancora moderno o di non più antico, una degenerazione dell’antico che forse era già nella direzione della modernità; modernaccia era per esempio la Porta di San Giovanni Laterano perché affine in un certo senso, alla maniere costruttive delle chiese medievali. Altro esempio di “modernaccia opere” potevano essere paramenti murari laterizi ove apparissero confusamente reimpiegati materiali classici, magari iscrizioni frammentarie irrispettosamente rimontante, come nel caso del Ponte di Narni la cui muratura omogenea appariva piuttosto come un pasticcio. ARTE E CONTRORIFORMA Immagini sacre: convenienza e decoro Tra le deliberazioni del Concilio di Trento, vi era quello che assegnava ai preti il compito di vigilare sulle eventuali immagini “lascive” o figure di bellezza “procace” presenti nelle chiese; a Roma, al principio del 1500, alcune moderne opere D’ARTE SACRA, ispirate alla bellezza classica, avevano iniziato a destare la scandalizzata contestazione dei visitatori stranieri: • Erasmo da Rotterdam denunciava come le chiese fossero diventate un ricettacolo di monumenti pagani e antichi, e come i cristiani usassero troppo spesso dilettarsi della vista di immagini dai contenuti indecenti • Giovan Francesco Pico della Mirandola aveva lanciato severissime occhiate contro il famoso Cortile delle statue nel Belvedere Vaticano, dove erano all’epoca accolte le più famose figure antiche di nude divinità pagane In definitiva, non era conveniente che una Vergine fosse fatta bella come la Dea Venere e che apparisse, cioè, di bellezza “procace”: con quanta virulenza, allora, Gabriele de’ Rossi accusava gli scultori moderni di gareggiare con le forme classiche fino a rendere così sensuale il volto della Madonna; De’ Rossi di sicuro pensava a figure come quelle che uscivano dalle mani di Andrea Sansovino e poco più in là di Jacopo Sansovino. Stesse preoccupazioni sarebbero poi divampate in Francia negli anni delle guerre di religione dopo che a Parigi si riscoprirono e pubblicarono i famigerati Libri Carolini, risalenti al secondo concilio ecumenico di Nicea: nei Libri Carolini si trovava ideologicamente discusso il pericolo delle immagini “vive” e delle immagini “ambigue”. Già prima della chiusura del Concilio di Trento, non erano mancati a Roma, per volontà dei preti, i primi interventi di CENSURA o atti di vera e propria ICONOCLASTIA ANTIPAGANA ispirati all’esempio di tanti papi vissuti nella prima età cristiana; verso la metà del Cinquecento alcuni frati del monastero di Santa Maria sopra Minerva, a Roma, vollero fare a pezzi un toro di marmo bellissimo di tutto rilievo, perché quel toro, così bello e inquietante, evocava il BIBLICO VITELLO D’ORO, forgiato dal popolo ebreo idolatra e da Mosè crudelmente distrutto. Sotto il pontificato di CLEMENTE VII, gli stessi frati ignoranti, tagliarono il membro virili e poi coprirono il Cristo marmoreo realizzato da Michelangelo e collocato presso Santa Maria sopra Minerva. Papa Adriano VI, si era deliberatamente proposto di rifarsi all’esempio dei papi della prima età cristiana, manifestandosi ostile nei riguardi delle immagini pagane ma anche nei riguardi dell’ostentazione di tanta artistica bellezza: al punto da desiderare, che fosse gettata a terra la cappella del divino Michelangelo, dicendo che egli fosse stufo di tutti quegli ignudi. In definitiva si imponeva la necessità di CONTROLLARE che L’OPERATO DEGLI ARTISTI fosse correttamente fondato sulle SACRE SCRITTURE, sulla letteratura patristica, sulla dottrina medievale. Nella sua lettera diffamatoria sul Giudizio Finale, del famoso letterato Pietro ARETINO, venivano denunciate quelle licenze morali e teologiche e quegli eccessi di Michelangelo al quale era ormai inevitabile opporre la “grata bellezza” di Raffaello; la pittura di quest’ultimo, sempre rispettosa delle FONTI STORICHE, sempre basata su una vastissima CULTURA CLASSICISTA, poteva esser vista come il rimedio da cui trarre ispirazione contro il FORMALISMO così SOGGETTIVO di Michelangelo. La pittura MODERNA stava facendosi troppo DOTTA, troppo sofisticata per essere capita dal popolo dei fedeli, tanto più che era del tutto sconveniente che solo i dotti potessero intendere la profondità delle ALLEGORIE nascoste all’interno delle immagini. Occorreva dunque, gli artisti tornassero a seguire non solo l’esempio di Raffaello ma, soprattutto, che imparassero a rivolgersi anche a TIZIANO, la cui grandezza Vasari aveva clamorosamente sminuito nella prima edizione delle Vite; Lodovico DOLCE respingeva con forza la presunta superiorità di Michelangelo sugli antichi e sui contemporanei. La fama di Tiziano stava così diffondendosi ovunque, in forza della sua capacità straordinaria di ADEGUARSI AI CONTESTI PIU’ DIVERSI sacri e profani e di coltivare i GENERI più diversi. Nel 1564 usciva il dialogo Degli errori e degli abusi de’ pittori circa l’historie. Monsignor Giovanni Andrea GILIO vi espose le nuove posizioni che la Chiesa tridentina assumeva in fatto di PITTURA SACRA, contro l’ignoranza dei pittori contemporanei e, in particolare, contro gli eccessi stilistici di Michelangelo, anche Gilio vedeva nelle opere di Raffaello l’esempio migliore di “osservanza della verità storica”: Raffaello cioè si era saputo adeguare ai contesti più vari, riuscendo ad essere “puro istorico”, ma anche “puro poeta”. A esame accuratissimo erano da Gilio sottoposti tutti gli errori di carattere TEOLOGICO commessi da Michelangelo, nel Giudizio e nella Cappella Paolina. Erano errori secondo lui: • Il CRISTO senza barba, raffigurato in piedi anziché seduto sul suo trono di gloria • Gli ANGELI raffigurati senza ali • Le FIGURE con le vesti sconvolte dal vento, giacchè il vento avrà cessato di soffiare quando giungerà il giorno ultimo
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved