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L'EDUCAZIONE DEGLI ITALIANI, Sintesi del corso di Storia dell'Educazione

RIASSUNTO COMPLETO E DETTAGLIATO DEL TESTO

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Scarica L'EDUCAZIONE DEGLI ITALIANI e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Educazione solo su Docsity! INTRODUZIONE Fin dalla costituzione del Regno la scuola fu considerata una trave portante nella creazione dell’unità nazionale sia per quanto riguardava la formazione del ceto dirigente sia con l’attenzione rivolta alla lotta contro l’ignoranza tra i ceti popolari. Non vi poteva essere un’Italia degna delle altre Nazioni europee se non c’erano condivisione degli ideali posti alla base del nuovo Stato, una dirigenza del Paese affidabile e all’altezza della situazione e se gli analfabeti continuavano a risultare la maggioranza dei cittadini italiani. Molti sforzi furono perciò compiuti per moltiplicare, modernizzare e rendere davvero “nazionale” l’istruzione, superando le tradizioni locali, sforzi che si moltiplicarono specialmente dopo il 1880. Ma nonostante l’impegno profuso i risultati restarono inferiori alle attese: nel 1901, ad esempio, gli analfabeti rappresentavano circa il 50% degli italiani e i bambini che sfuggivano all’obbligo scolastico erano ancora un 1/3 del totale. Le celebrazioni nel 1911 del primo mezzo secolo di storia unitaria furono perciò l’occasione per stendere un bilancio anche in materia scolastica, di quanto era stato fatto e di quanto era ancora incompiuto. In quegli anni fu perciò particolarmente intenso e significativo il dibattito sulle politiche scolastiche tanto sotto il profilo quantitativo (aumento del numero delle scuole, lotta all’analfabetismo, miglioramento degli edifici scolastici e delle condizioni dei maestri, ecc.) quanto sul piano delle strategie ideali (verso quale progresso bisognava orientare gli italiani, in che senso andava intesa l’espressione “educazione nazionale” ricorrente in quegli anni). Luigi Credaro e Giovanni Gentile, entrambi ministri dell’Istruzione a distanza di pochi anni, furono i due principali protagonisti della vita scolastica tra la stagione giolittiana e il dopoguerra, incarnando due diverse visioni non solo di scuola e di educazione nazionale, ma anche di modello sociale e del benessere futuro. Credaro – ministro tra il 1910 e il 1914 – era un solido montanaro della Valtellina, uomo concreto e pratico, alieno dalla retorica nazionalistica. Secondo Credaro occorreva che la scuola fosse «utile», espressione da intendere nella maniera più estensiva possibile e cioè funzionale alle trasformazioni in corso («una costola del progresso», con grande importanza attribuita alla cultura scientifica e tecnologica) e capace di valorizzare tutte le risorse del Paese. Combattere l’ignoranza significava contribuire allo sviluppo della civiltà moderna. Se si volevano sconfiggere le arretratezze scolastiche non c’era altra strada che disporre di una schiera di maestri in grado di mettere in campo pratiche didattiche bene organizzate. La pedagogia doveva perciò restare lontana dalle «astruserie metafisiche» e seguire le strade indicate dalla ricerca empirico-sperimentale. Instradata su binari antagonisti si svolse la riflessione di Giovanni Gentile, figlio di una famiglia della piccola borghesia siciliana. Anche al filosofo non sfuggivano i cambiamenti che stavano mutando la fisionomia dell’Italia e la necessità di farvi fronte con la formazione di persone capaci di comprendere e affrontare con spirito vigile le sfide della modernità. La partecipazione alla vita moderna non poteva tuttavia venire condizionata dalla categoria del progresso descritto dalla scienza e dalle leggi dell’economia. Viziato dalle teorie illuministiche e positivistiche, non era questo genere di progresso a poter imprimere un senso rigeneratore alla vita nazionale. Il progresso non poteva insomma identificarsi con la vita produttiva e le scoperte utili. Senza una salda coscienza di sé come popolo e come Nazione il progresso era destinato a ridursi a puro materialismo. Solo mediante una forte coscienza ideale – l’appartenenza alla Nazione – era possibile mantenere salda, di fronte alla pretesa del primato del progresso materiale, la superiorità delle forze spirituali. Filosofia, storia e letteratura era dunque i capisaldi culturali intorno a cui organizzare l’educazione degli italiani. Non si comprende la diffidenza di Gentile verso la scienza e la tecnica se non si pone in relazione con l’approccio scientista e materialista di larga parte della cultura positivista del secondo Ottocento che aveva innalzato il “fatto” a vera e propria ideologia. Già negli anni Ottanta Antonio Labriola aveva denunciato la deriva positivista verso “nuove metafisiche della natura”: la metafisica cacciata dalla porta rientrava per la finestra. Se non si voleva cadere nel rischio di una scienza ideologica – annotava Gentile – bisognava renderla subalterna alla formazione “dell’uomo in quanto uomo” e cioè di un individuo capace di pensare, riflettere e agire con piena responsabilità verso di sé e verso gli altri. L’approccio con la scienza e la tecnica non era negato in assoluto, ma andava spostato più avanti, a livello di formazione superiore e regolato secondo un approccio strumentale, non sostanziale. Poste queste premesse di carattere generale è facile comprendere l’ostracismo che Gentile e i suoi allievi e collaboratori (in primo luogo Giuseppe Lombardo Radice ed Ernesto Codignola) manifestarono contro le varie forme empiriche e sperimentali della pedagogia scolastica del positivismo a favore invece dell’immagine di un “maestro uomo armonioso” che nell’intensità della relazione interpersonale sapeva proporsi come modello esemplare e promuovere la vitalità interiore degli alunni. Nella totale avversione al positivismo e nell’affermazione intransigente del primato della filosofia sfuggirono inevitabilmente ai neoidealisti le letture dell’umano elaborate dalle nuove “scienze umane” in via di definizione (psicologia, antropologia, sociologia, pedagogia sperimentale) che stavano ampliando le possibilità e le forme di conoscenza dell’uomo. La scuola in definitiva era perciò vista non in funzione della sua utilità sociale, ma nella prospettiva di promozione della crescita spirituale dei giovani. Credaro che non era positivista, ma tuttavia prolungava nel suo herbartismo pedagogico alcune istanze del positivismo (per esempio la valorizzazione degli apporti delle “scienze umane”), fu considerato dai neoidealisti un avversario da contrastare a 360 gradi. Credaro orientò la politica ministeriale in tre principali direzioni: il miglioramento della scuola elementare e popolare (con un più incisivo apporto anche economico dello Stato), il rafforzamento della preparazione dei maestri e l’apertura di un corso liceale (il liceo moderno) centrato sulle discipline scientifiche e sulle lingue moderne. Erano queste le priorità per creare una democrazia da costruire giorno per giorno dal basso e allineare l’Italia alla realtà dei Paesi europei più progrediti. Gentile pose invece al centro del proprio impegno di governo scolastico il rilancio della scuola liceale nella forma del liceo classico. Soltanto formando fin dagli dell’adolescenza giovani colti, nutriti di discipline umanistiche, consapevoli delle loro responsabilità di futura classe dirigente, l’Italia avrebbe potuto garantire a sé stessa un futuro come Nazione. La scuola del popolo poteva restare circoscritta a livello elementare e integrata con le scuole professionali verso le quali “scaricare” le aspettative di quel ceto proletario più evoluto che cominciava a sperare per i figli un miglioramento di condizioni di vita. Fu questa, infine, la tesi che prevalse con la riforma del 1923. la quale documentò lo sforzo di tenere insieme la fiducia nel progresso garantito dalla razionalità scientifica e la necessità di fare i conti con la formazione della coscienza collettiva relativa alla conquista della modernità. 2. L’umanismo della “Rivista di Filosofia e Scienze Affini” I densi fascicoli della rivista si svolgono tra il riconoscimento dei limiti del positivismo e lo sforzo di superarli senza rinnegare l’eredità lasciata. Infatti la linea teorica della rivista a poco a poco si orienta oltre il positivismo pur senza eliminarlo ma condividendo l’idea di un progresso necessario, di un ignoto che si svela poco per volta con il progressivo svilupparsi della conoscenza. Quindi il positivismo delle generazioni precedenti è visto come un punto di partenza non da negare ma da sviluppare. Per Marchesini il “vero positivismo” non trascura i problemi dello spirito, ma li affronta senza appellarsi a realtà ignote o accettate per fede. L’interesse per l’umano non deve limitarsi all’affermazione dell’uomo come centro di iniziativa ma si accompagna al suo riconoscimento in quanto essere che pensa, produce simboli ed elabora valori; lasciandolo nella sua libertà di scelta. In questo contesto le tematiche pedagogiche e scolastiche assunsero una notevole importanza considerando, come lo stesso Marchesini affermava, l’uomo non più come spettatore ma come attore protagonista. Marchesini non rinuncia a condividere con Ardigò la convinzione che una filosofia, che accetti metodo scientifico e voglia dirsi scientifica, rifiuta quindi le tesi metafisiche, le entità trascendenti inverificabili, accetta le ipotesi da verificare. Ardigò insistette sulla necessità di una psicologia ed una pedagogia scientifiche, soffermandosi sul ruolo delle abitudini. L'educazione infatti sul piano naturale può essere ricondotta all'acquisizione di comportamenti sedimentati e certi; questo significa il passaggio da una pedagogia metafisica ed astratta ad una pedagogia intesa come scienza dell'educazione: «la pedagogia è la scienza dell'educazione, per questo l'uomo può acquisire le abitudini di persona civile, di buon cittadino.» Per Marchesini esiste un nesso tra educazione e abitudini ma queste non devono essere meccaniche comportando l’inerzia dello spirito umano. 3. Determinismo, “moderno idealismo” e psicologia Marchesini rileva, inoltre, la necessità di ampliare i discorsi relativi al determinismo. Concezione filosofica, questa, secondo la quale ogni fenomeno del presente è determinato da un fenomeno o un evento accaduto nel passato. Tale filosofia esclude dunque ciò che viene valorizzato invece da Marchesini ossia il ruolo dell’uomo e delle sue capacità di protagonista nell’attribuire senso e valori a ciò che accade. Ugualmente interessante risulta anche il confronto con il “moderno idealismo”, tema al quale si dedica anche Cesare Ranzoli. Nell’espressione moderno idealismo vi è la convinzione che la scienza è impotente e incapace a dare un senso alla vita dell’uomo. Ranzoli indaga attentamente le ragioni della fortuna del “moderno idealismo” a partire da quello che viene giudicato “il limite più grave del positivismo” e cioè quello di “aver creduto d’aver colto direttamente la realtà senza comprendere che un fatto assolutamente reale esistente fuori da ogni relazione con la coscienza umana è inconcepibile”. L’uomo dunque andava concepito non solo nella sia individualità ma anche nello svolgimento della storia e nella concretezza della vita. Marchesini e Ranzoli non esitano a ricorrere all’espressione “positivismo idealistico” con la quale intendono sottolineare la possibilità e la capacità anche della filosofia positiva di promuovere il nuovo profilo dell’uomo e del suo rapporto con la natura. 4. La costruzione della morale positiva e razionale Da qui l’interesse prevalente non è più rivolto alle leggi dello sviluppo universale, ma si svolge in un campo d’azione più ricco e articolato, orientato da un’attenta conoscenza psicologia dell’uomo. Secondo Marchesini la perfetta moralità si compie all’interno della stessa psicologia dell’uomo che è unione di sentimento e ragione. Nella capacità umana di avvalersi della razionalità sono poste, inoltre, le vere fonti non solo della moralità ma anche della giustizia e della stessa felicità. Solo l’uomo razionale è nelle condizioni di orientare la storia, dirigendola verso fini etici e morali; tale processo si svolge, tuttavia, lungo una linea fatta di incertezze tipiche dell’essere umano sull’essere e il volere ma soprattutto per il contrasto sociale tra la tendenza alla conservazione della tradizione e l’esigenza del rinnovamento. Per quanto riconosca al metodo positivo un’intrinseca moralità, Marchesini ne teme tuttavia l’insufficienza a spiegare la complessità dei processi individuale a regolare la convivenza sociale e sostiene che il fine morale dell’uomo sia l’utile collettivo, senza aderire a sistemi assoluti e precostituiti ma analizzando l’aspetto psicologico di ogni individuo. 5. La pedagogia e la funzione sociale della scuola In questo periodo un’attenzione crescente fu riservata alla pedagogia alla quale fu affidato il compito di trasferire nella vita quotidiana la nuova morale positiva e di progetto di una società fondata sul progresso. Quindi la pedagogia doveva diventare scientifica (cioè possedere i caratteri tipici della scienza) ossia essere fondata sui fatti, ottenere riscontri oggettivi e procedere attraverso la generalizzazione di dati empirici (fatti dimostrati). A questo modello di pedagogia si rifecero anche altri collaboratori della rivista interessati ad approfondire la funzione sociale dell’educazione in due principali direzioni: - rimarcare il nesso scuola-società, quindi la scuola era chiamata a riuscire nello stesso tempo ad agevolare lo sviluppo e ad adattare al fine sociale le attitudini di ogni individuo. Da qui la necessità di diffondere l’istruzione per innalzare la dignità del lavoratore e combattere quindi l’ignoranza. - migliorare l’insegnamento, basato sul desiderio che il progresso scientifico potesse fecondare il mondo scolastico e favorire l’impiego di criteri più razionali di insegnamento. Lino Ferriani individua, inoltre, nella scuola un’occasione di igiene della psiche collettiva cosi come Vitali sosteneva che la scuola può far penetrare nel pensiero di tutti le norme, le pratiche e quindi in direzione di una patria come comunità solidale di cittadini accomunati dall’impegno di perseguire il progresso. 6. La superiorità della pedagogia positiva Le tematiche pedagogiche e scolastiche conquistarono crescente spazio sulle pagine della rivista soprattutto dopo che Marchesini ne divenne il direttore. Le ragioni sono diverse. In quegli anni Marchesini stava maturando maggiore attenzione verso la pedagogia collegata all’ampia discussione dell’azione scolta nell’educazione degli italiani. Marchesini partì da alcune osservazioni sul piano pedagogico di Gentile sostenendo che esso fosse illusorio in quanto il processo educativo era ben lontano dal compiersi in forme autoformative e il rapporto tra maestro e allievo non si poteva concepire in termini spiritualistici. Marchesini inneggiò alla superiorità delle teorie educative positive in quanto richiamavano gli educatori al fine reale dell’educazione che è positivo, umano e terreno; cosi spettava alla scienza ispirare e orientare i principi educativi. La superiorità della pedagogia positiva era confortata dal fatto di avvalersi del contributo delle diverse scienze dell’uomo. L'educazione non può essere un processo autonomo l'azione del maestro appare pertanto prioritaria, a lui spetta adattare l'allievo alla natura e alla vita sociale mediante quell'esercizio ripetuto metodico che crea reali abilità e solide abitudini, tanto mentale quanto pratiche. Il valore dell'abitudine si conferma anche per la vita morale: le abitudini che devono soprattutto formarsi sono quelle morali. 7. Laicità e progresso: il dibattito sulle riforme scolastiche La “funzione sociale” della scuola continuò a rappresentare il focus pedagogico principale. In quegli anni il tema della formazione degli italiani occupò la ribalta dei dibattiti accanto alla proposta di una certa modernizzazione del sistema formativo. Il criterio prevalente per assicurare l’unità degli italiani fu la fede nel progresso. Si affrontarono temi come la laicità della scuola e l’insegnamento religioso, il ruolo dello Stato nello sviluppo scolastico e nella lotta contro l’ignoranza, l’esigenza di un maggiore spazi riservato alla cultura scientifica e tecnica, l’analfabetismo e il ruolo dell’insegnante. Oltre la metà degli italiani viveva in precarie condizioni sociali ed economiche e la loro integrazione nella vita nazionale era difficile, bisognava quindi puntare soprattutto sullo sviluppo dell’istruzione e sullo Stato ricadeva una responsabilità primaria: la scuola nazionale coincideva quindi con la scuola statale. Già nel 1906 Rodolfo Mondolfo, nel confronto con Gentile, senza negare il valore pedagogico delle discipline classiche proponeva che l’ideale educativo si misurasse con la concretezza delle situazioni indagate attraverso lo studio della storia civile e dei fatti della scienza. Secondo Gentile, invece, era fuorviante affidarsi al solo esercizio razionale e riaffermò i limiti della scuola laica. La risposta della rivista non si fece attendere e infatti diverse furono le dichiarazioni che attribuivano alla scuola laica la capacità di rendere l’uomo aperto ad ampie vedute e dall’intelletto indipendente, rifiutando quindi qualsiasi cieca credenza (come la religione) promuovendo una scuola aconfessionale (senza insegnamento religioso). Marchesini riconosceva il valore educativo esercitato dagli “ideali” (tra cui quello religioso) ma ne rifiutava la codificazione sul piano della prassi scolastica in quanto questa doveva restare ancorata al “fatto” e ritrovarsi nella razionalità empirica (dimostrabile). Da qui la convinzione che la solidità dello Stato e la modernizzazione del paese dipendessero da una scuola non soltanto colta ma anche utile e cioè capace di formare un cittadino operoso, virtuoso e devoto alla patria. In ragione di questo obiettivo lo Stato non poteva essere neutro ma doveva ispirarsi alla vita laica, razionale, scientifica e modellare intorno a questi principi un codice di comportamento condiviso. Toccava quindi allo stato pilotare il processo di modernizzazione mediante azioni coordinate, prudenti e graduali ponendo in tal modo le condizioni per vincere le sfide della vita moderna; tutto ciò poteva accadere se la cultura scientifica e il senso pratico della vita avrebbero nutrito le giovani menti. Il futuro era quindi emozioni o dal misticismo. “Filosofare” significava, quindi, dare senso alla realtà e all’agire dell’uomo; non bastava contemplare il mondo occorreva orientarlo in direzione del bene e del giusto (filosofia pratica). 2. “Herbart è il Kant della pedagogia” Forti di questa impostazione fu quasi inevitabile che i neokantiani manifestassero un interesse tutto speciale per le questioni educative. L’attenzione per la pedagogia e l’istruzione rappresentava il naturale prolungamento del primato assegnato alla ragion pratica e al suo compito di assicurare ordine al mondo. La pedagogia era concepita come scienza autonoma con teorie e metodi propri e interattiva con le altre scienze umane ossia con quelle che permettono di conoscere meglio l’uomo come la psicologia, la biologia o la sociologia e con quelle che conferiscono senso al suo agire come la filosofia e l’etica. Tra la pedagogia del positivismo e la pedagogia neoidealista di Gentile, i neokantiani proposero una terza via. Essa era fondata, da un lato, sul primato riconosciuto all’educazione morale, dall’altro, sulla conoscenza degli alunni e sulla messa in atto di appropriate procedure didattiche. Tra questa via e le dottrine pedagogiche di Herbart vi era molta affinità, quest’ultimo era riuscito a tradurre sul piano dell’azione educativa la filosofia di Kant e con esso condivideva il concepire il dovere come suprema legge morale e della vita sociale. Con il suo metodo Herbart aveva fatto in modo che l’apprendimento non si risolvesse in un meccanico nozionismo e si svolgesse in modo da mobilitare in pari tempo le capacità intellettuali degli allievi e la loro volontà. La formazione di un carattere conforme a un ideale umano improntato al rispetto dei supremi valori etici era visto come il fine principale del processo educativo. Il grande merito di Herbart consisteva nel far passare in secondo piano la personalità dell’insegnante rispetto all’organizzazione didattica. Negli ultimi due decenni dell’800 anche in Italia vi fu una prima circolazione dell’herbartismo grazie a Luigi Credaro il quale spinse in suo favore. La scadente qualità dei mastri e delle maestre, specialmente quelli dei contesti rurali (quindi stragrande maggioranza dell’Italia), la confusione metodologica specialmente della scuola elementare tra 800 e 900 la difficoltà di spostare la didattica sul terreno degli apprendimenti legato alla realtà, favorirono l’insediamento della pedagogia herbertiana. Infatti, nel 1905 si compì il primo tentativo di innestarla nella scuola italiana con l’emanazione dei nuovi programmi per la scuola elementare, tali programmi si basavano sui quattro principi individuati da Herbart (chiarezza, associazione, sistema e metodo) su cui ordinare i livelli di apprendimento (gradi). Dettagliate istruzioni allegate ai programmi avevano lo scopo di aiutare i maestri ad attuare il nuovo metodo. I risultati, tuttavia, furono molto deludenti perché i maestri non avevano la preparazione giusta per far propria una metodologia molto più impegnativa rispetto alle pratiche consuete affidate al binomio ripetizione/memorizzazione. Il metodo richiedeva infatti di mettere in relazione l’apprendimento con l’evoluzione della vita mentale nelle sue varie dimensioni cognitive, emotive e affettive. C’era anche una seconda ragione a favore dell’herbartismo. Il “senso del dovere” kantiano combinato con la pianificazione dell’apprendimento aveva inoltre il pregio di veicolare un insieme di valori funzionali alla stabilità sociale e alla coscienza patriottica. La formazione del carattere attraverso l’istruzione scolastica come suggeriva Herbart corrispondeva ad un “ordinare le folle” che si affacciavano sulla scena pubblica, dar loro degli ideali cui fare riferimento e rafforzare il carattere. Non fu casuale che la questione dell’educazione nazionale, a ridosso dell’Unità, fosse coltivata da numerosi studiosi kantiani e sostenitori della pedagogia di Herbart. La scuola era vista come veicolo per rigenerare costumi e mentalità arcaici e rispondere alle esigenze dei nuovi tempi. Il rapido evolvere delle conoscenze scientifiche e tecniche, l’irrompere del lavoro industriale, la competizione economica a livello internazionale erano segni di cambiamento che occorreva governare razionalmente. Ciò significava rilanciare la centralità dell’uomo capace di trasformare in suo favore la realtà. 3. “Tutto nasce nella pratica e nella pratica ritorna” Nel 1908 per iniziativa di Luigi Credaro prese avvio la “Rivista Pedagogica” il gruppo portante fu rappresentato da neokantiani. Il periodico costituì l’espressione più autorevole e compatta fra quanti in ambito scolastico ritenevano necessario rinnovare l’impianto della scuola e adeguarlo a una realtà ormai diversa da quella passata. Punti qualificanti del progetto cardiano furono il sostegno all’associazionismo dei maestri e dei professori, la creazione in Parlamento di un “partito della scuola”, il potenziamento della scuola elementare e popolare, il miglioramento della formazione degli insegnanti mediante la riforma della scuola normale e l’istituzione delle scuole pedagogiche universitarie. La Rivista Pedagogica avrebbe dovuto rappresentare il più accreditato luogo di discussione delle questioni educative italiane non essendo mai di parte. Forte della convinzione che “tutto nasce dalla pratica e nella pratica ritorna” e della vanità di qualsiasi dottrina incapace di produrre i suoi frutti sul piano dell’utilità sociale, Credaro sosteneva che la società italiana avrebbe continuato a progredire solo a condizione di sviluppare al suo interno il senso della giustizia e della solidarietà e a tal fine il ruolo della scuola era primario, sia come luogo di formazione sia come creatrice di valori comuni e sia come sede dell’emancipazione dei ceti popolari e della democratizzazione della vita sociale. 4. Antidealismo e idealità nazionali in Vidari, Calò e Maresca Tra gli herbertiani di maggior rilievo ricordiamo Giovanni Vidari secondo il quale l’ideale educativo riflette la perpetua tensione tra essere e dover essere il cui svolgimento si realizza mediante il contributo della psicologia (che indica il progressivo maturare delle energie spirituali), della storia (che mostra lo svolgersi delle società) e dell’etica (che divulga la rettitudine). Erano questi gli elementi su cui poggiare l’agire pedagogico. Era netta, qui, la distanza con la visione di Gentile. Vidari condivide la tesi che l’educazione è un processo spirituale ma non nel senso dello spirito di cui parlare l’idealismo bensì l’iniziativa educativa era possibile soltanto nella precisa distinzione dei due soggetti del rapporto educativo, il maestro e il discepolo, ciascuno con un diverso ruolo e una diversa responsabilità. Inoltre, bisogna sottolineare che, Vidari inserì due varianti nel modello Herbertiano: 1. recupero della concezione classica dell’uomo espressa dalla tradizione greco-latina e inteso perciò come energia attiva che si appropria delle forze esterne, le trasforma in elementi e motivi della propria esperienza interiore. Più che un essere da plasmare ì, l’uomo era concepito come in volontà e pensieri che valgono per sé. 2. inserzione di valori storici precisi dell’etica educativa. Nessuna reale esperienza pedagogica poteva avvenire al di fuori della società, come storicamente si era formata. Poiché l’efficacia educativa è strettamente connessa alla condizione dell’uomo che vive e si realizza in un determinato momento della storia, la creazione della coscienza politica era uno degli obiettivi essenziali dell’educazione. Gli ideali nazionali erano condivisi, quindi, da tutti e individuati, cosi, come “amor della Patria”. Secondo la prospettica nazional-patriottica non potevano esistere contrasti tra gli interessi della patria e quelli delle masse se l’educazione nazionale andava di pari passo con le riforme necessarie ad elevare il popolo in direzione di una convivenza armonica in una società liberale. Altro herbertiano di spicco fu Giovanni Calò, allievo di Francesco De Sarlo, il quale vedeva nella pedagogia herbertiana la risposta più convincete per congiungere la realtà viva dell’educazione e la pedagogia costruita su due basi sicure, psicologia ed etica. Vari erano i punti in comune con Vidari. Comune fu la convinzione di oltrepassare l’Italia attuale all’insegna di una nazione capace di trasformare la vita e sollevarla sempre in alto. Calò, inoltre, si oppose alle tesi di Gentile sostenendo che i protagonisti dell’evento educativo era due distinti soggetti e non una indistinta autoformazione dello spirito. Nonostante le riserve di Vidari e le polemiche di Calò, l’avversario più ostico nel contrastare Gentile fu Mariano Maresca. 5. I progetti per la modernizzazione del sistema scolastico Sotto la spinta del progresso tecnologico crebbe la domanda di tecnici, ingegneri, operai specializzati, mano d’opera qualificata ed il tradizionale impianto scolastico previsto dalla legge Casati del 1859 risultava alquanto inadeguato. Vediamo intanto che il concetto di cultura assume, quindi, un significato più avanzato e l’uomo non è più inteso come passivo o semplice spettatore ma protagonista libero e capace di trasformare in suo favore la realtà in cui vie. Modernizzare la nazione significava saldare la tradizione culturale e i sentimenti di fedeltà alla patria con la realistica accettazione dello sviluppo industriale e delle sue conseguenze. Si trattava di intrecciare nuovi modi di lavorare, istruzione più estesa e la necessità di maggiori competenze professionali e il ripensamento del rapporto doveri-diritti del cittadino. Era in questa nuova realtà che occorreva pensare la formazione di persone in grado di comprendere e affrontare i problemi e le sfide della vita moderna. Sul piano scolastico era necessario agire in più direzioni. Corsi di studio, valorizzare le lingue moderne e ampliare gli spazi della cultura scientifica; bisognava, inoltre, potenziare la scuola elementare e popolare. I neokatiani, però, non avevano elaborato, almeno in fase iniziale, un principio di scuola aperta a tutti tanto che Credaro respingeva dalle prime classi della scuola media tutti colori che si dimostravano privi delle qualità necessarie per progredire negli studi superiori. E in questa Credaro critica, dunque, Gentile per il suo affollamento delle scuole medie, frequentate da un crescente numero di giovani non adatti a proseguire gli studi. Successivamente Credaro si dedicò all’azione politica, ministro dell’istruzione dal 1910 al 1914, promuovendo una riforma che riguardava tutto il sistema scolastico. La sua azione può sintetizzarsi in tre punti: erano sovrabbondanti altrove (come in Sicilia). Le esigenze belliche fecero il resto in quanto i maestri chiamati al fronte furono rimpiazzati dalle maestre che erano in esubero. Restò invece la questione della fisionomia del maestro e della sua preparazione culturale e professionale. Le vicende e le contrastate riflessioni che accompagnarono il riordino della formazione dei maestri meritano attenta considerazione per varie ragioni: 1. la prima riguarda il rapporto tra la formazione del maestro e l’avviamento alla professione, la scuola preposta alla preparazione dei maestri andava concepita come un vero e proprio istituto professionale. Quindi ad una visione della professione nutrita di sapere colto andava sostituita/affiancata una visione nutrita da una competenza metodologica-didattica. 2. la seconda riguarda il ruolo educativo affidato al maestro legato alla progressiva inserzione dei ceti popolari nella vita politica e negli stili di vita borghesi e il significato etico-sociale da attribuire ai cambiamenti modernizzanti in corso almeno in una parte di Italia. Credaro nella sua visione di riforma della formazione dei maestri, esaltando l’organizzazione esemplare della scuola elementare prussiana, indicava alcuni punti chiave: 1. la scuola normale doveva essere scuola con finalità professionali e tutta la cultura in essa impartita doveva riflettere il metodo da usare nelle scuole elementari. 2. i professori che posseggono una cultura puramente teorica non si debbono ammettere nelle scuole normali e in queste non avrebbero dovuto insegnare se non persone che avessero diretta conoscenza della scuola elementare. 3. il tirocinio andava organizzato in modo che i professori delle scuole normali facessero lezioni dinanzi ad allievi-maestri. Il richiamo al senso pratico non poteva essere più chiaro. Per i maestri era necessaria una cultura realistica funzionale alla futura professione sostenuta da un metodo ben strutturato e facile da attuare. Mediante il tirocinio l’allievo-maestro imparava a intrecciare la trasmissione del sapere con la conoscenza dell’animo umano e l’osservazione di casi particolari. La pedagogia era perciò, insieme, scienza e pratica e cioè padronanza di regole generali applicate secondo le circostanze specifiche. In sostanza Credaro pensava a un maestro capace di attuare un insegnamento metodico, rigoroso ed efficace e senza fantasia. Bisognava sconfiggere rapidamente l’ignoranza operando su due piani: - il rinnovamento dei metodi didattici - la promozione della moralità necessaria per far progredire la democrazia In tal senso si ipotizzavano un corso normale quinquennale con un triennio di formazione culturale e un biennio specificatamente orientato alla preparazione professionale. Così facendo, nel bagaglio del maestro avrebbero potuto avere spazio conoscenze e saperi non circoscritti al pure e semplice esercizio della professione. Allo steso tempo, però, vi era la preoccupazione che, se non si fosse rafforzata la cultura a base classica del corso normale, ben difficilmente i maestri avrebbero potuto accedere a pieno titolo agli sbocchi universitari. Nel 1914 giunse finalmente in Parlamento un progetto di riforma della scuola normale che prevedeva un ciclo di studi settennale articolato in un quinquennio di formazione generale e un biennio professionalizzante. Il progetto restò sulla carta, poco dopo la sua presentazione Credaro lasciò l’incarico ministeriale. 4. I “Nuovi Doveri” e i maestri Pochi mesi prima dell’uscita della “Rivista Pedagogica” erano apparsi a Palermo i “Nuovi Doveri” di cui il principale animatore fu Giuseppe Lombardo Radice, docente di pedagogia e amico e allievo di Gentile. “Nuovi Doveri” diventò una voce critica contro la riforma di Credaro (della scuola normale e la concessione solo ai maestri migliori di occuparsi di insegnamento secondario) ma più in generale vero l’intera politica ministeriale. Radice fissava il punto della propria riflessione sostenendo che la pratica magistrale fosse vista non come somma di abilità e competenze professionali ma bensì come esito personale della cultura del maestro, centrata non più su conoscenze empiriche (l’igiene, la psicologia, l’antropologia, la pratica didattica) ma sulle leggi dello spirito. Anche Gentile e Radice pensavano alla pedagogia come disciplina portante della scuola normale ma non nei termini di esercizio didattico ma, appunto come generale capacità di indagine e riflessione sul senso dell’educazione. La capacità riflessiva andava conquistata mediante la consuetudine di riflettere filosoficamente, e indagare i grandi temi pedagogici (libertà/autorità, istruzione/educazione, educazione positiva/negativa ecc) e nel dialogo con i classici che avevano da sempre sciolto le antinomie. Secondo Radice la pedagogia e la didattica doveva essere regolata mediante la libera iniziativa del maestro, moderata dalla capacità di valutarne di volta in volta la coerenza con la situazione scolastica. Un maestro, quindi, non applicatore di regole precostruite ma capace di riflessione ed iniziativa in proprio, ricco di fantasia e di conseguenza un maestro un po' filosofo ed un po' artista. Per Radice, inoltre, il bambino non era argilla da plasmare ma un giovane da far crescere del quale bisognava rispettarne le caratteristiche personali e l’originalità, evitando le trite nozioni. Perché ciò fosse possibile il maestro anziché essere un semplice istruttore doveva essere ricco di interessi e di passione intellettuale. 5. Il maestro come “uomo armonioso” Alla fine del 1911 “Nuovi Doveri” mutò non soltanto titolo, ma anche e soprattutto impostazione editoriale, diventando una vera e propria rivista pedagogica, “Rassegna di Pedagogia e di Politica Scolastica”. Dedicò un notevole spazio alla discussione della preparazione dei maestri elementari, ospitando, in particolare, numerosi contributi di Ernesto Codignola. Quest’ultimo concepiva il maestro come un “uomo armonioso” che nell’intensità della relazione interpersonale sapeva proporsi come modello esemplare e promuovere la vitalità interiore degli alunni. Solo una ricca e ampia formazione filosofica poteva aiutare il maestro a raggiungere tale obiettivo. L’esperienza più direttamente legata ai “Nuovi Doveri” fu quella della rivista “Nostra Scuola” la quale invitava a: - combattere il tradizionalismo e il materialismo didattico, esaltando il valore dell’intuito e dell’estro del singolo maestro nel far sentire come la didattica scaturisca dalla cultura e dalla conoscenza filosofica di ogni disciplina - far rivivere la vita del fanciullo in quanto l’osservazione di fatti, i discorsi, i lavori e tutto quando provengono da lui stesso. 6. L’educazione nazionale e la scuola elementare Il confronto su come rilanciare e svolgere l’educazione nazionale rappresentò uno dei principali motivi di riflessione pedagogica e politica al tempo stesso tra guerra e dopoguerra. Il dibattito sulla formazione dei maestri fu parte, per l’appunto, di questa riflessione. L’accento cadeva sulla necessità di mettere a punto un ampio piano di rafforzamento della scuola elementare, di iniziative a sostegno dell’obbligo di istruzione e delle varie forme di educazione popolare (biblioteche, scuole per adulti, scuole professionali). Solo con un impegno cosi orientato gli italiani potevano sfuggire all’ignoranza, prepararsi alla piena democrazia, ai valori della fratellanza universale e della solidarietà. Erano queste le idealità poste da Credaro. Spettava alla silenziosa opera dell’educazione conquistare le masse ai valori democratici e umanitari mediante il severo tirocinio dell’istruzione. Si trattava, in altre parole, di dar vita a un processo evolutivo affidato a maestri capaci di applicare con efficace perizia un metodo didattico sistematicamente pianificato senza concessioni all’estro dei singoli. La scuola elementare centrata sulla didattica e funzionale al sapere pratico (utile) non era, dunque, soltanto ben congegnato progetto pedagogico ma era anche la risposta politica all’esigenza di alfabetizzare rapidamente il popolo per creare cittadini rispettosi dei doveri, abilitarli al lavoro e aprirli alle sfide della vita moderna. Secondo Credaro, solo se le elites erano capaci di accompagnare il popolo in questa transizione, e quindi comprendere il cambiamento dei tempi, l’Italia poteva diventare una comunità solida e solidale verso la modernità. Alquanto diversa era la lettura politica ed educativa dell’elevazione del popolo condotta da Giovanni Gentile e dai suoi allievi. Infatti come suggeriva lo stesso Lombardo Radice, l’autorità morale della nazione poteva farsi valere se il popolo si sentiva anche sentimentalmente parte della vita comune. La vita del popolo aveva i suoi ritmi e le sue consuetudini che non potevano essere traditi ed i maestri dovevano essere pronti e capaci di coglierne la sostanza autentica. La cultura non divideva colti e incolti ma era piuttosto da intendere come un’esperienza spirituale accomunante anche se vissuta in modi diversi (l’analfabeta non era necessariamente anche un incolto). Occorreva, dunque, porsi in ascolto dei sentimenti popolari più ingenui e orientarli verso l’adesione a valori accomunanti. Solo rispettandone le intrinseche caratteristiche si potevano preparare i contadini ad essere popolo e non folla. La responsabilità di amalgamare le diverse culture era compito della scuola e, in specie, soprattutto perché a stretto contatto con il popolo, dei maestri. Ad essi era affidata l’azione di mediazione tra realtà locale e la vita della nazione. La cultura del maestro non poteva essere, perciò, soltanto puramente didattica, ma doveva orientarsi verso una personale riflessione, premessa importante per poter comporre cultura dell’elites e cultura popolare. In quegli anni si confrontarono, insomma, tesi opposte sulla fisionomia del maestro, senza spazi di mediazione. Da una parte ci solo le proposte dell’empirismo pedagogico fatto di una pedagogia tutta schiacciata dalle competenze didattiche e dal sapere tramesso per essere utili e operesi nella società. Dall’altra Gentile e Lombardo Radice negano qualsiasi riconoscimento a tale approccio. anche Ellen Key, Stanley Hall, Alfred Binet e altri giungono allo stesso pensiero ossia che se il bambino era libero di manifestare i suoi bisogni e i suoi interessi, cioè la sua vitalità, era più facile integrarlo nella vita sociale, evitando quelle forme autoritarie e talvolta violente che suscitavano lo sdegno degli educatori più sensibili. In analogia a questa prospettiva la scuola della vitalità infantile viene opposta alla scuola del programma. L’alunno entra nella scuola non per ascoltare ma per comunicare esperienze, esprimere sentimenti e raccontare il proprio mondo interiore. Lombardo radice riserva un ampio spazio alla conquista della lingua. L’educazione linguistica libera le migliori energie degli alunni ed essa va appresa dal vivo ed è affidata alla capacità dell’allievo di esprimere se stesso (inizialmente anche con l’uso del dialetto). Severo è il giudizio sulla grammatica tradizionale la cui pretesa costituisce un ostacolo alla libera espressione, sulla composizione scritta elaborata secondo modelli precostituiti e sulla memorizzazione senza comprensione. Alla fase linguistica arricchita dalla dimensione espressiva (disegno, canto) si accompagnano, in un secondo tempo, le cosiddette “attività riflesse” come la conoscenza storica, l’esplorazione geografica, l’osservazione scientifica e il ragionamento matematico. La storia, per esempio, andrà raccontata facendola vivere come se fosse una favola (storia-poema) e le nozioni scientifiche potranno maturare attraverso la scoperta del mondo della natura, facendosi piccolo naturalista. La valorizzazione, infine, dell’insegnamento religioso si svolge non sul piano catechistico ma in termini di esperienza popolare come parte viva. 3. Dalle “lezioni di pedagogia” alla collana “Scuola e vita” Il 1913 è un anno importante per Lombardo Radice sia per l’apparizione delle sue “lezioni di didattica” sia per la nascita della collana “scuola e vita” la cui trama si svolge intorno ai tre protagonisti delle Lezioni: il maestro, gli allievi e le esperienze didattiche. La figura del maestro è centrata sul contrasto tra il direttore della scuola, di rigida fede pedagogica herbertiana e un giovane insegnante che si sforza di portare nella scuola la passione educativa, il rispetto delle esigenze e delle aspettative degli allievi. La figura degli allievi è vista in una prospettiva di valorizzazione della loro spontaneità eliminando ogni prevaricazione didattica e auspicando una “scuola per gli allievi”. Infine per quanto riguarda le esperienze didattiche vengono intese e presentate come esperienza irripetibile e creativa, basata su una concezione narrativa e incentrata sulle risorse degli allievi e sulla loro spontaneità. Quindi una didattica vista come riflessione del maestro sulla propria e altrui esperienza, attività del docente vista come una vocazione e una missione. 4. Dai “Nuovi Doveri” all’educazione nazionale “Nuovi Doveri” è una raccolta intorno al tema dell’educazione nazionale che Lombardo Radice indaga sotto tre principali aspetti: 1. come rivitalizzare le idealità del Rinascimento 2. come rafforzare il senso di appartenenza dei ceti popolari 3. come conciliare il ruolo dello Stato con il riconoscimento delle autonomie locali La Nazione è definita come la libera unificazione degli individui e delle loro associazioni nella quale si compie l’autoeducazione dell’individuo che culmina nell’autocoscienza di appartenere a uno stato nel quale ciascuno è chiamato a svolgere la propria parte. Il popolo non è solo un’entità da disciplinare, esso è piuttosto l’interprete di ideali, tradizioni, istanze da rispettare e innalzare a livello di coscienza matura e cioè colta. Sarà sulla base di questi presupposti che Lombardo Radice non si riconoscerà nello stato fascista che a causa del suo centralismo statalista soffocava qualsiasi riconoscimento delle aspirazioni popolari a esprimere la propria cultura. Lo stato fascista non poteva essere uno stato autenticamente nazionale ma solo totalitario, in quanto rinunciava ad accettare le diversità e puntava ad ordinarle dentro un’univa visione del mondo. La concezione democratica della nazione è accompagnata dalla visione positiva della laicità, in quanto chi è davvero laico sente il valore di ogni pensiero politico e religioso e sa costruirsene uno suo, esercitando la propria capacità critica; da qui la sua concezione di cambiamento scolastico basata sul coltivare nelle coscienze delle persone la consapevolezza etica. 5. Il crogiuolo della riforma La direzione dell’istruzione elementare a fianco di Gentile ministro consentì a Lombardo Radice di tradurre sul piano anche normativo l’ideale di “scuola serena”. Nonostante qualche dubbio di Croce, Lombardo Radice seppe pilotare il cantiere dell’istruzione elementare. Sono sui i principali documenti della riforma tra cui spiccano i Programmi del 1923 che segnarono un netto spartiacque nel modo di intendere la scuola elementare. La vita scolastica si era basata per molto tempo sulla convinzione che l’efficacia dell’educazione infantile, ridotta all’essenziale nei contenuti, dipendesse dalla capacità di imprimere nei piccoli alunni il senso della disciplina. Lo scopo era quello di assicurare alfabeto e ordine sociale, sostenuto da positivisti illuminati come Gabelli, gli herbertiani e Credaro. Anche per Lombardo Radice ordine e disciplina erano requisiti costitutivi dell’educazione nazionale. Ma anziché di guardare ai ceti popolari e ai bambini come destinatari dell’educazione, occorreva farne i soggetti della stessa educazione. La nazione non poteva essere imposta, andava vissuta in presa diretta nella pluralità e diversità delle situazioni. Questo era possibile se i maestri sapevano entrare in sintonia con il popolo e scoprirne il cuore, ciò significava parlare la stessa lingua (compreso il dialetto), sentirsi immersi nelle medesime tradizioni, partecipare alle identiche emozioni ecc. Conseguentemente la scuola non doveva essere aridamente nozionistica, ma presentarsi agli occhi dei bambini e dalle famiglie come un luogo affascinante e attraente. La forza innovativa di Lombardo Radice si manifesta anche nella sua idea di pedagogia come work in progress, non già tutta data a priori e predisposta secondo piani minuziosi; essa viene vista come un progetto costruito gradualmente, un vero e proprio laboratorio. Mentre la riforma compiva i primi passi, gli eventi legati al delitto Matteotti produssero un brusco mutamento dello scenario politico che determinò l’uscita di Lombardo Radice dalla scena ministeriale e l’allentamento dei rapporti con Gentile. Lombardo Radice non rinunciò mai, comunque, a considerare la riforma come “sua” e a sostenerla contro gli attacchi dei suoi avversari. Subito dopo la rinuncia all’incarico ministeriale (giugno 1924) e la sua dissociazione dal fascismo, Radice subì una violenta campagna di stampa condotta attraverso i principali giornali del regime e alcune sue riviste. Fu in questo difficile contesto che Lombardo Radice diede alle stampe due importanti scritti che gettano ulteriori squarci sulla sua partecipazione alla riforma. Il primo (1924) è una specie di vera e propria autodifesa all’indomani delle dimissioni dall’incarico ministeriale: “A tutti i partiti”. In questo saggio difende la coerenza interna del proprio operato puntano unicamente alla rieducazione del paese attraverso la scuola, al di fuori e al di sopra dei partiti e delle fazioni di lotta. La riforma era dunque l’esito di un lungo processo dai molteplici protagonisti e dalle tendenze più diverse, essa non poteva essere strumentalmente accaparrata da alcun partito. Infine la dichiarazione più dolorosa e cioè l’impossibilità di continuare a svolgere un incarico che avvertiva ormai esposto alla compromissione politica. Dopo l’espansione del fascismo, il territorio scolastico era cambiato profondamente. Il secondo, di andamento più pedagogico, delinea la sua idea di educazione e di scuola: “Athena fanciulla”. Questo saggio contente di integrare il Lombardo Radice politico con quello pedagogista attraverso ricordi personali, riflessioni pedagogiche e saggi scolastici raccolti sul campo. 6. I silenzi di Lombardo Radice Le pagine di Athena fanciulla restituiscono tuttavia soltanto parzialmente le idee e le proposte di Lombardo Radice, infatti il libro è fatto anche di silenzi. Non c’è traccia, in primo luogo, del controverso rapporto con l’esperienza montessoriana. Era stato lo stesso Lombardo Radice in occasioni precedenti a segnalare la profonda impressione ricavata da Maria Montessori, dal suo “Il metodo della pedagogia scientifica applicata all’educazione infantile nelle case dei bambini” (1909) e dal suo impegno con i suoi allievi-maestri nella scuola normale. Nelle Lezioni di didattica (Radice) aveva espresso un aperto consenso su alcuni aspetti riguardanti la preparazione all’apprendimento della lettura e della scrittura e gli esercizi di manualità; tanto da definire la Montessori come una valorosa educatrice e pedagogista. Col trascorrere del tempo e l’estendersi della rete delle Case dei Bambini e delle scuole montessoriane il metodo si era irrigidito nel “montessorismo” e cioè diventando un metodo scientifico dogmatico. Infatti, rispetto a qualche anno prima da potenziale alleata nella rivendicazione dei diritti dell’infanzia, la Montessori stava diventando una diretta concorrente sulla scena pedagogica nazionale. Questo dovuto anche al fatto che la Montessori fosse direttamente sostenuta da Mussolini che con i suoi programmi di fascistizzazione scolastica (sia per i maestri che per gli studenti) misero Lombardo Radice (e successivamente la stessa Montessori) fuori gioco. 7. Dopo il 1924 Da questo momento iniziò un periodo di emarginazione e di isolamento. Giovanni Gentile lo avrebbe addebitato all’incapacità di Lombardo Radice di adeguarsi al mutamento dei tempi, ma in realtà aveva capito quello che sarebbe stata l’inclinazione alla dittatura fascista. Bisogna però ricordare che l’impianto pedagogico lombardiano fu utilizzato nella scuola sia per formare un italiano fiero e conscio della propria tradizione sia per formare il piccolo balilla allineato nelle organizzazioni del regime. non andava vista soltanto contro la fede cristiana e la chiesa e neppure poteva identificarsi nel primato della cultura scientifica secondo l’accezione positivista del termine. La scuola laica era quella in cui la coesistenza di idee e visioni della vita diverse si congiungeva senza pretendere alcun privilegio, era quella nella quale gli insegnanti dovevano essere assolutamente liberi nell’esercizio della loro missione, dei loro eventuali errori di metodo, delle loro eventuali intolleranze dogmatiche ecc. 4. La tesi dei liberisti neokantiani In occasione del congresso napoletano Gentile non si scontrò soltanto contro coloro che promuovevano una libertà scolastica gestita totalmente dallo Stato ma anche contro coloro che, in modo più “liberale”, si schieravano a favore di una minore ingerenza scolastica dello stato. Gli apporti più significativi, a sostegno di quest’ultimo punto di vista, giunsero dal neokantiano Alfredo Piazzi secondo il quale era giunto il momento di assegnare maggiore libertà ed autonomia agli insegnanti e di non considerarli meri esecutori di un programma scolastico già interamente definito e che le scuole non governative (come le scuole private) fossero cresciute ad immagine e somiglianza di quelle governative. Anche Vidari, riconoscendo pari legittimità tra scuola privata e pubblica, riconosceva, inoltre, la possibilità di un sistema d’istruzione non egemonizzato dalle scuole dello stato. Tornando al tema centrale del congresso, il dibattito aperto sulla laicità della scuola consentì a Gentile di chiarire tutti gli aspetti del problema della libertà scolastica: 1. il primo riguardava il principio della libera concorrenza tra le scuole 2. il secondo si riferiva all’esercizio della libertà dell’insegnante posta come architrave della vita scolastica 3. il terzo sanciva il superamento del contrasto tra autorità del maestro e libertà del discepolo nell’unità dello spirito. 5. La libertà di insegnamento secondo “La Civiltà Cattolica” L’approccio di Gentile manifestava, dunque, alcune significative novità rispetto alle tendenze prevalenti della cultura laica del tempo. Il filosofo esprimeva in particolare il valore formativo della religione, incluso l’insegnamento religioso scolastico almeno a livello primario e riconosceva che la scuola nazionale non poteva essere identificata solo con la scuola dello stato. Gli ambienti cattolici di maggior spicco di quegli anni non considerarono, tuttavia, subito Gentile come un interlocutore affidabile. Secondo la rivista dei gesuiti (“la civiltà cattolica”) la religione andava posta come base del carattere morale e di conseguenza nessuna morale laica era comparabile con la forza educativa che sprigionava la dottrina cristiana. Era proprio quanto Gentile aveva sostenuto nei suoi interventi. Ma per spiegare il non considerare affidabile il punto di vista gentiliano, bisogna ricordare che gli ambienti cattolici erano spesso condizionati da preclusioni che portavano ad escludere quanto non si presentasse come esplicitamente religioso e, inoltre, il filosofo siciliano era un intellettuale di minoranza, noto, ma con una visibilità ancora assai modesta sul piano pubblico. La chiesa, nell’avversare la laicità scolastica, non poteva accettare una libertà scolastica indiscriminata perché soltanto essa, in quanto depositaria della verità, aveva il diritto di dirigere e vigilare l’insegnamento. In seguito alla crisi di fine secolo e al “disordine morale” divenne più marcato l’argomento della forza regolatrice dei valori educativi cristiani. L’educazione religiosa e le scuole cattoliche potevano concorrere ad assicurare quell’armonia sociale che sembrava andare smarrita. Nei primi anni del 900 lo stato moderno e laico ha in sé i germi del disordine e non ha quindi i titoli per educare; l’educazione non è compito dello stato, ma spetta alle famiglie, e quella scolastica va intesa come il prolungamento di quella domestica, e poiché le famiglie sono in maggioranza cattoliche l’unica educazione coerente è quella a forte impronta religiosa. Lo stato veramente liberale avrebbe dovuto lasciare piena libertà di organizzazione alle famiglie riconoscendone il diritto educativo a ricorrere all’insegnamento delle scuole private (riconoscendo la loro funzione sociale). Di fronte ai rischi a cui andava incontro la gioventù studiosa stava l’obbligo per i cattolici di reagire con tutti i mezzi a disposizione perché l’educazione si svolgesse entro un contesto religioso e nel rispetto delle scelte educative delle famiglie. Il vescovo Tedeschi chiamava perciò a raccolta le diversi componenti della società del tempo, (i padri di famiglia, gli insegnanti, gli uomini pubblici, i liberi cittadini, la stampa), per un’offensiva educativa a vari livelli: - fondazione di scuole libere, private, parrocchiali - compilazione di testi, libri di lettura e tutto il necessario per la scuola - istituzione di oratori, ricreatori e doposcuola L’analisi di Tedeschi esprimeva la volontà di non rinchiudersi entro l’orizzonte della semplice protesta ma di agire con e per la scuola. A questo parziale cambiamento di toni non erano estranee le riflessioni scolastiche nel frattempo avviate nell’Unione Popolare Cattolica Italiana nel 1906 allo scopo di dare unitarietà alla presenza sociale dei cattolici. 6. Le proposte dei cattolici democratici Intorno alla libertà di insegnamento si soffermarono anche gli ambienti della Lega Democratica Nazionale (sorta a Bologna nel 1905 per iniziativa di Romolo Murri) e, in particolare, l’esponente che più di ogni altro si occupò di questioni educative e scolastiche e cioè Tommaso Gallarati Scotti. Alla base delle sue analisi troviamo criteri ispiratori come - la distinzione fra società religiosa e società politica - il principio della libertà religiosa - l’accettazione della dimensione laica dello stato - l’esigenza che lo stato fosse rispettoso della cultura religiosa come di ogni altra forma di cultura Da queste premesse si evince come, tanto il rischio di un monopolio statale quanto il rischio della neutralità della scuola erano giudicati ugualmente negativi: - in primo perché concepiva la scuola come una roccaforte da cui dominare l’avvenire e assicurare stabilità al partito - il secondo perché a furia di eliminazioni, per rispetto delle dottrine di tutti, si riduceva la scuola ad uno scheletro vuoto e senza alcun senso Gallarati Scotti rivendica e difende l’insegnamento della religione nella scuola elementare e pone al centro del discorso la richiesta della libertà di insegnamento. Non si trattava di rivendicare uno spazio funzionale alla chiesa in contrapposizione alle scuole dello stato, ma di orientare l’intero sistema d’istruzione verso il principio di piena libertà. Nel difendere tale principio, sostiene Scotti, che la chiesa, stimolata dalla libera concorrenza, sarebbe stata sollecitata a rinnovare le proprie tradizioni di studio e di insegnamento e che le scuole dello stato, per competere con le iniziative dei privati, si sarebbero riformate perfezionandosi (attraverso varie attività intellettuali e fornendo ottime garanzie scientifiche e morali). 7. L’Unione Pro Schola Libera di Torino e il congresso di Genova dell’Unione Popolare Tra la fine del 1907 e i primi mesi del 1908 accaddero due altri avvenimenti destinati ad avere il loro pero nelle vicende successive. Il primo fu la creazione nel 1907, a Torino, dell’Unione Pro Schola Libera e il secondo fu lo svolgimento a Genova, nel 1908, del primo congresso cattolico e la costituzione dell’Unione Popolare. Tale congresso ebbe una lunga e complessa elaborazione dovuta al proposito di fare unità tra le molteplici espressioni del mondo cattolico. Temi predominanti furono sia l’insegnamento religioso nella scuola elementare sia la questione della libertà di insegnamento. Lo stesso programma del congresso, del resto, prevedeva una lettura della realtà scolastica su più piani che affiancavano le tue tematiche principali: 1. le possibili azioni integrative della scuola per assicurare un’educazione cristiana e le strategie da mettere in campo per contrastare il crescente statalismo 2. la sensibilizzazione dei padri di famiglia sulla loro responsabilità educativa Una significativa parte dei congressisti era consapevole che la presenza o meno dell’insegnamento religioso non esauriva la complessità dell’educazione scolastica e quindi occorreva avviare iniziative concrete. Questi propositi dovevano tuttavia tenere conto di una scarsa penetrazione dei dibattiti interni alla scuola e della diffusa tendenza a spostare il discorso sulla questione sociale e sulla presenza dei cattolici nella vita politica. Quindi per il momento sembrò prudente avanzare richieste abbastanza limitate per assicurare miglioramenti sul breve periodo. Fu così che si decise di affidare all’Unione Pro Schola Libera, con i suoi principali promotori Giuseppe Allievo e Giuseppe Piovano, di studiare ed attuare quei mezzi pratici per salvare quanto ancora restava della libertà di insegnamento e quindi di limitare l’invadenza dello stato in campo scolastico. Per Allievo il diritto educativo spettava in primo luogo alle famiglie in quanto titolari di un diritto naturale ma poiché l’educazione si svolge in un preciso contesto storico e sociale occorreva riconoscere una funzione educativa anche alla nazione, nella quale era raccolta la storia del popolo. La nazione era cosi rappresentata come espressione di valori e sentimenti radicati non in una determinata concezione politica, bensì nell’intreccio di valori laici e religiosi intesi come ugualmente necessari per la civilizzazione verso una scuola nazionale. Ugualmente di rilievo fu anche il punto di vista del sacerdote e docente Giuseppe Piovano che condivideva la visione della scuola nazionale di Allievo ma introducendo argomenti nuovi. Poiché l’Italia non si poteva dire una società cattolica e la situazione politica non consentiva relazioni ideali tra stato e chiesa era irrealistico, secondo il suo punto di vista, pensare di poter tornare a un effettivo esercizio del diritto educativo alla chiesa. La situazione della società italiana era cosi ingarbugliata da non poter continuare con la contrapposizione tra scuola confessionale e scuola neutra. L’unico modo per soddisfare una realtà multiforme e La riflessione del filosofo siciliano perse le caratteristiche dell’analisi accademica e si fece pedagogia politica. Il rinnovamento dell’Italia cominciò ad essere posto nella coincidenza tra l’esperienza spirituale dell’educazione e il luogo storico della rinascita nazionale, la scuola come fondamentale veicolo di educazione nazionale. Da qui, l’unità spirituale creata dalla guerra era la linfa per far rivivere l’appartenenza nazionale; bisognava sopprimere l’uomo rinchiuso nei suoi interessi particolari e incapace di rinunciare al proprio egoismo e fare degli ideali nazionali il faro della vita sociale. Tornata la pace questo compito era assegnato alla scuola. All’educazione della guerra si doveva sostituire l’educazione della scuola. La ricostruzione della scuola diventa il perno della rinascita nazionale e un motivo centrale nella riflessione etico-politica gentiliana. La nozione di spirito, fino a quel momento considerata principalmente in rapporto allo svolgimento soggettivo e alla maturazione dell’autocoscienza filosofica personale, incrociò la proposta politica. Consapevolezza personale e partecipazione a un ideale erano le ragioni alla base della funzione nazionale della scuola. Il tema della nazione, della sua identità, dell’educazione ai valori espressi dalla tradizione nazionale e rappresentati attraverso voci del Risorgimento, come Gioberti e Mazzini, divenne il centro dell’analisi gentiliana. Di Mazzini Gentile sottolineava la concezione della Nazione come un dovere da compiere, un futuro da creare, un’occasione di esercitare l’infinita libertà dello spirito per rivivere la tradizione; con la figura di Dio insita nel processo storico e morale a garanzia di una politica sottratta a qualsiasi particolarismo. La nazione gentiliana non si identifica tuttavia in toto con quella mazziniana la quale perseguiva l’obiettivo della creazione di una fede religiosa laica e l’affratellamento delle genti. Per Gioberti il Risorgimento doveva invece immettersi nella tradizione cattolica in quanto bisognosa di essere purificata e inoltre niente era possibile se non era innestato in un processo storico. Nell’intrecciare il duplice insegnamento di Gioberti e Mazzini, Gentile poneva due fondamentali tasselli della sua concezione nazionale: 1. l’idea spirituale di nazione, dove non bastano alcuni elementi fisici, geografici e storici comuni per identificare una nazione. Il fattore decisivo è la volontà di un popolo consapevole di voler essere una nazione. La nazione non è perciò una realtà preesistente ma un’esperienza da costruire e questa concezione di nazione viene minata da materialismo e utilitarismo (in grado di disciplinare ma non di educare un popolo). 2. il Risorgimento come evento di lunga durata, concezione maturata intorno alla riscoperta di una tradizione dimenticata dove si auspicava ad una società nuova e ad un uomo nuovo. L’idea è quella di riprendere l’Italia dei combattenti e portare a compimento gli ideali del Risorgimento dove la guerra è vissuta per il senso del dovere e per la fede nella patria. 4. Come reinterpretare la tradizione La filosofia di Gentile viene definita attualismo/idealismo attuale (dove l’unica realtà è l’atto puro ossia il pensiero e precisamente l’atto dell’uomo che pensa, autocoscienza) e si basa sull’assunto che il Risorgimento non è solo un momento della storia ma è la storia nella quale quotidianamente l’uomo realizza sé stesso. Non si concepire l’uomo al di fuori di una tradizione (storicamente presente) perché è la tradizione stessa a fornirgli la ragione del suo esistere (dalla storia e dalla tradizione lo spirito trae lo stimolo ad acquisire coscienza di sé e via viva una coscienza sempre più profonda). Non c’è da sapere senza inserzione nella storia perché ogni sapere è radicato nella realtà dove esso si esprime. Il principio di nazionalità è sinonimo di storicità e l’esperienza umana si svolge nella storia mediante il continuo manifestarsi di nuove forme ideali emergenti dalla realtà. Le ragioni essenziali della vita spirituale dei popoli sono deposte nella lingua e nella memoria. Perché la scuola sia educatrice il patrimonio culturale non va trasmesso come un sapere preconfezionato ma come un’esperienza vitale, lo spirito individuale si eleva attraverso la lezione del passato nel confronto con il presente. Il che significa scoprire che l’io autentico non è mai l’io individuale, ma sempre e solo quello collettivo condiviso. Gentile elabora quindi una proposta pedagogica centrata sulla trasmissione culturale e sulla formazione di persone capaci di rielaborarla continuamente e di renderla interattiva e non solo da conservare ma da sviluppare. 5. Nazione, patriottismo, nazionalismo Intorno alla questione educativa nazionale si affollarono varie proposte e i primi ad affacciarsi furono: - Vincenzo Cento il quale, intrecciando nazionalità e identità culturale, sosteneva che la coesione nazionale dipendeva dalla consapevolezza e partecipazione a una storia culturale identitaria comune. - Vidari che rilanciava la sua proposta di pedagogia patriottica compatibile con il pacifismo, la democrazia e la libertà. - Combattentisti, secondo i quali la trincea era stata una formidabile educatrice di uomini. A questa realtà guardò, ad esempio, il mondo del combattentismo. La guerra aveva rappresentato un terribile sforzo collettivo dove i valori sprigionati dal conflitto dovevano sconfiggere gli antichi mali italiani e far prevalere l’Italia dei combattenti contro l’Italia dei rinunciatari. Se combattentismo e Gentile convergevano nel riconoscere il valore pedagogico della guerra diverse erano invece le conseguenze sul piano dell’analisi politica. I combattenti italiani non erano stati spinti né dell’odio né dal desiderio di gloria ma dal nobile senso del dovere e dell’amor di patria, pronti anche a riconoscere i diritti degli altri popoli. Aveva inoltre fatto sperimentare nuove idealità come la fraternità solidale e un futuro di pace. Secondo gli ex combattenti quei sentimenti e queste esperienze erano la base per una nuova Italia e un rinnovato ruolo del popolo. Educativa e promotrice di idealità non era stata solo la trincea. Nelle città come nei piccoli borghi la guerra aveva fatto scoprire forme di partecipazione al conflitto mediante iniziative assistenziali e di sostegno ai combattenti. Secondo molti studiosi, fra cui Lombardo Radice, la guerra non era che la continuazione della vita di un popolo povero, buono, ingenuo e lavoratore che si rivede nella concezione di patria costituita non solo da tradizione e memoria ma anche da fraternità, aiuto reciproco aiuto e vita comunitaria. A questa visione, di un popolo pacifista, Gentile sosteneva che se non di al popolo una fede/ideali a cui credere sarebbero prevalsi gli interessi individualisti su quelli collettivi. Bisognava abbassarsi al livello delle masse contadine e aiutarle a coltivare degli ideali e stili di vita che, nutriti dalle tradizioni, oltrepassassero gli orizzonti ristretti del villaggio o piccoli borghi. La lezione della guerra aveva indicato che questo compito di guida spettava a quella borghesia che doveva farsi maestra e cioè svolgere attraverso la scuola opere di assistenza sociale e pedagogica. Nonostante una parziale diversa lettura all’analisi di Gentile, Lombardo Radice conveniva con lui che solo la formazione spiritualizzata poteva garantire il radicamento dei valori nazionali nelle coscienze personali. Differenza di vedute si registrò tra Gentile e gli ambienti dell’arditismo e del futurismo. All’indomani della fine della guerra gli arditi si organizzarono oltre che per ragioni pratiche anche per esprimere una visione della realtà ispirata al culto degli ideali bellici e al principio che solo le minoranze audaci erano capaci di vivere in modo autentico. La guerra era stata una rivoluzione interna all’Italia e tale rivoluzione non poteva spegnersi, la fiamma andava tenuta accesa. A differenza delle masse senza ideali e in cerca di tranquillità individuale, le minoranze ardite erano disposte a battersi per una nazione più forte, più rispettata e più armata. L’educazione dei giovani, per gli arditi, poteva fare a meno della scuola o di gran parte di essa; occorreva, invece, privilegiare la diretta conoscenza di un mestiere, allenare il corpo con lo sport, esercitare la forza fisica e ed essere sprezzanti del pericolo. Gli arditi passarono dai propositi all’iniziativa diretta, nei primi anni 20 aprirono alcune vere e proprie scuole destinate ai giovani tra i 15 e i 20 anni. Allo studio sui libri fu preferito l’esercizio pratico basato su una forte disciplina e una coraggiosa assunzione delle responsabilità personali. Le scuole di arditismo rappresentarono una delle principali basi di reclutamento delle squadre d’azione del fascismo più violento. Arditi e futuristi perseguivano una visione pedagogica, alternativa a quella dell’attualismo gentiliano, dove negavano il valore della tradizione vista come un fardello, opponendovi il fascino della modernizzazione, e concepivano il patriottismo risorgimentale come una stagione ormai esaurita, esaltando la nazione eroica più che la nazione capace di adattarsi alle circostanze storiche. Tutto ciò era distante anni luce dal compito che, secondo Gentile, doveva svolgere la scuola. Il principio educativo gentiliano era lontano anche dai propositi nazional-imperialisti secondo i quali la nazione aveva bisogno, per essere forte, che lo stato garantisse coesione e ordine (fino anche a ridimensionare la libertà). Questi obiettivi richiedeva un’educazione all’etica del sacrificio, rispetto della gerarchia, alla disciplina inflessibile e al culto della nazione vista come una divinità. Tutto ciò poteva essere ottenuto solo attraverso il diretto impegno dello stato ad educare le masse per renderle pronte ad immolarsi nelle eventuali guerre e toccava alla scuola contrastare ogni forma di pacifismo sentimentale. 6. Il cenacolo gentiliano: Lombardo Radice e Codignola La fede in una nuova Italia risorta dal tumulto della guerra unita a un’idea di scuola posta a servizio della nazione trasformarono Gentile da intellettuale accademico ad autorevole figura pubblica. Nell’immediato dopoguerra Gentile pensava fosse possibile l’azione politica attraverso un’azione indiretta (articoli e saggi, contatti personali) in quanto sia egli stesso che i suoi sostenitori erano convinti che la battaglia delle idee passasse attraverso libri e riviste. Come Gentile anche Lombardo Radice cercò una solida sponda editoriale per coltivale il proprio progetto scolastico. E non meno intensa fu l’avventura editoriale di Ernesto Codignola, di origini liguri, ma fu soprattutto dopo la guerra che la sua figura assunse maggior peso. Codignola auspicava: 1. il superamento del monopolio statale razionalità empirica e sperimentale siano impiegati anche per trovare quelle risposte che rientrano nell’ambito della filosofia. La cultura scientifica non ha dunque i requisiti per garantire la formazione dell’uomo e la scuola ha perciò il compito soltanto di preparare alla scienza che potrà essere praticata solo in un secondo tempo, quando la personalità sarà sufficientemente consolidata. Il giudizio gentiliano sulla scienza e sul lavoro scientifico è profondamente condizionato non solo dal contrasto con il positivismo ma dall’intento di eliminarlo dalla cultura comune e dalla scuola. Il piano educativo nazionale di Gentile non si rinchiuse all’interno dei programmi di insegnamento ma ambì anche a creare uno stile di vita scolastica. Ne sono documenti gli interventi del ministro e le iniziative promosse nelle scuole per celebrare la solennità della patria e il ricordo dei caduti. Gentile si dichiarava convinto che la scuola dovesse rispondere all’aspettativa dei giovani in cerca di una vita vissuta con la stessa sincerità, con la stessa serietà, con la stessa religione con cui la vita si viveva nelle trincee. Punti forti degli interventi di Gentile ministro furono il valore della disciplina e l’importanza degli studi, sosteneva anche che una nazione non sarà mai tale se i suoi cittadini non sapranno rispettare la legge, riconoscersi nell’ordine e obbedire all’autorità superiore. In questo scenario, la scuola è descritta come luogo religioso dove si celebra il rito dell’educazione e dell’iniziazione culturale. Essa è alimentata oltre che dai valori trasmessi dalla tradizione culturale, dal sacrificio di chi ha dato la sua vita per la patria; e a tale scopo Gentile mobilitò ogni risorsa per fare della scuola una palestra di italianità. L’esaltazione della guerra ci appare oggi una vistosa contraddizione con la visione romantica e innocente dell’infanzia di Lombardo Radice, egli stesso reduce dai campi di battaglia, nei quali aveva perso due fratelli, attribuiva all’esperienza della guerra un significato non solo morale ma addirittura pedagogico. Tra il bambino con l’elmetto e il bambino scolaro alla scoperta gioiosa del mondo c’era tuttavia minore distanza di quanto si può pensare. La guerra era infatti entrata a vele spiegate nel privato infantile in tanti modi in quanto ogni famiglia aveva pagato in vario modo il suo tributo alla guerra. 10. Dall’educazione nazionale all’educazione fascista Mussolini si schierò a fianco di Gentile ma i punti di resistenza alla riforma erano svariati: - rapporto tra scuola statale e scuola privata in quanto molti fascisti ritenevano che non si potesse parlare di educazione nazionale senza rafforzare il ruolo scolastico dello stato e quindi soltanto la scuola dello stato aveva titolo di rappresentare i valori su cui lo stesso stato si reggeva. Per gentile e il suo ideale di nazione era invece il principio di natura religioso che doveva ispirare l’agire educativo ovunque esso si svolgesse e a questo disegno si potevano associare anche gli istituti privati che compivano bene il loro compito educativo, in quanto anche su di essi incombeva l’obbligo di formare bravi cittadini. L’esame di stato era lo strumento giuridico attraverso cui, da un lato, le scuole private testimoniavano la loro subordinazione all’autorità dello steso e, dall’altro, si tendeva la mano ai cattolici per un’educazione nazionale più inclusiva. A tutto ciò si affiancava l’esigenza di smaltire il sistema scolastico statale, scaricando sulle scuole private una parte di popolazione studentesca in costante crescita; cosi da disporre di buone scuole con docenti selezionatissimi. - il fascismo non era soltanto gerarchia e ordine sociale, era altresì espressione di quella piccola borghesia e dei ceti popolari emergenti che ambivano per i figli una promozione sociale attraverso la scuola e quindi con l’esame di stato, previsto dalla riforma, per selezionare i migliori si rischiava di minare tali aspettative. - malcontento anche tra le classi della media e alta borghesia perché la maggiore severità scolastica rendeva più difficile l’accesso all’università. - fascisti che non tolleravano l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari. Mussolini non poteva tollerare che i dissapori indebolissero l’azione di Gentile e quindi continuò ad appoggiarlo schierandosi nettamente a favore dei provvedimenti previsti dalla riforma. Ma ben presto, la decisione di fascistizzare la scuola, inquadrandola nel movimento di Mussoli, dispose la riforma in un contesto diverso da quella da cui era maturata. In quest’ottica il fascismo era visto in funzione pedagogica e gli si affida il compito educativo di salvare la tradizione, interpretando il fascismo come compimento del Risorgimento. Era dunque, su questa linea di continuità storica che andava plasmata la coscienza sociale, educando il popolo a superare le divisioni, a partecipare attivamente alle sorti della nazione e a sentirsi italiani e fascisti. Per i gentiliani, quindi, il fascismo rappresentare una splendida occasione per “rifare gli italiani” mobilitandoli in nome di alti ideali integrando a pieno educazione nazionale con educazione fascista. Codignola aveva un punto di vista diverso, più politico che filosofico, ed il punto di non ritorno con Lombardo Radice coincise con la diversa reazione all’assassinio di Matteotti. Lombardo Radice accompagnò lo sdegno con la denuncia degli errori politici del fascismo che avevano gettato nell’incertezza più grave il paese e facevano rischiare alla scuola di essere assalita dalla passione del parteggiare. Codignola giudicò invece il delitto Matteotti un semplice incidente di percorso distinguendo tra la natura buona del fascismo e gli eccessi intemperanti e riprovevoli di alcune frazioni minoritarie. I destini dei due pedagogisti, che erano stati vicini a Gentile durante la riforma, si sarebbero ulteriormente divaricati negli anni successivi. In quanto, Codignola scelse di proseguire la milizia nel fascismo per proteggere la riforma (il fascismo non avrebbe dovuto snaturarla) mentre Lombardo Radice preferì lasciare la politica e tornare all’insegnamento universitario. CAPITOLO SETTIMO La pedagogia laico-democratica tra riforma Gentile e fascismo 1. Una rivista contro “gli strilloni dell’idealismo chiacchierone” Tra la riforma scolastica del 1923 e la costituzione del fascismo in regime la “Rivista Pedagogica” rappresentò il principale punto di riferimento per gli esponenti della cultura pedagogica democratica avversi all’idealismo attualistico. La vera anima della rivista fu Luigi Credaro che restava tenacemente convinto che la scuola disegnata da Gentile non poteva risolvere il principale problema educativo dell’Italia e cioè rispondere ai bisogni della vita sociale e sostenere lo sviluppo produttivo. Grave errore, poi, era stato pianificare la riforma come una netta rottura con quanto era stato fatto nell’anteguerra e non concepirla come l’ulteriore tappa di un processo evolutivo in corso. La rivista credariana costituì una voce importante di dissenso e agì anche sul mondo dei maestri. In un primo momento la redazione mostrò una certa disponibilità a qualche compromesso che tuttavia i neoidealisti rifiutarono e col trascorrere del tempo il giudizio della rivista si fece sempre più severo e nel 1923 l’opposizione alla riforma gentiliana divenne radicale. Quando, infine, il ministro Pietro Fedele avviò una politica di “ritocchi” sembrò giunto il momento tanto atteso ma le speranze di Credaro si rivelarono semplici illusioni; poiché Fedele non solo conservò l’impianto della riforma di Gentile, limitandosi ad apportare qualche ritocco, ma unì in forme sempre più nelle la politica scolastica al regime. 2. L’impossibile dialogo con Gentile È risaputo che di fronte alle proteste che accompagnarono la riforma l’atteggiamento di Gentile fu improntato ad assoluta intransigenza e questo provocò malcontento portando all’idea, verso la fine del 1923, di un’eventuale sostituzione di Gentile. A difendere la riforma fu Benedetto Croce. Quanto a Credaro si era distinto per l’apertura di un dialogo con i cattolici e si dichiarava convinto che ne dal dottrinarismo ne dalla dialettica, ma dallo studio sperimentale, metodico e critico dei fatti educativi si sarebbe giunti alla scienza pedagogica. La posizione di Credaro, per quanto cauta, è in ogni caso molto chiara: non era possibile alcun accordo con la pedagogia neoidealista. Pur in mancanza di un dibattito nel merito della riforma, Credaro cercò un dialogo con Gentile e avanzò proposte concrete, ponendosi due specifici obiettivi: 1. l’esigenza di una preparazione pratica e non solo umanistica per i maestri 2. la necessità di un corso di studi secondario a orientamento moderno basato sull’insegnamento delle lingue e delle scienze. Ma l’intransigenza gentiliana è radicale: ogni ipotesi che comporti qualche compromesso è considerata un tradimento della riforma stessa. A sostegno delle proprie tesi Credaro prospettava la necessità di dare un carattere speciale alla preparazione del maestro, rinvigorendo le scuole di tirocinio e sosteneva, inoltre, che la valorizzazione della cultura classica, nel ginnasio-liceo tradizionale, andava affiancata da un altro corso di studio liceale che facesse larga parte alle lingue ed alle letterature straniere, alla conoscenza della vita e del pensiero contemporaneo. Credaro esprimeva perciò il proprio Accanto al tema della scuola elementare la “Rivista Pedagogica” individuò un secondo caposaldo da colpire ossia l’esame di stato. Fu ancora Mariano Maresca a denunciare quelle che, a suo avviso, erano le contraddizioni dell’esame di stato. L’esigenza di porre alla pari i candidati delle scuole statali e quelli delle scuole private e l’istituzione di commissioni di giudici esterni compromettevano la libertà dell’insegnamento con un risultato che era giudicato esattamente l’opposto di quello dichiarato dai neoidealisti. I programmi d’esame categorici, orientativi e precisi rivelavano infatti la volontà di piegare la scuola italiana, tesi basata anche sulla sua esperienza da esaminatore, ma le proposte di revisione (di Maresca) all’esame di stato erano tuttavia segnate da una forte inattualità rispetto all’andamento del dibattito del tempo. Maresca proponeva, per risolvere il problema dell’istruzione non statale, di dar credito alle scuole private parificandole alle pubbliche. Si trattava di proposte che, più avanti, avrebbero avuto un loro sbocco con il ministro Bottai, ma che nel 1924 apparivano dettate più dall’intento polemico che da una reale possibilità di far breccia nella compattezza dell’impostazione data all’esame di stato e Maresca proponeva di sopprimere ogni forma di esame. 6. Le critiche (deboli) dei maestri Negli anni precedenti la salita al ministero di Giovanni Gentile nella scuola elementare non si era verificato alcun fenomeno, era stato specialmente Lombardo Radice a seminare un’immagine di infanzia e un modello di scuola elementare alternativo alla pedagogia herbertiana, mentre Codignola aveva disegnato un nuovo profilo del maestro, dai tratti più culturali che professionali. Soltanto nel 1922 piccoli e combattivi gruppi di maestri fascisti cominciarono ad organizzarsi con l’obiettivo di stroncare le vecchie associazioni degli insegnanti ed i loro propositi erano essenzialmente 3 (con la speranza di avere l’appoggio di Mussolini): 1. portare a buon fine alcune istanze da tempo attese come la riforma delle pensioni e le nuove tabelle degli stipendi 2. incentivare la resistenza all’introduzione dell’insegnamento religioso 3. promuovere la riforma della scuola normale Non secondarie furono le intimidazioni che giungevano direttamente dal ministero. Dopo alcuni incontri con i rappresentanti dei maestri all’indomani del suo insediamento Gentile assunse una drastica distanza dalle associazioni dei docenti verso cui nutriva forte diffidenza. Secondo il ministro Gentile esse erano portatrici di interessi particolari e incapaci di avere una visione globale del problema scolastico. Non esitò, inoltre, tramite una circolare a procedere per vie disciplinari i maestri che utilizzavano la stampa per attaccare il sistema scolastico. Anche se Mussolini non aveva subito dato corso al decreto sulla stampa, la prospettiva che la circolare diventasse un decreto esecutivo introdusse nel mondo dei giornali un clima di grande insicurezza e i giornalisti scelsero spesso la comoda strada dell’autocensura. Tra la fine del 1924 e gli inizi del 1925 apparvero sempre più evidenti due fenomeni: 1. il sostanziale accostamento delle maggiori testate al fascismo 2. l’irreversibile crisi dell’associazionismo democratico che portò con sé anche la fine di gran parte di quella pubblicistica locale che fino a quel momento era stata espressione della vitalità del mondo scolastico italiano. La conseguenza fu dunque il ripiegamento e, in seguito, l’affiancamento filofascista sempre più esplicito delle testate maggiori. 7. La nomina del ministro Fedele e l’illusione di “tornare all’antico” Nel 1925 fu chiamato come ministro Pietro Fedele personalità, non gradita a Gentile, scelta da Mussolini per contenere l’egemonia gentiliana sulla scuola. Noto era il suo atteggiamento critico verso la riforma ed egli era considerato l’uomo adatto per modificarla. Codignola avvertiva il nuovo ministro a non azzardarsi ad intraprendere una politica scolastica opposta a quella fatta, Credaro lo invitava invece a trarre il dovuto insegnamento dalle vicende della riforma e a provvedere a rivederne alcuni aspetti. Il dibattito fu segnato dalla critica rivolta da numerosi senatori a diversi aspetti della riforma e dal contemporaneo invito al nuovo ministro di procedere nel più breve tempo possibile ad alcuni ritocchi. Credaro sostenne un vero e proprio contraltare rispetto a Gentile e propose l’ipotesi di far risorgere, migliore e modificare con l’estensione ai docenti delle scuole secondarie, le preesistenti scuola pedagogiche universitarie per i maestri. Il ministro Fedele si dimostrò interessato al progetto, dichiarandosi pubblicamente favorevole. Si trattava di un segnale concreto che lasciava intravedere la volontà di intervenire nel merito della riforma. Ma i fatti che seguirono ben presto ridimensionarono le aspettative di Credaro. Le poche iniziative intraprese rappresentarono una revisione di tipo essenzialmente tecnico e la riforma Gentile continuò a costituire il sistema di coordinate, al cui interno si delineava la politica scolastica del regime. Nel frattempo i provvedimenti conseguiti alla scolta autoritaria nel 1925 messi in campo spostarono il dibattito sulla riforma in secondo piano di fronte al repentino mutare delle regole del quadro politico. Leggi come quelle sul giuramento di fedeltà dei pubblici dipendenti e sul controllo dello stato sulle associazioni pubbliche, la progressiva riduzione della libertà di stampa furono altrettanti segnali che il fascismo intendeva rinunciare ad ogni parvenza di pluralismo per fondare uno stato autoritario. La questione di maggior rilievo di fronte alla dichiarata volontà del fascismo di esigere, come disse Mussolini, che la scuola educhi la gioventù italiana a comprendere il fascismo ed a vivere nel clima eroico creato dalla rivoluzione fascista, divenne quella dei rapporti tra scuola e politica con lacerazioni profonde all’interno del gruppo gentiliano. In quel periodo anche Credaro prendeva atto della fine delle speranze e la sua rivista si rinchiudeva in un orizzonte strettamente accademico-culturale senza più inoltrarsi nel delicato e ormai quasi proibitivo terreno politico. Due anni più tardi il percorso di allineamento era definitivamente concluso con un atto di incondizionato omaggio al fascismo. Ad esso era riconosciuto il merito di essere riuscito a dare alla scuola primaria un più ampio respiro, ai maestri maggior dignità di vita, di cultura e il gran bene di una serena vecchiaia con la riforma del monte pensione. Lo scontro sulla riforma si chiudeva per la “Rivista Pedagogica” e per il mondo scolastico laico democratico con un bilancio negativo: le diverse strategie messe in campo tra il 1923 e il 1925 (il tentativo di un dialogo con Gentile, le aspre critiche alla scuola elementare e all’esame di stato ecc) si esaurirono e con la fine del 1925 la “Rivista Pedagogica” divenne una voce appartata, di cauto dissento e molti silenzi, attraverso la quale Credaro si sforzò di tenere unite le forze della pedagogia non idealista, individuando in Giovanni Calò colui che avrebbe potuto raccoglierne l’eredità. Di lì in poi molti avevano rinunciato a combattere, incalzati da un pesante clima non solo culturale, ma anche politico, che guardava con sospetto chi praticava altre strade. Ridotta a un piccolo gruppo di studiosi attento a non infastidire il regime, la “Rivista Pedagogica” continuò ad uscire fino al 1939 anno della sua chiusura. La successiva ripresa della pedagogia fu lenta e faticosa e soltanto all’indomani della seconda guerra mondiale, nel clima della ricostruzione della società repubblicana, essa avrebbe infatti ripreso il cammino interrotto, su percorsi tuttavia diversi (in special modo con l’insegnamento di Dewey e della sua scuola).
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