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L'ellisse giuridica, Cedam, Padova, 2011, Appunti di Teologia

Diritto pubblicoDiritto internazionaleFilosofia del DirittoDiritto privato

Riassunto dettagliato del libro "l'ellisse giuridica" per sostenere l'esame di Teologia Morale; idoneo alla sostituzione del libro di testo.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 24/04/2022

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veronica-liuzzi 🇮🇹

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Scarica L'ellisse giuridica, Cedam, Padova, 2011 e più Appunti in PDF di Teologia solo su Docsity! Il mondo e il metodo di san Tommaso D’Aquino È necessario contestualizzazione San Tommaso: qual è la portata delle opere di Aristotele e della diffusione delle loro traduzioni in Occidente in un mondo dominato dall’agostinismo e dal neoplatonismo? = “ondata di cultura profana, agnostica, tendenzialmente irreligiosa”, quindi una cultura laica. Per questo motivo l’operazione culturale compiuta da san Tommaso è moderna. Con l’apporto di Aristotele, la filosofia (cioè la cultura) si presenta con un contenuto sistematico indipendente dal cristianesimo o inserito in un mondo non cristiano /il sistema aristotelico mostra che è possibile proporre una visione complessiva e organica delle leggi fisiche e metafisiche del mondo prescindendo completamente dai contenuti della rivelazione e dal tradizionale pensiero cristiano /lo stesso universo aristotelico appariva inconciliabile con la concezione cristiana del mondo: non vi era nessuna creazione, un mondo eterno, abbandonato al determinismo, senza che un Dio ne conosca le contingenze, un uomo legato alla materia e la cui perfezione morale rimane aliena ai valori religiosi(al contrario del neoplatonismo). Nonostante ciò, verso il 1224 Albero Magno commenta i libri naturales di Aristotele / Ruggero Bacone tiene delle domande su di essi. La chiesa dopo qualche incertezza accoglie in pieno questa nuova cultura quando nel 1263 papa Urbano IV commissiona a Guglielmo Moerbeke e a Tommaso una traduzione e commento di Aristotele. Per quanto riguarda la riflessione sul diritto con l’irruzione dell’aristotelismo cambia la stessa angolatura della prospettazione dei problemi: il Medioevo volgeva al Tramonto e la ragione si poteva volgere a considerare la natura e il mondo come realtà buone in sé e non come una allegoria / cambiano le metodologie didattiche: dall’insegnamento nelle scuole cattedrali e capitolari si passa all’insegnamento universitario, basato sulla quaestio, sulla tensione logica tra i contrasti, alla struttura del chiostro subentra quella della giostra. Nell’ambito della filosofia del diritto, l’apporto della riflessione aristotelica svellerà la concezione medievale del diritto come di un male necessario, stante la malvagità degli uomini, per frenare la quale il principe impugnava come giusto ministro la spada e verrà invece concepito “naturalmente bontà del diritto e dell’organizzazione politica. “ Passiamo così da una concezione sacrale e provvidenziale del potere (in quanto ogni potere proveniva da Dio) ad una concezione più disincantata. Tommaso, al contrario dei suoi contemporanei, ha una concezione dualistica circa i rapporti tra Chiesa e Società. Tommaso D’Aquino intuì che la laicità del sapere era l’unico modo per prepararsi a contrastare il laicismo1. Il testo di San Tommaso “dottore comune”: 1. Commenti 2. Summae theologiae e summa contra gentes (quest’ultima contro i pagani). summa theologiae = ci sono 2 problemi:  Come tradurre il termine summa?  Perché proprio di teologia, visto che ci occupiamo di filosofia del diritto? 1 Atteggiamento che propugna la completa indipendenza e autonomia dello stato nei confronti di qualsiasi confessione religiosa. 1 Si dice spesso che la Summa sia una sorta di enciclopedia (medievale), un’esposizione sistematica dello scibile umano del tempo limitato cioè ad un settore (es. Summa codicis di Azzone). In questo senso designa un genere letterario che godrà di una certa fortuna fino al Cinquecento, declinando poi progressivamente fino alla sua definitiva scomparsa. La summa sarà sostituita alla fine del 700 con l’enciclopedia:  Enciclopedia: esposizione sistematica dello scibile SENZA un principio unificante ossia la fede cattolica / è l’inizio di un sapere parcellizzato o frammentato di una cultura intesa come insieme di saperi autonomi che diverranno estranei e non comunicanti nel tempo  La summa è un’espressione di sapienza e non solo di scienza; è simile ad un’enciclopedia perché espone un sapere globale ma ne è al tempo stesso completamente differente = si richiede ad essa solamente un principio unificatore, e non di Dio in sé o della fede cattolica: infatti ci sono opere che possono essere considerate summae di pensiero di qualcuno / ma più radicalmente solo la fede in Dio creatore giustifica l’esistenza di questo tipo di pensiero, perché il termine creazione dice la relazione immediata di Dio con tutte le sue creature = la summa dunque risponde ad una domanda sapienziale od esistenziale (perché è nata la terra?), e non ad una domanda di ordine fisico o scientifico. Poi è venuta meno quindi la possibilità stessa della summa, perché la scienza ha preso il posto della religione, una Nuova genesi senza dio (Hobbes, Rosseau) e perfino un nuovo Decalogo e cioè i diritti dell’uomo. Perché è una Summa di Teologia e non una summa di filosofia del diritto? Se è una summa di teologia perché si occupa di una questione così umana? In effetti per un medievale le scienze non sono autonome, ma hanno senso se inserite nell’alveo di un sapere unificante che è la teologia, la conoscenza delle cose di Dio. La summa si presenta come un’opera nella quale si intende esporre le cose che riguardano la religione cristiana per l’istruzione di coloro che si avviano agli studi, per quelli che sono nuovi ad essi, che possono essere disorientati dal moltiplicarsi delle questioni inutili (dice Tommaso). Infatti questo accade perché sono esposte senza un vero ordine, ma a caso, sia perché la loro ripetizione genera fastidio in coloro che ascoltano. Quindi la summa vuole esporre brevemente e chiaramente la sacra dottrina. In questa enciclopedia tutto è trattato in relazione a Dio. Poiché quindi lo scopro principale della sacra dottrina è far conoscere Dio, e non solo in se stesso, ma anche in quanto principio e fine delle cose, e in particolare della creatura ragionevole: 1. Prima parte summa: Dio 2. Seconda parte summa: movimento della creatura razionale verso di lui 3. Terza parte summa: Cristo, che in quanto uomo, è per noi via per tendere a Dio. Trattato sulle leggi (fine prima parte): siamo all’inizio del movimento di ritorno a Dio = la creatura razionale, l’uomo, si rapporta a Dio, suo creatore, indirizzando a Lui le sue operazioni e le sue attività. Esse rappresentano i passi mediante i quali gli uomini si volgono al proprio fine, che è insieme beatitudine e perfezione. Tommaso ci appare come maestro di filosofia ancorato alla fede, eppure assolutamente razionale. In questo mondo, la dimensione soprannaturale appare il prolungamento della base naturale dell’uomo e l’individualità è la premessa del suo essere sociale. In questo senso, l’uomo cristificato, elevato cioè alla vita divina per mezzo dei sacramenti, è il medesimo uomo naturale.  Prima parte della seconda parte della Summa: che esamina le virtù cardinali e morali dell’uomo…sfocia 2 fare. Bisogna chiarire il significato del termine ius, così sarà chiarito anche il termine iuris prudentia e iuris dictio. Che cos’è lo ius? La cosa più sbagliata che potremmo intendere è pensare che lo ius equivalga al nostro diritto soggettivo. La nozione di diritto soggettivo, infatti, è tipicamente moderna: “potere attribuito alla volontà del soggetto e garantito dall’ordinamento giuridico, di agire per conseguire il soddisfacimento dei propri interessi, cioè qualcosa di pienamente soggettivo, un predicato del soggetto di diritto, tutelato da un ordinamento giuridico, che trova nella volontà del legislatore la propria unica fonte. “ Nell’esperienza giuridica antica e medievale, lo ius è un’altra cosa: “oggetto della giustizia” cioè la cosa dovuta ad altri, poiché la virtù di giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo.” Dicendo ciò non abbiamo esaurito la totalità del fenomeno giuridico, ma ne abbiamo colto un aspetto determinante e significativo, almeno nel confronto con le moderne legislazioni = per San Tommaso il centro del mondo giuridico è una cosa, una certa oggettiva ripartizione dei beni, e non la volontà del legislatore, fonte del moderno diritto soggettivo, né la volontà del soggetto stesso, avallata e quasi consacrata dalla legge. Dunque lo ius non è un potere, ma qualcosa di oggettivo “ciò che è giusto, la parte giusta, il bene di cui si gode in conformità ad un ordine naturale di cui la legge positiva è completamento ed esplicitazione”, in una parola “il suo di ognuno”. Ritroviamo nel giuridico, l’impostazione del pensiero di Tommaso = l’oggettività, realismo come dell’esperienza giuridica medievale felicemente qualificata come reicentrismo o corporeità giuridica = il diritto non è il prodotto di una volontà arbitraria dell’uomo, ma è nelle cose, nei fatti stessi osservati che poi l’uomo concorrerà a creare attraverso la legge. Il contrario di questo ordine naturale è l’ordine antropocentrico, tutto impegnato nel culto dell’individuo = l’ordinamento giuridico è concepito come il prodotto di incrostazioni o sedimentazioni umane su di un nucleo centrale che ne prescinde. Ricapitolando: quando il termine ius è stato tradotto come diritto e questo è stato inteso nel senso di diritto soggettivo, si è proiettato nel mondo giuridico medievale, un concetto ad esso estraneo, non rispettandone la sostanziale differenza. Diritto soggettivo ci rinvia alla caratteristica propria dell’ordinamento giuridico moderno, l’essere cioè emanato dallo Stato, da un legislatore onnipotente, che con un atto di volontà politica attribuisce ai consociati quei diritti soggettivi che a loro spettano: al di là di quanto lo stato attribuisce con un atto creatore, non c’è altro. In questi nuovi sistemi giuridici troviamo al centro il soggetto (l’alias, l’individuo) concepito come persona libera e cosciente, rafforzato ideologicamente dalla posizione logica nella struttura del sistema intorno a lui costruito; tutti i problemi della capacità risolti in altrettanti “attributi” necessari alla sostanza del soggetto. Nel mondo medievale, quello romano, nel diritto di common law, e almeno in parte in quello canonico non è così: il diritto risulta legato alla società (non allo stato) e nasce dalla comune osservanza (non dall’obbedienza). Naturalmente anche in queste esperienze giuridiche esiste la dimensione normativo legale che promana da un potere pubblico ma il suo significato è diverso, in quanto è l’elaborazione di regole che trovano la fonte della propria giuridicità in un altrove rispetto alla volontà dell’uomo. 5 Esempio: nel medioevo non esisteva un unico diritto soggettivo di proprietà (come quella che verrà prevista dall’art. 544 del codice napoleonico: diritto di godere e disporre delle cose in modo più assoluto) ma una pluralità di situazioni possessorie o reali. così, ad esempio, se una comunità o un singolo avevano da secoli uno ius di pascolo o di far passare le greggi nel feudo di un conto, questi non poteva privarli di tale diritto recintando il terreno = né il conte né la comunità erano proprietari come noi intendiamo oggi, ma ognuno traeva dal bene in questione una qualche utilità. Così c’era un dominio diretto (conosceva limiti precisi ed era tutt’altro che assoluto) e un dominio utile = la res è al centro dell’esperienza giuridica, in quanto è su di essa che questa viene plasmata = perciò l’abbiamo qualificata come reicentrismo. Delle cose non si poteva fare ciò che si voleva, ma al contrario da esse promanava un certo vincolo, un ordine che richiedeva di essere tradotto e rispettato, non violentato. La rivoluzione industriale cambierà il rapporto tra uomo e mondo inteso come natura / la riflessione filosofica (da Bacone a Cartesio) costituirà un sapere in vista del dominio dell’uomo sulle cose. Cosa significherà questo nel mondo giuridico? Il passaggio dal mondo reicentrico, a quello antropocentrico, dalla primazia della natura (intesa come oggettività delle cose) a quella della volontà espressa nel diritto soggettivo, dal primato dello ius all’esclusività della legge. Al centro non c’è più la cosa, ma la volontà sovrana del legislatore onnipotente: il diritto cade dall’alto e al reicentrismo si sostituisce l’idealismo (la volontà come misura ideale delle cose). Nasce cioè l’idea di una legge generale e astratta che calando dall’alto, imbriglia le cose e i rapporti umani, in una statuizione promanante dal legislatore, e non dalle cose stesse. Dunque il ius si specifica come ipsa res iusta o id quod iustum est = esso è costituito oggettivamente: 1. del lavorio della ragione umana ed è un rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose 2. a prescindere da essa c’è un ordine giusto e un altro che non lo è Questa ripartizione dei beni del mondo è giusta in quanto traduce i principi della giustizia commutativa e distributiva già enucleati da Aristotele. Per rimanere nel campo del diritto privato: Giustizia commutativa: ogni spesa deve essere compensata, cioè appunto giustificata, da un rientro nel patrimonio del disponente di un bene o un servizio: questo significa che, se escono 1000 dal mio portafoglio, è necessario che rientrino comunque nel mio patrimonio in quanto costituiscono la prestazione, il servizio o la cosa pagata. In questo senso, il rapporto matematico cioè oggettivo tra ciò che ho dato e ciò che ho ricevuto, sarà l’uno numerico, ossia l’uguaglianza tra dato e avuto, in modo che chi ha acquistato non abbia subito un’ingiustificata perdita e chi ha venduto non abbia ottenuto più del venduto. Questa visione è la ratio degli istituti ancora vigenti dell’indebito arricchimento, detto come “arricchimento senza causa” della disciplina sugli interessi, il cui tasso è ammesso solo nella misura in cui compensi lo svantaggio della giacenza del denaro, del risarcimento del danno extracontrattuale, in quanto in questo caso abbiamo una diminuzione del patrimonio non giustificata da un vantaggio che deve essere appunto compensata. Ius è dunque un oggetto, che è il termine unificante e specificante di relazioni tra due persone rese così correlative, l’una avente un’attesa, l’altra un compito = questo aggiustamento ovvero equilibrio costituiscono i gangli linfatici nei quali cola assumendo forma concreta la giustizia commutativa ovvero distributiva. 6 Ius però non si dà solamente nell’ambito dei rapporti di diritto privato, ma anche in quelli di diritto pubblico, ossia nei rapporti tra il singolo e la città, campo attuale del dominio del diritto costituzionale. Bisogna osservare che, un’applicazione estremamente attuale del discorso tomista sta nell’osservare che la Costituzione è diritto, non legge. Anzi la scommessa del costituzionalismo sta nella capacità della costituzione posta come lex di diventare ius. La costituzione è il diritto / è lo ius di cui la legge ordinaria sarà un’estensione e un’applicazione  infatti la legge non può avere fondamento in un’altra legge, perché questo significherebbe solo spostare il problema e moltiplicarlo all’infinito, ma in un altrove che per noi è precisamente il ius. La nostra epoca vede la rinascita dell’antica tensione tra ius e lex e che il ius si manifesta attraverso le norme costituzionali indeterminate = questo diritto materiale trova oggi espressione nella Costituzione, la quale, è un insieme di principi che operano rinvii e ricezioni ad un diritto materiale pre-positivo, appunto un giusto, che è quindi la migliore traduzione di ius = l’uguaglianza, libertà costituzionali, doveri di solidarietà esprimono quella che si dovrebbe chiamare, con il lessico aristotelico e tomista, giustizia distributiva, che riguarda cioè distribuzione tra consociati delle modalità della partecipazione alla vita della Repubblica come soggetti di diritto / in questo senso, la giustizia distributiva moderna non riguarda solo la partecipazione alle cariche pubbliche, come nel pensiero antico e medievale, ma si pone in una dimensione più radicale, toccando quelli che sono chiamati diritti e doveri fondamentali che derivano precisamente dalla nostra concezione dell’uomo e del suo rapporto con la collettività e lo Stato. Per questo Tommaso afferma che la forma generale della giustizia è l’uguaglianza in cui convergono la giustizia commutativa e distrubutiva, e che compito propria della giustizia, e quindi del ius che ne è oggetto, è promuovere l’uguaglianza, e una volta ottenuta non corromperla. La dichiarazione di Indipendenza (1776) proclama che lo ius viene prima della legge, in senso temporale, rinviando al tempo pre-storico della Creazione, e anche in senso ontologico, in quanto questi diritti sono proclamati inalienabili e perciò fondanti. Il porre la legge si appoggia su credenze fondanti che non fanno parte della legge stessa = in tal senso le leggi sono paragonabili ad una ragnatela = quindi la legge per reggersi ha bisogno di punti forza sui quali appoggiarsi che non appartengono alla ragnatela ma la sorreggono e si appoggiano ad altro, come ad esempio il muro dove sta la ragnatela. Ci dono dunque delle pareti esterne alla ragnatela:  Convinzioni diffuse di giustizia in una società  Fattori pre politici e pregiuridici  I punti di forza della ragnatela che non ne costituiscono la tela ma la sostengono = nella metafora fanno parte già dell’ordinamento giuridico, ma non ne costituiscono la parte propriamente legale o legislativa, essendo piuttosto la dimensione propriamente giuridica. Infine, c’è il tessuto della ragnatela: le leggi positive, il dipanarsi delle prescrizioni normative, sostenute da quel che ci sembra giusto, in quanto risponde a convinzioni culturali previe e diffuse. In questo senso è vero che il diritto deve essere sentito come giusto, pena la sua disapplicazione pratica, la quale, già secondo Kelsen ne determinerebbe l’invalidità formale: il che sembra deporre la tesi che dipende dalla comune osservanza, non dalla semplice obbedienza = esso è cioè ordinamento, ordine delle cose percepito come tale e non ordine nel senso di comando: ne deriva che sua fonte è la società (non lo stato apparato)  Infatti lo stato sta sotto al diritto (non sotto la 7 impedendoci di vedere le cose come stanno: verità non significa solo concatenazione logica dei ragionamenti. Dobbiamo accettare che i fatti si verifichino ma anche falsifichino, le nostre spiegazioni dei fatti, senza forzarli in esse e senza squalificare ciò che le nostre teorie non sono in grado di spiegare. Il ius ha il compito di verificare e falsificare quei nostri ragionamenti del tutto particolari che sono le leggi, mostrandone il vero e mascherandone il falso: infatti le cose sono causa e misura della nostra conoscenza. Fonti del ius Quindi il ius è qualcosa di oggettivo (non soggettivo), qualcosa che appartiene alla realtà (non al soggetto) che si costituisce intorno ad un nucleo che è l’uguaglianza, anima della giustizia commutativa e distributiva, fulcro sul quale entrambe si appoggiano. Ma lo ius da dove trae la sua forma concreta? 1. Natura (ad esempio uno presta qualcosa e si aspetta di riceverla senza cambiamenti): si chiama diritto naturale = giusto naturale 2. Una cosa può essere commisurata od adeguata ad un altro in base ad un accordo o di una legge comune, e cioè quando uno dice che sarà soddisfatto di ricevere quel tanto. Il che può avvenire in due modi:  Mediante un accordo privato (come succede con le cose stabilite per contratto tra 2 persone private)  Mediante un accordo pubblico (come succede quando tutto il popolo ritiene che una data cosa sia da ritenersi adeguata e proporzionata ad una persona ovvero quando questo è ordinato dal principe, al quale spetta la cura del popolo): questo si chiama diritto positivo = giusto legale Ma è necessaria un’altra specificazione: La giustizia naturale è la prima e digrada in quella determinata dalla legge pubblica o dal contratto. La dicotomia tra giusto naturale e giusto legale assume la forma del iustum simpliciter e del iustum secundum quid. Iustum secundum quid dice Tommaso ci è fornito dalla legge. E ci insegna che il giusto delle leggi umane è un giusto relativamente parlando “secundum quid” o “in un certo senso” ma non è confondibile con il giusto assoluto cioè simpliciter che possiamo tradurre con “assolutamente parlando”. Questo significa che le leggi dovrebbero essere una misura del bene ma non la misura tout court di esso, e cioè la giusta misura. Ogni legge, come ordine della ragione, è costituita per tutelare un determinato bene: Hobbes riconduce la nascita della società civile ad un trust in vista della tutela della vita fisica di fronte alla prospettiva della guerra oppure locke disegna il suo schema politico-giuridico in funzione della garanzia della proprietà privata = la vita e la proprietà sono certo dei beni reali, ma non sono confondibili con il bene assoluto. Lo stesso si dà nell’esperienza giuridica-politica: nella giustizia distributiva ad una persona viene dato del bene comune tanto quanto è maggiore la sua importanza nella comunità. Questa importanza in una comunità aristocratica è determinata dalla virtù, in un’oligarchia in base alle ricchezze, e in una demagogia in base alla libertà. Per questo nella giustizia distributiva il giusto mezzo è determinato dalla proporzionalità delle cose alle persone (non dall’equivalenza di una 10 cosa con un’altra) = ne deriva che, se una persona è superiore ad un’altra, le cose che le vengono date sono superiori a quelle date ad un’altra. Ecco perché Aristotele dice che tale giusto mezzo è dato secondo la proporzionalità geometrica in cui l’equivalenza non è basata sulla quantità ma sulla proporzione. Infatti ,dei bona secundum quid (nobiltà per nascita, ricchezze ovvero la libertà) possono diventare fattori in funzione dei quali modellare un particolare regime politico, ma non si possono identificare con la comunità, che è al di là del regime e prima di esso, il cui ben vivere si identifica con quel bonum simpliciter, fonte e misura di quei beni che di volta in volta possiamo scegliere di perseguire. L’assunzione incondizionata di questi beni a misura di tutti gli altri costituisce la matrice dell’ideologia ed è una prospettiva falsamente esaustiva del reale. Sappiamo infatti che la ragione non è misura delle cose, ma piuttosto il contrario. Qui si riprende lo stesso procedimento della quaestio: perché una tesi prevale ideologicamente sulle altre, ma è accolta in quanto resiste, e fintanto che resiste alla confutazione della sua contraddizione? La verità si rivela matrice del bene comune, fine proprio della legge che guida le operazioni e le singole scelte dell’uomo. La verità e il bene comune infatti sono oltre le singole tesi proposte o singoli beni preferibili, tematizzandone e quindi problematizzandone l’accoglimento. Al tempo stesso le singole tesi non sono confuse con la verità assoluta e i singoli beni non sono scambiati con il bene assoluto, così viene negata l’assolutizzazione dell’esperienza (e cioè che l’esperienza storica e concreta di darsi tante verità e di tanti beni costituisca essa stessa la risposta a quale sia la verità assoluta o il bene assoluto). Giusta misura è il bonum simpliciter che emerge dal ius / il bonum secundum quid è colto solo tramite una considerazione particolare di essa, propria del metodo scientifico, ipotetico- deduttivo, la ragione calcolante e operativa propria della lex. In questo senso, la ricerca giuridica medievale e romana e nel mondo anglosassone e quella canonica ricerca il suum proprio di ognuno non in base alla legge (questo metodo si impernia sulla validità formale, sulla procedura), ma nel concreto e reale fluire dell’esperienza, nei rapporti materiali di credito-debito, nel gioco di dare-avere espresso dall’equilibrio dell’uguaglianza (privilegia l’effettività). Per Aristotele e Tommaso esistono due tipi o modelli di conoscenza, con proprie precipue leggi strutturali e caratteristiche peculiari (sono paralleli ma di verso contrario): 1. Sapere speculativo o teorico, il cui modello è costituito dalla geometria, che procede da assiomi o principi degni di fede e che si svolge in modo deduttivo e sillogistico o more geometrico 2. Sapere pratico come appunto quello giuridico per il quale la causa o principio primo è costituito dal fine verso il quale procede. Aver compreso il fenomeno giuridico nell’ambito del sapere speculativo e non in quello pratico ha determinato la sua trasformazione da prudentia iuris (cioè creazione giurisprudenziale e dottrinale) a lex (schema generale ed astratto, proiezione della volontà del legislatore, premessa maggiore del sillogismo giuridico). Il ius si deve specificare nella lex, secondo Tommaso, ma non viceversa = così, collegando continuamente questi fuochi, si disegna lo spazio dell’esperienza giuridica. E questo non è un ragionamento astratto, ma spiegazione di quel che è accaduto nella storia giuridica occidentale. 11 È evidente, infatti, che nella tradizione di civil law, il progressivo estendersi della legislazione e la costruzione dello Stato come potere centrale ha determinato l’esautoramento della consuetudine (ruolo marginale) e della giurisprudenza (soggezione del giudice al solo dettato normativo) come fonti del diritto. L’invenzione napoleonica della Corte di Cassazione mirava al disegno politico di riportare l’operato dei giudici alla totale sottomissione alla legge, mentre la previsione della consuetudine solo secundum lege e l’abolizione della desuetudine. Con la creazione delle costituzioni il ius ha iniziato a riprendere il ruolo prima perduto e i giudici costituzionali hanno riguadagnato un ruolo creativo prima negato: il che non avrebbe potuto essere, senza quella norma fondamentale e sovraordinata, dunque, senza quel diritto a cui ogni legge deve essere ricondotta. Intermezzo sul diritto e biodiritto Rapporto tra lex e ius La trattazione sul diritto e sulla giustizia fonda l’analisi tomista della legge, sebbene questa sia svolta prima:  La legge è principio esterno dell’agire e orienta l’uomo verso il bene, ossia le beatitudine, e quindi verso Dio stesso  Nell’ordine della trattazione seguito da san tommaso, il ius segue la legge, il che è come dire che obbedendo alla legge, se questa è veramente tale, ci si dispone alla virtù di giustizia, poiché si opera ciò che è giusto.  D’altra parte, nell’ordine dell’agire cioè nel sapere pratico (quale quello giuridico), il fine è la vera causa di tutto: poiché la legge attua il giusto, e nella misura in cui lo attua, essa è vera legge e deve essere obbedita. La trattazione sulla legge segue quella sul peccato = l’uomo incomincia ad uscire da questo stato di alienazione, che tutti sperimentiamo, rimettendosi sul cammino giusto, come indicato dalla legge, e questo lo farà incamminare nella via della grazia, facendogli conseguire in seguito i doni soprannaturali infusi cioè le virtù teologali e le virtù cardinali, tra le quali appunto la giustizia. Tommaso ha una visione realista dell’uomo: non pessimista, come se egli fosse del tutto incapace di pensare o compiere il bene, ma concreta, consapevole cioè che il peccato ottunde non solo la volontà ma anche l’intelligenza. Perciò l’uomo inizia a disporsi al bene obbedendo e obbedendo giungerà alla vera giustizia, che non si risolve tuttavia nella semplice obbedienza. Quindi trattare la legge prima e poi il fondamento (nonostante noi avremmo fatto il contrario) ha un senso molto profondo: così dall’esperienza empirica della legge, che è a noi immediatamente data e quasi per prima, giungiamo alla giustizia che ne è la causa o il fondamento e al giusto che ne è oggetto. Così la metafisica, cioè i fatti che stanno dietro l’attualità delle cose, si dà dopo la fisica, l’esperienza empirica del reale. Quindi è dal ius che si giunge alla lex: la legge non fonda il diritto, ma il contrario / il diritto non appartiene alla volontà ma all’ordine delle cose. In questo senso esso non è una pretesa, ma qualcos’altro. 12 Dopo Auschwitz, il suo significato è stato piegato: esso non dice più in chiave personalistica attenzione ai più deboli, ma in un contesto individualistico-proprietario esprime il principio di libera disposizione del proprio corpo. Quindi dallo Stato totalitario che faceva al cittadino ciò che voleva al cittadino-consumatore che con la stessa pretesa totalitaria vuole che lo Stato faccia quel che lui vuole. Ma in tal modo il principio del libero consenso “da clausola di salvaguardia della persona umana” diventa lo strumento di contrattualizzazione tra paziente e medico. “diritto” a disporre del proprio corpo Spesso la libertà di disporre del proprio corpo viene invocata come motivo giuridicamente sufficiente a legittimare la pretesa di disporre della propria vita fisica, se ci si troverà in situazioni invivibili per il sopraggiungere di minorità fisiche o mentali si possa rifiutare l’accanimento terapeutico, ma le stesse cure mediche, fino a giungere al rifiuto della stessa alimentazione che non è oggettivamente cura. La logica che presiede a questo tipo di attesa o pretesa è una logica di tipo liberale: lo stato deve limitarsi a garantire l’esercizio della libertà di scelta del singolo, quella appunto di disporre di se stesso, del proprio corpo. Va però osservato che il concetto di “atti di disposizione” nasce nell’ambito del diritto privato, e si riferisce di per sé a beni materiali e commerciabili: esso dice il potere di privarsene ed attribuirne ad altri, il perno dell’autonomia in senso economico. In questo senso l’art. 832 del c.c definisce la proprietà come diritto di godere della cosa in modo pieno ed esclusivo, ma il diritto amministrativo conosce alcuni beni indisponibili, perché legati ad interessi non privati, quali quelli del demanio o delle cose di interesse storico ed artistico. L’autonomia privata nasce nell’ambito dell’avere, mentre le biotecnologie toccano l’essere della persona: la vita, la generazione, la morte, la nascita, non sono beni separabili dalla persona ma indissolubilmente legati ad essa. Il consenso informato, le decisioni nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, le dichiarazioni anticipate sul trattamento da seguirsi e lo stesso “testamento biologico” sono esempi di atti giuridici che NON riguardano un oggetto, ma la stessa persona del dichiarante. Tutto questo nuovo dispiegarsi dell’autonomia deve essere di volta in volta valutato in relazione alle singole pretese o attese alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, anche privatistico, nel contesto della Costituzione, sapendo che esiste giuridicamente anche l’indisponibile, che non si risolve in un inutile condizionamento della libertà. Non per nulla l’art. 5 del c.c vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume / l’art. 2 Costituzione parla di diritti inviolabili della persona, e dunque persino irrinunciabili dall’interessato. E a maggior ragione su terzi (altrimenti avremmo una persona oggetto) / né può essere invocata la presunta volontà di questo terzo: perché la propria persona non è abdicabile da nessuno e quindi perché, anche accettando l’equiparazione tra atti di disposizione di beni materiali e atti di disposizione del proprio corpo, è comunque impossibile equiparare giuridicamente il consenso attuale, specifico, univoco e informato a quello virtuale, che non può essere generico, equivoco e disinformato rispetto ad un quadro non ancora compiuto di eventi. Creazione stupenda del diritto è invece il concetto di soggetto giuridico, che non coincide con quello di persona che è invece concetto filosofico né con quello di individuo, più empirico ma che 15 dice la coincidenza tra l’uno e l’altro, per cui ogni individuo è soggetto di diritto e al tempo stesso è soggetto di diritto perché persona = ogni individuo che appartiene alla specie umana è un soggetto di diritto e della sua soggettività giuridica non può disporre neanche lui perché non è un bene giuridicamente disponibile cioè non è un bene economico. Prospettive filosofiche L’ordinamento vigente si oppone alla logica proprietario e individualistica che sta alla base di molte pretese e attese (impedendo di poterle qualificare come diritti soggettivi) possiamo osservare alcune aporie insite in tali prospettive: il diritto non è una tecnica come le altre = è una tecnica di umanizzazione della tecnica = il suo riferirsi immediatamente all’uomo come soggetto dell’ordinamento, gli conferisce uno statuto epistemologico completamente diverso dalle tecniche, le quali si rapportano invece a degli oggetti / il soggetto ha in se stesso il proprio significato / qualsiasi oggetto al contrario non ha significato e questo gli è impresso solamente dalla tecnica / qualsiasi manufatto porta l’impronta del suo artefice che imprime alla materia scopi e forme che prima non aveva / l’utilità della tecnica: costruire un mondo più vivibile / più vivibile per l’uomo che è soggetto di quel mondo, soggetto che ha in sé il proprio significato e senso / l’uomo non si autocrea perché si trova già così come è / l’uomo vola attraverso la tecnica  è una modificazione del mondo esterno a lui, non di lui stesso, è un prolungamento del suo dominio che non tocca la sua realtà antropologica. La funzione del diritto è quella di istituire un mondo nel quale la soggettività giuridica non sia negata, cioè non vengano violate le caratteristiche antropologiche proprie dell’uomo, ossia la libertà e l’uguaglianza nella comune dignità. Così come è proibitivo per motivi giuridici l’omicidio, così è proibito per motivi giuridici qualsiasi uso della tecnica che costituisca ad altri soggetti decisioni altrui, consegnandoli di fatto a situazioni di minorità. La soggettività e la libertà vengono prima dell’istituzione del soggetto stato. Il diritto è il presupposto della libertà. Con questi ragionamenti si Cerca di dimostrare che la ratio e la tecnica interagiscono con l’intellectus, e come queste due legittime forme del nostro conoscere concrescano in un continuo divenire che è la storia stessa del diritto come continuamente plasmata dal rinvio di lex e ius. In questo senso è necessario problematizzare continuamente i nostri ragionamenti, in riferimento alla realtà esterna ed obiettiva, che ci appare sempre oltre il nostro ragionare. Così io posso pensare una legge positiva che mi permetta di sopprimere un feto e le tecniche operative me lo permetteranno. I miei ragionamenti avranno anche potuto essere coerenti con i miei assiomi culturali di partenza, per esempio “deve essere la donna a decidere”: ma non saranno veri, perché contraddicono la verità delle cose. Ecco perché l’aborto potrà essere legale, ma è radicalmente antigiuridico, dunque inevitabilmente violento, perché è contraddittorio. Questo metodo ci può indicare un altro modo per affrontare i problemi bioetici, che toccano la nostra stessa realtà antropologica; in questo senso, potremmo capire la radicale antigiuridicità di ogni proposta volta a legalizzare l’eutanasia / come ritenere giuridica la fecondazione all’interno di una coppia omosessuale? Qui l’antigiuridicità è data del fatto l’Io del bambino necessita di una doppia figura genitoriale, e non di una coppia mimetica come quella omosessuale, per costituire la propria sessualità a partire da un padre e da una madre / un figlio che viene violentato nella propria affettività quando i genitori lo lasciano separandosi o come si ricostruire la vita con altri 16 compagni? Il figlio potrà, fino a quando non diventa maturo, pensare solo di essere stato amato meno dal nuovo partner e quindi essere un peso per la loro libertà. Come si fa a crescere e a sentirsi figli quando non si è trattati come figli ma come persone piccole per le quali la famiglia è solo un’impresa di forniture e di servizi. Ma la famiglia non è solo questo, e i bambini si sono visti togliere il diritto ad essere bambini. Se il bisogno più radicale di ogni uomo e donna è quello di amare ed essere amato, è vero che noi amiamo solo se e quando abbiamo fatto esperienza di essere amati per primi da qualcun altro. Insomma, la lezione tomista sulla differenza e relazione tra ius e lex ci insegna a concepire il diritto non in termini astratti, ma concreti. Così i diritti dell’uomo vanno declinati in una pluralità di significati, perché non esiste solo l’uomo, ma anche la donna, il bambino: la società è più ricca di un agglomerato di individui. Il diritto tra tecnica e arte Rapporti tra diritto e tecnica sono stati oggetto di varie interpretazioni. Alcuni filosofi come Marx, Comte, Saint-Simon sono giunti a teorizzare la fine del diritto e il suo trasformarsi in tecnica (ovvero come la chiamavano amministrazione): ciò ha comportato un modello di Stato demiurgo, nel quale al popolo si è sostituita la “massa”, il diritto era concepito semplicemente in funzione della politica, attuava praticamente la politica / la politica veniva esemplata sull’economia. Questo è quello che è accaduto nel passato, il cui nucleo teorico è l’assimilazione completa del diritto ad una tecnica sociale, fermo restando che l’economia domina i fini dell’agire pubblico  in quest’ottica, il diritto ormai confuso in maniera semplicistica con la sua dimensione legislativa, è semplice “ancella” della tecnologia. Oggi analoga possibilità sussiste nel campo delle biotecnologie, ancora il diritto è ancella della tecnologia; ma non è più in funzione dell’economia, bensì la scienza (medica) è il criterio in funzione del quale concepire l’uomo: posso operare sulle cellule staminali, possiamo scegliere il nostro sesso, possiamo scegliere se e quando e come far nascere e morire. I sostenitori di queste tesi possono essere chiamati “radicali” in senso storico-filosofico, radicalizzando essi le premesse individualistiche della nostra società civile. L’io è il valore destinato ad espandersi senza limiti, un valore assoluto, sciolto da ogni vincolo: dall’antico princeps legibus solutus al moderno consumatore. Specificità della tecnica giuridica: il diritto è una tecnica di umanizzazione della tecnica, non è una tecnica come le altre = è uno strumento di domino sul mondo, caratterizzato dalla sua operatività ed è volto a costruire il mondo umano, sottraendolo all’arbitrio e alla violenza del più forte, proprio come qualunque tecnica è volta a sottrarre il mondo naturale alla violenza potente della natura. Il legale tra il diritto e la tecnica è dato dal principio di causalità : va notato che le tecniche si esprimono in un linguaggio convenzionale (l’algebra), così le legislazioni sono state concepite come delle geometrie legali, nelle quali da alcuni principi si sviluppano more geometrico necessarie conclusioni. Basti pensare alle norme del codice napoleonico sul contratto, sulla proprietà privata, sulla responsabilità civile: 3 colonne dell’intero impianto privatistico ottocentesco. In Francia partì una giurisprudenza e poi una legislazione che superò i limiti della prestazione d’opera nella quale il lavoro era considerato semplice merce di scambio tra il prestatore ed il committente ed iniziò quell’evoluzione che portò alla nascita del diritto del lavoro. 17  Il mito del Codice breve, comprensibile a tutti, ha caratterizzato tutti i tentativi di codificazione che hanno segnato l’illuminismo, fino a culminare con la grande redazione napoleonica e alla seguente Scuola dell’esegesi che si limitava a chiarire il significato delle disposizioni del codice, applicandole supinamente = in questa prospettiva, l’interpretazione del diritto diviene solo parafrasi e la dottrina dei giuristi è completamente subordinata al potere politico che promulga i testi e l’Università diviene non più il luogo dell’elaborazione di un sapere critico, ma fabbrica di funzionari. Questa concezione è comoda perché elimina il bisogno di pensare, ritenendo che il legislatore abbia già pensato sufficientemente + evita anche un reale coinvolgimento del giurista con il caso, ossia con le persone che gli stanno davanti e che gli chiedono giustizia, in quanto il caso viene ridotto ad una semplice fattispecie: una situazione reale ma priva di significato  riceverà significato dalle disposizioni che saranno applicate ma fino a quel momento è neutra e non ha valore giuridico. Il diritto è come uno stampino e l’ordinamento giuridico è solo una riserva di moltissimi stampini, e compito del buon giurista è semplicemente quello di prendere lo stampino giusto. Naturalmente le cose non sono così: la complessità odierna della vita del diritto, l’accavallarsi di fonti di produzione normativa e anche di giurisdizioni, la presenza efficace delle Corti Costituzionali mostra ancora di più la necessità di un approccio intelligente alla complessità delle cose = il diritto quindi appare sempre più non tanto come uno stampino che riproduce la propria immagine, cioè l’immagine che del diritto ha voluto il potere politico, ma piuttosto come attenzione all’irrepetibilità, alla peculiarità dell’evento da normare  il diritto si rivela quindi come giurisprudenza cioè ricerca di volta in volta della soluzione adatta portata alla luce, e non come legge, soluzione generale ed astratta, data una volta per tutte. Questa situazione non è prodotta solo dall’evoluzione delle fonti (norme infra-statuali, super- statuali o addirittura private) ma deriva anche da una nuova consapevolezza ermeneutica e cioè che i diritti dell’uomo, precipitati nelle Costituzioni e nelle dichiarazioni, debbano trovare un’effettiva tutela e questo avviene con un’attenzione “volta per volta”, non limitandosi a valutare i casi in serie. Il giurista compie un’opera d’arte nel senso più vero, poiché come la creazione artistica è unica ed irrepetibile, così avviene nella creazione-applicazione del diritto al caso concreto. Un altro motivo che denota il parallelismo tra diritto ed arte è costituito dal fatto che entrambe sono rappresentazioni ossia delle raffigurazioni dell’esistenza umana. Un quadro o una statua rappresentano un “soggetto” ma non sono il soggetto stesso, allo stesso modo il diritto rappresenta un teatro giuridico dei soggetti, attribuendo loro alcune particolari situazioni giuridiche, tutelandoli in determinate aspettative ovvero prescrivendo certi comportamenti. Possiamo fare due esempi: Persona giuridica non è una persona fisica reale e concreta ma qualcosa di distinto e separato da essa; il diritto non solo rappresenta una realtà, ma rappresentandola, la costruisce, indipendentemente dall’esistenza fisica o meno di questa: possiamo dire che il diritto, dicendola o nominandola, la crea. Persone fisiche in quanto soggetti di diritto: il soggetto di diritto non esiste in natura o nelle cose stesse = esso è una vera e propria costruzione culturale, una rappresentazione del mondo in determinate condizioni. Appartiene alla sfera del dover essere, non a quella dell’essere. Il fatto che noi pensiamo di essere uguali davanti alla legge tutti non è un prodotto dalla natura (che al contrario crea differenze imperiose) ma dalla cultura occidentale. 20 Questi due esempi mostrano che il diritto è simile all’arte: rappresenta la realtà, ma non è la realtà. Interpreta la legge o la realtà secondo categorie proprie. Il problema consiste nel fatto che un dipinto presenta un’immagine e persuade che quella sia tout court l’immagine della realtà = il diritto che è rappresentazione confina pericolosamente con la menzogna: suo incantesimo è quello di porsi come portatore del vero e del bene che gli attribuiamo come connaturato (appare come un testo incantato), ma che dobbiamo sempre verificare che lo sia: e cioè che la legge sia al servizio dell’uomo o no. La prospettiva nel diritto È chiaro che ogni ordinamento giuridico positivo compie una scelta che appartiene al momento più politico del diritto: così una legge ordinaria, un codice o una Costituzione, legge la realtà sussumendola sotto una particolare angolazione, quella cioè in base alla quale certi valori e non altri sono percepiti come degni di maggior tutela rispetto ad altri. Il diritto si presenta come una certa misura del bene sociale e quindi individuale: suo incantesimo è quello di far ritenere che questa angolatura sia l’unica, quando invece esse stessa appartiene a scelte assolutamente sindacabili. Il vero problema della filosofia del diritto sarà di verificare se quella misura del bene sia la giusta misura, cioè se e fino a che punto tali valori siano trascurati. In altri termini, il diritto dipinge la realtà come se fosse in quei termini, ma essa è certamente più complessa. Il punto di fuga della prospettiva giuridica è rappresentato dalle credenze condivise che sono autentiche risorse dogmatiche delle quali ogni ordinamento inevitabilmente si nutre. Risorse dogmatiche: serbatoio di convinzioni diffuse nella società, che non sono dimostrate e per questo vengono dette dogmatiche, ma che rendono possibile ogni dimostrazione o argomentazione giuridica. un esempio: l’uguaglianza nella libertà dei soggetti di diritto, per la quale non è ammissibile che una persona sia oggetto di decisioni altrui oppure l’inammissibilità di discriminazioni in base al censo o al sesso. Queste non sono dimostrabili giuridicamente perché costituiscono presupposti culturali del nostro ordinamento, e non sono dimostrabili in base al codice o alla costituzione = dai valori che il cristianesimo ha portato nell’Occidente e che attraverso numerose e complesse vicende sono precipitate nella nostra coscienza collettiva. Questo non vuol dire che i valori assunti dall’ordinamento giuridico non sono dimostrabili = non sono dimostrabili in base al diritto stesso, ma a qualcos’altro = vanno ritrovati in quell’idem sentire de republica, cioè in quei valori che riteniamo debbano essere alla base della nostra società. Allo stesso modo in nome della scienza si vorrebbe che la legge traducesse normativamente le sue pretese in campo bioetico, facendo della scienza un assoluto, cioè una realtà sciolta e svincolata da ogni condizionamento. Dal punto di vista filosofico giuridico questo significherebbe che le pretese della scienza siano risorse dogmatiche. Il problema per chi ragiona sul diritto e non limita a ripeterlo è il discernimento e la valutazione di queste: si tratta di coperte troppo corte che in parte proteggono interessi lasciandone scoperti altri. Il diritto si inserisce all’interno di un mondo complesso di altri saperi: ad essi si appoggia, da essi riceve forza e sua volta li rafforza e sostiene. Un’immagine con cui possiamo interpretare questo esposto: l’insieme delle cellette di un alveare. Il diritto è circondato da altri saperi, che interpretano o rappresentano altri aspetti dell’esistenza umana e della riflessione ad essa correlata =è indubbio che la morale influisca sul diritto / il diritto 21 si riverberi sulla morale / il diritto sostiene un certo tipo di economia ma l’economia influisce sul diritto / anche le convinzioni religiose di una società si riflettono sulle leggi presenti in essa e a loro volta le leggi civili contribuiscono ad incidere sulle espressioni della religiosità  l’introduzione del divorzio ha fatto passare l’idea che il matrimonio possa essere a prova ovvero come la legislazione sull’aborto abbia indotto l’idea che sia una cosa che si possa fare, de-eticizzando il problema. Si crea un circolo virtuoso tra tutto questo, il cui svolgimento costituisce la storia stessa della cultura umana. E anche in questo senso la produzione o l’applicazione del diritto può paragonarsi all’opera d’arte che sintetizza e ordina le grandezze in funzione di qualcosa che non è disegnato, ma sta oltre il quadro stesso. Ecco perché il diritto non può essere ridotto ad una mera sovrastruttura = è una manifestazione dello spirito umano che ordina la semplice materialità e la plasma secondo qualcosa che non appartiene alla materia, e che è precisamente la nostra rappresentazione del mondo. In altri termini il diritto deve trovare continuamente un riferimento antropologico: se la tecnica può permettere la distruzione dell’uomo, il diritto si pone come limite di significato alla possibilità dell’agire umano, attuando ciò che gli è proprio, ossia istituendo divieti. La tecnica non pensa l’uomo ma solamente se stessa cioè il suo funzionamento / il diritto pensa l’uomo e per questo deve indirizzare la tecnica stessa. Il significato del vietare non è infatti una coazione della libertà, ma il renderla possibile nell’umano convivere. Il diritto è etimologicamente un simbolo come l’arte. Nell’antichità il symbolon era costituito da un osso spezzato in due oppure da un piatto rotto in due pezzi che per mezzo del loro reciproco combaciare permettevano il reciproco riconoscimento dopo anni di assenza. È detto simbolico secondo il vocabolario liturgico, il credo mediante il quale i credenti di tutto il mondo si riconoscono nella medesima fede. Per converso, il “diabolico” è ciò che non permette di riconoscerci, principio di indifferenza ed inesistenza. Etimologicamente il diritto sarebbe diabolico se rendesse possibile da un punto di vista legale situazioni che corrispondono a queste azioni = infatti le azioni possono esserci nel mondo ma loro esistenza giuridica (e quindi il fatto che costituiscano un diritto) non dipende dai fatti, ossia dal loro concreto e possibile realizzarsi, ma dall’uomo e dal suo potere di ordinare la realtà in base alla ragione. Il diritto è simbolico: permette o dovrebbe il riconoscimento dei consociati come liberi ed uguali nel medesimo mondo comune di valori condivisi. Allo stesso modo, l’arte è simbolica: inscena o rappresenta non solo quel che è rappresentato, ma più profondamente, ciò che ci accumuna, un mondo nascosto, ma ugualmente presente. Questo mondo nascosto è la cultura umana, nella quale il diritto è un sapere tra altri saperi, si pone in osmosi tra politica ed etica. Le geometrie giuridiche e il loro presupposto Qual è stato l’apporto di Kelsen per quanto riguarda la nostra concezione del diritto? Anche noi, come Kelsen, ci occupiamo del “diritto come è”, “senza legittimarlo come giusto o squalificarlo come ingiusto”. I problemi che si creano con questa interpretazione sono rinviati ad un altrove non giuridico; ciò ci legittima a rimanere all’interno di una teoria pura del diritto la quale ci permette di conoscere unicamente ed esclusivamente il suo oggetto. In tal modo, è inevitabile che il diritto sia ridotto al potere e che si perda il senso stesso della politica. 22 perde di significato perché tutto può essere o smettere di essere: nel momento in cui è stata creata la norma che è tale solo perché è stata posta in essere secondo le norme sulla produzione. In tal modo si adempie veramente quanto desiderato e preconizzato da Rosseau: la volontà generale, cioè la legge, mi rende libero ed obbedendo ad essa, io obbedisco a me stesso. Tutto sta a trasformare la mia pretesa in quella di una maggioranza parlamentare, che si può dire mia a maggior ragione; il problema da giuridico si trasforma in politico, e in tal modo la mia pretesa diventerà legge. E così il cerchio si chiude: io nato in catene, entrando nel contratto sociale, ottengo la mia libertà, mi affranco dalla schiavitù a mezzo dello Stato, la cui voce cioè la legge mi dà vita come soggetto libero. Per iniziare a pensare queste questioni bisogna partire da una prospettiva giuridica, sapendo distinguerle, in quanto il diritto distingue le fattispecie, non le omologa; in secondo luogo, l’analisi sarà filosofica, mostrando cioè i valori assunti dall’ordinamento giuridico a base del dettato normativo stesso. Una prospettiva giuridica: punto di partenza uguale per tutti è che non esiste in alcun ordinamento giuridico occidentale il diritto ad usare l’altro come una cosa, e ogni affermazione contraria va contro le conquiste dell’odierno stato liberale costituzionale e delle varie dichiarazioni dei diritti. L’ambito degli atti di disposizione riguarda solo gli oggetti, mai le persone e ogni affermazione contraria postula la riduzione dell’uomo a cosa, laddove nella storia del diritto uomini-cose sono stati solo gli schiavi. Ogni pretesa o attesa in materia di biotecnologie dovrebbe confrontarsi con questo punto  l’ordinamento giuridico rifiuta che un uomo o una donna possa essere oggetto di decisioni altrui, dovendo essere sempre soggetto di decisioni proprie, in rapporto di uguaglianza con gli altri. Le costituzioni pur non essendo diritto divino né tanto meno naturale traducono in proposizioni normative vincolanti un idem sentire pre politico e quindi pre-giuridico, ossia quella cultura che sta alla base del nostro convivere. La nostra costituzione non disegna una Repubblica in cui il valore dell’autonomia privata e della libera volontà del soggetto sia quello principale, accolto senza essere bilanciato con altri valori: senza fare dell’eudaimonismo politico, essa concepisce i singoli in una visione personalista e solidarista  la nostra Carta parte dal riconoscere e garantire i diritti inviolabili della persona e come tali irrinunciabili anche dal soggetto in quanto personalissimi: primeggia il diritto alla vita che non è un diritto come gli altri, riassumendo in se stesso il Grundnorm, cioè il senso stesso dello stato di diritto; essa poi contempla una pluralità di formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità del singolo: la famiglia (società naturale) / connessi ai diritti, prevede anche doveri di solidarietà, definiti inderogabili: essa dunque accoglie e fa proprio un concetto di diritto solidale, e non individualistico / lo stesso art. istituisce l’obbligo per la Repubblica di rimuovere situazioni di disuguaglianza rispetto alla condizione personale di ciascuno che indubbiamente ci sarebbero se una persona acquisisse di fatto potere di disporre di un altro, sia riguardo alla propria salute fisica che psicologica / la tutela della maternità, dell’infanzia e della gioventù è prevista esplicitamente come uno dei valori portanti dell’ordinamento giuridico, insieme al principio della tutela della salute = è riconosciuta come diritto fondamentale del singolo + interesse della collettività: A. L’intervento medico non è visto come un abuso ma come un’azione altamente sociale B. L’azione del medico deve essere tutelata nella sua tipicità di alleanza terapeutica. 25 Considerazioni generali in tema di interpretazione Interpretazione giudiziaria: emessa dal giudice nell’applicazione della legge in un tribunale o di interpretazione amministrativa: quella resa dalle P.A nella loro azione oppure di interpretazione dottrinale: quella resa da professori delle facoltà giuridiche ovvero interpretazione privata. Esistono interpretazioni più autorevoli, munite cioè di intrinseca forza per essere applicate: quelle rese dai poteri pubblici nell’esercizio delle loro funzioni, massimamente quella giudiziaria; ci sono poi interpretazioni più deboli, cioè quella privata in quanto scollegata dal potere statale di coazione. Troviamo poi interpretazioni pesanti ma non vincolanti: le interpretazioni della legge rese dai tribunali nelle loro sentenze, ossia la giurisprudenza oppure un particolare modo di interpretare un regolamento o una legge da parte di un ufficio. È noto che nostro ordinamento civile non vige il principio di attenersi alle decisioni già prese, come nel mondo anglosassone. Ci può anche essere l’interpretazione autentica che è assolutamente vincolante e resa dal legislatore stesso. A seconda dei criteri assunti, si parla di interpretazione storica se si vuole considerare il diritto nel suo sviluppo storico per chiarirne il significato attuale, e questa dà particolari peso ai precedenti giurisprudenziali e legislativi; c’è l’interpretazione sociologica se si vuole considerare l’influsso della società nella percezione della legge e ciò che la legge ingenera nella società stessa; interpretazione statistica o dinamica che coinvolge particolari concezione dell’uomo o del mondo in grado di inquinare la presunta purezza del testo legislativo ritenuto neutro oppure un’interpretazione scientifica che è più asettica. Da questa prospettiva si vede come il diritto sta continuamente tra l’effettività (ossia la vita concreta delle persone) e la validità (cioè l’insieme delle norme in quanto poste). A partire dall’interpretazione si può: A. Riflettere sulla capacità di porsi non solo come un potere legale, ma anche legittimo corroborato da “un più” capace di farci sentire le norme vincolanti non solo perché siamo costretti a farlo; B. Possiamo considerare i suoi limiti ossia le nostre libertà che si ritagliano all’interno delle norme giuridiche; infatti, il diritto (intendiamo in questo contesto la legge) fa problema ad ognuno di noi nella misura in cui ciò che è espresso in norme cozza con quel che sentiamo “vero” o “giusto”: abbiamo cioè bisogno di interpretare una legge perché diventi una vera legge e non un semplice comando del potere  in altri termini per essere davvero soggetti di diritto, e non assoggettati ad esso. E questa è l’essenza dello Stato di diritto. Le norme sull’interpretazione sono quindi uno straordinario test di verifica di quell’equilibrio tra la sovranità e i cittadini che ogni ordinamento giuridico designa e che ne costituisce l’ispirazione e l’aspetto più propriamente politico, in quanto ogni diritto postula inevitabilmente una politica del diritto. Le norme sull’interpretazione sono norme politiche Il diritto civile: “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e l’intenzione del legislatore”; l’ordinamento canonico: “le leggi ecclesiastiche sono da intendersi secondo il significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto.” 26 Il significato proprio delle parole sia nel diritto civile che nell’ordinamento canonico è punto di partenza e punto di risoluzione. Il legislatore postula che c’è un significato oggettivamente vero dei termini e che questo deve essere solo chiarito, non creato dall’interprete, il quale deve essere il più possibile scientifico. Questa angolatura ci pone in una situazione di asservimento alla volontà del legislatore che è esplicitamente richiamata da entrambe le disposizioni  applichiamo, dunque, una legge generale ed astratta al fatto particolare secondo lo schema logico di un sillogismo: matematicamente ne uscirà quel che il legislatore avrebbe voluto per quella singola fattispecie. L’idea di fondo è che l’interpretazione debba essere vincolata il più possibile cioè limitata nell’oscillazione data dai significati delle parole, privilegiando il significato stretto di esse e limitando l’uso metaforico  è una valutazione politica, non giuridica, cioè attiene al mondo di valori e significati nel quale si pone il legislatore stesso; la stessa scelta di uno strumento come il codice è significativa: basti pensare all’esplicita previsione e totale emarginazione di fonti giuridiche precedentemente importantissime, come la giurisprudenza, la consuetudine e l’opinione dei giuristi. Le norme sull’interpretazione sono del tutto particolari, in quanto prevedono fonti del diritto e di conseguenza ammettono o no come rilevanti alcuni atti giuridici, escludendone altri = istituiscono dunque un ordinamento: lo gerarchizzano, nel senso che prevedono una graduatoria di dette fonti, stabilendo quali siano le più importanti e quali meno, e anche in questo senso compiono una scelta politica, in quanto disegnano implicitamente una mappatura del potere. Interpretazione come processo a tre Nella concezione classica, l’interpretazione è un’attività oggettiva che si svolge tra la norma e il soggetto interpretante, il quale deve solo chiarire e dichiarare quel che è impresso nelle parole, in modo puramente ricognitivo, evitando ogni creatività: in questo senso, l’interpretazione è una parafrasi, un dire altrimenti quel che è già stato detto. siamo di fronte ad un’operazione matematica: dalla legge generale al fatto da essa regolato, dalla legge al soggetto interpretante. La dottrina contemporanea ha molto riflettuto sull’insufficienza di questa prospettiva, in quanto è chiaro che il legislatore non può prevedere tutti i casi futuri, ma anche le parole stesse presentano un margine di incertezza intorno ad un nucleo più compatto di significato = basta pensare alla parola “famiglia” (ricomprende oggi unioni omosessuali) o “atti di disposizione” (invocata in tema di diritti personalissimi); i significati dei termini sono pacifici ma in una società monoculturale. Sono invece più controversi in una società non pluralista che concepisce molte espressioni di una fondamentale cultura, ma pluriculturale. È problematica l’autoreferenzialità che assumerebbe l’esperienza giuridica se si rinchiudesse in un processo a 2 tra la norma e il soggetto interpretante in quanto comporterebbe una sorta di “produzione bloccata” del diritto. In realtà, l’interpretazione coinvolge anche un altro soggetto e cioè i soggetti stessi del fatto, nel senso che devono essere in grado di condividere la spiegazione dell’interpretazione, perché la legge sia sensata, cioè perché il suo significato sia condivisibile per loro e non si risolva in un atto d’imperio; la legge, infatti, è l’inizio di un processo comunicativo di valori fondato sul comune sentire di una società e precipitato in proposizioni normative. Il problema dell’interpretazione: è necessario ristabilire un significato comune tra la legge e il caso che ne è disciplinato e tra l’interprete e il soggetto destinatario dell’interpretazione. Se i destinatari dell’interpretazione non comprendessero come quella interpretazione sia giusta  si produrrebbe un’incomunicabilità, ossia un esserne assoggettati alla legge e non esserne soggetti. L’interprete quindi si deve aprire in un rapporto a 3: la legge rimane il punto di partenza 27 Ad esempio, che sia giusto risarcire il danno dovuto all’illecito civile non deriva dall’art. 2043 Codice Civile, come se, mancando questo fosse lecito cagionare colposamente o dolosamente un danno ingiusto: questo deriva dai principi della giustizia commutativa. Ma è comunque necessaria una legge che imponga questo obbligo, permettendone la perseguibilità indefinita. Non conoscibilità della legge eterna: Tommaso afferma che la legge eterna non può essere conosciuta in questa nostra vita attuale se non nei suoi effetti. Solo Dio e i beati la conoscono. Noi possiamo conoscerla nei suoi effetti in quanto ogni effetto rivela sempre qualcosa della sua causa. Ciò significa affermare che la legge eterna è innanzitutto un mistero, e che ogni conoscenza della legge naturale o positiva si fonda su questo mistero. Se la legge eterna fosse da noi conosciuta compiutamente, ne deriverebbe la totale conoscibilità della legge naturale (che è partecipazione della legge eterna): in tal modo il diritto sarebbe deducibile dai suoi principi. Al contrario, il diritto è ricerca continua, volta per volta del giusto obiettivo. In altri termini, il mistero è ciò che ci permette di non rinchiuderci in un’ingenua persuasione di conoscere la realtà così come appare: così la legge naturale che cerchiamo di decifrare e la legge positiva che proviamo a derivarne sono soggette ad una radicale ipoteca e cioè che il loro fondamento, quindi, la legge eterna è a noi sconosciuta, e dobbiamo quindi accettare di rivedere continuamente le nostre interpretazioni. Questo aspetto è andato completamente perduto nel pensiero moderno, fin dal razionalismo: così da Grozio, i giuristi parleranno di legge divina, naturale e positiva ma non di legge eterna, che di esse costituiva il fondamento ultimo. Così Leibniz osserverà: giustamente, a mio parere, Grozio fece coincidere la legge eterna degli scolastici con il principio di socialità. Il principio di socialità diventerà un assioma delle nuove geometre geometrie legali di Spinoza e Wolff: il sapere giuridico verrà costruito come conoscenza teoretica, e non più come sapere pratico come per Aristotele e Tommaso. Così anziché conoscenze sempre problematizzabili e accertabili, avremmo conclusioni necessarie, valide comunque e dovunque, appunto come un teorema di geometria. Dal principio di socievolezza deriveranno i 3 pilastri del codice di Napoleone del 1804: 1) intangibilità e assolutezza della proprietà privata 2) responsabilità civile per il risarcimento del danno 3) il contratto avente forza di legge tra le parti. Dopo Grozio, il mistero cede il posto ad una Ragione astratta ed ingenuamente esaustiva del reale  parliamo del giusnaturalismo seicentesco che confondeva la natura con lo stato di natura e da questo sviluppava conclusioni universalmente valide. Nella civiltà tecnologica, il diritto è pensato come una tecnica uguale alle altre, misconoscendone la specificità: la comprensione dei fatti umani viene appiattita su quella dei fatti naturali, il diritto diviene una fisica sociale / lo Stato è la machina machinorum / la politica è la sola gestione del potere. Così la natura non cela più il sacro, ma appartiene alla sfera del tecnicamente disponibile, del manipolabile. E come corollario viene proclamata la sovranità dell’uomo di questa natura senza ministeri. Teoricamente ciò comporta l’emarginazione del problema teologico e la riduzione del sapere alla dimensione puramente tecnica. Nel diritto tutto questo significa: ripensamento del suo disciplinamento in termini di “diritti soggettivi”, predicati della volontà del singolo e garantiti dall’ordinamento giuridico = al centro, il soggetto, concepito come persona libera e cosciente, rafforzato anche ideologicamente dalla sua posizione logica nella struttura del sistema intorno a lui costruito: tutti i problemi della capacità risolti in altrettanti attributi necessari alla sostanza del soggetto. 30 La volontà del legislatore è la fonte dei diritti soggettivi e questi sono attribuiti alla volontà del soggetto: il che significa che il problema del giusto è risolto dalla volontà cioè in una proposizione che trova fondamento non nella realtà delle cose ma nella volontà sciolta. In questa prospettiva, il legislatore è un dio secolarizzato secondo l’espressione di Hobbes del “dio mortale” ma la sua volontà è totalmente conoscibile tramite la legge: scompare l’inconoscibilità della legge eterna e il fatto che possa essere ripensata. I principi dai quali il legislatore ha deciso di partire sono nuovi principi della legge della ragione, ormai svincolata della realtà antropologica: si potrà assumere il principio per il quale possiamo scegliere la nostra sessualità ovvero decidere la nostra morte. Diritto divino e legge divina nella loro connessione con la legge eterna Il termine diritto divino non ricorre molto nel lessico di Tommaso e manca una definizione; il termine legge divina è molto più usato: l’espressione è data nella Legge Antica e nella Legge Nuova, che è la Grazia dello Spirito Santo ed è assolutamente necessaria al conseguimento del fine ultimo dell’uomo cioè Dio. La legge divina è necessaria per il conseguimento del fine della beatitudine proprio dell’uomo, che di per sé eccede il limite delle sue facoltà umana. Ma è necessaria: 1) per la conoscenza di questo fine 2) per la sua completezza laddove la legge umana si limita a disciplinare le azioni esteriori e non l’uomo interiore, e perché in tal modo non rimanga nulla di non punito. Quindi, la legge divina svolge lo stesso ruolo della Rivelazione divina: come l’uomo non avrebbe potuto conoscere chi è Dio senza una Sua positiva rivelazione, e si sarebbe limitato ad una teologia negativa, così ha bisogno che Dio riveli la sua Volontà per superare ogni dubbio e avere guida nel proprio operare. È infatti verissimo che l’intera trattazione della legge e particolarmente della legge naturale è una trattazione teologica, sebbene ovviamente contenga una filosofia del diritto. Tommaso è infatti un teologo e anche la trattazione del diritto avviene “sub-ratione Dei”: questa è una prospettiva che non possiamo mai misconoscere, ed in questo senso la trattazione sul diritto o la legge divina è centrale. Del resto ormai sappiamo la “circolarità delle leggi che hanno un solo punto di partenza e un solo punto di arrivo: Dio”. Anche il diritto va ricondotto a Dio, sua ultima fonte mediante il trinomio di legge eterna, legge naturale e legge positiva. Una legge naturale scritta nel cuore dell’uomo e partecipe della legge divina. Una legge positiva conforme ai dettami della legge naturale: è questa la stupenda armonia del sistema etico-giuridico tomistico. Legge divina e legge naturale come partecipazione alla legge eterna Per Tommaso fondamento di ogni legge è la legge eterna che, non conosciamo compiutamente pur sapendo che c’è. Ed è per questo che il diritto naturale partecipa alla legge eterna; allo stesso modo la legge divina partecipa alla legge eterna e questo ci impedisce una visione fondamentalista di essa. La legge divina infatti riguarda i credenti, costituendo per essi un surplus di conoscenza e di grazia: ma della legge divina vive la Chiesa, non la società civile in quanto tale. I credenti trovano nella legge divina la perfezione dell’uomo: l’uomo naturale si fermerà alla legge naturale e alla legge positiva in conformità ad essa, che rimane incompleta. Al vertice del sistema delle leggi in San Tommaso c’è la legge eterna: questo significa che tutto ciò che avvolge e compenetra NON sono i comandi divini (perciò è espunta ogni visione fondamentalista di essa), ma l’ordine della divina provvidenza che non è altro che l’amore efficace con il quale Dio crea, dirige e muove ogni realtà creata guidandola in sé. In questo modo, 31 la creatura razionale, partecipando alla legge eterna, fa il bene e il male e discerne il diritto o la legge naturale ed emana una legge umana positiva ad essa conforme. In questo quadro, il dono più grande della Provvidenza è la legge divina, con la quale siamo istruiti sul bene da compiere e il male da evitare. In altri termini, la legge naturale e la legge divina muovono l’uomo al rispettivo bene, naturale e soprannaturale, ed entrambe sono partecipazioni della legge eterna, cioè della Divina Provvidenza. Legge divina e legge umana Se è vero che la legge divina e la legge naturale affondano le proprie radici nella legge eterna, è altrettanto vero che legge divina e legge umana possiedono un diverso peso ontologico, l’autorità di Dio rivelante e la ragione umana. Le due leggi si integrano NON si escludono né si oppongono: anzi, proprio l’esistenza della legge divina fa sì che tutto l’ambito dell’agire umano sia normato, laddove la legge positiva umana non potrebbe farlo. Secondo Tommaso, il diritto naturale è divino riguardo alla sua fonte remota (Dio) ma non alla sua fonte prossima (legge naturale) / la legge divina ha come fonte immediata Dio: è vero i due ambiti sono contigui, ma contiguità non significa eguaglianza. La diversità degli ordini pone inevitabili problemi di relazione tra l’uno e l’altro: il diritto divino ha ruolo fondante (per questo motivo è necessario disobbedire alla legge positiva umana quando questa sacrifichi il bene divino; e così nel diritto canonico, il diritto divino e il diritto naturale hanno un ruolo sovraordinato, anche se non canonizzato: questo è il motivo per cui la giurisprudenza rotale elaborò una teoria che superava di fatto la stretta normativa del codice allora vigente. In tal modo la priorità ontologica del diritto divino (matrimonio tra battezzati è sacramento) e del diritto naturale (matrimonio è dato dal libero consenso reciprocamente manifestato e ricevuto) fonda la normativa del codice sul matrimonio, e questo schema si ripete per ogni altro istituto giuridico, anche di diritto semplicemente civile, come ad esempio la proprietà. In altri termini il diritto umano deve costitutivamente rispondere a dei criteri di giustizia sostanziale che sono precipitati nel diritto divino prima e naturale poi. È chiaro che una legge che vada contro al diritto divino o naturale, non è una vera legge e va disubbidita. Secondo Tommaso: ogni volere discorde dalla ragione, sia retta che erronea, è sempre peccaminoso. La coscienza retta obbliga direttamente e per se stessa, poiché il giudizio formulato dalla coscienza è per se stesso buono e tale appare alla ragione. Ma anche la coscienza erronea obbliga, non per se stessa, ma in quanto ciò che percepisce è giudicato come se fosse uomo. Dunque la volontà ne resta obbligata in virtù del fatto che tale comportamento è valutato come buono. Es. se la mia ragione presentasse credere in Cristo come un male, la mia volontà lo potrebbe vedere solo come un male: non perché lo sia in se stesso, ma perché è un male per la mia ragione. Significato della legge divina Declinando la diversità delle leggi in eterna, naturale, divina, e umana, San Tommaso risolve un problema che nel mondo moderno è irresolubile, ossia fare in modo che il soggetto dell’ordinamento giuridico non sia tale solo perché assoggettato al potere del legislatore: siamo soggetti di questo ordinamento senza esserne assoggettati. e quindi secondo Tommaso siamo soggetti di diritto senza che la soggettività ci sia conferita dal legislatore umano, che è al contrario il punto di partenza delle moderne concezioni giuspolitiche. 32 descrittive, analizzabili in termini quantitativi e comprensibili quando si è in grado di comprenderli alla stregua della legge di causalità/ il diritto ha a che fare con fatti umani, comprensibili in tutt’altro modo, cioè secondo categorie di senso e di valore. I fatti umani, intesi nel loro senso e valore, forniscono all’interprete del diritto i “casi” da regolare giuridicamente. Con riguardo alla giurisprudenza, il limite della legge di Hume e delle conseguenze che se ne traggono sta in questo: essa parla di fatti, ma nel giudizio giuridico non si hanno fatti, ma casi. I fatti umani non sono valutabili allo stesso modo dei fatti empirici poiché sono carichi di valore, che è precisamente il fine, e cioè lo scopo o il senso di ciò che è fatto. 2) L’estensione alla giurisprudenza della legge di Hume è pensabile solo assumendo che il diritto è una tecnica come le altre ovvero che il sapere giuridico è assimilabile al sapere scientifico. Mentre la scienza presuppone oggetti, il diritto presuppone e istituisce soggetti. Il diritto non è una tecnica come le altre. Le tecnologie non hanno alcun senso, ma solo un funzionamento, mentre il diritto si rivela propriamente una tecnica di umanizzazione delle tecniche poiché riconosce un senso precedente al proprio intervento. Questo è dimostrato dall’art. 2 costituzione, che afferma che la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Concepire gli esseri umani come oggetti = schiavi; bisogna fare attenzione a ritenere che le scienze e le tecnologie siano il vero sapere, sul quale deve essere esemplato e costruito ogni altro sapere, e particolarmente quello giuridico. Da qui la pretesa che il diritto sia semplice ancella della tecnologia. 3) La scienza non descrive del tutto i fatti, ma isola solo quelli quantificabili e li riporta nella loro dimensione numerica: il numero è di per sé avalutativo. Ma uscendo dal considerare i fatti nella loro datità empirica, e cogliendoli in una prospettiva più ampia, è innegabile che il dato di fatto acquisti un significato, un senso, e un fine. Es. dal fatto che un bambino vada a casa, astraendo da ogni altro dato, non posso dedurre che debba andare a casa; ma se aggiungo a questo, altre realtà significative (come la ripetizione di esso nel corso dei giorni o il dire quale persona sia in casa o il rapporto tra il bambino e quella persona) capirò facilmente perché egli vada a casa, il dover essere nascosto dietro l’essere = la contraddizione logica che si rileva è il limite del “riduzionismo fisicalista” nel momento in cui questo metodo, legittimo nel proprio ambito, viene esteso acriticamente alla realtà umana nel suo complesso, ciò di cui si occupano il diritto e le scienze umana / le scienze fisiche, per costituirsi come tali, devono prescindere da molti elementi e considerarne solo alcuni, e per giunta solo leggendoli nella loro dimensione numerica o quantitativa. 4) San tommaso (a differenza di Aristotele) = la natura è innanzitutto una natura creata, il che significa che essa è in relazione immediata e continua con il suo creatore. Per Tommaso, la vera Causa e il vero Fine sono invece Dio stesso = egli non causa allo stesso modo delle cause create e non è solo fine dell’uomo, bensì sua beatitudo: questo dice qualcosa di più di un semplice fine mondano. In questo senso, la vera difficoltà, per noi contemporanei, nell’affrontare il pensiero di Tommaso consiste nel fatto che per noi la natura non dice niente al di fuori di se stessa: anzi siamo abituati a relegare nell’irrazionale o comunque nel soggettivo ogni altra considerazione. La riscrittura del mito delle origini, il big bang, questa Genesi laica non dice il “come è accaduto” ma il fine della natura: Dio ne è semplicemente al di fuori, come ogni affermazione teologica è fuori da affermazioni scientifiche. Tuttavia, la scienza si è eretta ad ultima istanza veritativa: l’ateismo non è per molti solo un procedere metodologico, ma è una risorsa di senso per spiegare tutto, una vera e propria risorsa dogmatica. Diviene dunque l’ateismo una religione capovolta. 35 Il mondo e il metodo di san Tommaso D’Aquino È necessario contestualizzazione San Tommaso: qual è la portata delle opere di Aristotele e della diffusione delle loro traduzioni in Occidente in un mondo dominato dall’agostinismo e dal neoplatonismo? = “ondata di cultura profana, agnostica, tendenzialmente irreligiosa”, quindi una cultura laica. Per questo motivo l’operazione culturale compiuta da san Tommaso è moderna. Con l’apporto di Aristotele, la filosofia (cioè la cultura) si presenta con un contenuto sistematico indipendente dal cristianesimo o inserito in un mondo non cristiano /il sistema aristotelico mostra che è possibile proporre una visione complessiva e organica delle leggi fisiche e metafisiche del mondo prescindendo completamente dai contenuti della rivelazione e dal tradizionale pensiero cristiano /lo stesso universo aristotelico appariva inconciliabile con la concezione cristiana del mondo: non vi era nessuna creazione, un mondo eterno, abbandonato al determinismo, senza che un Dio ne conosca le contingenze, un uomo legato alla materia e la cui perfezione morale rimane aliena ai valori religiosi(al contrario del neoplatonismo). Nonostante ciò, verso il 1224 Albero Magno commenta i libri naturales di Aristotele / Ruggero Bacone tiene delle domande su di essi. La chiesa dopo qualche incertezza accoglie in pieno questa nuova cultura quando nel 1263 papa Urbano IV commissiona a Guglielmo Moerbeke e a Tommaso una traduzione e commento di Aristotele. Per quanto riguarda la riflessione sul diritto con l’irruzione dell’aristotelismo cambia la stessa angolatura della prospettazione dei problemi: il Medioevo volgeva al Tramonto e la ragione si poteva volgere a considerare la natura e il mondo come realtà buone in sé e non come una allegoria / cambiano le metodologie didattiche: dall’insegnamento nelle scuole cattedrali e capitolari si passa all’insegnamento universitario, basato sulla quaestio, sulla tensione logica tra i contrasti, alla struttura del chiostro subentra quella della giostra. Nell’ambito della filosofia del diritto, l’apporto della riflessione aristotelica svellerà la concezione medievale del diritto come di un male necessario, stante la malvagità degli uomini, per frenare la quale il principe impugnava come giusto ministro la spada e verrà invece concepito “naturalmente bontà del diritto e dell’organizzazione politica. “ Passiamo così da una concezione sacrale e provvidenziale del potere (in quanto ogni potere proveniva da Dio) ad una concezione più disincantata. Tommaso, al contrario dei suoi contemporanei, ha una concezione dualistica circa i rapporti tra Chiesa e Società. Tommaso D’Aquino intuì che la laicità del sapere era l’unico modo per prepararsi a contrastare il laicismo1. Il testo di San Tommaso “dottore comune”: 1. Commenti 2. Summae theologiae e summa contra gentes (quest’ultima contro i pagani). summa theologiae = ci sono 2 problemi:  Come tradurre il termine summa?  Perché proprio di teologia, visto che ci occupiamo di filosofia del diritto? 1 Atteggiamento che propugna la completa indipendenza e autonomia dello stato nei confronti di qualsiasi confessione religiosa. 1 Si dice spesso che la Summa sia una sorta di enciclopedia (medievale), un’esposizione sistematica dello scibile umano del tempo limitato cioè ad un settore (es. Summa codicis di Azzone). In questo senso designa un genere letterario che godrà di una certa fortuna fino al Cinquecento, declinando poi progressivamente fino alla sua definitiva scomparsa. La summa sarà sostituita alla fine del 700 con l’enciclopedia:  Enciclopedia: esposizione sistematica dello scibile SENZA un principio unificante ossia la fede cattolica / è l’inizio di un sapere parcellizzato o frammentato di una cultura intesa come insieme di saperi autonomi che diverranno estranei e non comunicanti nel tempo  La summa è un’espressione di sapienza e non solo di scienza; è simile ad un’enciclopedia perché espone un sapere globale ma ne è al tempo stesso completamente differente = si richiede ad essa solamente un principio unificatore, e non di Dio in sé o della fede cattolica: infatti ci sono opere che possono essere considerate summae di pensiero di qualcuno / ma più radicalmente solo la fede in Dio creatore giustifica l’esistenza di questo tipo di pensiero, perché il termine creazione dice la relazione immediata di Dio con tutte le sue creature = la summa dunque risponde ad una domanda sapienziale od esistenziale (perché è nata la terra?), e non ad una domanda di ordine fisico o scientifico. Poi è venuta meno quindi la possibilità stessa della summa, perché la scienza ha preso il posto della religione, una Nuova genesi senza dio (Hobbes, Rosseau) e perfino un nuovo Decalogo e cioè i diritti dell’uomo. Perché è una Summa di Teologia e non una summa di filosofia del diritto? Se è una summa di teologia perché si occupa di una questione così umana? In effetti per un medievale le scienze non sono autonome, ma hanno senso se inserite nell’alveo di un sapere unificante che è la teologia, la conoscenza delle cose di Dio. La summa si presenta come un’opera nella quale si intende esporre le cose che riguardano la religione cristiana per l’istruzione di coloro che si avviano agli studi, per quelli che sono nuovi ad essi, che possono essere disorientati dal moltiplicarsi delle questioni inutili (dice Tommaso). Infatti questo accade perché sono esposte senza un vero ordine, ma a caso, sia perché la loro ripetizione genera fastidio in coloro che ascoltano. Quindi la summa vuole esporre brevemente e chiaramente la sacra dottrina. In questa enciclopedia tutto è trattato in relazione a Dio. Poiché quindi lo scopro principale della sacra dottrina è far conoscere Dio, e non solo in se stesso, ma anche in quanto principio e fine delle cose, e in particolare della creatura ragionevole: 1. Prima parte summa: Dio 2. Seconda parte summa: movimento della creatura razionale verso di lui 3. Terza parte summa: Cristo, che in quanto uomo, è per noi via per tendere a Dio. Trattato sulle leggi (fine prima parte): siamo all’inizio del movimento di ritorno a Dio = la creatura razionale, l’uomo, si rapporta a Dio, suo creatore, indirizzando a Lui le sue operazioni e le sue attività. Esse rappresentano i passi mediante i quali gli uomini si volgono al proprio fine, che è insieme beatitudine e perfezione. Tommaso ci appare come maestro di filosofia ancorato alla fede, eppure assolutamente razionale. In questo mondo, la dimensione soprannaturale appare il prolungamento della base naturale dell’uomo e l’individualità è la premessa del suo essere sociale. In questo senso, l’uomo cristificato, elevato cioè alla vita divina per mezzo dei sacramenti, è il medesimo uomo naturale.  Prima parte della seconda parte della Summa: che esamina le virtù cardinali e morali dell’uomo…sfocia 2 fare. Bisogna chiarire il significato del termine ius, così sarà chiarito anche il termine iuris prudentia e iuris dictio. Che cos’è lo ius? La cosa più sbagliata che potremmo intendere è pensare che lo ius equivalga al nostro diritto soggettivo. La nozione di diritto soggettivo, infatti, è tipicamente moderna: “potere attribuito alla volontà del soggetto e garantito dall’ordinamento giuridico, di agire per conseguire il soddisfacimento dei propri interessi, cioè qualcosa di pienamente soggettivo, un predicato del soggetto di diritto, tutelato da un ordinamento giuridico, che trova nella volontà del legislatore la propria unica fonte. “ Nell’esperienza giuridica antica e medievale, lo ius è un’altra cosa: “oggetto della giustizia” cioè la cosa dovuta ad altri, poiché la virtù di giustizia consiste nel dare a ciascuno il suo.” Dicendo ciò non abbiamo esaurito la totalità del fenomeno giuridico, ma ne abbiamo colto un aspetto determinante e significativo, almeno nel confronto con le moderne legislazioni = per San Tommaso il centro del mondo giuridico è una cosa, una certa oggettiva ripartizione dei beni, e non la volontà del legislatore, fonte del moderno diritto soggettivo, né la volontà del soggetto stesso, avallata e quasi consacrata dalla legge. Dunque lo ius non è un potere, ma qualcosa di oggettivo “ciò che è giusto, la parte giusta, il bene di cui si gode in conformità ad un ordine naturale di cui la legge positiva è completamento ed esplicitazione”, in una parola “il suo di ognuno”. Ritroviamo nel giuridico, l’impostazione del pensiero di Tommaso = l’oggettività, realismo come dell’esperienza giuridica medievale felicemente qualificata come reicentrismo o corporeità giuridica = il diritto non è il prodotto di una volontà arbitraria dell’uomo, ma è nelle cose, nei fatti stessi osservati che poi l’uomo concorrerà a creare attraverso la legge. Il contrario di questo ordine naturale è l’ordine antropocentrico, tutto impegnato nel culto dell’individuo = l’ordinamento giuridico è concepito come il prodotto di incrostazioni o sedimentazioni umane su di un nucleo centrale che ne prescinde. Ricapitolando: quando il termine ius è stato tradotto come diritto e questo è stato inteso nel senso di diritto soggettivo, si è proiettato nel mondo giuridico medievale, un concetto ad esso estraneo, non rispettandone la sostanziale differenza. Diritto soggettivo ci rinvia alla caratteristica propria dell’ordinamento giuridico moderno, l’essere cioè emanato dallo Stato, da un legislatore onnipotente, che con un atto di volontà politica attribuisce ai consociati quei diritti soggettivi che a loro spettano: al di là di quanto lo stato attribuisce con un atto creatore, non c’è altro. In questi nuovi sistemi giuridici troviamo al centro il soggetto (l’alias, l’individuo) concepito come persona libera e cosciente, rafforzato ideologicamente dalla posizione logica nella struttura del sistema intorno a lui costruito; tutti i problemi della capacità risolti in altrettanti “attributi” necessari alla sostanza del soggetto. Nel mondo medievale, quello romano, nel diritto di common law, e almeno in parte in quello canonico non è così: il diritto risulta legato alla società (non allo stato) e nasce dalla comune osservanza (non dall’obbedienza). Naturalmente anche in queste esperienze giuridiche esiste la dimensione normativo legale che promana da un potere pubblico ma il suo significato è diverso, in quanto è l’elaborazione di regole che trovano la fonte della propria giuridicità in un altrove rispetto alla volontà dell’uomo. 5 Esempio: nel medioevo non esisteva un unico diritto soggettivo di proprietà (come quella che verrà prevista dall’art. 544 del codice napoleonico: diritto di godere e disporre delle cose in modo più assoluto) ma una pluralità di situazioni possessorie o reali. così, ad esempio, se una comunità o un singolo avevano da secoli uno ius di pascolo o di far passare le greggi nel feudo di un conto, questi non poteva privarli di tale diritto recintando il terreno = né il conte né la comunità erano proprietari come noi intendiamo oggi, ma ognuno traeva dal bene in questione una qualche utilità. Così c’era un dominio diretto (conosceva limiti precisi ed era tutt’altro che assoluto) e un dominio utile = la res è al centro dell’esperienza giuridica, in quanto è su di essa che questa viene plasmata = perciò l’abbiamo qualificata come reicentrismo. Delle cose non si poteva fare ciò che si voleva, ma al contrario da esse promanava un certo vincolo, un ordine che richiedeva di essere tradotto e rispettato, non violentato. La rivoluzione industriale cambierà il rapporto tra uomo e mondo inteso come natura / la riflessione filosofica (da Bacone a Cartesio) costituirà un sapere in vista del dominio dell’uomo sulle cose. Cosa significherà questo nel mondo giuridico? Il passaggio dal mondo reicentrico, a quello antropocentrico, dalla primazia della natura (intesa come oggettività delle cose) a quella della volontà espressa nel diritto soggettivo, dal primato dello ius all’esclusività della legge. Al centro non c’è più la cosa, ma la volontà sovrana del legislatore onnipotente: il diritto cade dall’alto e al reicentrismo si sostituisce l’idealismo (la volontà come misura ideale delle cose). Nasce cioè l’idea di una legge generale e astratta che calando dall’alto, imbriglia le cose e i rapporti umani, in una statuizione promanante dal legislatore, e non dalle cose stesse. Dunque il ius si specifica come ipsa res iusta o id quod iustum est = esso è costituito oggettivamente: 1. del lavorio della ragione umana ed è un rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose 2. a prescindere da essa c’è un ordine giusto e un altro che non lo è Questa ripartizione dei beni del mondo è giusta in quanto traduce i principi della giustizia commutativa e distributiva già enucleati da Aristotele. Per rimanere nel campo del diritto privato: Giustizia commutativa: ogni spesa deve essere compensata, cioè appunto giustificata, da un rientro nel patrimonio del disponente di un bene o un servizio: questo significa che, se escono 1000 dal mio portafoglio, è necessario che rientrino comunque nel mio patrimonio in quanto costituiscono la prestazione, il servizio o la cosa pagata. In questo senso, il rapporto matematico cioè oggettivo tra ciò che ho dato e ciò che ho ricevuto, sarà l’uno numerico, ossia l’uguaglianza tra dato e avuto, in modo che chi ha acquistato non abbia subito un’ingiustificata perdita e chi ha venduto non abbia ottenuto più del venduto. Questa visione è la ratio degli istituti ancora vigenti dell’indebito arricchimento, detto come “arricchimento senza causa” della disciplina sugli interessi, il cui tasso è ammesso solo nella misura in cui compensi lo svantaggio della giacenza del denaro, del risarcimento del danno extracontrattuale, in quanto in questo caso abbiamo una diminuzione del patrimonio non giustificata da un vantaggio che deve essere appunto compensata. Ius è dunque un oggetto, che è il termine unificante e specificante di relazioni tra due persone rese così correlative, l’una avente un’attesa, l’altra un compito = questo aggiustamento ovvero equilibrio costituiscono i gangli linfatici nei quali cola assumendo forma concreta la giustizia commutativa ovvero distributiva. 6 Ius però non si dà solamente nell’ambito dei rapporti di diritto privato, ma anche in quelli di diritto pubblico, ossia nei rapporti tra il singolo e la città, campo attuale del dominio del diritto costituzionale. Bisogna osservare che, un’applicazione estremamente attuale del discorso tomista sta nell’osservare che la Costituzione è diritto, non legge. Anzi la scommessa del costituzionalismo sta nella capacità della costituzione posta come lex di diventare ius. La costituzione è il diritto / è lo ius di cui la legge ordinaria sarà un’estensione e un’applicazione  infatti la legge non può avere fondamento in un’altra legge, perché questo significherebbe solo spostare il problema e moltiplicarlo all’infinito, ma in un altrove che per noi è precisamente il ius. La nostra epoca vede la rinascita dell’antica tensione tra ius e lex e che il ius si manifesta attraverso le norme costituzionali indeterminate = questo diritto materiale trova oggi espressione nella Costituzione, la quale, è un insieme di principi che operano rinvii e ricezioni ad un diritto materiale pre-positivo, appunto un giusto, che è quindi la migliore traduzione di ius = l’uguaglianza, libertà costituzionali, doveri di solidarietà esprimono quella che si dovrebbe chiamare, con il lessico aristotelico e tomista, giustizia distributiva, che riguarda cioè distribuzione tra consociati delle modalità della partecipazione alla vita della Repubblica come soggetti di diritto / in questo senso, la giustizia distributiva moderna non riguarda solo la partecipazione alle cariche pubbliche, come nel pensiero antico e medievale, ma si pone in una dimensione più radicale, toccando quelli che sono chiamati diritti e doveri fondamentali che derivano precisamente dalla nostra concezione dell’uomo e del suo rapporto con la collettività e lo Stato. Per questo Tommaso afferma che la forma generale della giustizia è l’uguaglianza in cui convergono la giustizia commutativa e distrubutiva, e che compito propria della giustizia, e quindi del ius che ne è oggetto, è promuovere l’uguaglianza, e una volta ottenuta non corromperla. La dichiarazione di Indipendenza (1776) proclama che lo ius viene prima della legge, in senso temporale, rinviando al tempo pre-storico della Creazione, e anche in senso ontologico, in quanto questi diritti sono proclamati inalienabili e perciò fondanti. Il porre la legge si appoggia su credenze fondanti che non fanno parte della legge stessa = in tal senso le leggi sono paragonabili ad una ragnatela = quindi la legge per reggersi ha bisogno di punti forza sui quali appoggiarsi che non appartengono alla ragnatela ma la sorreggono e si appoggiano ad altro, come ad esempio il muro dove sta la ragnatela. Ci dono dunque delle pareti esterne alla ragnatela:  Convinzioni diffuse di giustizia in una società  Fattori pre politici e pregiuridici  I punti di forza della ragnatela che non ne costituiscono la tela ma la sostengono = nella metafora fanno parte già dell’ordinamento giuridico, ma non ne costituiscono la parte propriamente legale o legislativa, essendo piuttosto la dimensione propriamente giuridica. Infine, c’è il tessuto della ragnatela: le leggi positive, il dipanarsi delle prescrizioni normative, sostenute da quel che ci sembra giusto, in quanto risponde a convinzioni culturali previe e diffuse. In questo senso è vero che il diritto deve essere sentito come giusto, pena la sua disapplicazione pratica, la quale, già secondo Kelsen ne determinerebbe l’invalidità formale: il che sembra deporre la tesi che dipende dalla comune osservanza, non dalla semplice obbedienza = esso è cioè ordinamento, ordine delle cose percepito come tale e non ordine nel senso di comando: ne deriva che sua fonte è la società (non lo stato apparato)  Infatti lo stato sta sotto al diritto (non sotto la 7 impedendoci di vedere le cose come stanno: verità non significa solo concatenazione logica dei ragionamenti. Dobbiamo accettare che i fatti si verifichino ma anche falsifichino, le nostre spiegazioni dei fatti, senza forzarli in esse e senza squalificare ciò che le nostre teorie non sono in grado di spiegare. Il ius ha il compito di verificare e falsificare quei nostri ragionamenti del tutto particolari che sono le leggi, mostrandone il vero e mascherandone il falso: infatti le cose sono causa e misura della nostra conoscenza. Fonti del ius Quindi il ius è qualcosa di oggettivo (non soggettivo), qualcosa che appartiene alla realtà (non al soggetto) che si costituisce intorno ad un nucleo che è l’uguaglianza, anima della giustizia commutativa e distributiva, fulcro sul quale entrambe si appoggiano. Ma lo ius da dove trae la sua forma concreta? 1. Natura (ad esempio uno presta qualcosa e si aspetta di riceverla senza cambiamenti): si chiama diritto naturale = giusto naturale 2. Una cosa può essere commisurata od adeguata ad un altro in base ad un accordo o di una legge comune, e cioè quando uno dice che sarà soddisfatto di ricevere quel tanto. Il che può avvenire in due modi:  Mediante un accordo privato (come succede con le cose stabilite per contratto tra 2 persone private)  Mediante un accordo pubblico (come succede quando tutto il popolo ritiene che una data cosa sia da ritenersi adeguata e proporzionata ad una persona ovvero quando questo è ordinato dal principe, al quale spetta la cura del popolo): questo si chiama diritto positivo = giusto legale Ma è necessaria un’altra specificazione: La giustizia naturale è la prima e digrada in quella determinata dalla legge pubblica o dal contratto. La dicotomia tra giusto naturale e giusto legale assume la forma del iustum simpliciter e del iustum secundum quid. Iustum secundum quid dice Tommaso ci è fornito dalla legge. E ci insegna che il giusto delle leggi umane è un giusto relativamente parlando “secundum quid” o “in un certo senso” ma non è confondibile con il giusto assoluto cioè simpliciter che possiamo tradurre con “assolutamente parlando”. Questo significa che le leggi dovrebbero essere una misura del bene ma non la misura tout court di esso, e cioè la giusta misura. Ogni legge, come ordine della ragione, è costituita per tutelare un determinato bene: Hobbes riconduce la nascita della società civile ad un trust in vista della tutela della vita fisica di fronte alla prospettiva della guerra oppure locke disegna il suo schema politico-giuridico in funzione della garanzia della proprietà privata = la vita e la proprietà sono certo dei beni reali, ma non sono confondibili con il bene assoluto. Lo stesso si dà nell’esperienza giuridica-politica: nella giustizia distributiva ad una persona viene dato del bene comune tanto quanto è maggiore la sua importanza nella comunità. Questa importanza in una comunità aristocratica è determinata dalla virtù, in un’oligarchia in base alle ricchezze, e in una demagogia in base alla libertà. Per questo nella giustizia distributiva il giusto mezzo è determinato dalla proporzionalità delle cose alle persone (non dall’equivalenza di una 10 cosa con un’altra) = ne deriva che, se una persona è superiore ad un’altra, le cose che le vengono date sono superiori a quelle date ad un’altra. Ecco perché Aristotele dice che tale giusto mezzo è dato secondo la proporzionalità geometrica in cui l’equivalenza non è basata sulla quantità ma sulla proporzione. Infatti ,dei bona secundum quid (nobiltà per nascita, ricchezze ovvero la libertà) possono diventare fattori in funzione dei quali modellare un particolare regime politico, ma non si possono identificare con la comunità, che è al di là del regime e prima di esso, il cui ben vivere si identifica con quel bonum simpliciter, fonte e misura di quei beni che di volta in volta possiamo scegliere di perseguire. L’assunzione incondizionata di questi beni a misura di tutti gli altri costituisce la matrice dell’ideologia ed è una prospettiva falsamente esaustiva del reale. Sappiamo infatti che la ragione non è misura delle cose, ma piuttosto il contrario. Qui si riprende lo stesso procedimento della quaestio: perché una tesi prevale ideologicamente sulle altre, ma è accolta in quanto resiste, e fintanto che resiste alla confutazione della sua contraddizione? La verità si rivela matrice del bene comune, fine proprio della legge che guida le operazioni e le singole scelte dell’uomo. La verità e il bene comune infatti sono oltre le singole tesi proposte o singoli beni preferibili, tematizzandone e quindi problematizzandone l’accoglimento. Al tempo stesso le singole tesi non sono confuse con la verità assoluta e i singoli beni non sono scambiati con il bene assoluto, così viene negata l’assolutizzazione dell’esperienza (e cioè che l’esperienza storica e concreta di darsi tante verità e di tanti beni costituisca essa stessa la risposta a quale sia la verità assoluta o il bene assoluto). Giusta misura è il bonum simpliciter che emerge dal ius / il bonum secundum quid è colto solo tramite una considerazione particolare di essa, propria del metodo scientifico, ipotetico- deduttivo, la ragione calcolante e operativa propria della lex. In questo senso, la ricerca giuridica medievale e romana e nel mondo anglosassone e quella canonica ricerca il suum proprio di ognuno non in base alla legge (questo metodo si impernia sulla validità formale, sulla procedura), ma nel concreto e reale fluire dell’esperienza, nei rapporti materiali di credito-debito, nel gioco di dare-avere espresso dall’equilibrio dell’uguaglianza (privilegia l’effettività). Per Aristotele e Tommaso esistono due tipi o modelli di conoscenza, con proprie precipue leggi strutturali e caratteristiche peculiari (sono paralleli ma di verso contrario): 1. Sapere speculativo o teorico, il cui modello è costituito dalla geometria, che procede da assiomi o principi degni di fede e che si svolge in modo deduttivo e sillogistico o more geometrico 2. Sapere pratico come appunto quello giuridico per il quale la causa o principio primo è costituito dal fine verso il quale procede. Aver compreso il fenomeno giuridico nell’ambito del sapere speculativo e non in quello pratico ha determinato la sua trasformazione da prudentia iuris (cioè creazione giurisprudenziale e dottrinale) a lex (schema generale ed astratto, proiezione della volontà del legislatore, premessa maggiore del sillogismo giuridico). Il ius si deve specificare nella lex, secondo Tommaso, ma non viceversa = così, collegando continuamente questi fuochi, si disegna lo spazio dell’esperienza giuridica. E questo non è un ragionamento astratto, ma spiegazione di quel che è accaduto nella storia giuridica occidentale. 11 È evidente, infatti, che nella tradizione di civil law, il progressivo estendersi della legislazione e la costruzione dello Stato come potere centrale ha determinato l’esautoramento della consuetudine (ruolo marginale) e della giurisprudenza (soggezione del giudice al solo dettato normativo) come fonti del diritto. L’invenzione napoleonica della Corte di Cassazione mirava al disegno politico di riportare l’operato dei giudici alla totale sottomissione alla legge, mentre la previsione della consuetudine solo secundum lege e l’abolizione della desuetudine. Con la creazione delle costituzioni il ius ha iniziato a riprendere il ruolo prima perduto e i giudici costituzionali hanno riguadagnato un ruolo creativo prima negato: il che non avrebbe potuto essere, senza quella norma fondamentale e sovraordinata, dunque, senza quel diritto a cui ogni legge deve essere ricondotta. Intermezzo sul diritto e biodiritto Rapporto tra lex e ius La trattazione sul diritto e sulla giustizia fonda l’analisi tomista della legge, sebbene questa sia svolta prima:  La legge è principio esterno dell’agire e orienta l’uomo verso il bene, ossia le beatitudine, e quindi verso Dio stesso  Nell’ordine della trattazione seguito da san tommaso, il ius segue la legge, il che è come dire che obbedendo alla legge, se questa è veramente tale, ci si dispone alla virtù di giustizia, poiché si opera ciò che è giusto.  D’altra parte, nell’ordine dell’agire cioè nel sapere pratico (quale quello giuridico), il fine è la vera causa di tutto: poiché la legge attua il giusto, e nella misura in cui lo attua, essa è vera legge e deve essere obbedita. La trattazione sulla legge segue quella sul peccato = l’uomo incomincia ad uscire da questo stato di alienazione, che tutti sperimentiamo, rimettendosi sul cammino giusto, come indicato dalla legge, e questo lo farà incamminare nella via della grazia, facendogli conseguire in seguito i doni soprannaturali infusi cioè le virtù teologali e le virtù cardinali, tra le quali appunto la giustizia. Tommaso ha una visione realista dell’uomo: non pessimista, come se egli fosse del tutto incapace di pensare o compiere il bene, ma concreta, consapevole cioè che il peccato ottunde non solo la volontà ma anche l’intelligenza. Perciò l’uomo inizia a disporsi al bene obbedendo e obbedendo giungerà alla vera giustizia, che non si risolve tuttavia nella semplice obbedienza. Quindi trattare la legge prima e poi il fondamento (nonostante noi avremmo fatto il contrario) ha un senso molto profondo: così dall’esperienza empirica della legge, che è a noi immediatamente data e quasi per prima, giungiamo alla giustizia che ne è la causa o il fondamento e al giusto che ne è oggetto. Così la metafisica, cioè i fatti che stanno dietro l’attualità delle cose, si dà dopo la fisica, l’esperienza empirica del reale. Quindi è dal ius che si giunge alla lex: la legge non fonda il diritto, ma il contrario / il diritto non appartiene alla volontà ma all’ordine delle cose. In questo senso esso non è una pretesa, ma qualcos’altro. 12 Dopo Auschwitz, il suo significato è stato piegato: esso non dice più in chiave personalistica attenzione ai più deboli, ma in un contesto individualistico-proprietario esprime il principio di libera disposizione del proprio corpo. Quindi dallo Stato totalitario che faceva al cittadino ciò che voleva al cittadino-consumatore che con la stessa pretesa totalitaria vuole che lo Stato faccia quel che lui vuole. Ma in tal modo il principio del libero consenso “da clausola di salvaguardia della persona umana” diventa lo strumento di contrattualizzazione tra paziente e medico. “diritto” a disporre del proprio corpo Spesso la libertà di disporre del proprio corpo viene invocata come motivo giuridicamente sufficiente a legittimare la pretesa di disporre della propria vita fisica, se ci si troverà in situazioni invivibili per il sopraggiungere di minorità fisiche o mentali si possa rifiutare l’accanimento terapeutico, ma le stesse cure mediche, fino a giungere al rifiuto della stessa alimentazione che non è oggettivamente cura. La logica che presiede a questo tipo di attesa o pretesa è una logica di tipo liberale: lo stato deve limitarsi a garantire l’esercizio della libertà di scelta del singolo, quella appunto di disporre di se stesso, del proprio corpo. Va però osservato che il concetto di “atti di disposizione” nasce nell’ambito del diritto privato, e si riferisce di per sé a beni materiali e commerciabili: esso dice il potere di privarsene ed attribuirne ad altri, il perno dell’autonomia in senso economico. In questo senso l’art. 832 del c.c definisce la proprietà come diritto di godere della cosa in modo pieno ed esclusivo, ma il diritto amministrativo conosce alcuni beni indisponibili, perché legati ad interessi non privati, quali quelli del demanio o delle cose di interesse storico ed artistico. L’autonomia privata nasce nell’ambito dell’avere, mentre le biotecnologie toccano l’essere della persona: la vita, la generazione, la morte, la nascita, non sono beni separabili dalla persona ma indissolubilmente legati ad essa. Il consenso informato, le decisioni nell’ambito della procreazione medicalmente assistita, le dichiarazioni anticipate sul trattamento da seguirsi e lo stesso “testamento biologico” sono esempi di atti giuridici che NON riguardano un oggetto, ma la stessa persona del dichiarante. Tutto questo nuovo dispiegarsi dell’autonomia deve essere di volta in volta valutato in relazione alle singole pretese o attese alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, anche privatistico, nel contesto della Costituzione, sapendo che esiste giuridicamente anche l’indisponibile, che non si risolve in un inutile condizionamento della libertà. Non per nulla l’art. 5 del c.c vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume / l’art. 2 Costituzione parla di diritti inviolabili della persona, e dunque persino irrinunciabili dall’interessato. E a maggior ragione su terzi (altrimenti avremmo una persona oggetto) / né può essere invocata la presunta volontà di questo terzo: perché la propria persona non è abdicabile da nessuno e quindi perché, anche accettando l’equiparazione tra atti di disposizione di beni materiali e atti di disposizione del proprio corpo, è comunque impossibile equiparare giuridicamente il consenso attuale, specifico, univoco e informato a quello virtuale, che non può essere generico, equivoco e disinformato rispetto ad un quadro non ancora compiuto di eventi. Creazione stupenda del diritto è invece il concetto di soggetto giuridico, che non coincide con quello di persona che è invece concetto filosofico né con quello di individuo, più empirico ma che 15 dice la coincidenza tra l’uno e l’altro, per cui ogni individuo è soggetto di diritto e al tempo stesso è soggetto di diritto perché persona = ogni individuo che appartiene alla specie umana è un soggetto di diritto e della sua soggettività giuridica non può disporre neanche lui perché non è un bene giuridicamente disponibile cioè non è un bene economico. Prospettive filosofiche L’ordinamento vigente si oppone alla logica proprietario e individualistica che sta alla base di molte pretese e attese (impedendo di poterle qualificare come diritti soggettivi) possiamo osservare alcune aporie insite in tali prospettive: il diritto non è una tecnica come le altre = è una tecnica di umanizzazione della tecnica = il suo riferirsi immediatamente all’uomo come soggetto dell’ordinamento, gli conferisce uno statuto epistemologico completamente diverso dalle tecniche, le quali si rapportano invece a degli oggetti / il soggetto ha in se stesso il proprio significato / qualsiasi oggetto al contrario non ha significato e questo gli è impresso solamente dalla tecnica / qualsiasi manufatto porta l’impronta del suo artefice che imprime alla materia scopi e forme che prima non aveva / l’utilità della tecnica: costruire un mondo più vivibile / più vivibile per l’uomo che è soggetto di quel mondo, soggetto che ha in sé il proprio significato e senso / l’uomo non si autocrea perché si trova già così come è / l’uomo vola attraverso la tecnica  è una modificazione del mondo esterno a lui, non di lui stesso, è un prolungamento del suo dominio che non tocca la sua realtà antropologica. La funzione del diritto è quella di istituire un mondo nel quale la soggettività giuridica non sia negata, cioè non vengano violate le caratteristiche antropologiche proprie dell’uomo, ossia la libertà e l’uguaglianza nella comune dignità. Così come è proibitivo per motivi giuridici l’omicidio, così è proibito per motivi giuridici qualsiasi uso della tecnica che costituisca ad altri soggetti decisioni altrui, consegnandoli di fatto a situazioni di minorità. La soggettività e la libertà vengono prima dell’istituzione del soggetto stato. Il diritto è il presupposto della libertà. Con questi ragionamenti si Cerca di dimostrare che la ratio e la tecnica interagiscono con l’intellectus, e come queste due legittime forme del nostro conoscere concrescano in un continuo divenire che è la storia stessa del diritto come continuamente plasmata dal rinvio di lex e ius. In questo senso è necessario problematizzare continuamente i nostri ragionamenti, in riferimento alla realtà esterna ed obiettiva, che ci appare sempre oltre il nostro ragionare. Così io posso pensare una legge positiva che mi permetta di sopprimere un feto e le tecniche operative me lo permetteranno. I miei ragionamenti avranno anche potuto essere coerenti con i miei assiomi culturali di partenza, per esempio “deve essere la donna a decidere”: ma non saranno veri, perché contraddicono la verità delle cose. Ecco perché l’aborto potrà essere legale, ma è radicalmente antigiuridico, dunque inevitabilmente violento, perché è contraddittorio. Questo metodo ci può indicare un altro modo per affrontare i problemi bioetici, che toccano la nostra stessa realtà antropologica; in questo senso, potremmo capire la radicale antigiuridicità di ogni proposta volta a legalizzare l’eutanasia / come ritenere giuridica la fecondazione all’interno di una coppia omosessuale? Qui l’antigiuridicità è data del fatto l’Io del bambino necessita di una doppia figura genitoriale, e non di una coppia mimetica come quella omosessuale, per costituire la propria sessualità a partire da un padre e da una madre / un figlio che viene violentato nella propria affettività quando i genitori lo lasciano separandosi o come si ricostruire la vita con altri 16 compagni? Il figlio potrà, fino a quando non diventa maturo, pensare solo di essere stato amato meno dal nuovo partner e quindi essere un peso per la loro libertà. Come si fa a crescere e a sentirsi figli quando non si è trattati come figli ma come persone piccole per le quali la famiglia è solo un’impresa di forniture e di servizi. Ma la famiglia non è solo questo, e i bambini si sono visti togliere il diritto ad essere bambini. Se il bisogno più radicale di ogni uomo e donna è quello di amare ed essere amato, è vero che noi amiamo solo se e quando abbiamo fatto esperienza di essere amati per primi da qualcun altro. Insomma, la lezione tomista sulla differenza e relazione tra ius e lex ci insegna a concepire il diritto non in termini astratti, ma concreti. Così i diritti dell’uomo vanno declinati in una pluralità di significati, perché non esiste solo l’uomo, ma anche la donna, il bambino: la società è più ricca di un agglomerato di individui. Il diritto tra tecnica e arte Rapporti tra diritto e tecnica sono stati oggetto di varie interpretazioni. Alcuni filosofi come Marx, Comte, Saint-Simon sono giunti a teorizzare la fine del diritto e il suo trasformarsi in tecnica (ovvero come la chiamavano amministrazione): ciò ha comportato un modello di Stato demiurgo, nel quale al popolo si è sostituita la “massa”, il diritto era concepito semplicemente in funzione della politica, attuava praticamente la politica / la politica veniva esemplata sull’economia. Questo è quello che è accaduto nel passato, il cui nucleo teorico è l’assimilazione completa del diritto ad una tecnica sociale, fermo restando che l’economia domina i fini dell’agire pubblico  in quest’ottica, il diritto ormai confuso in maniera semplicistica con la sua dimensione legislativa, è semplice “ancella” della tecnologia. Oggi analoga possibilità sussiste nel campo delle biotecnologie, ancora il diritto è ancella della tecnologia; ma non è più in funzione dell’economia, bensì la scienza (medica) è il criterio in funzione del quale concepire l’uomo: posso operare sulle cellule staminali, possiamo scegliere il nostro sesso, possiamo scegliere se e quando e come far nascere e morire. I sostenitori di queste tesi possono essere chiamati “radicali” in senso storico-filosofico, radicalizzando essi le premesse individualistiche della nostra società civile. L’io è il valore destinato ad espandersi senza limiti, un valore assoluto, sciolto da ogni vincolo: dall’antico princeps legibus solutus al moderno consumatore. Specificità della tecnica giuridica: il diritto è una tecnica di umanizzazione della tecnica, non è una tecnica come le altre = è uno strumento di domino sul mondo, caratterizzato dalla sua operatività ed è volto a costruire il mondo umano, sottraendolo all’arbitrio e alla violenza del più forte, proprio come qualunque tecnica è volta a sottrarre il mondo naturale alla violenza potente della natura. Il legale tra il diritto e la tecnica è dato dal principio di causalità : va notato che le tecniche si esprimono in un linguaggio convenzionale (l’algebra), così le legislazioni sono state concepite come delle geometrie legali, nelle quali da alcuni principi si sviluppano more geometrico necessarie conclusioni. Basti pensare alle norme del codice napoleonico sul contratto, sulla proprietà privata, sulla responsabilità civile: 3 colonne dell’intero impianto privatistico ottocentesco. In Francia partì una giurisprudenza e poi una legislazione che superò i limiti della prestazione d’opera nella quale il lavoro era considerato semplice merce di scambio tra il prestatore ed il committente ed iniziò quell’evoluzione che portò alla nascita del diritto del lavoro. 17  Il mito del Codice breve, comprensibile a tutti, ha caratterizzato tutti i tentativi di codificazione che hanno segnato l’illuminismo, fino a culminare con la grande redazione napoleonica e alla seguente Scuola dell’esegesi che si limitava a chiarire il significato delle disposizioni del codice, applicandole supinamente = in questa prospettiva, l’interpretazione del diritto diviene solo parafrasi e la dottrina dei giuristi è completamente subordinata al potere politico che promulga i testi e l’Università diviene non più il luogo dell’elaborazione di un sapere critico, ma fabbrica di funzionari. Questa concezione è comoda perché elimina il bisogno di pensare, ritenendo che il legislatore abbia già pensato sufficientemente + evita anche un reale coinvolgimento del giurista con il caso, ossia con le persone che gli stanno davanti e che gli chiedono giustizia, in quanto il caso viene ridotto ad una semplice fattispecie: una situazione reale ma priva di significato  riceverà significato dalle disposizioni che saranno applicate ma fino a quel momento è neutra e non ha valore giuridico. Il diritto è come uno stampino e l’ordinamento giuridico è solo una riserva di moltissimi stampini, e compito del buon giurista è semplicemente quello di prendere lo stampino giusto. Naturalmente le cose non sono così: la complessità odierna della vita del diritto, l’accavallarsi di fonti di produzione normativa e anche di giurisdizioni, la presenza efficace delle Corti Costituzionali mostra ancora di più la necessità di un approccio intelligente alla complessità delle cose = il diritto quindi appare sempre più non tanto come uno stampino che riproduce la propria immagine, cioè l’immagine che del diritto ha voluto il potere politico, ma piuttosto come attenzione all’irrepetibilità, alla peculiarità dell’evento da normare  il diritto si rivela quindi come giurisprudenza cioè ricerca di volta in volta della soluzione adatta portata alla luce, e non come legge, soluzione generale ed astratta, data una volta per tutte. Questa situazione non è prodotta solo dall’evoluzione delle fonti (norme infra-statuali, super- statuali o addirittura private) ma deriva anche da una nuova consapevolezza ermeneutica e cioè che i diritti dell’uomo, precipitati nelle Costituzioni e nelle dichiarazioni, debbano trovare un’effettiva tutela e questo avviene con un’attenzione “volta per volta”, non limitandosi a valutare i casi in serie. Il giurista compie un’opera d’arte nel senso più vero, poiché come la creazione artistica è unica ed irrepetibile, così avviene nella creazione-applicazione del diritto al caso concreto. Un altro motivo che denota il parallelismo tra diritto ed arte è costituito dal fatto che entrambe sono rappresentazioni ossia delle raffigurazioni dell’esistenza umana. Un quadro o una statua rappresentano un “soggetto” ma non sono il soggetto stesso, allo stesso modo il diritto rappresenta un teatro giuridico dei soggetti, attribuendo loro alcune particolari situazioni giuridiche, tutelandoli in determinate aspettative ovvero prescrivendo certi comportamenti. Possiamo fare due esempi: Persona giuridica non è una persona fisica reale e concreta ma qualcosa di distinto e separato da essa; il diritto non solo rappresenta una realtà, ma rappresentandola, la costruisce, indipendentemente dall’esistenza fisica o meno di questa: possiamo dire che il diritto, dicendola o nominandola, la crea. Persone fisiche in quanto soggetti di diritto: il soggetto di diritto non esiste in natura o nelle cose stesse = esso è una vera e propria costruzione culturale, una rappresentazione del mondo in determinate condizioni. Appartiene alla sfera del dover essere, non a quella dell’essere. Il fatto che noi pensiamo di essere uguali davanti alla legge tutti non è un prodotto dalla natura (che al contrario crea differenze imperiose) ma dalla cultura occidentale. 20 Questi due esempi mostrano che il diritto è simile all’arte: rappresenta la realtà, ma non è la realtà. Interpreta la legge o la realtà secondo categorie proprie. Il problema consiste nel fatto che un dipinto presenta un’immagine e persuade che quella sia tout court l’immagine della realtà = il diritto che è rappresentazione confina pericolosamente con la menzogna: suo incantesimo è quello di porsi come portatore del vero e del bene che gli attribuiamo come connaturato (appare come un testo incantato), ma che dobbiamo sempre verificare che lo sia: e cioè che la legge sia al servizio dell’uomo o no. La prospettiva nel diritto È chiaro che ogni ordinamento giuridico positivo compie una scelta che appartiene al momento più politico del diritto: così una legge ordinaria, un codice o una Costituzione, legge la realtà sussumendola sotto una particolare angolazione, quella cioè in base alla quale certi valori e non altri sono percepiti come degni di maggior tutela rispetto ad altri. Il diritto si presenta come una certa misura del bene sociale e quindi individuale: suo incantesimo è quello di far ritenere che questa angolatura sia l’unica, quando invece esse stessa appartiene a scelte assolutamente sindacabili. Il vero problema della filosofia del diritto sarà di verificare se quella misura del bene sia la giusta misura, cioè se e fino a che punto tali valori siano trascurati. In altri termini, il diritto dipinge la realtà come se fosse in quei termini, ma essa è certamente più complessa. Il punto di fuga della prospettiva giuridica è rappresentato dalle credenze condivise che sono autentiche risorse dogmatiche delle quali ogni ordinamento inevitabilmente si nutre. Risorse dogmatiche: serbatoio di convinzioni diffuse nella società, che non sono dimostrate e per questo vengono dette dogmatiche, ma che rendono possibile ogni dimostrazione o argomentazione giuridica. un esempio: l’uguaglianza nella libertà dei soggetti di diritto, per la quale non è ammissibile che una persona sia oggetto di decisioni altrui oppure l’inammissibilità di discriminazioni in base al censo o al sesso. Queste non sono dimostrabili giuridicamente perché costituiscono presupposti culturali del nostro ordinamento, e non sono dimostrabili in base al codice o alla costituzione = dai valori che il cristianesimo ha portato nell’Occidente e che attraverso numerose e complesse vicende sono precipitate nella nostra coscienza collettiva. Questo non vuol dire che i valori assunti dall’ordinamento giuridico non sono dimostrabili = non sono dimostrabili in base al diritto stesso, ma a qualcos’altro = vanno ritrovati in quell’idem sentire de republica, cioè in quei valori che riteniamo debbano essere alla base della nostra società. Allo stesso modo in nome della scienza si vorrebbe che la legge traducesse normativamente le sue pretese in campo bioetico, facendo della scienza un assoluto, cioè una realtà sciolta e svincolata da ogni condizionamento. Dal punto di vista filosofico giuridico questo significherebbe che le pretese della scienza siano risorse dogmatiche. Il problema per chi ragiona sul diritto e non limita a ripeterlo è il discernimento e la valutazione di queste: si tratta di coperte troppo corte che in parte proteggono interessi lasciandone scoperti altri. Il diritto si inserisce all’interno di un mondo complesso di altri saperi: ad essi si appoggia, da essi riceve forza e sua volta li rafforza e sostiene. Un’immagine con cui possiamo interpretare questo esposto: l’insieme delle cellette di un alveare. Il diritto è circondato da altri saperi, che interpretano o rappresentano altri aspetti dell’esistenza umana e della riflessione ad essa correlata =è indubbio che la morale influisca sul diritto / il diritto 21 si riverberi sulla morale / il diritto sostiene un certo tipo di economia ma l’economia influisce sul diritto / anche le convinzioni religiose di una società si riflettono sulle leggi presenti in essa e a loro volta le leggi civili contribuiscono ad incidere sulle espressioni della religiosità  l’introduzione del divorzio ha fatto passare l’idea che il matrimonio possa essere a prova ovvero come la legislazione sull’aborto abbia indotto l’idea che sia una cosa che si possa fare, de-eticizzando il problema. Si crea un circolo virtuoso tra tutto questo, il cui svolgimento costituisce la storia stessa della cultura umana. E anche in questo senso la produzione o l’applicazione del diritto può paragonarsi all’opera d’arte che sintetizza e ordina le grandezze in funzione di qualcosa che non è disegnato, ma sta oltre il quadro stesso. Ecco perché il diritto non può essere ridotto ad una mera sovrastruttura = è una manifestazione dello spirito umano che ordina la semplice materialità e la plasma secondo qualcosa che non appartiene alla materia, e che è precisamente la nostra rappresentazione del mondo. In altri termini il diritto deve trovare continuamente un riferimento antropologico: se la tecnica può permettere la distruzione dell’uomo, il diritto si pone come limite di significato alla possibilità dell’agire umano, attuando ciò che gli è proprio, ossia istituendo divieti. La tecnica non pensa l’uomo ma solamente se stessa cioè il suo funzionamento / il diritto pensa l’uomo e per questo deve indirizzare la tecnica stessa. Il significato del vietare non è infatti una coazione della libertà, ma il renderla possibile nell’umano convivere. Il diritto è etimologicamente un simbolo come l’arte. Nell’antichità il symbolon era costituito da un osso spezzato in due oppure da un piatto rotto in due pezzi che per mezzo del loro reciproco combaciare permettevano il reciproco riconoscimento dopo anni di assenza. È detto simbolico secondo il vocabolario liturgico, il credo mediante il quale i credenti di tutto il mondo si riconoscono nella medesima fede. Per converso, il “diabolico” è ciò che non permette di riconoscerci, principio di indifferenza ed inesistenza. Etimologicamente il diritto sarebbe diabolico se rendesse possibile da un punto di vista legale situazioni che corrispondono a queste azioni = infatti le azioni possono esserci nel mondo ma loro esistenza giuridica (e quindi il fatto che costituiscano un diritto) non dipende dai fatti, ossia dal loro concreto e possibile realizzarsi, ma dall’uomo e dal suo potere di ordinare la realtà in base alla ragione. Il diritto è simbolico: permette o dovrebbe il riconoscimento dei consociati come liberi ed uguali nel medesimo mondo comune di valori condivisi. Allo stesso modo, l’arte è simbolica: inscena o rappresenta non solo quel che è rappresentato, ma più profondamente, ciò che ci accumuna, un mondo nascosto, ma ugualmente presente. Questo mondo nascosto è la cultura umana, nella quale il diritto è un sapere tra altri saperi, si pone in osmosi tra politica ed etica. Le geometrie giuridiche e il loro presupposto Qual è stato l’apporto di Kelsen per quanto riguarda la nostra concezione del diritto? Anche noi, come Kelsen, ci occupiamo del “diritto come è”, “senza legittimarlo come giusto o squalificarlo come ingiusto”. I problemi che si creano con questa interpretazione sono rinviati ad un altrove non giuridico; ciò ci legittima a rimanere all’interno di una teoria pura del diritto la quale ci permette di conoscere unicamente ed esclusivamente il suo oggetto. In tal modo, è inevitabile che il diritto sia ridotto al potere e che si perda il senso stesso della politica. 22 perde di significato perché tutto può essere o smettere di essere: nel momento in cui è stata creata la norma che è tale solo perché è stata posta in essere secondo le norme sulla produzione. In tal modo si adempie veramente quanto desiderato e preconizzato da Rosseau: la volontà generale, cioè la legge, mi rende libero ed obbedendo ad essa, io obbedisco a me stesso. Tutto sta a trasformare la mia pretesa in quella di una maggioranza parlamentare, che si può dire mia a maggior ragione; il problema da giuridico si trasforma in politico, e in tal modo la mia pretesa diventerà legge. E così il cerchio si chiude: io nato in catene, entrando nel contratto sociale, ottengo la mia libertà, mi affranco dalla schiavitù a mezzo dello Stato, la cui voce cioè la legge mi dà vita come soggetto libero. Per iniziare a pensare queste questioni bisogna partire da una prospettiva giuridica, sapendo distinguerle, in quanto il diritto distingue le fattispecie, non le omologa; in secondo luogo, l’analisi sarà filosofica, mostrando cioè i valori assunti dall’ordinamento giuridico a base del dettato normativo stesso. Una prospettiva giuridica: punto di partenza uguale per tutti è che non esiste in alcun ordinamento giuridico occidentale il diritto ad usare l’altro come una cosa, e ogni affermazione contraria va contro le conquiste dell’odierno stato liberale costituzionale e delle varie dichiarazioni dei diritti. L’ambito degli atti di disposizione riguarda solo gli oggetti, mai le persone e ogni affermazione contraria postula la riduzione dell’uomo a cosa, laddove nella storia del diritto uomini-cose sono stati solo gli schiavi. Ogni pretesa o attesa in materia di biotecnologie dovrebbe confrontarsi con questo punto  l’ordinamento giuridico rifiuta che un uomo o una donna possa essere oggetto di decisioni altrui, dovendo essere sempre soggetto di decisioni proprie, in rapporto di uguaglianza con gli altri. Le costituzioni pur non essendo diritto divino né tanto meno naturale traducono in proposizioni normative vincolanti un idem sentire pre politico e quindi pre-giuridico, ossia quella cultura che sta alla base del nostro convivere. La nostra costituzione non disegna una Repubblica in cui il valore dell’autonomia privata e della libera volontà del soggetto sia quello principale, accolto senza essere bilanciato con altri valori: senza fare dell’eudaimonismo politico, essa concepisce i singoli in una visione personalista e solidarista  la nostra Carta parte dal riconoscere e garantire i diritti inviolabili della persona e come tali irrinunciabili anche dal soggetto in quanto personalissimi: primeggia il diritto alla vita che non è un diritto come gli altri, riassumendo in se stesso il Grundnorm, cioè il senso stesso dello stato di diritto; essa poi contempla una pluralità di formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità del singolo: la famiglia (società naturale) / connessi ai diritti, prevede anche doveri di solidarietà, definiti inderogabili: essa dunque accoglie e fa proprio un concetto di diritto solidale, e non individualistico / lo stesso art. istituisce l’obbligo per la Repubblica di rimuovere situazioni di disuguaglianza rispetto alla condizione personale di ciascuno che indubbiamente ci sarebbero se una persona acquisisse di fatto potere di disporre di un altro, sia riguardo alla propria salute fisica che psicologica / la tutela della maternità, dell’infanzia e della gioventù è prevista esplicitamente come uno dei valori portanti dell’ordinamento giuridico, insieme al principio della tutela della salute = è riconosciuta come diritto fondamentale del singolo + interesse della collettività: A. L’intervento medico non è visto come un abuso ma come un’azione altamente sociale B. L’azione del medico deve essere tutelata nella sua tipicità di alleanza terapeutica. 25 Considerazioni generali in tema di interpretazione Interpretazione giudiziaria: emessa dal giudice nell’applicazione della legge in un tribunale o di interpretazione amministrativa: quella resa dalle P.A nella loro azione oppure di interpretazione dottrinale: quella resa da professori delle facoltà giuridiche ovvero interpretazione privata. Esistono interpretazioni più autorevoli, munite cioè di intrinseca forza per essere applicate: quelle rese dai poteri pubblici nell’esercizio delle loro funzioni, massimamente quella giudiziaria; ci sono poi interpretazioni più deboli, cioè quella privata in quanto scollegata dal potere statale di coazione. Troviamo poi interpretazioni pesanti ma non vincolanti: le interpretazioni della legge rese dai tribunali nelle loro sentenze, ossia la giurisprudenza oppure un particolare modo di interpretare un regolamento o una legge da parte di un ufficio. È noto che nostro ordinamento civile non vige il principio di attenersi alle decisioni già prese, come nel mondo anglosassone. Ci può anche essere l’interpretazione autentica che è assolutamente vincolante e resa dal legislatore stesso. A seconda dei criteri assunti, si parla di interpretazione storica se si vuole considerare il diritto nel suo sviluppo storico per chiarirne il significato attuale, e questa dà particolari peso ai precedenti giurisprudenziali e legislativi; c’è l’interpretazione sociologica se si vuole considerare l’influsso della società nella percezione della legge e ciò che la legge ingenera nella società stessa; interpretazione statistica o dinamica che coinvolge particolari concezione dell’uomo o del mondo in grado di inquinare la presunta purezza del testo legislativo ritenuto neutro oppure un’interpretazione scientifica che è più asettica. Da questa prospettiva si vede come il diritto sta continuamente tra l’effettività (ossia la vita concreta delle persone) e la validità (cioè l’insieme delle norme in quanto poste). A partire dall’interpretazione si può: A. Riflettere sulla capacità di porsi non solo come un potere legale, ma anche legittimo corroborato da “un più” capace di farci sentire le norme vincolanti non solo perché siamo costretti a farlo; B. Possiamo considerare i suoi limiti ossia le nostre libertà che si ritagliano all’interno delle norme giuridiche; infatti, il diritto (intendiamo in questo contesto la legge) fa problema ad ognuno di noi nella misura in cui ciò che è espresso in norme cozza con quel che sentiamo “vero” o “giusto”: abbiamo cioè bisogno di interpretare una legge perché diventi una vera legge e non un semplice comando del potere  in altri termini per essere davvero soggetti di diritto, e non assoggettati ad esso. E questa è l’essenza dello Stato di diritto. Le norme sull’interpretazione sono quindi uno straordinario test di verifica di quell’equilibrio tra la sovranità e i cittadini che ogni ordinamento giuridico designa e che ne costituisce l’ispirazione e l’aspetto più propriamente politico, in quanto ogni diritto postula inevitabilmente una politica del diritto. Le norme sull’interpretazione sono norme politiche Il diritto civile: “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e l’intenzione del legislatore”; l’ordinamento canonico: “le leggi ecclesiastiche sono da intendersi secondo il significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto.” 26 Il significato proprio delle parole sia nel diritto civile che nell’ordinamento canonico è punto di partenza e punto di risoluzione. Il legislatore postula che c’è un significato oggettivamente vero dei termini e che questo deve essere solo chiarito, non creato dall’interprete, il quale deve essere il più possibile scientifico. Questa angolatura ci pone in una situazione di asservimento alla volontà del legislatore che è esplicitamente richiamata da entrambe le disposizioni  applichiamo, dunque, una legge generale ed astratta al fatto particolare secondo lo schema logico di un sillogismo: matematicamente ne uscirà quel che il legislatore avrebbe voluto per quella singola fattispecie. L’idea di fondo è che l’interpretazione debba essere vincolata il più possibile cioè limitata nell’oscillazione data dai significati delle parole, privilegiando il significato stretto di esse e limitando l’uso metaforico  è una valutazione politica, non giuridica, cioè attiene al mondo di valori e significati nel quale si pone il legislatore stesso; la stessa scelta di uno strumento come il codice è significativa: basti pensare all’esplicita previsione e totale emarginazione di fonti giuridiche precedentemente importantissime, come la giurisprudenza, la consuetudine e l’opinione dei giuristi. Le norme sull’interpretazione sono del tutto particolari, in quanto prevedono fonti del diritto e di conseguenza ammettono o no come rilevanti alcuni atti giuridici, escludendone altri = istituiscono dunque un ordinamento: lo gerarchizzano, nel senso che prevedono una graduatoria di dette fonti, stabilendo quali siano le più importanti e quali meno, e anche in questo senso compiono una scelta politica, in quanto disegnano implicitamente una mappatura del potere. Interpretazione come processo a tre Nella concezione classica, l’interpretazione è un’attività oggettiva che si svolge tra la norma e il soggetto interpretante, il quale deve solo chiarire e dichiarare quel che è impresso nelle parole, in modo puramente ricognitivo, evitando ogni creatività: in questo senso, l’interpretazione è una parafrasi, un dire altrimenti quel che è già stato detto. siamo di fronte ad un’operazione matematica: dalla legge generale al fatto da essa regolato, dalla legge al soggetto interpretante. La dottrina contemporanea ha molto riflettuto sull’insufficienza di questa prospettiva, in quanto è chiaro che il legislatore non può prevedere tutti i casi futuri, ma anche le parole stesse presentano un margine di incertezza intorno ad un nucleo più compatto di significato = basta pensare alla parola “famiglia” (ricomprende oggi unioni omosessuali) o “atti di disposizione” (invocata in tema di diritti personalissimi); i significati dei termini sono pacifici ma in una società monoculturale. Sono invece più controversi in una società non pluralista che concepisce molte espressioni di una fondamentale cultura, ma pluriculturale. È problematica l’autoreferenzialità che assumerebbe l’esperienza giuridica se si rinchiudesse in un processo a 2 tra la norma e il soggetto interpretante in quanto comporterebbe una sorta di “produzione bloccata” del diritto. In realtà, l’interpretazione coinvolge anche un altro soggetto e cioè i soggetti stessi del fatto, nel senso che devono essere in grado di condividere la spiegazione dell’interpretazione, perché la legge sia sensata, cioè perché il suo significato sia condivisibile per loro e non si risolva in un atto d’imperio; la legge, infatti, è l’inizio di un processo comunicativo di valori fondato sul comune sentire di una società e precipitato in proposizioni normative. Il problema dell’interpretazione: è necessario ristabilire un significato comune tra la legge e il caso che ne è disciplinato e tra l’interprete e il soggetto destinatario dell’interpretazione. Se i destinatari dell’interpretazione non comprendessero come quella interpretazione sia giusta  si produrrebbe un’incomunicabilità, ossia un esserne assoggettati alla legge e non esserne soggetti. L’interprete quindi si deve aprire in un rapporto a 3: la legge rimane il punto di partenza 27 Ad esempio, che sia giusto risarcire il danno dovuto all’illecito civile non deriva dall’art. 2043 Codice Civile, come se, mancando questo fosse lecito cagionare colposamente o dolosamente un danno ingiusto: questo deriva dai principi della giustizia commutativa. Ma è comunque necessaria una legge che imponga questo obbligo, permettendone la perseguibilità indefinita. Non conoscibilità della legge eterna: Tommaso afferma che la legge eterna non può essere conosciuta in questa nostra vita attuale se non nei suoi effetti. Solo Dio e i beati la conoscono. Noi possiamo conoscerla nei suoi effetti in quanto ogni effetto rivela sempre qualcosa della sua causa. Ciò significa affermare che la legge eterna è innanzitutto un mistero, e che ogni conoscenza della legge naturale o positiva si fonda su questo mistero. Se la legge eterna fosse da noi conosciuta compiutamente, ne deriverebbe la totale conoscibilità della legge naturale (che è partecipazione della legge eterna): in tal modo il diritto sarebbe deducibile dai suoi principi. Al contrario, il diritto è ricerca continua, volta per volta del giusto obiettivo. In altri termini, il mistero è ciò che ci permette di non rinchiuderci in un’ingenua persuasione di conoscere la realtà così come appare: così la legge naturale che cerchiamo di decifrare e la legge positiva che proviamo a derivarne sono soggette ad una radicale ipoteca e cioè che il loro fondamento, quindi, la legge eterna è a noi sconosciuta, e dobbiamo quindi accettare di rivedere continuamente le nostre interpretazioni. Questo aspetto è andato completamente perduto nel pensiero moderno, fin dal razionalismo: così da Grozio, i giuristi parleranno di legge divina, naturale e positiva ma non di legge eterna, che di esse costituiva il fondamento ultimo. Così Leibniz osserverà: giustamente, a mio parere, Grozio fece coincidere la legge eterna degli scolastici con il principio di socialità. Il principio di socialità diventerà un assioma delle nuove geometre geometrie legali di Spinoza e Wolff: il sapere giuridico verrà costruito come conoscenza teoretica, e non più come sapere pratico come per Aristotele e Tommaso. Così anziché conoscenze sempre problematizzabili e accertabili, avremmo conclusioni necessarie, valide comunque e dovunque, appunto come un teorema di geometria. Dal principio di socievolezza deriveranno i 3 pilastri del codice di Napoleone del 1804: 1) intangibilità e assolutezza della proprietà privata 2) responsabilità civile per il risarcimento del danno 3) il contratto avente forza di legge tra le parti. Dopo Grozio, il mistero cede il posto ad una Ragione astratta ed ingenuamente esaustiva del reale  parliamo del giusnaturalismo seicentesco che confondeva la natura con lo stato di natura e da questo sviluppava conclusioni universalmente valide. Nella civiltà tecnologica, il diritto è pensato come una tecnica uguale alle altre, misconoscendone la specificità: la comprensione dei fatti umani viene appiattita su quella dei fatti naturali, il diritto diviene una fisica sociale / lo Stato è la machina machinorum / la politica è la sola gestione del potere. Così la natura non cela più il sacro, ma appartiene alla sfera del tecnicamente disponibile, del manipolabile. E come corollario viene proclamata la sovranità dell’uomo di questa natura senza ministeri. Teoricamente ciò comporta l’emarginazione del problema teologico e la riduzione del sapere alla dimensione puramente tecnica. Nel diritto tutto questo significa: ripensamento del suo disciplinamento in termini di “diritti soggettivi”, predicati della volontà del singolo e garantiti dall’ordinamento giuridico = al centro, il soggetto, concepito come persona libera e cosciente, rafforzato anche ideologicamente dalla sua posizione logica nella struttura del sistema intorno a lui costruito: tutti i problemi della capacità risolti in altrettanti attributi necessari alla sostanza del soggetto. 30 La volontà del legislatore è la fonte dei diritti soggettivi e questi sono attribuiti alla volontà del soggetto: il che significa che il problema del giusto è risolto dalla volontà cioè in una proposizione che trova fondamento non nella realtà delle cose ma nella volontà sciolta. In questa prospettiva, il legislatore è un dio secolarizzato secondo l’espressione di Hobbes del “dio mortale” ma la sua volontà è totalmente conoscibile tramite la legge: scompare l’inconoscibilità della legge eterna e il fatto che possa essere ripensata. I principi dai quali il legislatore ha deciso di partire sono nuovi principi della legge della ragione, ormai svincolata della realtà antropologica: si potrà assumere il principio per il quale possiamo scegliere la nostra sessualità ovvero decidere la nostra morte. Diritto divino e legge divina nella loro connessione con la legge eterna Il termine diritto divino non ricorre molto nel lessico di Tommaso e manca una definizione; il termine legge divina è molto più usato: l’espressione è data nella Legge Antica e nella Legge Nuova, che è la Grazia dello Spirito Santo ed è assolutamente necessaria al conseguimento del fine ultimo dell’uomo cioè Dio. La legge divina è necessaria per il conseguimento del fine della beatitudine proprio dell’uomo, che di per sé eccede il limite delle sue facoltà umana. Ma è necessaria: 1) per la conoscenza di questo fine 2) per la sua completezza laddove la legge umana si limita a disciplinare le azioni esteriori e non l’uomo interiore, e perché in tal modo non rimanga nulla di non punito. Quindi, la legge divina svolge lo stesso ruolo della Rivelazione divina: come l’uomo non avrebbe potuto conoscere chi è Dio senza una Sua positiva rivelazione, e si sarebbe limitato ad una teologia negativa, così ha bisogno che Dio riveli la sua Volontà per superare ogni dubbio e avere guida nel proprio operare. È infatti verissimo che l’intera trattazione della legge e particolarmente della legge naturale è una trattazione teologica, sebbene ovviamente contenga una filosofia del diritto. Tommaso è infatti un teologo e anche la trattazione del diritto avviene “sub-ratione Dei”: questa è una prospettiva che non possiamo mai misconoscere, ed in questo senso la trattazione sul diritto o la legge divina è centrale. Del resto ormai sappiamo la “circolarità delle leggi che hanno un solo punto di partenza e un solo punto di arrivo: Dio”. Anche il diritto va ricondotto a Dio, sua ultima fonte mediante il trinomio di legge eterna, legge naturale e legge positiva. Una legge naturale scritta nel cuore dell’uomo e partecipe della legge divina. Una legge positiva conforme ai dettami della legge naturale: è questa la stupenda armonia del sistema etico-giuridico tomistico. Legge divina e legge naturale come partecipazione alla legge eterna Per Tommaso fondamento di ogni legge è la legge eterna che, non conosciamo compiutamente pur sapendo che c’è. Ed è per questo che il diritto naturale partecipa alla legge eterna; allo stesso modo la legge divina partecipa alla legge eterna e questo ci impedisce una visione fondamentalista di essa. La legge divina infatti riguarda i credenti, costituendo per essi un surplus di conoscenza e di grazia: ma della legge divina vive la Chiesa, non la società civile in quanto tale. I credenti trovano nella legge divina la perfezione dell’uomo: l’uomo naturale si fermerà alla legge naturale e alla legge positiva in conformità ad essa, che rimane incompleta. Al vertice del sistema delle leggi in San Tommaso c’è la legge eterna: questo significa che tutto ciò che avvolge e compenetra NON sono i comandi divini (perciò è espunta ogni visione fondamentalista di essa), ma l’ordine della divina provvidenza che non è altro che l’amore efficace con il quale Dio crea, dirige e muove ogni realtà creata guidandola in sé. In questo modo, 31 la creatura razionale, partecipando alla legge eterna, fa il bene e il male e discerne il diritto o la legge naturale ed emana una legge umana positiva ad essa conforme. In questo quadro, il dono più grande della Provvidenza è la legge divina, con la quale siamo istruiti sul bene da compiere e il male da evitare. In altri termini, la legge naturale e la legge divina muovono l’uomo al rispettivo bene, naturale e soprannaturale, ed entrambe sono partecipazioni della legge eterna, cioè della Divina Provvidenza. Legge divina e legge umana Se è vero che la legge divina e la legge naturale affondano le proprie radici nella legge eterna, è altrettanto vero che legge divina e legge umana possiedono un diverso peso ontologico, l’autorità di Dio rivelante e la ragione umana. Le due leggi si integrano NON si escludono né si oppongono: anzi, proprio l’esistenza della legge divina fa sì che tutto l’ambito dell’agire umano sia normato, laddove la legge positiva umana non potrebbe farlo. Secondo Tommaso, il diritto naturale è divino riguardo alla sua fonte remota (Dio) ma non alla sua fonte prossima (legge naturale) / la legge divina ha come fonte immediata Dio: è vero i due ambiti sono contigui, ma contiguità non significa eguaglianza. La diversità degli ordini pone inevitabili problemi di relazione tra l’uno e l’altro: il diritto divino ha ruolo fondante (per questo motivo è necessario disobbedire alla legge positiva umana quando questa sacrifichi il bene divino; e così nel diritto canonico, il diritto divino e il diritto naturale hanno un ruolo sovraordinato, anche se non canonizzato: questo è il motivo per cui la giurisprudenza rotale elaborò una teoria che superava di fatto la stretta normativa del codice allora vigente. In tal modo la priorità ontologica del diritto divino (matrimonio tra battezzati è sacramento) e del diritto naturale (matrimonio è dato dal libero consenso reciprocamente manifestato e ricevuto) fonda la normativa del codice sul matrimonio, e questo schema si ripete per ogni altro istituto giuridico, anche di diritto semplicemente civile, come ad esempio la proprietà. In altri termini il diritto umano deve costitutivamente rispondere a dei criteri di giustizia sostanziale che sono precipitati nel diritto divino prima e naturale poi. È chiaro che una legge che vada contro al diritto divino o naturale, non è una vera legge e va disubbidita. Secondo Tommaso: ogni volere discorde dalla ragione, sia retta che erronea, è sempre peccaminoso. La coscienza retta obbliga direttamente e per se stessa, poiché il giudizio formulato dalla coscienza è per se stesso buono e tale appare alla ragione. Ma anche la coscienza erronea obbliga, non per se stessa, ma in quanto ciò che percepisce è giudicato come se fosse uomo. Dunque la volontà ne resta obbligata in virtù del fatto che tale comportamento è valutato come buono. Es. se la mia ragione presentasse credere in Cristo come un male, la mia volontà lo potrebbe vedere solo come un male: non perché lo sia in se stesso, ma perché è un male per la mia ragione. Significato della legge divina Declinando la diversità delle leggi in eterna, naturale, divina, e umana, San Tommaso risolve un problema che nel mondo moderno è irresolubile, ossia fare in modo che il soggetto dell’ordinamento giuridico non sia tale solo perché assoggettato al potere del legislatore: siamo soggetti di questo ordinamento senza esserne assoggettati. e quindi secondo Tommaso siamo soggetti di diritto senza che la soggettività ci sia conferita dal legislatore umano, che è al contrario il punto di partenza delle moderne concezioni giuspolitiche. 32 descrittive, analizzabili in termini quantitativi e comprensibili quando si è in grado di comprenderli alla stregua della legge di causalità/ il diritto ha a che fare con fatti umani, comprensibili in tutt’altro modo, cioè secondo categorie di senso e di valore. I fatti umani, intesi nel loro senso e valore, forniscono all’interprete del diritto i “casi” da regolare giuridicamente. Con riguardo alla giurisprudenza, il limite della legge di Hume e delle conseguenze che se ne traggono sta in questo: essa parla di fatti, ma nel giudizio giuridico non si hanno fatti, ma casi. I fatti umani non sono valutabili allo stesso modo dei fatti empirici poiché sono carichi di valore, che è precisamente il fine, e cioè lo scopo o il senso di ciò che è fatto. 2) L’estensione alla giurisprudenza della legge di Hume è pensabile solo assumendo che il diritto è una tecnica come le altre ovvero che il sapere giuridico è assimilabile al sapere scientifico. Mentre la scienza presuppone oggetti, il diritto presuppone e istituisce soggetti. Il diritto non è una tecnica come le altre. Le tecnologie non hanno alcun senso, ma solo un funzionamento, mentre il diritto si rivela propriamente una tecnica di umanizzazione delle tecniche poiché riconosce un senso precedente al proprio intervento. Questo è dimostrato dall’art. 2 costituzione, che afferma che la repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’individuo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Concepire gli esseri umani come oggetti = schiavi; bisogna fare attenzione a ritenere che le scienze e le tecnologie siano il vero sapere, sul quale deve essere esemplato e costruito ogni altro sapere, e particolarmente quello giuridico. Da qui la pretesa che il diritto sia semplice ancella della tecnologia. 3) La scienza non descrive del tutto i fatti, ma isola solo quelli quantificabili e li riporta nella loro dimensione numerica: il numero è di per sé avalutativo. Ma uscendo dal considerare i fatti nella loro datità empirica, e cogliendoli in una prospettiva più ampia, è innegabile che il dato di fatto acquisti un significato, un senso, e un fine. Es. dal fatto che un bambino vada a casa, astraendo da ogni altro dato, non posso dedurre che debba andare a casa; ma se aggiungo a questo, altre realtà significative (come la ripetizione di esso nel corso dei giorni o il dire quale persona sia in casa o il rapporto tra il bambino e quella persona) capirò facilmente perché egli vada a casa, il dover essere nascosto dietro l’essere = la contraddizione logica che si rileva è il limite del “riduzionismo fisicalista” nel momento in cui questo metodo, legittimo nel proprio ambito, viene esteso acriticamente alla realtà umana nel suo complesso, ciò di cui si occupano il diritto e le scienze umana / le scienze fisiche, per costituirsi come tali, devono prescindere da molti elementi e considerarne solo alcuni, e per giunta solo leggendoli nella loro dimensione numerica o quantitativa. 4) San tommaso (a differenza di Aristotele) = la natura è innanzitutto una natura creata, il che significa che essa è in relazione immediata e continua con il suo creatore. Per Tommaso, la vera Causa e il vero Fine sono invece Dio stesso = egli non causa allo stesso modo delle cause create e non è solo fine dell’uomo, bensì sua beatitudo: questo dice qualcosa di più di un semplice fine mondano. In questo senso, la vera difficoltà, per noi contemporanei, nell’affrontare il pensiero di Tommaso consiste nel fatto che per noi la natura non dice niente al di fuori di se stessa: anzi siamo abituati a relegare nell’irrazionale o comunque nel soggettivo ogni altra considerazione. La riscrittura del mito delle origini, il big bang, questa Genesi laica non dice il “come è accaduto” ma il fine della natura: Dio ne è semplicemente al di fuori, come ogni affermazione teologica è fuori da affermazioni scientifiche. Tuttavia, la scienza si è eretta ad ultima istanza veritativa: l’ateismo non è per molti solo un procedere metodologico, ma è una risorsa di senso per spiegare tutto, una vera e propria risorsa dogmatica. Diviene dunque l’ateismo una religione capovolta. 35 5) La conversione dell’essere in norma può essere considerata una fallacia solo intendendo A. per natura: qualcosa di diverso da quanto intendeva l’Angelico B. concependo diversamente la stessa esperienza scientifica. Infatti, l’esperienza scientifica può diversamente essere considerata in rapporto alla possibilità di un sapere metafisico e in rapporto alla scienza matematica e fisico-meccanica, ma anche in relazione alla conoscenza teologica. Ecco perché Tommaso ignora la distinzione tra realtà e valore, tra essere e dover essere, che domina la coscienza moderna, e che è soprattutto una conseguenza della scienza moderna, la quale procede con metodo indifferente ai valori. Non contestiamo la validità logica della legge di Hume ma riteniamo che nelle cose umane e quindi nel diritto non sia applicabile, poiché usiamo il termine natura in un altro senso da quello empirico. Il rischio di una teoria formale del diritto La purezza della dottrina formalistica del diritto, basata sull’applicazione della legge di Hume, consiste nel fatto che essa non si mescola a considerazioni di ordine valoriale, divenendo così maggiormente scientifica. Ma ora ci poniamo un’altra domanda: il sapere scientifico è davvero così stabile, cioè interamente dimostrato e certo come pretende di essere? No, perché ogni proposizione scientifica descrive il mondo esterno non come è, ma come se fosse riducibile, nei termini, nel linguaggio, nelle categorie, che essa stessa presuppone senza peraltro dimostrarle. Esemplificando si potrebbe dire che nessuno ha mai visto un protone, e tuttavia la realtà fisica funziona come se ci fosse.  il rischio di una teoria formale del diritto è che riducendo lo stesso ad un insieme di proposizioni logiche prescindendo dal loro contenuto, se ne perda per strada qualche pezzo troppo importante per essere trascurato, proprio come una teoria fisica è esposta al rischio di trascurare qualche aspetto della realtà troppo importante per non dover essere spiegato. Come posso essere certo che il mio ragionamento spieghi veramente tutto ciò che deve spiegare? La scienza rischia di essere un insieme di proposizioni, ma paradossalmente non fotografa il mondo ma sé stesso: lo scienziato e il giurista rischia di non vedere altro che il proprio ragionamento e non la realtà che pure vorrebbe spiegare. Da qui l’esigenza di un sano realismo del quale Tommaso è maestro per evitare ogni autoreferenzialità = infatti, nel mondo del riduzionismo fisicalista delle scienze, verità significa coerenza rispetto agli assiomi o presupposti di partenza, che non sono dimostrati, ma che rendono possibile ogni dimostrazione: scompare ogni riferimento alla realtà intesa nella sua globalità, per spiegare la quale lo scienziato “puro” ha iniziato a fare scienza. Ma la riduzione del diritto ad un sistema formale è un metodo, non una certezza: come metodo ha alcuni vantaggi e come certezza non è assoluta. La legge naturale Il ragionamento di San Tommaso sulla legge naturale parte da un’obiezione radicale: Sant’Agostino afferma l’esistenza di una legge eterna (che stabilisce con giustizia che tutte le cose siano nel massimo ordine), pare che non ci siamo bisogno di un’altra legge, inutile doppione. San Tommaso supera l’obiezione e osserva che di “legge” si può parlare: 1. Come esistente in un principio regolante e misurante 2. Come esistente in una cosa regolata e misurata in quanto partecipa della regola o misura Tutte le cose soggette alla divina provvidenza sono regolate e misurate dalla legge eterna; ma tra tutte, la creatura razionale è soggetta in maniera più eccellente alla divina provvidenza, poiché ne 36 partecipa col provvedere a sé stessa e agli altri. Perciò nella divina provvidenza si ha una partecipazione della ragione eterna, da cui deriva un’inclinazione naturale verso l’atto e il fine dovuto. E questa partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole si chiama legge naturale. Come dunque l’essere della creatura, la sua esistenza, è partecipazione all’essere di Dio, e come la ragione umana è lume partecipato dall’intelletto divino, così la legge naturale è partecipazione della legge eterna di Dio. Nella legge di natura troviamo quindi di nuovo il concetto di fine: ogni essere tende al proprio fine, cioè al proprio bene, alla realizzazione ottimale del proprio essere. Questo bene, a cui il diritto appartiene, non è rinvenuto in un’astratta esigenza della ragione, ma al contrario il suo perseguimento è colto nello svolgersi costante delle cose della natura, dall’osservazione empirica dei fatti. Il fine guida l’agire umano, ed è proprio della ragione ordinare ad un fine, se non in quanto è retta. Perciò il problema delle scienze pratiche come il diritto è costruire le regole dell’agire libero secondo le esigenze e i fini inscritti nella natura: la legge naturale esprime così la normalità di funzionamento di una cosa. Tommaso distingue in base alla complessa struttura dell’essere umano 3 tendenze: 1. Ciò che l’uomo ha in comune con tutti gli esseri è che egli tende per natura alla conservazione della propria esistenza. Su questa tendenza naturale si fondano i precetti proibenti, che specificano ciò che giova a conservare la vita umana e impediscono il contrario 2. Per quanto ha in comune con tutti gli altri animali, appartengono alla legge naturale le cose che la natura insegna a tutti gli animali, come l’unione del maschio con la femmina, la cura dei piccoli e altre cose simili 3. In quanto è essere razionale, tende a vivere in società e a conoscere la verità su Dio. Da questo lato appartengono alla legge naturale le cose riguardanti codeste inclinazioni, cioè il suo sviluppo nelle varie formazioni sociali, il dipanarsi della sua libertà e responsabilità nei rapporti con gli altri. Capiamo, quindi, che la legge eterna di Dio (il piano inscritto nella natura e a noi non interamente noto) diventa la legge naturale: l’ordine divino manifestato dagli impulsi, dalle tendenze fondamentali, dalle esigenze prima della natura umana razionale. Vivere secondo la propria natura è vivere secondo la libertà che Dio ha dato alle sue creature, partecipando ad una relazione vitale e consapevole con Lui. E perciò, per questa sua connessione alla legge eterna, la legge naturale può essere detta al tempo stesso trascendente, in relazione alla sua fonte ultima, obiettiva nella sua sorgente prossima, l’ordine creato immanente, in quanto costituita da principi intrinseci alla natura stessa dell’uomo, e infine razionale, poiché la facoltà che la decifra e la persegue è la coscienza guidata dalla ragione. Modificabilità della legge naturale? “Essendo la nostra natura è variabile, non è immutabile come quella divina. Perciò gli istituti di diritto naturale variano secondo gli stati e le condizioni umane.” Queste parole colgono il problema fondamentale sotteso alla problematica della legge naturale e indicano una soluzione. Evidentemente, per Tommaso la legge naturale non può essere concepita alla stregua di un modello more geometrico demostrabilis, perfetto dal punto di vista razionale e deducibile con sicura certezza dai propri assiomi: ma al contrario esprime quell’ordine che la 37 equamente distribuiti, in questi casi, essendo questi più atti di violenza che leggi, non obbligano in coscienza. Tuttavia, per un bene più grande cioè la pace e tranquillità della comunità, l’uomo dovrà rinunziare al proprio diritto. Il che introduce il tema dell’obiezione di coscienza. L’obiezione di coscienza consiste essenzialmente nel fatto che un cittadino, per motivi interiori, ossia “di coscienza” si rifiuti di adempiere ad un obbligo espressamente previsto dalla legge positiva. Si può discutere se sia un fenomeno necessariamente soltanto individuale ovvero se si possa parlare anche di un’obiezione posta in atto da gruppi di consociati; si distingue, poi, tra un’obiezione assoluta (ogni e qualunque comportamento che rientri nel genere al quale si obietta) e un’obiezione relativa (capace di ammettere eccezioni). Storicamente nasce per motivi religiosi: dal rifiuto di Antigone di obbedire all’ordine del tiranno Creonte che le proibiva di seppellire il fratello, in nome delle leggi non scritte della giustizia e della pietà, al rifiuto dei martini cristiani di prestare culto al genio dell’imperatore, al rifiuto del giuramento in un processo. È indubbio però che nel secolarismo della cultura occidentale, l’obiezione di coscienza si sia estesa anche per motivi morale (rifiuto della violenza, specie quella delle armi) e a convincimenti filosofici (che riguardavano in senso ampio la concezione del mondo, dell’uomo e della storia); si estende anche a motivi politici (anarchia o interzionalismo). Mediante l’obiezione di coscienza, il singolo non pone in essere un atto negativo, ossia un semplice rifiuto = egli etimologicamente pro-testa, ossia rende testimonianza a favore di una verità da lui ritenuta più grande, più alta dei comportamenti e fallibili previsti dalle leggi umane. In questo senso, l’obiezione di coscienza può assumere il significato profano di una proclamazione di libertà, della incomprimibilità della persona umana a semplice “esecutore” di ordini statali. I motivi per i quali si obietta possono essere condivisi o dalla generalità dei consociati o non trovare un ampio riscontro od approvazione, e questo non può non rilevarsi anche nella disciplina normativa: così in molti paesi, come l’Italia, l’obiezione dell’aborto è prevista senza che la legge indichi particolari motivi fondanti, è cioè concessa senza fissarne un elenco / mentre per altre forme di obiezione, la concessione di questo beneficio è subordinata a particolari motivi, previsti a numero chiuso: in passato non fu accolta la richiesta di obiezione di coscienza al servizio militare per motivi politici, perché la legge che disciplinava la materia faceva riferimento soltanto ai motivi religiosi, filosofici o morali. Nel caso della cosiddetta obiezione fiscale, il legislatore la esclude del tutto. È di fondamentale importanza osservare che, nonostante la pluralità di forme che assume l’obiezione di coscienza, un dato rimane comunque fermo: l’obiezione di coscienza si pone come rifiuto di un dovere di diritto pubblico, ossia promanante dall’autorità statale. Non è pensabile un’obiezione a un dovere che nasca da un contratto privato, ossia da relazioni private. In questo senso, l’obiezione si dà solamente nei rapporti tra il cittadino e il potere pubblico, che impone determinati comportamenti. La dualità esasperata tra pubblico e privato è l’alveo naturale nel quale sorge il problema: poiché il diritto è pensato come legge e confuso con essa, e poiché la legge, per sua natura non può essere pubblica, comportamento imposto dall’alto ad una massa di individui concepiti come incapaci di essere regola a se stessi, irregolari e asociali  ne deriva che l’obiezione di coscienza non può essere ammessa se non nei limiti previsti dalla legge, sotto pena di stravolgere quella pace sociale che la legge vuole costituire. 40 In altri termini, in una concezione positivista come quella giuridica dominante, non può legittimamente darsi alcuna obiezione alla legge, a meno che la legge stessa non lo preveda: ma in questo caso non si può parlare nemmeno di un’obiezione vera e propria, ma solo di un diverso comportamento che può essere assunto, ossia di una facoltà concessa dalla legge. Ma in fondo anche nel caso del giusnaturalista puro, la situazione è la stessa: per lui, la vera legge NON è umana, ma superiore, morale se non divina e se la legge positiva ne differisce, non va osservata proprio perché non è più legge = per lui la legge umana stessa non esiste, ma esiste soltanto il dettame della propria coscienza. È evidente che bisogna sfuggire entrambi i corni del dilemma: il problema dell’obiezione di coscienza è destinato a rimanere in questi termini, a meno che non si compia una critica alle premesse sulle quali si fondano tanto i giusnaturalisti quanto i positivisti. Per noi moderni, la legge nasce come ordine imposto da un superiore, che dispone di sufficiente forza fisica per costringere all’esecuzione: il legislatore elabora alcune proposizioni normative conformemente a quanto dispone una norma fondamentale o la Costituzione e mediante l’Esecutivo ne esige l’adempimento. Un ordinamento valido, cioè le norme prodotte in conformità a norme superiori che disciplinano la formazione delle leggi, diviene così “efficace”, vale a dire capace di farsi valere e di essere effettivamente obbedito. Possiamo osservare l’apporto della teoria di Kelsen che, si impernia sul principio della divisione dei poteri, già elaborato da Montesquieu e sulla valutazione sostanzialmente negativa elaborata da Hobbes, del ruolo del singolo consociato, del privato cittadino concepito come individuo egoista e incapace di regolarsi, e dunque esposto alla guerra civile perenne. L’ordine del sovrano è l’unica scappatoia al disordine e al caos, cioè alla violenza inevitabile. La legge non può che essere un ordine e agli ordini non si può legalmente obbedire: la disobbedienza non esiste giuridicamente, ma solo come dato di fatto, alla quale l’ordinamento ricondurrà precise conseguenze. Ordine giuridico significa comando dello Stato, ma bisogna osservare che ordine non significa soltanto comando. È da addebitare ad un grande movimento filosofico, chiamato “Seconda Scolastica”, una sorta di shifting del termine “ordine”: da Francisco Suarez in poi, l’ordine (ordo iuris medievale: realtà intrinsecamente ordinata, capace come tale di esprimere un’autoregolamentazione secondo esigenze oggettive, percepite e tradotte dalla dottrina giuridica) viene semplicemente inteso come comando, il precetto autoritario del potere. Tecniche particolari come la generalità, l’astrattezza, il sillogismo giuridico ne costituiranno lo strumentario concettuale = ma ormai il diritto si è identificato con la legge e si è ancorato definitivamente allo stato, non più alla società. È questo il motivo per cui storicamente l’obiezione di coscienza non era prevista nei sistemi codicistici, ossia negli Stati liberali sviluppatisi nell’Ottocento = veniva affermata l’irrilevanza delle motivazioni personali e più radicalmente della dimensione del privato nei confronti del pubblico / solo successivamente, nello sviluppo dello Stato liberale classico, tale posizione si attenuò; non a caso, l’obiezione era generalmente vietata anche dagli ordinamenti giuridici dei Paesi socialistici: sia la prospettiva individualistica liberale che quella socialista hanno infatti come matrice comune la prospettiva hobbesiana del diritto e dello stato. Al contrario nel Regno Unito, cioè nel dominio di Common Law, la legislazione, perlomeno sull’obiezione al servizio militare, è stata molto generosa. Tutto cambia ponendosi in un’altra prospettiva = se non identifichiamo il diritto con la legge, ossia con il comando del superiore, e se concepiamo il singolo come capace di autodeterminazione, è possibile scoprire SPAZI più ampi per l’obiezione di coscienza alla legge positiva in nome di 41 esigenze superiori di giustizia, senza che per questo l’ordinamento perda la propria giuridicità o positività. Questo contesto che è proprio dell’esperienza giuridica romana e medievale e oggi di quella anglosassone e in un certo senso di quella canonica, la legge positiva non è più l’unica fonte del diritto: l’esperienza giuridica è imperniata in questa diversa dimensione sul trovare nella mutevole varietà delle cose umane ciò che è giusto (non sull’obbedienza ad un comando). Fulcro del sistema appare così non la costruzione teorica di un diritto soggettivo secondo la prospettiva moderna, ma sulla res: la cosa stessa con la quale il soggetto si incontra, che richiedere di essere valutata e compresa nel suo valore e significato. Questo NON significa misconoscere il ruolo delle leggi positive umane, che costituiscono una dimensione necessaria del discernimento di ciò che è giusto (non a caso nell’esperienza anglosassone, la massa degli Statutes è imponente)…ma significa riconoscere che il diritto NON coincide con la legge, ossia con il potere, se non in parte, in una sua estrinsecazione, anche se storicamente determinante…significa riconoscere che fondamento del diritto NON è l’obbedienza ad un comando, ma un comune sentire, un assenso, un’osservanza comune. Il diritto nasce dunque dai valori che la società esprime e che percepisce come tali. Il valore è un principio o un comportamento che la coscienza collettiva ritiene di sottolineare, isolandolo e selezionandolo dal fascio indistinto dei tanti principi e comportamenti. Ed ecco perché nell’esperienza giuridica medievale di cui San Tommaso è ottimo testimone, il ruolo della coscienza individuale è così sottolineato, perfino nella consapevolezza che di fatto uno può oggettivamente sbagliarsi. Così Tommaso affronterà meglio l’immediata scomunica della Chiesa disobbedendo ad un ordine del superiore che si reputa ingiusto o fuggire per non farsi prendere dove non giunge il braccio secolare. Ancora “anche se ciò che la nostra ragione ci impone non sia per se stesso secondo la legge di Dio, in quanto però la nostra ragione lo conosce come secondo la legge di Dio, e cosa buona, ne segue che la coscienza pure quando sbaglia, ci obbliga.” Scompaiono i riferimenti alla validità e all’effettività dell’ordinamento giuridico, mentre l’ordine viene riportato al suo significato vero e proprio, quello originario. Il diritto viene riportato alla società / viene riportato alla sua piena importanza il ruolo dei singoli consociati nello svolgimento dell’esperienza giuridica, mentre il pubblico è riportato alle sue giuste dimensioni. Questo è precisamente l’alveo in cui sorge la possibilità dell’obiezione di coscienza. Le costituzioni moderne NON si limitano ad essere “semplici macchine legislatrici”, in termini kelsiani, non attengono solamente alla dimensione formale degli ordinamenti giuridici, fissando i criteri per la loro validità, come “norme sulla produzione” degli atti normativi statali; MA nelle costituzioni sono presenti veri e propri valori diffusi, nei quali si ritrova la generalità dei consociati e che, come valori condivisi, formano l’intelaiatura normativa. In questo senso è interessante ricordare che l’art. 2 della Costituzione NON concede ma riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo: l’ordinamento giuridico italiano è così, dalla nostra massima fonte di diritto, concepito come basato su valori previ ad ogni riconoscimento legale, ma non per questo non giuridici, proprio perché la carta costituzionale non vede necessariamente coincidenti il diritto con la legge. Questo principio fondamentale, al quale se ne ricollegano altri come la libertà di uguaglianza fra tutti, libertà religiosa e di coscienza con i connessi doveri di solidarietà sociale, è di fatto plesso teorico dal quale si giustificano gli interventi della giurisprudenza, volti ad ammettere sempre più la possibilità dell’obiezione di coscienza. È vero, infatti, che il diritto alla libertà di coscienza NON è formalmente riconosciuto, in maniera esplicita nella Carta Costituzionale; ma di esso manca solo il nome, non l’ammissione e la tutela, essendoci infatti riconoscimenti costituzionali impliciti, tra questi proprio la libertà di coscienza, che è la primordiale e basilare di tutte le libertà. 42 il temuto fondamentalismo perché la norma religiosa verrebbe a godere di possibilità di coazione che noi riserviamo esclusivamente al diritto) / ma il problema c’è anche se analizziamo la questione al contrario, e cioè se la prospettica etica o religiosa è completamente espunta in quanto non significante: questo conduce alla versione contemporanea dello Stato etico, che decide chi e come e quando può nascere e morire (i problemi bioetici ne sono un esempio lampante: le biotecnologie appaiono le ancelle del diritto e a queste il diritto deve solo conferire il loro assenso, per trasformare il tecnicamente fattibilmente in legalmente possibile) = in questa prospettiva si misconosce il diritto perché si assimila alle altre tecniche. Nella prospettiva della laicità, la riflessione del problema di questi due poli rimane all’interno dell’ordinamento, ossia delle regole del gioco, concepito come un sistema chiuso ed autoreferente. Questa impostazione dimentica che sì ogni gioco ha delle regole e queste sono autosufficienti come l’ordinamento ma ogni gioco ha un senso che ne è il presupposto. All’opposto si può pensare di concepire le relazioni tra ordinamento giuridico e valori condivisi, e dunque il rapporto tra stato e chiesa, prendendo ad esempio gli stati uniti in cui nessuno dubita della separazione tra stato e religione, ma quest’ultima ha un ruolo predominante. In conclusione: lo stato vive di presupposti che non può garantire = affermazione di Bockernforde, proprio perché ne sono la premessa, non la conseguenza. Tra questi presupposti la religione ha un posto significante, sebbene non sia la sola, ma concorrano altre etiche e altri saperi. Non sono i politici i fondamenti della politica, non sono i giuridici i fondamenti del diritto, e questo non per un postulato confessionale, ma per il fatto che il procedere razionale (unico sapere accettato nella moderna ragione pubblica) richiede l’accettazione previa di premesse che fondano ogni possibile dimostrazione. Questo dice semplicemente l’insopprimibilità della domanda sul perché delle cose, che sempre si accompagna a quella del loro funzionamento. Questa posizione è la constatazione che i diritti umani sono il prodotto della nostra storia giuridica occidentale, che è segnata indelebilmente dal cristianesimo. Le religioni sono fonte di cultura, ossia di pensiero anche giuridico, e operano a partire dal linguaggio e dalle categorie culturali in cui vivono, ma non sono esse stesse cultura immediatamente, e cultura giuridica in particolare. Il concetto di diritti dell’uomo non postula immediatamente quello di persona, ma quello di soggetto di diritto, che è una creazione della cultura occidentale e che dice al contempo la coincidenza dell’individuo con la soggettività giuridica, creazione propria del sapere giuridico. Esso declina in termini giuridici il concetto filosofico di persona come essere relazionale e questo è stato reso possibile certamente dal cristianesimo. È fuor dubbio poi che il cristianesimo ha reso possibile l’esperienza della democrazia. Rendersi conto di tutto questo non significa uscire dal positivismo giuridico, ma piuttosto assumerlo responsabilmente: è vero che le leggi sono dei “nomodotti” ma le costituzioni ci mostrano che all’interno della prospettiva positivista non cadiamo necessariamente nel nichilismo giuridico. Anzi i diritti dell’uomo sono una risorsa contro di esso. 45 46
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