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L'era dell'industrializzazione, Sintesi del corso di Storia

L'era dell'industrializzazione che ha modificato in profondità il carattere delle società europee, americane e giapponesi tra la fine del 19° secolo e i primi anni del 20°. Vengono analizzati i cambiamenti economici, tecnologici e sociali che hanno portato alla nascita dell'economia industriale e alla diffusione delle innovazioni tecnologiche. Inoltre, viene descritta l'importanza delle infrastrutture e delle reti di comunicazione per lo sviluppo dell'industria e dell'economia mondiale.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 23/03/2023

Elisalui
Elisalui 🇮🇹

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Scarica L'era dell'industrializzazione e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Storia contemporanea Dal mondo europeo al mondo senza centro Lucio Caracciolo - Adriano Roccucci Capitolo 5: L’era dell’industrializzazione Negli ultimi decenni del 19° secolo e nei primi 15 anni del 20°, l’Europa, l’America settentrionale e il Giappone furono investiti da un processo di trasformazione manifatturiera e dell’insieme della vita economica che modificò in profondità il carattere stesso delle società e impresse nuovi orientamenti al corso della storia contemporanea. Il cuore di queste trasformazioni era situato in Europa e nell’America settentrionale. La diffusione mondiale dell’economia industriale avvenne con una dinamica che non era caratterizzata né da uniformità né da sincronia, ma dalla complementarietà di tempi veloci e difformi, come anche di itinerari storici diversificati. Il risultato fu un pianeta interconnesso e maggiormente unito ad un’egemonia europea, ma allo stesso tempo venivano poste le condizioni di un suo sviluppo policentrico. 1. Dall’Inghilterra all’Europa Il sistema finanziario inglese governava i flussi di capitali a livello mondiale. Questa sua superiorità era alla base dell’adozione politica di liberismo puro, con l’abolizione di ogni tipo di tariffa e dazio da imporre alle merci di importazione. Con l’800, nuovi elementi intervennero a favorire l’avvio di un processo di prima industrializzazione in alcune aree d’Europa. Fu tra il 1850 e il 1873 che l’industrializzazione in alcuni paesi dell’Europa continentale arrivò ad uno stadio di maturazione, pur non raggiungendo ancora i livelli del Regno Unito. In questo periodo furono assorbite le innovazioni tecnologiche che erano già state introdotte in UK tra fine ‘700 e inizio ‘800: tessile - combustibile - macchina a vapore - industria chimica - macchina come strumento di produzione - sviluppo dei trasporti (e.s.: ferrovia). 2. Grande depressione e Seconda rivoluzione industriale I prezzi delle derrate alimentari diminuirono in seguito al crescente afflusso di grano dalle grandi pianure della Russia meridionale e dalle importazioni di carne dall’Argentina. Tali massicce importazioni erano rese possibili dalle innovazioni tecnologiche. Le nuove tecnologie di conservazione degli alimenti resero possibile il trasporto a lunga distanza anche di merci deperibili. L’introduzione di macchinari e l’uso di nuovi concimi minerali e chimici incrementò ulteriormente lo sviluppo produttivo. La caduta dei prezzi alimentari favorì lo spostamento di parte del reddito della popolazione europea all’acquisto di generi alimentari a quello di manufatti. La presenza di un mercato provvisto di disponibilità di spesa superiore a quella necessaria per soddisfare le esigenze primarie fu un requisito indispensabile per la formidabile espansione produttiva dei decenni in esame. Seguì poi l’introduzione di tariffe protezionistiche, volte a “proteggere” il mercato interno. Le innovazioni tecnologiche consentirono il miglioramento e la maggiore efficienza delle produzioni, la lavorazione di nuovi materiali, l’apertura di nuovi comparti industriali e la realizzazione di nuovi prodotti (e.s.: plastiche - telefono - bicicletta - lampadina - macchina da scrivere). Un altro pilastro dei cambiamenti nella produzione manifatturiera fu l’industria chimica, inoltre, la diffusione di combusti liquidi permise il vasto utilizzo di macchine a combustione interna, cioè, il motore a scoppio. La conversione ai prodotti petroliferi veniva realizzata a cavallo del secolo e delle principali marine militari. Un’innovazione tecnologica fondamentale fu l’utilizzo industriale dell’energia elettrica, utile per macchine ed utensili che non dovevano più essere vincolate ad un determinato luogo, l’energia diventava onnipresente e alla portata di tutti. L’elettricità era il risultato di un insieme di scoperte scientifiche e di invenzioni che si erano realizzate nel corso di tutto il 19° secolo. Pagina 1 3. La meccanizzazione del lavoro La meccanizzazione dell’attività produttiva comportava una revisione dei tempi di produzione nel senso di una loro accelerazione. Meccanizzazione e organizzazione razionale imponevano anche la standardizzazione delle forme e delle misure dei manufatti e delle loro parti intercambiabili. 4. Nuova economia: aumento di scala e finanziarizzazione Le nuove condizioni che la tecnologia aveva determinato per la produzione industriale, modificarono le dimensioni dell’attività produttiva e delle imprese industriali. Le macchine diventavano più grandi e così si ingrandivano anche gli stabilimenti industriali. L’aumento di scala fu un tratto distintivo di questa fase del processo di industrializzazione: si potevano abbattere costi e massimizzare i profitti. A modificarsi era anche il sistema di organizzazione delle aziende. Il management veniva affidato a dirigenti, ingegneri e ragionieri e si separava dalla proprietà, dominata dai grandi azionisti. La componente finanziaria del funzionamento del sistema industriale acquisiva sempre più rilievo. A favorire l’espansione delle attività finanziarie contribuì l’adozione da parte dei vari paesi del sistema aureo, introdotto dalla Gran Bretagna nel 1821, che consentì la standardizzazione delle valute. L’intervento statale costituiva un canale di trasferimento di risorse all’industria, il cui sviluppo però continuava a essere sostenuto in gran parte da capitali privati. Gli ultimi decenni dell’800 e i primi del ‘900 furono anni di grande espansione degli investimenti esteri. 5. Le infrastrutture del mondo: le reti di comunicazione Nel tempo si è parlato di una rivoluzione dei trasporti, descrivendo il loro avvento e la loro diffusione come di mezzi più capienti, più economici e più sicuri, oltre ad essere più rapidi. Il mondo si faceva più piccolo, le distanze si accorciavano, con grandi derivazioni geopolitiche. Ferrovie, navi a vapore, biciclette, autoveicoli e infine aerei, non furono solo mezzi che consentirono il trasporto delle persone e delle merci, ma divennero anche formidabili strumenti di guerra che permisero il movimento dei combattenti e delle armi. Le linee ferroviarie si estendevano a livello mondiale: le strade ferrate e la locomotiva si imposero come manifestazioni emblematiche della tecnologia moderna. Le ferrovie ridisegnavano l’urbanistica delle città, le stazioni ferroviarie assurgevano a diventare veri e propri monumenti del progresso. Gli ultimi 30 anni del 19° secolo sono stati segnati anche dall’affermazione nell’ambito della navigazione marittima dei piroscafi a vapore, prima in ferro e poi in acciaio. Si ebbe una notevole velocizzazione a un processo di espansione dei commerci su lunghe distanze. Le nuove tecnologie nel campo della refrigerazione poi, consentirono il commercio a lunga distanza di prodotti alimentari che modificarono gli assetti dei mercati e resero alcuni prodotti oggetto di consumo di massa a livello planetario, un esempio sono banane e ananas. Si ebbe un notevole salto di qualità nella costruzione dei canali: essi possiedono un valore simbolico e un notevole peso materiale. Costituirono nel corso dell’età contemporanea una canalizzazione di conflitti e di rivalità internazionali. Uno dei più noti, è il canale di Panama, lungo 81 Km mise in comunicazione l’Oceano Pacifico con quello Atlantico. Ma oltre alle merci anche le persone si spostavano e con loro anche usi, costumi, lingue, culture, prodotti di consumo, religioni, idee politiche ecc. Lo sviluppo dei trasporti navali favorì l’integrazione del mondo in reti di connessione ravvicinate. La diffusione del telegrafo, definito “l’internet dell’età vittoriana”, permetteva l’invio di notizie a grande distanza e in breve tempo. Anche i telegrafi dovettero dotarsi di un sistema di collegamenti strutturali, fatto di pali e fili, che oltre a richiedere ingenti investimenti, contribuirono al processo di ridefinizione delle reti di interconnessione a livello globale. Si diffusero dapprima in Europa e in America del Nord, poi, successivamente, l’introduzioni di cavi sottomarini permise di collegare interi continenti fra loro. Nacquero le grandi agenzie di stampa internazionali che grazie all’uso del telegrafo garantivano il flusso di notizie su scala planetaria. Le comunicazioni senza fili di Guglielmo Marconi e lo sviluppo della radiofonia e del telefono, avrebbero ridimensionato il ruolo del telegrafo. Tuttavia, la loro diffusione raggiunse livelli tali da formare nuove reti comunicative di carattere globale solo a partire dagli anni 20 del 20° secolo. Pagina 2 La città moderna necessitava di pianificazione urbanistica, a Chicago fu inventato il grattacielo, utile strumento per aumentare il valore e il prestigio della città, ma anche per permettere la coabitazione o la presenza di una moltitudine di persone tutte nello stesso posto. Chicago fu la prima città degli Stati Uniti a dotarsi di un grattacielo, edificio di massa per eccellenza. La città di Middle West era anche stata luogo di sperimentazione di un nuovo metodo di costruzione di case unifamiliari che venne messo a punto negli anni 30 dell’800. Iniziarono così a standardizzassi le case, il principio di serialità abitativa fu un fenomeno che caratterizzò diverse città d’Europa, prima fra tutte, Londra. Negli Stati Uniti, il tram elettrico conobbe una vasta e rapida diffusione e lo sviluppo dei trasporti portò ad uno sviluppo dei sobborghi. Nel 1901 erano 1 milione i pendolari che ogni giorno venivano portati dai trasporti pubblici nel centro di Chicago. 4. Stratificazioni sociali ed etniche Il processo di spostamento degli abitanti dal centro delle città ai sobborghi si accompagnò ad una definizione dello spazio urbano secondo criteri di suddivisione sociale. La segregazione sociale costituisce uno dei tratti della città moderna che corrisponde all’articolazione e alla conflittualità sociale delle società di massa. Il fenomeno di suburbanizzazione fu generato dallo spostamento delle classi medie, dal centro verso nuovi quartieri residenziali. Le aree di residenza delle città si vennero differenziando secondo rigidi criteri di carattere sociale. Quartieri residenziali per borghesie ricche, per gli operai e anche per gli slums. Nell’800 si assiste al passaggio dalla comunità alle società. Le istituzioni dello Stato, per formare i corpi elettorali, per imporre le tasse, per costruire gli eserciti, per erogare servizi di cui cresceva il bisogno, aveva necessità di classificare la popolazione secondo criteri amministrativi sulla base di reddito, classi di età, luogo di residenza, tipologia di lavoro, livello di istruzione e così via. Nel quadro delle relazioni tra individui e gruppi si affermò uno spiccato e rigido senso della distinzione sociale. Nei nuovi mezzi di trasporto, ad esempio, gli ambienti si distinguevano in classi, con costi, spazi e servizi diversificati. La “classe” fu la categoria che venne elaborata dal pensiero sociologico, una branca del sapere che nacque nel corso dell’800 proprio nel tentativo di capire i cambiamenti sociali in atto. Il pensiero di Marx, è stato quello che ha maggiormente contribuito a diffondere l’uso di questa categoria, ovvero, della “sociologia”. Il capitalismo a suo parere aveva semplificato i rapporti sociali in due grandi campi nemici. Eppure la società si distingueva proprio per la sua complessità. L’aristocrazia, pur non essendo più in una condizione di egemonia, continuava ad esercitare un rilevante potere economico e politico in Europa e in diverse aree del mondo. Se l’aristocrazia continuò a far parte delle Élite della società e a detenere saldamente alcune leve del potere, per i contadini la questione del loro inserimento nelle dinamiche di cambiamento fu più travagliata e drammatica. L’età contemporanea è solcata da conflitti ricorrenti, a tutte le latitudini, non di rado sanguinosi, tra progetti di modernizzazione di segno politico, culturale e ideologico differente, ma tutti di inequivocabile impronta urbana. Gli sviluppi dell’industrializzazione negli ultimi decenni dell’800 richiesero una quota maggiore di operai qualificati, dando vita d un’ “aristocrazia operaia”, con una diversa coscienza di sé e con redditi consistenti, tanto da generare una distanza considerevole dagli altri settori del mondo operaio. La classe operaia si presentava non come un mondo uniforme, ma come un insieme segmentato per condizioni di lavoro, stili di vita, bagagli culturali, posizioni politiche e prospettive di sviluppo. Più segmentato si presentava il profilo della borghesia. I professionisti erano figure chiave per i processi di modernizzazione industriale e urbana. Il numero di ingegneri, medici, giuristi che impiegavano il loro capitale culturale, aumentò considerevolmente. Fu proprio tra ‘800 e ‘900 che l’istruzione divenne un elemento di differenziazione sociale, l’accesso ai licei e alle università, luoghi di formazione delle classi dirigenti, fu di fatto riservato a chi proveniva da famiglie già appartenenti all’alta società. La comunicazione pubblica cresceva con l’ampliamento delle funzioni e dei compiti assolti dalle istituzioni pubbliche. La comunicazione giornalistica cresceva con lo sviluppo dei media, quella commerciale grazie alla pubblicità, specie con la diffusione del consumismo. Tutte queste forme di comunicazione si potevano avvalere delle possibilità offerte dalle innovazioni tecnologiche e si rivolgevano ad un pubblico di massa. I fenomeni di massa, in qualsiasi campo essi si manifestassero, necessitavano di impegno e capacità organizzativa. Proprio i decenni di fine ‘800 e quelli di inizio ‘900 furono segnati dalla grande crescita del numero degli impiegati. Essi, i “colletti bianchi”, vennero a costituire un ulteriore segmento della borghesia. Pagina 5 5. Conflittualità e questione sociale Le città moderne come si vennero formando nella seconda metà dell’800, erano luoghi di conflitti. La vita dell’operaio ottocentesco era condizionata da un permanente stato di incertezza, sul salario e sull’eventualità di un infortunio ad esempio. Gli ultimi decenni del 19° secolo furono costellati di attentati e di assassini di regnanti e uomini di governo per mano di anarchici. La nascita dei partiti socialisti, che adottavano ufficialmente l’ideologia marxista come fondamento teorico della loro attività, fu inaugurata dalla fondazione nel 1875 del Partito socialdemocratico tedesco (SDP), il quale fu l’apripista di una serie di altri partiti socialisti in Europa e altrove ed esercitò una leadership internazionale nei confronti del nuovo movimento politico socialista. All’interno dei partiti socialisti, si delinearono 2 correnti principali: - Quella dei riformisti: Ritenevano che il partito dovesse condurre un’azione politica volta a realizzare riforme nell’interesse della classe operaia, anche collaborando con i governi borghesi. - Quella dei massimalisti o rivoluzionari: Sostenevano che l’unico obbiettivo fosse la rivoluzione. Osteggiavano qualsiasi politica di collaborazione. Il marxismo rappresentò la grammatica attraverso cui parti consistenti delle masse moderne vennero alfabetizzate alla politica, così come i partiti socialisti costituirono lo strumento con cui quelle stesse masse venivano inserite nello spazio della politica. 6. Chiese cristiane e masse. Il cattolicesimo sociale L’Esercito della salvezza era un’associazione che univa l’obbiettivo dell’evangelizzazione all’assistenza ai poveri della città. Anche nelle Chiese ortodosse si registrarono a inizio ‘900 segnali di un nuovo attivismo sociale. La vicinanza ai settori più emarginati della società e la conoscenza delle condizioni di lavoro e di vita degli operai suscitarono la formazione di una più articolata coscienza della questione sociale, che spinse personalità a favore di una legislazione sociale di tutela degli operai. La Chiesa cattolica adottava la linea di un’assoluta intransigenza nei confronti della civiltà moderna e del liberalismo. Sceglieva per l’opposizione. Con il Concilio Vaticano I, fu rafforzata l’idea del dogma dell’infallibilità del papa, con una scelta quindi di rafforzamento dell’autorità papale, il quale si inseriva nella strategia di ricentramento su Roma e sul papa con cui la Chiesa cattolica affrontava le sfide della modernità. L’universo della cristianità era caduto. Essa si era ritrovata in un mondo dominato dalle idee della Rivoluzione e del pensiero liberale. La risposta della chiesa era nella difesa della sua identità e nel rifiuto di transigere con lo spirito moderno. Era una strategia di fondo, che non avrebbe mancato di mostrare notevole flessibilità. La Chiesa cattolica si attrezzava per rispondere alle esigenze della società. Venivano elaborate nuove modalità di attività e di presenza dei cattolici nel mondo moderno, senza trascurare gli spazi apertisi nella società e la possibilità offerte dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione. La seconda metà dell’800 fu la stagione della mobilitazione dei laici cattolici che si iniziò a dotare delle strutture nazionali di coordinamento dell’azione cattolica. Nasceva quindi il cattolicesimo sociale, la cui matrice era nella scelta per l’intransigenza. Questa motivava i cattolici a essere presenti in modo attivo e rinnovato nella società. L’intransigentismo era un rifiuto radicale del liberalismo. Il nuovo impegno sociale dei cattolici era una risposta ai conflitti di classe e alle contraddizioni della società. La Chiesa cattolica non solo si opponeva al mondo moderno, ma intendeva anche operare al suo interno e utilizzare gli stessi strumenti della modernità. Nel 1891, Papa Leone XIII pubblicò l’enciclica “Rerum Novarum”, il manifesto del nuovo cattolicesimo sociale dell’epoca. I cattolici si collocavano quindi nella società come un movimento sociale di massa. La “Rerum novarum” proponeva una via cattolica fra liberalismo e socialismo: la proprietà privata era dichiarata intangibile e si prendevano le distanze dalla lotta di classe per esprimersi a favore della solidarietà sociale. Si invocava l’intervento dello Stato nella legislazione sociale a favore dei gruppi più deboli e per la fissazione di un minimo salariale dignitoso. Nel testo emergeva una sensibilità ai diritti dei lavoratori. Ne scaturì un’ondata di fondazioni di nuove associazioni sindacali cristiane. Il cattolicesimo sociale costituiva un tentativo di ristrutturazione del mondo cattolico e interveniva nelle dinamiche della società di massa con un suo contributo specifico a favore dell’allargamento della partecipazione alla politica. Pagina 6 7. Lo spazio della geopolitica si allarga La crescita dei centri urbani comportò un più ampio spettro di responsabilità e compiti per le amministrazioni cittadine. Acquedotti, fognature, infrastrutture, trasporti pubblici, reti elettriche e illuminazione sono solo alcuni dei compiti a cui doveva assolvere. Dall’operato delle autorità centrali e locali dipendeva in buona parte l’offerta di servizi che rendeva possibile o più agevole lo svolgimento di attività basilari della vita quotidiana. Le dimensioni stessé degli agglomerati urbani e la quantità di persone che vi si concentravano a vivere o che li frequentavano durante il giorno per lavorare, richiedevano nuovi interventi da parte delle amministrazioni pubbliche. Le istituzioni politiche, lo Stato e le amministrazioni locali si “intromettevano” nella vita privata e prescrivevano come e dove si dovessero seppellire i propri cari ad esempio, o come fosse necessario comportarsi coi propri figli. Quelli di fine ‘800 erano i decenni in cui progrediva l’impegno degli Stati a promuovere l’alfabetizzazione e a diffondere l’istruzione di massa tramite la scuola pubblica. Tutti provvedimenti che con l’affermarsi di una legislazione sociale, regolavano aspetti e procedure dell’attività lavorativa, dagli orari agli infortuni, dalle varie forme di previdenza al riconoscimento dei sindacati. Con il passaggio alla società di massa, l’azione degli organismi statali e delle amministrazioni locali tendeva ad allargarsi e ad investire tutte le sfere dell’esistenza umana. Era ammessa al voto solo una parte della popolazione, col tempo le procedure cambiarono e il diritto di voto si allargo sempre più nel tempo. Le trasformazioni della società spingevano verso un ampliamento del sistema politico e ad allargarsi ero anche lo spazio della società civile. In seguito all’allargamento del suffragio si vennero formando nuove tipologie di associazioni politiche: si trattava di un processo il cui esito fu la nascita del partito moderno. Il Partito socialdemocratico tedesco, venne fondato su base popolare e sull’iscrizione di massa, su un’organizzazione a struttura verticale, sul carattere permanente della sua azione politica e sulla disciplina del partito. Da esso in poi, si profilava il modello del partito moderno di massa, organizzato su base nazionale in sezioni diffuse nel territorio. I parlamentari eletti grazie al sostegno del partito erano rappresentanti del partito e svolgevano la loro attività parlamentare seguendo le indicazioni che provenivano dagli organi dirigenti del partito. Ecco rappresentava un universo di riferimento politico, culturale, sociale. Al suo interno si elaboravano culture, linguaggi e sistemi di simboli. La politica nella società di massa diventava anch’essa di massa; gli strumenti erano quelli della comunicazione e dell’organizzazione di massa. La comunicazione politica di massa acquisiva una centralità crescente nell’azione dei partiti e in genere nella sfera della politica. I partiti disponevano di giornali, di tipografie, di case editrici, utilizzavano sistematicamente strumenti di comunicazione di massa. I comizi in piazza e le manifestazioni erano modalità di azione politica che diventavano sempre più consuete. Gli stati e le classi dirigenti avevano la preoccupazione di inserire le masse nel sistema politico, di renderle partecipi di un patrimonio più meno condiviso di valori, di storia, di tradizioni, di interessi nazionali. Bisognava rendere le masse partecipi della nazione. Non era solo e non era tanto il convincimento razionale e la via maestra per ottenere il consenso. Nella società di massa maturava un nuovo stile politico, trasversale allo spettro delle forze politiche e degli orientamenti ideologici. I messaggi politici si comunicavano attraverso un’ “estetica” della politica che si manifestava nei monumenti e negli edifici pubblici, nelle opere teatrali o nei rituali di associazioni e partiti. Capitolo 7: L’Europa degli Imperi al centro del mondo Gli imperi continentali occupavano grandi spazi euroasiatici e si misuravano con le sfide della modernizzazione e dei movimenti nazionali che ne insidiavano la coesione e la tenuta. Le potenze europee si dotavano di imperi coloniali che le portavano a estendere i propri domini in territori extraeuropei, dall’Africa all’Asia, fino alle isole dell’Oceano Pacifico. Il mondo si suddivideva tra aree sviluppate e altre più arretrate. Si venne a determinare un considerevole divario in termini di ricchezza, di conoscenze tecnologiche e di potenza fra paesi. Si assistette alla formazione di ampi spazi di interazione all’interno dei quali si formarono nuove reti di connessioni e di relazioni. L’imperialismo contribuì alla costruzione di un mondo nuovo in cui l’Europa esercita un’egemonia a livello planetario, mentre il mondo per molti versi si europeizzava. L’imperialismo si manifestò in una fase in cui le rivalità tra le potenze europee divennero più accese. Pagina 7 modernizzazione con i processi si industrializzazione e urbanizzazione avevano contribuito a variare il quadro. Con le spartizioni della Polonia l’Impero russo aveva acquisito anche una consistente minoranza ebraica. Nel 1897 gli ebrei nell’Impero ammontavano a poco più di 5 milioni. I pogrom per giunta, erano episodi che si verificavano con sempre più frequenza. Si trattava di violenze antisemite di massa, spesso si avvalevano dell’appoggio delle autorità zariste. Con polacchi, ucraini, bielorussi e lituani furono attuate misure sistematiche di russificazione fin dagli anni ’60 e politiche d’integrazione forzata furono promosse anche nei riguardi di georgiani, romeni di Bessarabia e armeni. Invece, nei confronti di tedeschi, finlandesi, lettoni ed estoni la pressione fu più debole. Ai musulmani dell’Azerbaigian fu rivolta una politica di integrazione cui non corrispondevano misure di russificazione. La politica nei riguardi degli ebrei aveva assunto caratteristiche specifiche di segregazione e discriminazione. L’Impero multietnico zarista, investito da processi di omogeneizzazione e di diversificazione, presentava una struttura che era il prodotto di una “miscela di elementi innovativi e tradizionali”. L’Impero degli zar era tuttavia pervaso da un dinamismo di crescita, come il boom industriale degli anni ’90 e la vivacità culturale attestavano. L’Impero russo era una grande potenza che nel corso di tutto l’800 aveva compiuto un’importante espansione nel Caucaso, in Asia centrale e orientale. La Russia lungo l’asse euroasiatico era il grande rivale dell’Impero britannico nel quadro di una politica internazionale che andava sempre più mondializzandosi. 4. L’Impero britannico Gli anni ’80 segnarono l’inizio di una nuova fase di espansione territoriale europea e non solo, che portò alla formazione di più o meno vasti imperi coloniali. Parteciparono a tale ondata espansionistica: Stati Uniti - Giappone - Impero russo - Gran Bretagna - Francia - Germania - Belgio - Italia. La posizione dominante della Gran Bretagna a livello mondiale per gran parte del 19° secolo fu il prodotto della supremazia navale e della superiorità della sua economia capitalista. Tali elementi le consentirono di esercitare un’egemonia su scala globale in ambito industriale, commerciale e finanziario. Si è parlato per l’800 di un “secolo imperiale” britannico e di pax britannica. Il principio cardinale della geopolitica del Regno Unito, garantiva a Londra il dominio sui mari, condizione per l’esercizio dell’egemonia sui traffici commerciali internazionali. L’Impero britannico, abbandonato il mercantilismo, s’imponeva grazie alla posizione egemone della sua industria, attraverso il principio del libero scambio, a suo modo tutelato dalla potenza navale che svolgeva una funzione di persuasione armata all’applicazione di tale principio su scala globale. Si spingeva per una politica espansionistica volta a potenziare il primato politico e commerciale britannico. Esercitava una pressione nel senso dell’espansionismo anche la spinta migratoria generata dalla crescita demografica che avrebbe accresciuto la popolazione. Inoltre, l’egemonia mondiale della Gran Bretagna poggiava su un vasto insieme di possedimenti extraeuropei. L’India, “gemma” dell’Impero, per la sua importanza economica e per il valore simbolo della potenza inglese di oltremare, era il perno del sistema imperiale britannico. Una svolta nella vicenda imperiale britannica si ebbe con la questione d’Egitto. Questo paese aver un notevole peso per gli equilibri dell’Impero ottomano, ma, era da tempo dotato di un’ampia e sostanziale autonomia. La politica britannica lungo l’800 seguì una linea di sostegno all’Impero ottomano, la cui tenuta era considerata un argine alle aspirazioni di russi e francesi, intenzionati ad interferire sulle rotte di collegamento con l’India. La rivalità Anglo-Francese sull’Egitto si risolse a favore di Londra. 5. La spartizione dell’Africa Si era venuta a formare una vasta rete commerciale con la saldatura dei 3 principali sistemi continentali di scambio centrati sull’Atlantico, sul Mediterraneo e sull’Oceano Indiano. Lungo le vie commerciali si assistette a un’importante espansione dell’Islam, nel bacino del Nilo, in Africa orientale e nella regione del fiume Niger. Il rinnovamento islamico favorì la nascita e il consolidamento di solide entità statali musulmane. A partire dagli anni ’80, l’Africa fu investita da un’ondata di espansione coloniale europea. Chi prima avesse occupato un territorio del continente africano avrebbe avuto il diritto a vedersi riconosciuto il dominio su quella porzione di Africa. Era il principio che avrebbe sovrinteso alla spartizione del continente africano tra le potenze europee. Pagina 10 Le rivalità anglo-francesi continuarono a caratterizza l’espansione coloniale dei paesi europei in Africa, dove la competizione tra le due potenze non sembrò diminuire. La tensione era particolarmente alta nella zona del Niger e in Sudan. L’occupazione dell’Egitto aveva in un certo senso obbligato la Gran Bretagna a dover proteggere la sua nuova acquisizione e a estendere la sua influenza al bacino del Nilo. Alla fine dell’800 i domini coloniali britannici costituivano quasi un continuo da nord a sud. L’asse era interrotto dall’Africa Orientale Tedesca e si sarebbe saldato dopo la prima guerra mondiale, quando in Tanganika tedesco sarebbe passato sotto controllo del Regno Unito. La scoperta nel 1867 di ricche miniere di diamanti e successivamente, di ingenti giacimenti d’oro, modificò la situazione. Le colonie sudafricane acquisirono importanza e divennero meta di una considerevole immigrazione dalla Gran Bretagna. L’obbiettivo di arrivare allo scontro militare coi boeri fu perseguito da Chamberlain, ministro delle colonie inglesi e nel 1899 ebbe inizio la guerra anglo-boera. Si protrasse fino al 1902 e fu un conflitto aspro e sanguinoso, fu proprio qui che comparirono per la prima volta i campi di concentramento, costruiti per mano Inglese. Fu anche uno dei primi conflitti a ricevere grande attenzione mediatica, grazie alle nuove tecnologie il flusso di notizie fu più veloce e accurato. La spartizione dell’Africa si concluse con la conquista italiana della Libia e il protettorato francese sul Marocco. Il prezzo pagato dai popoli africani fu elevato. Le guerre di conquista e le successive repressioni delle resistenze, comportarono in diverse regioni un ingente tributo di sangue. L’esperienza coloniale immetteva l’Africa nel sistema culturale occidentale. Le società africane con l’adozione del calendario gregoriano venivano inserite in una concezione del tempo elaborati dalla cultura occidentale che modificava radicalmente riferimenti secolari della vita quotidiana dei popoli africani. Veniva così promossa la diffusione dell’istituzione scolastica. Le potenze europee avevano ridisegnato lo spazio africano, in 30 anni un intero continente, salvo pochissime eccezioni, era stato occupato da potenze che provenivano dall’esterno. L’Africa a causa dell’espansionismo coloniale europeo, si trovava in una condizione di dipendenza dall’Occidente. 6. Il dibattito sull’imperialismo L’imperialismo non può essere decifrato mediante l’applicazione di una teoria onnicomprensiva né può essere ricondotto ad una spiegazione monocausale. Esso è stato il prodotto di una serie di fattori, fra cui: - Legami tra processi economici e il colonialismo negli ultimi 3 decenni dell’800 = - Economie industriali = necessitavano di materie prime, non sempre disponibili nei paesi in cui il capitalismo aveva posto le sue basi. - Arricchimento delle società a economia capitalistica e il conseguente allargamento dei loro mercati = determinarono una crescita dei consumi di beni alimentari di provenienza “esotica”, dal tè ai frutti tropicali. - Alla ricerca di fonti di materie prime si affiancò la ricerca di mercati di sbocco per la produzione industriale. - Situazione di crisi economica = provocò un’accesa competizione economica con 2 manifestazioni: - Il protezionismo era una manifestazione sui mercati interni - L’espansionismo coloniale ne costituiva la proiezione esterna, tesa a garantire spazi protetti ed esclusivi di mercati e/o fonti di materie prime. - Ragioni di carattere strategico e politico = - A promuovere l’ampliamento dei possedimenti non erano solo gli apparati centrali dello Stato, ma anche i funzionari che nelle colonie conducevano politiche personali di espansione, i quali spingevano i loro governi ad ampliare i propri possedimenti. - Espansione coloniale = oggetto di competizione tra gli Stati europei. - Si conquistavano territori, anche senza evidente bisogno economico o strategico, solo per evitare che una potenza rivale li occupasse accrescendo eccessivamente i propri domini. - Innovazione tecnologica = dava capacità di espansione territoriale maggiori che in precedenza. - Fattori di ordine culturale e ideologico = intervennero a supportare/suscitare, i processi di espansione imperialista. - Espressioni come competizione, lotta per la sopravvivenza e selezione naturale furono mutate dalle scienze biologiche ed entrarono nel lessico degli studi e della pubblicistica sui fenomeni sociali e politici, compresi quelli sulle relazioni internazionali. Pagina 11 Quella della superiorità della civiltà europea era una convinzione non solo britannica, era un luogo comune, condiviso da élite e settori consistente delle opinioni pubbliche europee. 7. Mondi coloniali L’imperialismo produsse sistemi imperiali fondati sullo sfruttamento delle colonie da parte della metropoli. Gli imperi coloniali interagivano con antiche imperi continentali, con i quali stabilivano alleanze, entravano in conflitto, avviavano competizioni e altro ancora. Movimenti di persone, economie, culture, lingue e merci transitavano da un impero all’altro. L’ingresso nel sistema imperiale di un nuovo territorio significava l’inserimento di un circuito più ampio di comunicazione e connessioni, dal quale le élite locali traevano il più delle volte vantaggio in termini di nuove conoscenze, di confronto con modelli di mobilitazione culturale e politica, di relazioni e cooperazioni di carattere culturale, politico e commerciale. L’espansionismo coloniale innescò un processo di occidentalizzazione di quelle élite che avrebbero poi maturato posizioni e strategie di resistenza e ribellione al potere coloniale, ciò sulla base di apparati ideologici e strumentazioni culturali di provenienza occidentale. Gli imperi coloniali formarono identità geografiche e diffusero una nuova conoscenza e consapevolezza del mondo. La diffusione a un pubblico popolare di giornali e pubblicazioni a stampa, oltre a formare il patrimonio di conoscenze di larghi setoli delle società europee, ne modellò l’immaginario. L’ “esotico” e il “primitivo” non mancavano di attrarre avanguardie artistiche o di ispirare esposizioni e musei come anche di orientare le varie forme di collezionismo che divenivano pratiche sempre più diffuse. La vicenda dell’imperialismo è anche storia di guerre e di eserciti. Fu negli imperi coloniali che vennero testate le nuove tecnologie applicate alle armi. L’introduzione della mitragliatrice fornì alle truppe coloniali un’arma micidiale. La tecnologia iniziò a fare la differenza. Gli spazi e le frontiere degli imperi coloniali non erano attraversati solo da eserciti e soldati, un’altra figura era quella del missionario. Le missioni erano un elemento costitutivo del panorama dell’imperialismo, la loro crescita era favorita e protetta dall’espansione coloniale stessa, mentre il potere politico poteva trarre dall’attività missionaria motivi e argomenti che nobilitavano le politiche di espansione. Non di rado il rapporto con le autorità coloniali era dialettico e comunque sia l’interesse primario dei missionari era rivolto ai loro fedeli, spesso indigeni convertiti. La Chiesa cattolica affrontò la sfida della nuova ondata missionaria nel corso dell’800 con alle spalle una riflessione critica sull’esperienza in America Latina, dove l’evangelizzazione era stata compiuta in un quadro di protezione e controllo da parte degli Imperi spagnolo e portoghese. Non mancarono momenti in cui i settori delle Chiese nazionali si schierarono a sostegno degli interessi nazionali degli Stati, come avvenne in Francia in occasione dell’occupazione dell’Algeria nel 1830 o parzialmente in Italia con la guerra di Libia nel 1911-1912. Da parte delle potenze coloniali, l’intento ero quello di nazionalizzare le missioni. Il cristianesimo conobbe una grande mondializzazione, all’impegno della sua diffusione fu associato anche un fondamentale e delicato lavoro di traduzione linguistica e culturale. I lavoratori migranti erano una presenza costante nell’universo coloniale. Non si trattava solo dello spostamento di manodopera dalle metropoli alle colonie, ma anche di movimenti trasversali tra colonia e colonia. Il mondo del lavoro era fortemente gerarchizzato, con l’individuazione di una serie di mansioni, dalle piantagioni alle miniere, dal lavoro di servizio domestico ai più diversi mestieri di fatica che venivano suddivisi secondo criteri di stampo razziale e assegnati a manodopera non bianca. Gli imperi coloniali non erano un insieme coerente e unitario, ma l’assemblaggio di componenti diverse collegate da nessi molteplici e differenti. IL loro universo era piuttosto caratterizzato da differenze e divergenze. Gli imperi coloniali formarono dei campi linguistici di comunicazione che creavano possibilità inedite di relazioni orizzontali in un contesto che era sostanzialmente plurilinguistico. Gli imperi coloniali erano anche dei generatori di differenze. Al loro interno operava una tensione a fare ordine, a classificare, a definire delle tassonomie della popolazione. Nuove discipline scientifiche come l’antropologia e l’etnologia contribuirono a rafforzare tali tendenze. Uno strumento di governo della società elaborato nel quadro degli Stati nazionali erano le indagini statistiche di cui i diversi imperi si servivano per tentare goffamente di avvalorare le loro tesi completamente infondate. L’imperialismo fu manifestazione di potenza dello Stato moderno e delle colonie industriali. “Potenza” era una parola chiave di questa fase storica, divenne un messaggio culturale pervasivo. Contribuì a modellare il mondo dell’età contemporanea, rendendolo più interconnesso e interdipendente. Pagina 12 grande impatto sull’opinione pubblica mondiale del tempo. Il Giappone diventa un modello di riferimento per i movimenti nazionali in corso di formazione in Asia e non solo. La guerra russo-giapponese, combattuta da due imponenti eserciti su territorio formalmente apparente alla Cina, fu un’altra tappa del processo di dissoluzione dell’impero cinese. Il successo del Giappone esercitò una notevole influenza sui circoli culturali e politici cinesi: alcuni ne trassero indicazioni a sostegno di una possibile ripresa autonoma della Cina, altri divennero fautori dell’adozione del modello giapponese. Il Tibet si emancipò dalla sovranità cinese e passò sotto l’influenza dei britannici. La Mongolia proclamò la propria indipendenza. La proclamazione di indipendenza della repubblica cinese non significò la fine dell’ “imperialismo informale” delle potenze occidentali, che di fronte all’incertezza del passaggio di poteri decisero di porre sotto la protezione degli ambasciatori le dogane marittime, da cui dipendeva il sistema di pagamento della rete del debito cinese. Sulla Cina si concentravano gli interessi delle principali potenze mondiali. A giocare il ruolo di protagonisti decisivi però, non erano più solo le potenze europee, in Cina a essere coinvolti erano anche paesi non europei di peso rilevante, capaci di fare la differenza e di determinare il corso degli eventi. A partire dalla guerra russo-giapponese si diffuse un’acuta percezione che il potere mondiale si stesse ristrutturando in senso policentrico. 4. Pensieri europei per il mondo, interpretazioni mondiali della modernità Il processo di mondializzazione che maturava su più livelli andava di pari passo con le trasformazioni che modificavano in profondità le strutture delle società, rendendole di massa. Aspirazione diffusa era quella a individuare leggi universali accertabili che regolavano la vita dell’uomo e della società. La concezione dell’evoluzione attraverso la lotta, introduceva nuovi elementi che aprivano la rigidità dell’approccio positivista al mondo e alla vita. Il biologico, fu una elle cifre del pensiero sociale ottocentesco. Un cambiamento del clima culturale si registrò in Europa a cavallo fra ‘800 e ‘900. La fede nel progresso lasciava spazio a nuove concezioni, le avanguardie culturali facevano propria la bandiera della rivolta contro la scienza. Una concezione pessimista dell’uomo e della società sembrava prevalere. Si riteneva che le condizioni della vita moderna innescassero processi di degenerazione, che si manifestavano nella follia e nelle patologie del sistema nervoso. Anche “decadenza” divenne una parola-simbolo dell’epoca. Si accompagnò poi un pensiero razzista, Arthur de Gobineau, negli anni ’50 dette una lettura dei fenomeni di scadenza della modernità fondata sull’uso del lemma e del concetto di “razza”. Egli le suddivise principalmente in “razze” forti e “razze” deboli, affermando che l’incrocio delle diverse “razze” avrebbe condotto ad una degenerazione dell’uomo. Il razzismo, i cui presupposti teorici furono elaborati nel 18° secolo e nella prima metà del 19°, avevano però pregiudizi radical nella cultura ottocentesca, diventando poi negli ultimi decenni dell’800 un fenomeno rilevante. Il razzismo inventava la “razza” come categoria di classificazione di tipo gerarchico dei gruppi umani in base a criteri morfologici. Gli antropologi indossarono l’abito del pensiero razzista nello studio delle popolazioni africane e asiatiche. Ne derivarono politiche coloniali discriminatorie nei confronti dei popoli autoctoni, fino a pratiche di sterminio. L’antisemitismo, costituiva in Europa il principale terreno di applicazione delle teorie razziste. Il pregiudizio antisemita era radicato nelle società europee sia nei paesi occidentali che in quelli centro-orientali, dove erano presenti grandi comunità ebraiche. In Germania nel corso del 19° secolo si era consolidato il “mito ariano”, l’invenzione di una “razza” indoeuropea “ariana”, ritenuta superiore rispetto a tutte le altre. Un fantomatico complotto ebraico per la conquista del potere mondiale ordito da un’internazionale ebraica era “documentato” da un falso commissionato dalla polizia segreta zarista. I protocolli dei savi di Sion, scritto a Parigi da autori antisemiti francesi che avrebbero avuto larghissima diffusione e successo non solo in Europa. L’antisemitismo si saldò alle posizioni politiche della destra nazionalista. Partiti antisemiti nacquero a fine ‘800 in Germania e in Austria. In Francia si diffuse negli anni ’80, con qualche ramificazione anche in alcuni ambienti della sinistra rivoluzionaria. Un caso giudiziario, l’affare Dreyfus, all’inizio degli anni ’90 ebbe grande risalto. Nell’Impero zarista le formazioni dell’estremismo nazionalista russo praticavano un antisemitismo militare, attestato tragicamente dai pogrom. Un’ondata di nuovo nazionalismo si registrò su scala globale tra gli ultimi 2 decenni del 19° secolo e il 1914. Il fenomeno non era limitato solo al continente europeo, in Egitto e in India i movimenti Pagina 15 nazionalisti cominciarono a chiedere l’indipendenza e in alcune frange si iniziò a far uso della violenza terroristica. Il nazionalismo rappresentò un’ideologia politica globale che da una parte costituì una modalità di partecipazione alla politica mondiale, dall’altra ne fu una conseguenza, in quanto in molti dei paesi extraeuropei, movimenti nazionalisti nacquero proprio in seguito a processi di contaminazione e reazione innescati dalle politiche imperialiste europee. La via verso la modernizzazione non corrispondeva sempre e ovunque all’identificazione di modernità e occidentalizzazione, anzi. La superiorità scientifica e tecnologica europea, che si manifestava nel predominio economico e nella superiorità militare, sfidava e chiamava in causa le classi dirigenti mondiali. Nel caso del Giappone e della Cina, si è cercato di declinare l’acquisizione del “sapere occidentale” con lo “spirito nazionale”. All’interno del mondo arabo e islamico si riscontravano nello stesso periodo correnti che si misuravano con la sfida della modernità. La sfida in diversi contesti sembrava essere quella di riuscire ad assimilare le conquiste tecnologiche, militari ed economiche dell’Occidente senza capitolare di fronte ad esso da un punto di vista culturale. La lotta per il potere mondiale era anche una competizione culturale. Capitolo 9: Costruire lo Stato nazionale in Europa. L’Italia liberale tra nazionalizzazione e modernizzazione Il Regno d’Italia era un soggetto assolutamente differente dagli altri Stati. Lo Stato nazionale permetteva alla penisola italiana di stabilire un nuovo collegamento con il quadro europeo e fu proprio la capacità di costruire connessioni a livello internazionale a legittimare il suo potere. I nuovi confini del Regno d’Italia modificavano l’architettura geopolitica europea e anche quella mediterranea. Ma un cambiamento così radicale dei confini, come quello avvenuto tra il 1859 e il 1861, non potè che non influire profondamente. Cambiavano le modalità di rapporto tra i diversi territori che lo componevano. Le vie di comunicazione, le reti culturali, le relazioni politico- istituzionali, le mappe mentali si ristrutturavano. Il processo di connessione al mondo attraverso la riconfigurazione della penisola italiana secondo il paradigma della nazione, doveva accompagnarsi ad un’operazione di trasformazione più complessiva della realtà italiana. Compito storico dello Stato nazionale era anche quello di accelerare e governare i processi di trasformazione, perché il Regno d’Italia potesse diventare un soggetto politico, connesso al mondo e attivo sulla scala internazionale. Per far ciò era necessario che l’Italia si inserisse nelle dinamiche di modernizzazione che si dispiegavano a livello europeo e mondiale. 1. Il completamento dell’unificazione e la questione romana Il governo italiano dovette garantire la tenuta dell’unificazione nelle regioni meridionali. L’emergenza di numerose formazione di guerriglieri legittimisti filoborbonici, destabilizzarono l’Abruzzo, la Lucanie e la Puglia. La rivolta si estendeva a villaggi che insorgevano contro il nuovo Stato che aveva chiesto uomini per l’esercito e tasse, mentre i contadini si ribellavano contro i proprietari. Per arrivare al completamento dell’unificazione, le opportunità continuarono ad essere offerte all’Italia dal processo di riconfigurazione degli assetti territoriali europei stabiliti a Vienna. In Veneto l’annessione fu suggellata da un plebiscito, essa sancì anche la fine delle ambizioni austriache di poter ristabilire la propria egemonia nella penisola. Restavano in possesso di Vienna due territori di confine a maggioranza italiana, il Trentino e Trieste con la sua area. Cavour in 2 dei suoi ultimi discorsi davanti al Parlamento nel 1861 aveva dichiarato Roma capitale d’Italia. Restava aperto l’interrogativo su come sarebbe stato possibile ottenere questo risultato. La città era sotto la sovranità del Papa, autorità spirituale e capo della Chiesa cattolica. La sovranità temporale del Papa era frutto di una storia millenaria ed era giustificata dal pensiero cattolico con la necessità di assicurare l’assoluta indipendenza del vescovo di Roma da qualsiasi altra autorità politica affinché potesse esercitare il proprio ministero spirituale a garanzia della libertà della Chiesa. La questione romana rappresentava un risvolto interno notevole, in Italia la Chiesa era profondamente radicata nella società. All’ampia presenza di istituzioni ecclesiastiche, dalle parrocchie ai santuari, dalle scuole agli istituti assistenziali fino alla crescente stampa cattolica, corrispondeva un’adesione di larghi settori della popolazione. La storia stessa del movimento nazionale aveva mostrato quale spazio avessero il discorso religioso e il cattolicesimo nella Pagina 16 costruzione dell’identità italiana e anche nella definizione dei programmi di unificazione. La questione romana si connetteva a quella del rapporto tra il giovane Stato e la Chiesa. Nel 1850 le leggi Siccardi avevano abolito il foro ecclesiastico, ovvero, il privilegio che sottraeva il clero ai tributi civili e il diritto d’asilo nei luoghi di culto, introducendo inoltre, limiti all’incremento delle proprietà ecclesiastiche. Cavour aveva elaborato una ben determinata visione dei rapporti tra Stato e Chiesa, fondata sulla separazione tra le due istituzioni: “libera chiesa in libero stato”. Roma divenne quindi l’obbiettivo prioritario, Mazzini gli assegnava un valore ideale di una città forte oltre che simbolo dell’Italia stessa. 2 furono le iniziative militari prese dai democratici negli anni Sessanta per conquistare Roma. Alla guida di entrambe fu ancora una volta Garibaldi, con il grido “ O Roma o morte”, ma entrambe le volte l’azione dei gruppi di armati si concluse in un fallimento. Fu la guerra franco-prussiana a fornire l’occasione per liquidare lo Stato pontificio. Dopo la sconfitta francese a Sedan e la fine della protezione esercitata sui domini del Papa da Napoleone III, il governo italiano lanciò un ultimatum per evitare un conflitto armato. Dopo il rifiuto di Pio IX, le truppe italiane penetrarono nel territorio dello stato pontificio ed entrarono a Roma il 20 settembre 1870. Un plebiscito confermò l’annessione di Roma e del Lazio al Regno d’Italia e il 1° luglio 1871 la capitale si trasferì da Firenze a Roma. Il conflitto fra Stato e Chiesa si inasprì ulteriormente, tanto che Pio IX si dichiarò “prigioniero” in Vaticano. 2. Stato e nazionalizzazione Costruzione dello Stato nazionale e nazionalizzazione dell’Italia e degli italiani furono 2 processi intrinsecamente connessi. Una vera e propria “pedagogia patriottica” era stata promossa dallo Stato con il coinvolgimento delle università e delle scuole, dell’editoria, degli ambienti artistici, cui la committente statale aveva affidato il compito di contribuire con opere di carattere monumentale o celebrativo all’allestimento di uno scenario umano di registro patriottico. La monarchia costituì uno dei punti di convergenza della definizione istituzionale dello Stato e dei processi di nazionalizzazione. Le ricorrenze della famiglia reale celebrate come feste nazionali, l’utilizzo della simbolica dinastica, a partire dal tricolore con lo stemma sabaudo adottato come bandiera nazionale. Furono tutti elementi fondamentali del repertorio patriottico di temi e di strumenti a cui ricorrere per coinvolgere la popolazione nella vita nazionale del Regno d’Italia. Lo Statuto albertino divenne la Costituzione dello Stato nazionale, di cui il re era il vertice istituzionale. Il regime politico presentava il profilo di una monarchia costituzionale, sebbene avesse assunto i tratti di una monarchia parlamentare. La classe dirigente che si trovò a gestire il paese dopo l’unificazione era composta da uomini politici riconducibili alla famiglia politica liberale. Fu la destra storica a guidare i governi nella prima fase della ricostruzione dello Stato nazionale. L’uniformazione giuridica del Regno d’Italia, che ereditava legislazioni differenti, era un passaggio fondamentale nella costruzione dello Stato Nazionale. La questione amministrativa era un altro aspetto decisivo. La scelta fu per un’organizzazione spiccatamente centralissima. Il Parlamento votò una legge di “unificazione amministrativa” che applicò la legislazione amministrativa piemontese all’Italia. Il sistema elettorale si basava su collegi uninominali che eleggevano un singolo deputato al Parlamento nazionale per ogni porzione di territorio identificare come circoscrizione elettorale. Si collegavano le tante periferie del paese con il centro politico- istituzionale lungo un vettore di comunicazione che andava dalla periferia al centro. Uno dei primi compiti del governo del Regno d’Italia fu conoscere il paese nelle sue varie e differenti realtà. Uno dei dati raccolti più allarmanti fu quello riguardante il tasso di analfabetismo, il quale colpiva il 78% della popolazione sopra i 5 anni. La questione divenne di primaria importanza per le politiche statali di nazionalizzazione. Oltre alla scuola primaria un altro agente fondamentale di nazionalizzazione fu l’esercito, organizzato sulla base della coscrizione obbligatoria. Alla destra storica successe nel 1876 la “sinistra storica”, formata dai parlamentari della sinistra piemontese, cappeggiata da Agostino Depretis e da alcuni deputati democratici di origine mazziniana e garibaldina, tra i quali, Crispi. Alla sinistra aderiva gran parte del meridione, più per comune avversione politica della destra, centrata sull’adozione di misure di rigore finanziario e di pressione fiscale al fine di raggiungere il pareggio di bilancio. La sinistra rappresentava nuovi ceti emergenti, il cui avanzamento sociale era avvenuto grazie alla partecipazione al progetto politico nazionale. Pagina 17 mobilitazione del mondo cattolico italiano, che si fece promotore di una vasta rete di società operaie, di cooperative e casse rurali nelle campagne. Di fronte a tale turbamento degli equilibri sociali provocato dal processo di modernizzazione, la questione era quella di una ridefinizione del sistema politico nelle sue ragioni, nelle sue forme, nei suoi rapporti con la società civile. La crisi dei gruppi dirigenti, i rapporti tra le classi sociali, le dinamiche del sistema politico, furono al centro degli interessi della cultura italiana in quegli anni. Si conobbe un fervido sviluppo di riflessione intellettuale nei settori delle scienze giuridiche, politiche, sociali ed economiche. Il rafforzamento dello Stato costituì l’obbiettivo di governo di Crispi, leader della sinistra, succeduto a Depretis come presidente del Consiglio dei ministri nel 1887. La sua politica fu volta alla realizzazione di una serie di riforme amministrative, allo scopo di rendere lo Stato più efficiente. Ridefinì i rapporti tra potere centrale ed enti locali, ai quali concesse un maggior grado di autonomia, anche con un allargamento dell’elettorato amministrativo. L’istituzione della giustizia amministrativa avvenne anch’essa nel segno di una sua dipendenza dall’esecutivo. La politica estera di Crispi si caratterizzò per un’acuta tensione nei rapporti con la Francia, con la quale scoppiò una “guerra commerciale”. Crispi impegnò il suo governo sul terreno dell’espansione coloniale in Africa orientale. Aveva inizio la presenza italiana in Somalia. Crispi mirava a far accettare pienamente l’Italia in ambito europeo. Il legame privilegiato con la Germania, l’aumento delle spese militari, le ambizioni di espansionismo coloniale concorrevano al raggiungimento di tale obbiettivo. Il progetto di rafforzamento riformato ed autoritario dello Stato portato avanti da Crispi incontrò la tenace opposizione della borghesia lombarda, insofferente verso gli eccessi statalisti e accentratori del presidente del Consiglio. Il fallimento della sua politica espansionista decretò la fine politica di Crispi. 7. L’età giolittiana Il sistema politico liberale aveva superato la crisi di fine secolo senza dover ricorrere a misure extraistituzionali. Era stata la prova che non erano esaurite le energie di cui lo Stato liberale poteva disporre, ma anzi, che si poteva ancora utilizzarle al fine di rendere il sistema in grado di rispondere alle sfide del tempo. La modernizzazione stava procedendo e l’accelerazione del processo di industrializzazione rafforzava le posizioni delle regioni del nord. Lo sviluppo si concentrò infatti nell’area compresa fra Milano-Torino-Genova, il “triangolo industriale”. Giolitti aveva dichiarato che la via per uscire dalla crisi passava per un’azione di governo in grado di conquistare la fiducia delle masse popolari. Egli sostenne le ragioni di una strategia politica volta a rispondere in modo diverso alle esigenze di integrazione delle masse. Giolitti proponeva come perno di un progetto riformatore, la riforma tributaria e rilanciava la coalizione tra liberal-democratici, radicali e socialisti formatasi nella crisi di fine secolo. Giolitti si dichiarò favorevole alla piena libertà di organizzazione sindacale e di sciopero in difesa dei legittimi interessi dei lavoratori e si pronunciò a sostegno delle ragioni di una rigorosa neutralità degli organi statali nei conflitti di lavoro. Lo Stato non doveva avere timore di lasciare libero corso al confronto tra lavoratori e datori di lavoro per la determinazione dei salari. Il nuovo re, Vittorio Emanuele III, condivideva la visione giolittiana, nominò come presidente del Consiglio Zanardelli, che affidò il Ministero dell’Interno a Giolitti, il quale gli succedette nel 1903. Zanardelli promosse un’opera di legislazione locale, tutelò il lavoro di donne e minori, introdusse assicurazioni volontarie per la vecchiaia e obbligatorie contro gli infortuni. All’interno del Partito socialista e del movimento sindacale, l’alternanza di opzioni politiche riformiste e intransigenti o massimaliste, non permetteva a Giolitti di contare su un appoggio stabile di quel partito al suo programma di governo. L’alternanza dei 2 moduli di coalizione governativa si basava su un modello centrato sulla capacità del capo del governo di compiere opera di mediazione politica, facendo perno su una maggioranza parlamentare di deputati liberali, controllata dallo stesso Giolitti. Il disegno giolittiano tuttavia rispecchiava una difficoltà della classe dirigente liberale a riformulare il proprio ruolo nelle condizioni di una incipiente società di massa. L’obbiettivo restava quello di inserire le nuove forze politiche e le masse popolari nel sistema liberale, senza avere ancora la consapevolezza che si trattava di un’integrazione destinata al fallimento. L’antigiolittismo era manifestazione della crisi dello Stato liberale di fronte al necessario passaggio a un sistema politico più rispondente alla nuova società di massa. Pagina 20 Le contraddizioni e i conflitti che segnavano il processo di modernizzazione vennero acuendosi in quegli anni. La crisi finanziaria mondiale del 1907 provocò un arresto nello sviluppo, un’intensificazione della concorrenza internazionale e una radicalizzazione dei conflitti di classe. La guerra in Libia, intrapresa da Giolitti nel settembre 1911 si inseriva in questo clima culturale e nell’atmosfera di rinnovato senso di identità e orgoglio nazionale. La guerra libica contribuì a rendere confusa e irrequieta la situazione politica. La riforma elettorale del 1912 introdusse il suffragio universale maschile e fu un passo importante nella direzione di un adattamento del sistema alle nuove condizioni della società. Le elezioni politiche del 1913 costrinsero i liberali a misurarsi con le esigenze di una politica che diventare rappresentazione delle masse che costellavano la scena politica. L’introduzione al suffragio universale si dimostrò essere un’importante innovazione. Venne a completare il quadro di crisi del sistema giolittiano, rompendone gli equilibri. Le elezioni segnarono anche la consacrazione dei cattolici, sebbene non ancora organizzati in un partito, come forza politica di primo piano. La vittoria elettorale, ottenuta con il consistente appoggio cattolico, costituì la fine del governo di Giolitti e l’inizio di quello della destra liberale di Calandra. La politica giolittiana rappresentò l’ultimo tentativo di aggiornamento dell’assetto istituzionale dello Stato liberale senza doverlo modificare il profondità. Tuttavia, lo Stato liberale, pensato per una società semplice, mostrava i suoi limiti a governare dinamiche sociali, economiche e politiche di una società invece sempre più complessa. Capitolo 10: Il grande tornante: la prima guerra mondiale. Atto 1° 28 luglio 1914 - 11 novembre 1918 Le origini e le cause della prima guerra mondiale sono uno dei temi più dibattuti della storia contemporanea. 1. L’Europa dei blocchi verso la guerra Lo spostamento dell’asse delle relazioni internazionali tra le potenze europee da un contesto continentale a uno mondiale, avvenuto tra il 1890 e 1910, aveva modificato lo stesso quadro europeo. L’organizzazione della politica mondiale aveva provocato la riconfigurazione dello scenario europeo attorno a 2 blocchi di alleanze. Il quadro di quest’ultime in Europa era conseguenza delle scelte compiute per sostenere gli obbiettivi imperialisti. Diminuiva il peso della Germania, l'Inghilterra maturò un avvicinamento con Francia e Russia. Fu proprio l’avvicinamento tra le potenze rivali sugli scenari dell’espansione imperialista a determinare un nuovo schieramento di forze sul quadrante europeo. Londra si era avvicinata ai due partner dell’alleanza militare franco-russa. Entrambi gli accordi avevano anche una valenza antitedesca, questo perché si andava contro alle mire tedesche sul Marocco e sulla Persia. L’Europa aveva ristrutturato il suo assetto geopolitico secondo un paradigma bipolare, che costituì un presupposto del conflitto mondiale. Alcune tensioni relative a questioni extraeuropee acquisirono i connotati di un confronto tra due alleanze, come fu nel caso delle crisi marocchine. Le due crisi avevano evidenziato un isolamento della Germania, i cui gruppi dirigenti avvertivano il pericolo di un arricchimento. La retorica aggressiva dei discorsi pubblici di alcuni leader tedeschi e soprattuto di Guglielmo II, favorivano la percezione dell’Impero tedesco come di un pericolo per la stabilità. La polarizzazione del sistema europeo aveva predisposto i gruppi dirigenti britannici e francesi a un’attitudine di noncuranza nei confronti di esigenze e interessi della Germania. Il progressivo logoramento dei rapporti fra governi, avveniva in un contesto di generale aumento della militarizzazione degli Stati. Il rinnovamento della tecnologia militare richiedeva investimenti importanti e accresceva la capacità distruttiva di eserciti e marine da guerra. La ricerca della sicurezza portava ogni paese ad accrescere il proprio potenziale bellico fine di intimorire i possibili avversari, col risultato di un diffuso atteggiamento di reciproca diffidenza. Le figure dei capi militari acquisirono un notevole peso e una rilevanza internazionale nel contesto europeo dei primi anni ’10 del ‘900. La Germania per dare credibilità alla sua ambizione di svolgere una politica mondiale aveva dato avvio ad un ambizioso programma di potenziamento della flotta. Aveva anche un evidente valenza antibritannica che puntava a ridurre sensibilmente il divario numerico tra le due flotte. Pagina 21 2. Accelerazioni balcaniche La regione su cui si vennero a concentrare le maggiori tensioni furono i Balcani. A rendere la situazione più instabile contribuì la crescente agitazione nazionalista dei popoli balcanici che si concentrò principalmente sulla Macedonia. In Serbia si erano rafforzate le posizioni del nazionalismo più radicale, che si rifaceva alla visione di una Grande Serbia ispirata all’Impero medievale di Stefan Dušan. Da questa eredità si faceva derivare un diritto storico, secondo il quale l’obbiettivo del nazionalismo serbo doveva essere quello dell’unificazione di tutti i Serbi all’interno di un unico Stato. A minare la stabilizzazione intervenivano anche i processi interni all’Impero ottomano. Il 5 ottobre la Bulgaria proclamò la sua indipendenza, ma fu l’annessione della Bosnia-Erzegovina all’Impero austro-ungarico nel 1908, a rompere l’equilibrio sancito dal congresso di Berlino. Nei mesi successivi la tensione europea aumentò. Si susseguirono mobilitazioni nell’Impero asburgico, in quello zarista e in Serbia. La crisi bosniaca ruppe i termini dell’accordo austro-russo del q891 e riaccese la rivalità tra i due Imperi in quella regione. Accrebbe la distanza dell’Italia dal?Austria, mentre acuiva la diffidenza di Vienna nei confronti di Roma. L’annessione della Bosnia- Erzegovina costituì anche un passaggio a livello europeo di radicalizzazione delle posizioni nazionaliste. In Italia la crisi bosniaca segnò l’inizio di un processo che condusse alla nascita di un movimento di politica nazionalista. Dopo il 1908 i Balcani entrarono in una spirale di conflitti e di guerre. La guerra italo-turca aveva inferto un’umiliazione alla Sublime Porta e ne aveva indebolito in modo profondo le capacità di resistenza. Il controllo sull’Egitto (e quindi sul canale di Suez) e la convenzione con la Russia, aveva dato una configurazione accettabile alla rivalità anglo-russa dagli Stretti al Tibet. Avevano contribuito a ridimensionare l’impegno britannico a sostegno dell’Impero ottomano, la cui funzione di contenere la Russia nel Mar Nero e di vigilare sulle vie di terra verso l’India, aveva progressivamente perso rilevanza per gli interessi di Londra. Il colpo arrecato dall’Italia all’integrità dell’Impero ottomano non poteva restare senza ripercussioni sui Balcani. Venne così fornita l’occasione per un’iniziativa antiurica degli Stati balcanici, i quali formarono una Lega, favorita dalla Russia e comprendente Serbia, Bulgaria, Montenegro e Grecia, con l’obbiettivo di espellere gli ottomani dalla penisola. Nel dicembre 1912 la 1° guerra balcanica si concluse con un armistizio che sanciva la disfatta del regno ottomano. La Macedonia era contesa da Bulgaria, Serbia e Grecia. Notizie di violenze dei serbi sulla popolazione bulgara nei territori occupati dalle truppe di Belgrado, non fecero che acuire la tensione. La 2° guerra balcanica si concluse con la pace di Bucarest dell’agosto dello stesso anno (1912). La Bulgaria dovette cedere gran parte di quanto conquistato in precedenza, a vantaggio dei suoi avversari (Grecia-Serbia-Romania-Impero ottomano) che si spartirono i territori. Fu la Serbia il paese che conseguì maggiori benefici territoriali, fino a quasi raddoppiare superficie e popolazione. In Macedonia, l’esercito serbo si distinse per le atrocità commesse nei confronti dei bulgari. Le guerre avevano contribuito a inasprire ulteriormente i rapporti tra Austria e Russia. Quest’ultima si era avvicinata ancor di più alla Serbia e aveva allacciato nuovi rapporti amichevoli con la Romania, mentre la Bulgaria si era allontanata dalla Russia per accostarsi all’Impero austro- ungarico. VI era stata quindi una riconfigurazione degli schieramenti balcanici con una rottura degli equilibri e un ridimensionamento dell’influenza di Vienna a vantaggio di quella di San Pietroburgo. L’Austria doveva riformulare i termini della sua politica balcanica, volta fino allora al mantenimento dello status quo. Presso le altre potenze europee veniva meno la convinzione nell’indispensabilità del ruolo analogo di stabilizzatore giocato nei Balcani dall’Impero asburgico, che si ritrovava così più isolato, mentre la crescita dei nazionalismi degli Stati della regione si riverberava inevitabilmente all’interno dell’Impero. La crescita della tensione nei Balcani contribuì a modificare il carattere dell’alleanza franco-russa. La politica francese si fece più aggressiva e si coniugò con ò’orientamento del nuovo capo di Stato maggiore Joffre, il quale adottò una strategia militare fondata su un indirizzo offensivo nella prospettiva di un’ipotetica guerra. Ne derivò un maggior impegno nelle spese a favore dell’esercito. Intensa fu anche l’attività dei francesi per rafforzare la cooperazione militare nel quadro dell’intesa anglo-francese e dell’alleanza franco-russa. Fu l’Impero austro-ungarico a ritrovarsi nella condizione di maggiori difficoltà. L’ampliamento territoriale della Serbia e la manifestazione di efficacia che il suo esercito aveva dato nel corso dei conflitti, avevano ripercussioni dirette sugli equilibri interni dell’Impero. Pagina 22 le coste del Baltico le truppe del Reich conquistavano la Lituania e la parte meridionale della Lettonia attestandosi poco prima di Riga. La guerra di trincea sul fronte occidentale e su quello italiano era una guerra lunga e di logoramento, che modificava radicalmente il profilo stesso del conflitto da un punto di vista tattico, operativo e strategico. Il blocco navale che la Gran Bretagna aveva stabilito nel mare del Nord per impedire le importazioni in Germania, complicava la situazione economica e degli approvvigionamenti tedeschi. La situazione peggiorò nel 1916, quando la Gran Bretagna strinse un accordo con i Paesi Bassi, che fino ad allora avevano esportato tutte le loro eccedenze in Germania, perché le esportazioni fossero invece dirette verso i mercati britannici. In Germania e Austria-Ungheria si diffuso fame e mal nutrizione. Uno degli obbiettivi dei tedeschi fu di sferrare un attacco a Verdun (in Lorena), sul fronte occidentale, con una concentrazione di forze e armamenti tale da mettere in ginocchio l’esercito francese, provocando un grosso numero di perdite. Ma così non fu: gli effetti combinati delle offensive lanciate dai russi sul fronte orientale in giugno e dai britannici sulla Somme in luglio, impedirono allo Stato maggiore tedesco di impiegare tutte le truppe preventivate per la conquista di Verdun. Sul fronte orientale l’offensiva dell’esercito russo ebbe inizio il 4 giugno e si concentrò sul settore controllato dagli austro-ungarici. Gli austriaci persero così la loro autonomia militare e furono ancor più soggetti all’egemonia strategica della Germania. L’apporto tedesco permise di contenere l’offensiva russa, che al suo termine arrivò a conseguire un successo con l’acquisizione di una consistente porzione di terreni. Alla fine del 1916 il quadro europeo in guerra registrava una situazione non sfavorevole per gli Imperi centrali. Le loro truppe occupavano gran parte di Romania, Belgio e Serbia, l’intero Montenegro, la Francia nord-orientale, la Polonia russa, la Lituania e parte della Lettonia. 5. L’Italia in guerra Allo scoppio della guerra l’Italia era legata da più di un trentennio a Germania e Impero austro- ungarico dalla Triplice Alleanza. Motivi storici legati al processo risorgimentale si univano alla questione delle terre irredente. La crisi bosniaca del 1908 aveva inoltre alimentato l’antagonismo con Vienna. La Triplice Alleanza aveva un carattere difensivo e obbligava i suoi contraenti a invadere solo se uno dei membri fosse stato aggredito. Non era questo il caso della guerra scoppiata nell’estate del 1914. La scelta del Governo presieduto da Antonio Calandra, fu di dichiarare il 2 agosto la neutralità dell’Italia. Nei mesi successivi fino al maggio 1915, in Italia si consumò uno scontro politico e culturale tra i 2 schieramenti al loro interno variegati: i neutralisti favorevoli al mantenimento dello status di paese neutrale e gli interventisti favorevoli all’entrata in guerra dell’Italia. Il campo neutralista era occupato dalle principali forze politiche e sociali e rispondeva a quello che era il sentire profondo del paese, dove erano diffusi sentimenti contrari all’eventuale entrata in guerra. A sostenere il mantenimento della neutralità erano Giolitti e i liberali giolittiani, vale a dire la maggioranza del Parlamento. I 10 mesi della neutralità furono un periodo di intense passioni. L’interventismo occupò anche lo spazio della piazza, che si rivelava sempre più decisivo per la politica nella società di massa. Il governo italiano porta a termine trattative iniziate con le potenze dell’Intesa dopo il fallimento delle offensive tedesche. Il 26 aprile 1915 venne stipulato il patto di Londra, un accordo segreto secondo cui l’Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese a fianco di Gran Bretagna, Francia e Russia. In caso di vittoria, l’Italia avrebbe ottenuto il Trentino con il Sudtirolo fino al Brennero, Trieste e l’Istria, la Dalmazia, una sorta di protettorato sull’Albania e una serie di compensi indefiniti in caso di dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. L’Italia entrò in guerra e mobilitò all’inizio di luglio un esercito di quasi 1 milione e 100 mila soldati, ma con artiglieria e munizioni inadeguate. La preparazione italiana aveva preceduto con lentezza e l’attacco dell’Austria non si potè avvalere di un fattore sorpresa. Si aprì un nuovo fronte della guerra, quello italiano, che si stabilizzò lungo il confine nord-orientale su una posizione più avanzata di qualche km in territorio austriaco, a seguito della ritirata delle truppe asburgiche sul “confine militare”. Anche la guerra italiana divenne guerra di posizione e di trincea, in un terreno di montagna, che diede ai combattimenti e al conflitto alcune caratteristiche peculiari. Gli austriaci, pur in inferiorità numerica, poterono sfruttare al meglio alcuni fattori di superiorità, come ad esempio: le ideali posizioni difensive e la disponibilità di armi migliori. Pagina 25 Nel 1916 sul fronte italiano si realizzò un’offensiva austriaca per sferrare un colpo definitivo all’esercito italiano. Il 15 maggio gli austriaci lanciarono l’attacco, lo sforzo compiuto aveva logorato le truppe austro-ungariche. A pagare il prezzo dell’offensiva austriaca fu Calandra che dovette presentare le dimissioni e venne sostituito da Paolo Boselli, il quale formò un governo di unità nazionale. I socialisti continuavano a essere esclusi, e la formula di governo restava ben distante da quelle di ampia convergenza degli altri paesi in guerra. Cadorna decise di partire all’offensiva. Il 6 agosto ebbe inizio la sesta battaglia dell’Isonzo, che seppe sfruttare l’effetto sorpresa sui comandi austriaci. L’esercito italiano si era dotato di un’artiglieria adeguata, l’offensiva si concluse con un autentico successo degli italiani che conquistarono Gorizia. 6. Una guerra mondiale La guerra scoppiata in Europa acquisì presto un profilo mondiale, alcune delle potenze europee che si confrontarono disponevano di imperi coloniali estesi su altri continenti. I territori e la società coloniali furono coinvolti nel conflitto in quanto parte costitutiva dei sistemi economici dei paesi europei e come riserva di reclute da arruolare negli eserciti in guerra, ma anche come luoghi di combattimento. In tempi diversi entrarono nel conflitto potenze extraeuropee come Giappone e Stati Uniti. Nel dicembre del 1914, l’esercito ottomano aveva attaccato quello russo sul Caucaso in una campagna che ebbe per i turchi un effetto disastroso. Nei territori orientali dell’Impero ottomano un altro fronte si aprì in Iraq dove truppe britanniche, composte per lo più da soldati indiani, nel settembre 1915 erano entrate in Mesopotamia. I britannici mirarono a fomentare la rivolta delle popolazioni arabe nei confronti del potere dei turchi. In Asia orientale il Giappone dal 1902 era legato alla Gran Bretagna da un trattato di alleanza. L’Impero nipponico non poteva che essere un interlocutore dei britannici anche nel contesto del conflitto mondiale. Il pericolo principale provenga dalla squadra novale tedesca dell’Asia orientale. Londra richiese pertanto l’intervento di Tokyo al suo fianco per un sostegno nella caccia alle navi tedesche nel nord del Pacifico. L’occasione fu colta dal Giappone e il 23 agosto 1914 dichiarò guerra alla Germania. In ottobre la marina giapponese occupò nel Pacifico i possedimenti tedeschi. L’obbiettivo principale delle mire di Tokyo era tuttavia la Cina. Negli anni seguenti, il Giappone condusse una politica volta ad affermare la propria egemonia sulla Cina, al cui governo repubblicano Tokyo presentò nel 1915 le cosiddette “21 richieste”, intese a mettere sotto il proprio controllo la politica economica e le scelte internazionali della Repubblica cinese. Ne furono accettate solo 16, ma l’influenza nipponica in Cina ne uscì comunque rafforzata. Tokyo riuscì a bloccare fino al 1917 ogni tentativo della Repubblica cinese per partecipare alla prima guerra mondiale a fianco delle potenze dell’Intesa al fine di rafforzare il proprio profilo internazionale e di poter rivendicare meriti. Pur rimanendo formalmente neutrale, la Cina cercò di sostenere lo sforzo bellico di Francia, Gran Bretagna e Russia, vendendo loro armi e inviando loro 150.000 operai cinesi. La partecipazione giapponese alla Grande Guerra ebbe una portata rilevante: rafforzò l’influenza nipponica in Cina in un’ottica egemonica, proiettò interessi espansionisti dell’Impero giapponese nel Pacifico in una prospettiva potenzialmente conflittuale con gli analoghi interessi degli Stati Uniti in quella stessa area. La Grande Guerra pertanto si inseriva pienamente nelle dinamiche della politica internazionale. La guerra nei mari acquisì presto una connotazione globale. La guerra di mare aveva un’importanza fondamentale per garantire le vie commerciali delle colonie all’Europa: nel gennaio 1915 il pericolo rappresentato dalle squadre navali tedesche era stato debellato. Si prospettava però un’altra macchina da guerra di mare, il sommergibile. Il Togo fu conquistato da truppe britanniche e francesi rapidamente nell’agosto del 1914. Fino al febbraio 1916 durò la resistenza tedesca in Camerun. Nel maggio del 1915 i sudafricani conquistarono Windhoeck, la capitale dell’Africa sud-occidentale e in luglio fu firmata una tregue le cui condizioni permisero ai 15.000 coloni tedeschi di continuare le loro attività anche sotto amministrazione sudafricana. La guerra in Africa orientale era un condensato del carattere mondiale che il conflitto aveva assunto. In una vasta area africana soldati inglesi, indiani, tedeschi, indigeni, belgi, sudafricani e portoghesi si confrontarono in un intreccio in cui connessioni regionali e globali si intrinsecarono. Fu una guerra di movimento combattuta su uno spazio molto esteso. Pagina 26 Popolazioni coloniali, specie di Gran Bretagna e Francia, attinsero per integrare i loro eserciti e per utilizzare manodopera in Europa. Notevole fu anche la mobilitazione di popolazione indigena delle colonie francesi. La Grande Guerra ebbe un profilo mondiale. In essa convergevano tendenze che avevano caratterizzato i decenni precedenti. La prima guerra mondiale ne era espressione, era un fenomeno nuovo che contribuiva a dare alla mondializzazione un impulso definitivo per una sua affermazione come cifra dell’età contemporanea. Capitolo 11: Il grande tornante: la prima guerra mondiale. Atto 2° 1. Una guerra di massa e industriale La guerra mondiale si presentava fin dai suoi esordi come una guerra di massa, rifletteva una trasformazione profonda dell’età contemporanea. Le masse furono protagoniste della Grande Guerra innanzitutto negli eserciti, essi furono immessi, spesso in modo traumatico, negli eserciti fondati sulla coscrizione obbligatoria. L’esperienza di milioni di uomini fu quella di ritrovarsi a essere ingranaggi di un meccanismo per molti versi senza volto, impersonale, accanto a milioni di altri soldati serializzati nell’esercito moderno di massa. La guerra fu combattuta e vissuta dalla gran parte dei soldati nelle trincee. I soldati sottoposti a un sistema di rotazione trascorrevano mediamente dalle 2 alle 4 settimane di seguito in trincea, ma in alcune zone, la durata della permanenza era più lunga fino a essere di alcuni mesi. Si realizzava un cambiamento del paesaggio mentale dei soldati indotto dalla guerra, spesso sconfinava nel disagio psichico, a migliaia furono ricoverati in ospedali psichiatrici. Per tanti fanti-contadini ritrovarsi in un organismo di massa quale erano gli eserciti della Grande Guerra, rappresentò l’esperienza traumatica di essere catapultati in un altro mondo. Per una moltitudine di soldati, la Grande Guerra rappresentò l’esperienza vertiginosa della scoperta della modernità industriale. In questo contesto il soldato viveva l’esperienza doppiamente spersonalizzante della massa e della meccanizzazione. Il trauma profondo provocato dall’impatto con la morte di massa, toccò direttamente e in primo luogo i combattenti, ma coinvolse le società nella loro interezza. L’enorme quantità di morti era in buona parte dovuta all’introduzione di una serie di nuove armi, che l’innovazione tecnologica e la produzione industriale avevano fornito agli eserciti. L’invenzione più rilevante era la mitragliatrice, uccideva in modo seriale, era un’arma in grado di procurare vittime in grande quantità: provocava morte di massa. Uccidere il nemico era diventato un’attività serializzata, industriale e spersonalizzata. Non fu rapido né facile l’aggiornamento del modo di condurre la guerra e decine di migliaia furono i soldati sacrificati in attacchi insensati. Il trauma delle prime battaglie obbligò a ricorrere alle trincee. La guerra di posizione esalta la funzione di altre armi e dell'artiglieria, i bombardamenti dei pozzi dirti ieri a pesante sulle linee nemiche divennero la premessa indispensabile degli attacchi di frontiera. Fu introdotto l'uso di gas tossici da lanciare nelle linee nemiche, inoltre, l’innovazione tecnologica intensificò la produzione di aerei da utilizzare nelle operazioni di guerra. L'apparato industriale di cui ogni paese poteva disporre, costituì un elemento determinante della prestazione bellica. La guerra diventava industriale. 2. Guerra totale: fronte interno e “cultura del nemico” Nella grande guerra si confrontarono oltre gli eserciti, anche le economie e i sistemi industriali dei paesi belligeranti. In ogni paese si registrò una mobilitazione industriale volta a garantire la produzione necessaria a portare avanti lo sforzo militare. Lo Stato era il principale committente dell'apparato produttivo e interveniva direttamente per regolare le dinamiche della produzione industriale. In Gran Bretagna, ad esempio, lo Stato stesso fondo imprese statali per la produzione di armi e munizioni. L'economia si concentrava sulle esigenze belliche, i costi per far fronte a tali esigenze produttive erano molto alti e si rendeva necessario gli Stati disporre di grandi somme di capitali. L'esigenza di avere un sistema industriale efficiente, riguardava non solo la produzione di armi e munizioni, ma anche altri aspetti non me ne importanti. Erano necessari materiali per allestire e fortificare le trincee, abbondanza di mezzi di trasporto e molto altro. Non poteva che derivarne un impulso decisivo ai processi di industrializzazione. Pagina 27 1917 era stato investito da una rivoluzione che condusse il collasso del sistema imperiale e alla fine dello zarismo. Scioperi e malcontento delle città per il sensibile peggioramento delle condizioni di vita, carenze alimentari e aumento di casi di diserzione e ammutinamento, erano stati segnali più vedenti delle crepe e apertasi nell'edificio statale russo. Gli insuccessi militari andavano di pari passo con il logoramento del governo provvisorio, finché nell'ottobre i bolscevichi presero il potere. La pace era una delle priorità politiche indicate da Lenin, il 3 dicembre iniziarono a Brest-Litovsk le trattative tra i rappresentanti del governo bolscevico e quelli degli Imperi centrali, che si conclusero il 3 marzo 1918 con un accordo di pace che fa più simile a una resa. Le condizioni dettate ai russi furono estremamente severe, con le perdite territoriali di Polonia, Finlandia, paesi baltici, buona parte dell'Ucraina, Bessarabia, Crimea, e un piano di riparazioni consistente in forniture ingenti di petrolio, cereali, locomotive, artiglieria pesante e munizioni. Il blocco navale britannico nel mare del Nord e nell’Adriatico, arrecava alle economie tedesche e austroungariche un danno notevolissimo. L'appoggio fornito dagli Stati Uniti ai paesi dell'Intesa, soprattutto in termini di crediti finanziari e di forniture di armamenti, costituiva un valore aggiunto di grande rilevanza. Washington nel 1914 si era dichiarata neutrale, tuttavia Wilson doveva fare i conti con una società formata da comunità di immigrati, che mantenevano legami e identità della patria d’origine. Influenti comunità erano inclini a sostenere la causa degli Imperi Centrali. Esigenze di coesione interna convergevano nel motivare la scelta per la neutralità. La morte di 129 cittadini americani nell’affondamento del Lusitania nel maggio del 1915 scosse gli Stati Uniti, che non abbandonarono però la posizione di neutralità, pur esercitando pressioni sulla Germania perché ponesse fine alla guerra sottomarina. Tuttavia, la portata del sostegno commerciale e finanziario a Francia e Gran Bretagna era tale da far prendere di fatto la bilancia della neutralità americana verso l’Intesa. I vertici militari tedeschi si rendevano conto che il prolungamento della guerra sarebbe andato a scapito della Germania e dell'Impero austroungarico. La ripresa degli attacchi dei sommergibili rappresenta una brutale violazione dei diritti dei paesi neutrali, ciò non poteva restare senza reazioni da parte di Washington. Nel frattempo erano stati affondati dai tedeschi 3 mercantili statunitensi. La reazione dell'opinione pubblica americana fu veemente e Congresso e Senato approvarono a larga maggioranza la richiesta di Wilson e di dichiarare guerra alla Germania. Il 6 aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra. Wilson presentò l’intervento americano come una guerra per la democrazia contro il militarismo degli Imperi centrali. L’interdipendenza del mondo in cui Wilson mostrava moderna consapevolezza imponeva una nuova assunzione di responsabilità globale. La lotta per i “principi americani” era la lotta per i “principi dell’umanità”. Con l'ingresso nella guerra, gli Stati Uniti sperimentarono processi di mobilitazione totale analoghi a quelli di paesi europei. Si costituirono agenzie federali per gestire la produzione industriale e gli armamenti, fu allestito un potente sistema di diffusione della propaganda. Il governo promosse leggi che limitavano fortemente la libertà. Il dispiegamento delle truppe americane richiese alcuni mesi, ma sia sarebbe dimostrato determinante. 5. Vittoria per logoramento Sul fronte occidentale dopo l'offensiva anglo francese sulla somme del 1916, i tedeschi si posizionarono nel marzo del 1917 su una nuova linea leggermente arretrata rispetto alla precedente, che prese il nome di linea “Siegfried", dotata di imponenti fortificazioni. I costi umani di queste offensive furono altissimi, i risultati strategici esigui. Era l'epilogo di un modo di concepire la guerra che aveva provocato il sacrificio di milioni di giovani mite. Il nuovo capo di Stato maggiore francese, Robert Nivelle, nel 1916 aveva sostituito Joffre dopo gli insuccessi di Verdun, lanciò la prima offensiva, la quale fu un fallimento. Fu quindi sostituito da Philippe Pétain. La Francia nel mentre, per evitare il collasso, rinunciava al ruolo dominante fino allora avuto sul fronte occidentale. In Italia invece, fu la disfatta di Caporetto sull’Isonzo il 24 ottobre che condusse al crollo del fronte italiano. A tenere le redini all’epoca era il generale Cadorna, esonerato e sostituito da Armando Diaz, egli rivoluzionò l’esercito e l’atteggiamento nei confronti di esso. La nuova gestione dell’esercito si fondava su una maggiore attenzione rivolta alle condizioni di vita dei soldati. Per l’Italia, il paradigma del patriottismo difensivo motivò una più larga adesione alla causa della guerra. Pagina 30 All’inizio del 1918 i comandanti tedeschi pianificarono un’importante offensiva di primavera articolata in più operazioni. L’obbiettivo era quello di riuscire ad arrecare un colpo che potesse fiaccare le capacità di combattimento di francesi e britannici. Le offensive di primavera avevano condottò a conquiste territoriali per i tedeschi, che a metà luglio lanciarono un ulteriore attacco sul fiume Marna, bloccato dai francesi. Il 26 settembre truppe francesi, britanniche, statunitensi e belghe, lanciarono un’offensiva lungo la linea di Verdun: l’esercito tedesco fu obbligato a ritirarsi. Nel frattempo sul fronte italiano, l’offensiva ben contenuta dagli italiani che con il maresciallo Diaz dopo Caporetto avevano ristrutturato efficacemente l’esercito, si concluse in un successo italiano. Il 3 novembre i soldati italiani entrarono a Trento e Trieste. L’Impero austro-ungarico aveva chiesto la tregua il 26 ottobre: il 3 novembre fu firmato a Padova l’armistizio che poneva fine alle ostilità in data 4 novembre. La guerra era finita, iniziava dunque la lotta per l’appropriazione della sua eredità. Capitolo 12: Le conseguenze della Grande Guerra Il conflitto continuò su diversi fronti centro-orientali. In particolare nella Russia post-zarista, dove la guerra civile scatenata dal colpo di Stato bolscevico del novembre del 1917, si protrarrà fino ai primi anni 20. 1. Le strategie dei vincitori: pace o guerra con altri mezzi? La conferenza di pace di Parigi, inaugurata il 18 gennaio 1919, doveva stabilire i nuovi equilibri continentali successivi alla Grande Guerra. Per il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, l'obiettivo era ambizioso: stabilire una pace giusta e definitiva basata sul principio di autodeterminazione dei popoli, dell'autogoverno democratico liberale di ciascuna nazione, su cui avrebbe dovuto vegliare la Società delle Nazioni, una sorta di "governo mondiale" abilitato ad arbitrare i contenziosi fra gli Stati. Stabilizzare l'Europa senza e, anzi, contro tedeschi e russi, si rivelò presto utopia. Il 18 gennaio 1918 Wilson aveva annunciato davanti al Congresso americano, i 14 punti su cui incardinare la pace universale. I 14 punti erano divisi in due categorie: - 8 “obbligatori” - Generali. - Prevedevano: - Diplomazia aperta. - Libertà di navigazione. - Disarmo generale. - Rimozione delle barriere doganali. - Risoluzione imparziale delle dispute coloniali. - Ricostruzione del Belgio. - Evacuazione del territorio russo dalle truppe straniere. - Istituzione della Società delle Nazioni. - 6 “auspicabili” - Seguivano progetti geopolitici. - Prevedevano: - Ritorno di Alsazia e Lorena alla Francia. - Autonomia delle minoranze dell’ex Austria-Ungheria e dell’Impero ottomano. - Aggiustamento delle frontiere italiane secondo principi “nazionali”. - Evacuazione ai Balcani delle truppe straniere. - Internazionalizzazione dei Dardanelli. - Polonia indipendente con accesso al mare. Gran Bretagna e Francia uscivano talmente dissanguate dalla Grande Guerra da badare anzitutto a stroncare una volta per tutte le minaccia tedesca e salvaguardare la sussistenza dei rispettivi imperi. Nella loro ossessione di sicurezza rispetto alla Germania, i francesi avrebbero voluto occupare il intera Renania. Ma alla conferenza di Parigi si sarebbero accontentati della garanzia angloamericana contro un'ennesima aggressione germanica. Pagina 31 Finiva così l'intesa transatlantica che aveva determinato il crollo dell'impero Guglielmino. Le visioni di fondo dei tre principali attori della conferenza di pace si rivelavano troppo asimmetriche quando non collidenti. L’intesa fra le tre massime potenze vincitrici era dunque decaduta subito dopo il cessate il fuoco. A Versailles ognuno pensava a sé. 2. La “vittoria (non troppo) mutilata” L'Italia era entrata di fatto nel club delle maggiori potenze, ma era l'ultimo dei grandi. I rappresentanti italiani sprecarono l'occasione di incidere nell'esito della conferenza e di qualificarsi come soci effettivi dell'élite internazionale che avrebbe dovuto ridefinire il perimetro della potenza su scala globale. I motivi furono 3: - La concentrazione esclusiva sulle proprie rivendicazioni territoriali. - La carenza di status internazionale. - Gli errori dei capi della delegazione. L'esito geopolitico della vittoria militare non era quello auspicato, entrando in guerra la monarchia italiana non intendeva distruggere l'Impero austroungarico, ma infliggergli una lezione. Il crollo di Vienna esponeva l’Italia alla frontiera alpina, rispetto al quale l’Austria-Ungheria si sarebbe potuto offrire come Stato cuscinetto. Mentre i francesi respingevano l'annessione di Fiume all'Italia con argomenti di paura, gli americani fecero notare che in molte delle “terre irredente” da trasferire sotto Roma in base al patto di Londra, salvo Trento e Trieste, gli italiani erano minoranza. Proponevano una mediazione sul confine orientale italiano che veniva largamente incontro alle rivendicazioni di Belgrado, un compromesso inaccettabile per il Regno d’Italia. Per non farsi tagliare fuori dall'imminente trattato di pace, Orlando e Sonnino tornarono a Parigi (a Orlando succedette Nitti poco prima della firma del trattato). Fu miti a firmare il 10 settembre 1919 il trattato di Saint-Germain-en-Laye, che assegnava Trentino, Alto Adige e Cortina d'Ampezzo al regno d’Italia. L'impresa dannunziana di riprendere fiume durò 16 mesi. A stroncarla con la forza nel dicembre 1920 fu il governo di Giolitti, sulla scia dell'intesa finalmente raggiunta con il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni sulla demarcazione delle reciproche frontiere. 3. Il caso Germania e le sue ripercussioni americane La Repubblica di Weimar fu costretta a cedere tutte le colonie e ad accettare la responsabilità della guerra. Per l'America, l'entrata in guerra contro la Germania, fu uno spartiacque geopolitico interno che avrebbe segnato da allora in avanti i rapporti di forza tra i bianchi d'America. Fu alla Gran Bretagna che Washington guardo sempre come il principale riferimento transatlantico. 4. La questione nazionale nell’Europa centro-orientale Si trattava di riorganizzare un ordine compromesso dalla scomparsa quasi contemporanea della monarchia imperial-regia degli Asburgo e dell'impero the Romanov. Il più importante degli Stati che emergevano (o riemergevano) a est di Berlino sulle macerie della Grande Guerra, era la Polonia. Il caso più traumatico di transizione dall'impero agli Stati nazionali in Europa centro-orientale fu la spartizione dell’Ungheria. A rendere particolarmente instabile l'assetto in questa parte d’Europa contribuiva la questione ebraica. Gli ebrei erano il bersaglio favorito dei nazionalisti, specie in Polonia. Boicottaggi, spedizioni punitive e pogrom erano all'ordine del giorno nelle terme compresa tra Germania e Russia. 5. Sulle rovine della Sublime Porta La configurazione geopolitica della Turchia era il risultato di diversi fattori, tra cui fondamentali gli accordi segreti anglo-francesi del 1916. L'Impero ottomano veniva amputato dei suoi possedimenti arabi e levantini, spartiti fra Parigi e Londra sotto la pudica formula del “mandato”, altro nome per indicare le colonie. L'Italia si vedeva Pagina 32 Il governo provvisorio concesse la convocazione del concilio che si riunì a Mosca il 15 agosto 1917. Alla fine di aprile, si verificò una crisi che aveva condotto alla formazione di un governo di coalizione composto dai liberali e dalle frange più moderata dei socialisti. Nello stesso mese, Lenin, fino ad allora in esilio, fece ritorno in Russia grazie ad accordi con il governo tedesco, che permise e favorì il suo viaggio nella convinzione che il suo intervento avrebbe reso la situazione del paese ancora più instabile, a vantaggio degli interessi bellici della Germania. Lenin si distinse subito al suo rientro in patria per strategia e lucidità divisione, egli sostenne che era giunto il momento di realizzare in Russia la rivoluzione socialista. Trovò un importante alleato in Trockij. L'obiettivo dichiarato di Lenin era conquistare il potere, a tal fine riteneva necessario utilizzare la violenza di massa. Da aprile a ottobre Lenin condusse una strategia conseguente al suo obiettivo: la conquista del centro. Il 4 luglio un corteo armato guidato da reparti militari ribelli dalle milizie bolsceviche assediò la sede del soviet, al fine di forzare la dirigenza menscevica i social rivoluzionaria ad assumere la linea rivoluzionaria, riassunta dalla formula "tutto il potere ai soviet”. L'iniziativa fu bloccata dall'intervento le truppe fedeli al governo, Trockij e altri leader bolscevichi furono arrestati, mentre Lenin si rifugiò in Finlandia. Il nuovo governo si mostrò debole, l'esercito andava alla deriva. Nelle campagne i contadini assaltavano le proprietà terriere. Lenin aveva accolto la rilevanza della questione e aveva fatto suo il programma del congresso dei deputati contadini, convocato dalle organizzazioni del mondo rurale, che si era pronunciato per la pace la distribuzione egualitaria della terra. I bolscevichi avevano visto ingrossare le loro file e accrescere la loro forza. La notte del 24 ottobre il colpo di stato preparato da Lenin condusse i bolscevichi alla conquista del palazzo d'Inverno: la rivoluzione d'ottobre fu quindi una presa del potere tramite un colpo di mano. 4. Da una guerra all’altra: la formazione di una cultura politica Il colpo di Stato di Lenin apriva la porta della guerra civile, i bolscevichi non avevano nascosto che la ritenevano una tappa necessaria del processo rivoluzionario. Le prime mosse del leader bolscevico dopo la presa del potere furono fulmine e decisive. Seguì un decreto sul diritto alla autodeterminazione dei popoli dell'Impero che rappresentava lo sviluppo delle posizioni elaborate, fin dalla vigilia della Grande Guerra, da Lenin insieme a Stalin. Nei primi mesi di governo Lenin definì anche la sua politica nei confronti della chiesa ortodossa. Nell'ottobre del 1917, si stava per abbattere una persecuzione unica per il numero delle vittime, per la durata e la qualità dell'oppressione, oltre che per il tipo di aggressione da parte di uno Stato che non intendeva solamente ridurre gli spazi, ma voleva sostituirsi ad essa. Il 20 gennaio 1918 il governo bolscevico approvò il decreto di separazione della chiesa dallo Stato e della scuola dalla chiesa. All'esecuzione del decreto seguì una lunga serie di uccisioni di vescovi, preti, monaci e laici ortodossi. Il fine di abbattere uno dei pilastri del regime zarista si innestava in un più profondo motivo di contrapposizione dato dall'orientamento antireligioso dell'ideologia bolscevica. L'obiettivo prioritario di Lenin restava quello di tenere saldamente nelle proprie mani il potere. I bolscevichi erano il partito dello Stato forte, quello più in linea con la tradizione russa di lungo periodo nella gestione del potere. La Russia contadina si espresse con una larga maggioranza per un opzione socialista differente da quella di cui erano interpreti i bolscevichi. La risposta di Lenin fu di puntare alla costruzione di un nuovo embrione di Stato attorno al governo, e nominato Consiglio dei Ministri del popolo, fondato sul partito e dotato di un braccio armato della polizia politica (CEKA). In gennaio Lenin scioglieva l'assemblea costituente. Si veniva delineando il profilo di un nuovo tipo di Stato. La causa dello stato di venire a causa del partito, il partito divenne l'asse portante del nuovo Stato. Il nuovo potere si rivelava fin da subito determinato nel difendere le proprie prerogative e nel ristabilire le funzioni di governo. La firma della pace con la Germania il 3 marzo 1918 a Brest- Litovsk potrebbe essere considerata l'espressione evidente della rinunzia a una prospettiva geopolitica di tipo imperiale a favore di quella rivoluzionaria. La scelta fu quella di privilegiare la difesa dello Stato, i socialisti-rivoluzionari di sinistra alleati dei bolscevichi, contrari alle scelte della pace, uscirono dal governo, che da quel momento fu nelle mani del solo partito bolscevico. La risposta del governo bolscevico alle numerose minacce fu la costituzione di un nuovo esercito, l'Armata Rossa, guidato da Trockij, fondato sulla coscrizione obbligatoria e su una disciplina Pagina 35 ferrea. La posta in gioco era la sopravvivenza dello Stato, prevalse il "comunismo di guerra". L’entusiasmo e il volontarismo rivoluzionari si coniugavano con l'uso della violenza e della coercizione. La guerra civile si concluse con la sconfitta degli eserciti contro rivoluzionari dei "bianchi" nel 1919 e la riconquista nel corso del 1920 di parte dei territori che si erano staccati dalla Russia rivoluzionaria. 5. Uno Stato federale-imperiale La guerra civile si concluse con il recupero da parte del nuovo centro bolscevico di buona parte dei territori dell'Impero russo. Il nuovo Stato dei bolscevichi si misurava con il grande spazio euroasiatico. In Unione Sovietica il carattere federale rappresentava un tratto distintivo. Tuttavia la particolare configurazione del nuovo Stato con la sua articolazione delle unità amministrativo-territoriali, non esauriva le modalità di governo dello spazio, che poggiava sulla preminenza del partito, strutturato invece in modo più conforme a un paradigma imperiale che a uno Stato federale. Lo Stato sovietico presentava permanenze significative della dimensione imperiale, come ad esempio nel forte potere centrale, il ruolo di collante affidato alla lingua e alla cultura russa, la tensione all'espansionismo, il ruolo di Mosca e la proiezione universale e la carica messianica del potere comunista. Lenin, introducendo il calendario gregoriano al posto di quello Giuliano con l'avanzamento di 13 giorni, compì una profonda innovazione.agli inizi del marzo del 1918, Lenin scelse di trasferire la capitale a Mosca. Con lo spostamento della capitale a Mosca Lenin si misurava con l'eredità storica dello Stato russo. La dottrina di Marx, era stata reinterpretata da Lenin con un'operazione intellettuale che rientrava nei termini di un paradigma costitutivo della stessa cultura russa. Aver lasciato Pietrogrado per Mosca non voleva dire abbandonare il modello imperiale di Stato, ma cimentarsi con una nuova interpretazione di quel modello. 6. Il Partito comunista: il controllo dello Stato e messianismo ideologico Il potere bolscevico si presentò sulla scena mondiale con un progetto rivoluzionario di sovversione globale. La rivoluzione mondiale fu nei primi anni del potere di Lenin l'obiettivo che il nuovo gruppo dirigente a Mosca intendeva perseguire sullo scenario internazionale nei turbolenti passaggi del dopo guerra. In un certo senso il bolscevismo si presentava come una versione deformata dell'antica idea messianica radicata nella cultura russa reinterpretata dal partito comunista. I bolscevichi si dotarono nel 1919 di un partito mondiale della rivoluzione, il Komintern: raccolse i partiti e le frazioni dei partiti socialisti che si riconoscevano nell'esperienza rivoluzionaria bolscevica. Il Komintern era però un organismo che faceva in qualche modo della sua connessione al potere bolscevico, la propria ragione sociale. Nel marzo del 1919, il partito bolscevico si era denominato comunista. All'interno del partito, erano gli organi dirigenti a prendere le decisioni fondamentali che orientavano le politiche e determinavano le scelte dei ministeri e dei grandi enti pubblici, e attraverso la rete territoriale degli organismi di partito anche quelle delle amministrazioni locali. La nazionalizzazione delle banche e delle imprese industriali secondo i presupposti ideologici della rivoluzione comunista, fu attuata da Lenin nei primi mesi del suo governo. 7. La NEP: guerra contadina e compromessi La guerra civile comportò la rottura dell'alleanza tra potere bolscevico e contadini, i quali si trovarono loro malgrado coinvolti in una nuova guerra e sottoposti a un sistema di requisizioni dei raccolti e introdotto dal governo, per garantire il sostentamento dell'esercito e delle città. Le insurrezioni contadine dall'estate del 1918 si moltiplicarono e segnarono l'inizio di quella che è stata denominata "la grande guerra contadina" che avrebbe più riprese sfidato il potere sovietico. La risposta bolscevica avviata da Lenin e portata a compimento da Stalin, fu all'insegna di una repressione senza pietà. Tuttavia, dopo la conclusione della guerra civile, si rese necessario un cambiamento di politica economica che fu realizzato da Lenin nel 1921 con l'introduzione della Nuova Politica Economica (NEP). Invece dell'opzione di una guerra aperta con le masse corali, Lenin scelse per una nuova linea di concessioni al mondo contadino al fine di permettere alla società e al sistema di Pagina 36 consolidarsi. In seguito alla NEP, fu abolito il sistema delle requisizioni, e sostituito con una tassa in natura, inoltre, veniva concessa la commercializzazione dei prodotti agricoli eccedenti. Nel 1922 Lenin impose l'introduzione della figura del segretario generale, carica alla quale fu eletto dal comitato centrale Stalin. La repressione che negli anni 20 colpì la chiesa ortodossa e le comunità cattoliche minoritarie presenti in Unione Sovietica, negli anni 30 coinvolse tutte le confessioni religiose del paese. 8. Dopo Lenin: la lotta per il partito La malattia di Lenin, leader indiscusso carismatico del partito e la sua morte nel 1924, avevano innescato un confronto fra i dirigenti per la successione. Stalin assunse la guida del regime con l'appoggio di altri 2 leader di primo piano. Il conflitto per il controllo del partito, e quindi dello Stato, si intrecciava un dibattito di carattere ideologico sulla natura del regime e sui suoi sviluppi. "La sinistra" guidata da Trockij, riteneva prioritario accelerare lo sviluppo industriale del paese drenando risorse dall’agricoltura. L'opposizione dei due dirigenti su cui prima Stalin faceva affidamento, fu sconfitta da lui stesso al XIV congresso del partito alla fine del 1925. Alla fine del 1927 Stalin e Bucharin avevano definitivamente vinto la battaglia all'interno del partito. In realtà si stava avvicinando un nuovo conflitto ai vertici del potere bolscevico, questa volta tra Stalin e Bucharin. La NEP sembrava essere il motivo dello scontro fra i due leader. 9. La “grande svolta”: la distruzione delle campagne Aveva inizio la seconda fase della "grande guerra contadina”. La linea scelta da Stalin imposta il partito era la "rivoluzione dall'alto" che doveva condurre alla vittoria definitiva sui nemici di classe da piegare al controllo assoluto del partito e dello Stato sovietico. La trasformazione del tessuto sociale ed economico delle campagne era il perno dell'operazione voluta da Stalin. Occorreva da una parte eliminare le élite del mondo reale, i kulaki. Dall'altra si mirava a ridisegnare la proprietà della terra e l'organizzazione del lavoro agricolo con la formazione di grandi aziende collettive. Si dava avvio al processo di collettivizzazione delle campagne, che insieme al varo del primo piano quinquennale segnò la grande svolta del 1929. Attraverso l'uso di sistemi coercitivi si vede avvio anche il processo di collettivizzazione che coinvolse tra gli 8 e 10 milioni di famiglie. Il mondo contadino oppose resistenza, questa reazione destò allarme in Stalin che nel marzo diede direttive di moderazione. Nella primavera del 1932 si registrarono i primi segnali di carestia, che dall'autunno colpire Ucraina, il Caucaso settentrionale, le regioni del Donna e del Volga, il Kazakistan. La carestia, conseguenze delle rovinose politiche agrarie di Stalin e da questi volutamente non contrastata per fiaccare la resistenza delle campagne, segnò la fine della "grande guerra contadina" con la vittoria di Stalin e la distruzione del tradizionale mondo rurale russo e ucraino. 10. Il potere di Stalin:modernizzazione e terrore La collettivizzazione delle campagne era coincisa con l'introduzione del piano quinquennale a fondamento dell'economia sovietica.l'obiettivo era quello di favorire l'industrializzazione accelerata del paese particolarmente nel settore dell'industria pesante.il piano indicava quali dovessero essere gli obiettivi della produzione da raggiungere nei successivi cinque anni.la modernizzazione doveva essere accelerata, a guidare tale accelerazione era l'apparato di partito e degli enti statali preposti al piano che decidevano obiettivi, priorità e allocazione di risorse finanziarie. Fu anche istituita una rete di campi di lavoro in seguito alla deportazione dei kulaki. Nasceva il sistema concentrazionario sovietico: il GULag. Gli obiettivi raggiunti erano considerati il frutto della costruzione di una società di tipo nuovo fondata sugli ideali del socialismo e sull'applicazione dell'ideologia marxista. Ma le contraddizioni di tale processo di modernizzazione sono evidenti. La polizia politica divenne in quegli anni il braccio esecutivo della politica di Stalin e della dirigenza del partito: era "il reparto armato d’avanguardia" del partito comunista. Stalin fu un dittatore che guidava con particolare lucidità e pragmatismo la macchina del potere sovietico. Il sistema sovietico attribuiva alla politica la preminenza assoluta.il pieno controllo del partito era un obiettivo fondamentale per Stalin. Alla metà degli anni 30, l'omicidio del capo del partito di Leningrado fu colta da Stalin come l'occasione per affermare la sua autorità assoluta con Pagina 37 Nell’agosto Mussolini firmò un “patto di pacificazione” con i rappresentanti del PSI e della Confederazione generale del lavoro. Era un’iniziativa politica promossa da Bonomi, controversa perché in qualche modo attestava l’abdicazione dello Stato dal suo ruolo di tutore della legalità. L’adesione di Mussolini all’iniziativa di Bonomi fu contrastata con veemenza dalle squadre locali, sopratutto nelle province padane, raccolte attorno ai loro leader, i cosiddetti “ras”. Mussolini non poteva rinunciare all’azione delle squadre provinciali che erano il fondamento del peso politico del fascismo, ma i ras provinciali non potevano fare a meno della leadership di Mussolini, che era l’unica personalità di livello nazionale di cui il movimento poteva disporre. Il fascismo si trasformava in partito al cui interno venivano inquadrate le milizie armate e allo stesso tempo si strutturava come un partito di massa attorno alla figura del leader carismatico di Mussolini, “duce” del fascismo. Le violenze fasciste continuarono contro socialisti, comunisti, repubblicani e popolari. Il 24 ottobre Mussolini affermò che il fascismo riconosceva la monarchia e l’esercito, rispettava la religione cattolica, era favorevole al capitalismo e al liberalismo e sopratutto mirava a restaurare ordine e disciplina. Il 28 ottobre avvenne la “marcia su Roma”. Mussolini senza più la minaccia di un’azione militare da parte dello Stato, ebbe buon gioco di far cadere l’ipotesi di governo del leader della destra liberale, sostenuta anche dai nazionalisti. Il re affidò allora al Duce del fascismo il compito di formare il nuovo governo. 3. La nascita di un nuovo regime Continuarono le azioni violente delle squadre fasciste contro gli altri partiti e le amministrazioni locali controllate dagli oppositori. L’obbiettivo primario era quello dell’espansione del dominio fascista sul paese. I nazionalisti avrebbero costituito nel corso di tutta l’esperienza del regime fascista un gruppo informale che si ritrovava in una comune sensibilità politica e ideologica. Il Partito fascista in larga misura era ancora un amalgama di realtà locali. Si trattava di un corpo attraversato da spinte centrifughe di notevole irruenza. Mussolini proseguì nell’opera di centralizzazione del partito e di sottomissione alla sua leadership. Nel dicembre 1922 costituì il Gran Consiglio di cui era il presidente. Le elezioni convocate nell’aprile del 1924, sulla base di una nuova legge elettorale, furono alla base della svolta che portò alla piena instaurazione di un nuovo regime politico. L’approvazione della legge elettorale da parte dei deputati liberali rappresentò la loro definitiva capitolazione al fascismo. Il Partito fascista aveva conquistato la maggioranza del Parlamento. Giacomo Matteotti denunciò con vigore violenze e manipolazioni del processo elettorale in un discorso alla Camera. Il 10 giugno 1924 fu sequestrato e ucciso da un gruppo di squadristi. La lotta politica assunse toni di aspro e violento antagonismo. Giovanni Gentile, il 21 aprile 1925, promosse un “Manifesto degli intellettuali fascisti”, firmato da autori come Pirandello e Ungaretti. Furono accresciuti i poteri attribuiti ai prefetti, fu abolita la libertà di organizzazione. I deputati dell’opposizione furono dichiarati decaduti, alcuni furono arrestati, come Antonio Gramsci. Fu sciolta la Massoneria, venne abolito il diritto di sciopero, fu riconosciuto il monopolio fascia. Fu istituito un Tribunale speciale per i delitti contro lo Stato e il regime e fu introdotta la pena di morte. L’Ovra mise sotto controllo la vita di molti italiani, specie con l’emanazione delle “leggi fascistissime” nel 1928. Nello stesso anno il Gran Consiglio divenne un organo costituzionale. Negli ambienti dell’Azione Cattolica era diffusa la diffidenza nei confronti del fascismo, che voleva assumere il monopolio dell’educazione delle giovani generazioni, tradizionalmente di responsabilità di attività di congregazioni religiose e associazioni cattoliche. L’obbiettivo primario per i vertici della Chiesa cattolica era quello di arrivare a una conciliazione con lo Stato italiano. La soluzione alla cosiddetta questione romana era considerata una priorità: lo era per la collocazione della Chiesa nella società italiana e lo era anche per l’esercizio del ministero del papa nei confronti della Chiesa universale. La Santa Sede non era un’istituzione il cui orizzonte poteva essere ridotto solo alla dimensione italiana per quanto essa fosse rilevante. Il raggiungimento di una conciliazione con la Chiesa rappresentava per Mussolini un obbiettivo di indubbia rilevanza che avrebbe contribuito a legittimare il regime sia all’interno del paese che a livello internazionale, oltre ad aver favorito il consenso nei confronti del fascismo nelle masse cattoliche. Le trattative si conclusero l’11 febbraio 1919 con la firma dei Patti lateranensi, composti da 3 documenti: - 1 trattato con il quale la Santa Sede riconosceva il Regno d’Italia mentre lo Stato italiano dichiarava il riconoscimento dello statuto della Santa sede e della sovranità del papa sul territorio della Città del Vaticano. Pagina 40 - 1 concordato che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Italia - La convenzione finanziaria che stabiliva il risarcimento che il Regno d’Italia assicurava alla Santa Sede come risarcimento per la perdita dello Stato pontificio e degli immobili ecclesiastici confiscati dallo Stato italiano. - La loro firma non fu però un passaggio che risolse definitivamente la questione dei rapporti tra il fascismo e la Chiesa. 4. I caratteri del regime Il fascismo era figlio della Grande Guerra e dei processi di brutalizzazione della politica da essa generati. Il fascismo caratterizzava la sua proposta culturale e politica con il riferimento a una serie di miti. Il ricorso sistematico al mito, come componente essenziale del discorso politico, era un trattato di modernità in grado di rispondere alle esigenze di partecipazione emotiva e di mobilitazione identitaria proprie della politica nella società di massa. Non era un richiamo al passato di tipo nostalgico, ma il riferimento a Roma era un programma di costruzione del futuro a partire da un archetipo della potenza dello Stato. Il fascismo fu un’ideologia dello Stato totalitario, come Mussolini stesso indicava. All’esperienza e alla cultura di guerra si può far risalire anche il carattere di esperimento totalitario del fascismo, che tale si definì facendo proprio, un termine che era stato coniato in ambiente antifascista per denunciare il carattere del movimento politico. L’esperienza della guerra totale non fu estranea alla costruzione di un regime che doveva perseguire gli stessi obbiettivi in tempo di pace per essere pronto a una futura e inevitabile guerra. La risposta fascista alle esigenze della politica e della trasformazione dello Stato nel contesto della società di massa, fu quella dell’organizzazione delle masse nello Stato. Il fascismo fu un regime di massa, dove il potere si misurava con tale dimensione. La polizia era uno strumento di governo della società fondamentale e caratterizzante. Le masse venivano quindi inquadrate, educate e manipolate. Il fascismo si pensava come “organizzazione politica delle grandi masse moderne”. Fu allestita una vera e propria “fabbrica del consenso”, che comprendeva un ufficio stampa che nel 1937 si trasformò nel Ministero della Cultura Popolare (Minculpop). La radio fu un importante organo di propaganda, anche grazie alla diffusione degli apparecchi radiofonici in edifici pubblici e ambiti di socialità popolare. Le trasmissioni in diretta dei discorsi di Mussolini e di importanti manifestazioni di regime furono eventi nazionali preparati con cura. Nella seconda metà degli anni ’30, l’utilizzo del cinema divenne un potente strumento di comunicazione politica, coi cinegiornali la propaganda fascista ebbe grande impulso. Era però presente un controllo massiccio della stampa e delle informazioni trasmesse. Pubblicazioni rivolte alle donne o ai bambini o alle diverse fasce d’età, rispondevano al tentativo di inquadrare in organizzazioni fasciste tutte le componenti della società italiana. I riti erano ritenuti da Mussolini e dagli altri leader fascisti un elemento fondamentale della politica di massa. Il Duce fu al centro della propaganda del regime, in lui veniva ravvisato il capo carismatico, l’interprete autentico della nazione e dei suoi destini di espansione. Il leader fascista curava particolarmente il rapporto con le masse, fu infatti il primo capo del governo a visitare tutto il paese in tutte le sue regioni. Un vero e proprio culto del Duce fu alimentato in modo sistematico dal partito, il culto del capo del fascismo fu di grande rilevanza per la formazione delle nuove generazioni fasciste. Il partito fu organizzato secondo una struttura gerarchica e verticalità, tanto che il dirigente del partito fu definito “gerarca”. Fu in ambito locale che la conflittualità tra organi di Stato e di partito raggiunse un livello alto. Questo dualismo Stato-partito si risolveva in una compenetrazione tra i due, anche se conflittuale e non completa, che rendeva ambivalenti le relazioni di subordinazione e preminenza nel quadro unitario del regime, sintetizzato dalla figura del Duce, capo del governo e capo del fascismo. Il partito fu ordinato allo Stato, la sua presenza era diffusa capillarmente sul territorio. Il fascismo realizzò un compromesso con alcune istituzioni dello Stato liberale, che non furono fascistizzate in maniera totalizzante. I sindacati fascisti erano nati tra il 1919 e il 1921 su iniziativa di militanti del nuovo movimento provenienti dalle file del sindacalismo-rivoluzionario. Tra le leggi fasciatissime, fu approvato anche un provvedimento che regolava i rapporti collettivi di lavoro, il quale conteneva la proibizione dello Pagina 41 sciopero e della serrata, il riconoscimento statale dei sindacati e prevedeva l’istituzione delle corporazioni, organi pubblici in cui erano rappresentati gli interessi degli attori economici. Le corporazioni furono però istituite nel 1934: il corporativismo fu un esperimento la cui realizzazione fu incompleta e per molti versi fallimentare, ma costituì un architrave ideologico fondamentale del fascismo e il tentativo più capillare di inserimento della società nello Stato. La politica economica di Mussolini favorì il consolidamento del rapporto tra il regime e il mondo della finanza e dell’industria. 5. L’Italia fascista nel mondo Il fascismo intendevo collocare l'Italia nel mondo da protagonista, era questa l'ambizione di Mussolini. In alcuni governi e forze politiche prevalse la preoccupazione, a volte l'ostilità, nei confronti del regime fascista, ma non mancarono ambienti internazionali che guardarono al fascismo come ad una fonte di ispirazione politica. Mussolini fu effettivamente un modello che influenzò le dittature affermatesi in Spagna. Il nazionalsocialismo di Hitler, e una serie di movimenti politici e di regimi autoritari che imitavano il fascismo, nacquero soprattutto nell'Europa centro orientale e nei Balcani. Il fascismo propose una propria interpretazione della politica estera italiana. Mussolini fu il principale artefice, sebbene si sia avvalso anche del contributo del personale diplomatico e dei ministri degli Esteri da lui nominati. La politica estera costituì un campo d'azione privilegiato per il regime, la visione fascista della politica estera faceva suoi molti temi cari alla propaganda nazionalista. Gli ambiti di interesse prioritari furono quelli tradizionali del Mediterraneo. Nel 1924 Mussolini si creò un patto di amicizia italiano-jugoslavo. Il mito della vittoria mutilata supportava un'attitudine tendenzialmente favorevole a posizioni revisioniste dell'ordine internazionale stabilito dagli accordi di pace. La collocazione italiana sulla scena internazionale si avvalse del rapporto d'intesa che Mussolini instaurò con la Gran Bretagna, grazie anche alle relazioni personali da lui stabilite con Chamberlain, ministro degli esteri, e con il leader conservatore Winston Churchill. L'ambizione della politica estera condotta del regime fascista, fu di fare dell'Italia l’ago della bilancia dell'equilibrio europeo. La comparsa del revisionismo e dell'espansionismo Hitleriano sulla scena internazionale, rese più complicato il gioco di Mussolini, le cui strategie divergevano da quelle naziste. I progetti di espansione coloniale dell'Italia avevano come obiettivo la conquista dell’Etiopia, considerata la chiave di volta per far uscire l'Italia dalla condizione di minorità nel Mediterraneo rispetto francesi e soprattutto britannici, che ne controllavano le vie d'uscita. Mussolini riteneva che il ruolo giocato dal paese negli affari europei avrebbe indotto Londra e Parigi a non frapporre ostacoli alle mire africane dell’Italia. E fu così, perché Londra e Parigi non opposero veti a Mussolini per la conquista dell’Impero etiopico. Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane aggredirono l’Etiopia e il 5 maggio 1936 Mussolini dichiarò la guerra conclusa. La guerra fu condotta con spietatezza, contemplava violenze generalizzate fino all’uso dei gas. Il grado di Vicenza raggiunse il suo apice nel 1937, quando in reazione ad un attentato compiuto nei confronti del governatore, venne dato avvio ad una brutale e generalizzata repressione. La guerra di Etiopia costituì la prima realizzazione della politica estera aggressiva del fascismo, oltre ad una prova di mobilitazione bellica dell’Italia fascista. Il coinvolgimento fascista nella guerra di Spagna restrinse lo spazio di manovra internazionale di Mussolini. Il corpo di spedizione inviato in Spagna si trovò impantanato in una guerra lunga, dove l’Italia fascista si trovò maggiormente legata alla politica estera di Berlino. Nella nuova e stretta collaborazione con la Germania nazista, il ruolo di alleato minore era quello dell’Italia. Il Duce non intendeva rinunciare all’ambizione di continuare a giocare da ago della bilancia nel quadro dei rapporti tra le potenze europee. Egli proseguì a stringere buoni rapporti con Londra, tuttavia, la guerra in Etiopia, l’intervento in Spagna e l’annuncio nel dicembre 1937 del ritiro dell’Italia dalla Società delle Nazioni, attestavano una linea politica estera prevalente revisionista e bellicista. 6. Controllo totalitario, fascistizzazione, razzismo Con una serie di provvedimenti legislativi, si rese obbligatoria l’iscrizione al partito per i dipendenti delle amministrazioni statali, degli enti locali e parastatali. Nel 1931 fu introdotto l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime per i professori universitari. Pagina 42 3. L’avvento di Hitler Tra il 24 il 29 ottobre 1929, il crollo della borsa di New York innescato dalla speculazione sui titoli, fu il segnale dell'avvio di una grande depressione che presto si diffuse al resto del mondo. Si verificò un aumento della disoccupazione, un calo del commercio, dei consumi e della produzione. La Repubblica di Weimar fu investita dall'onda della grande depressione nell'inverno del 1929-1930. La crisi contribuì al rafforzamento dei partiti estremisti e questo fu tra i fattori trainanti dell'avvento del nazismo. Hitler era il capo di un piccolo partito estremista, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP). Nato il 20 aprile 1889 a Braunau, località non distante da Linz, Hitler ottenne la cittadinanza germanica solo nel 1932. Non si era mai sentito austriaco, bensì un tedesco nato in Austria. Dopo studi incompleti, lavori occasionali, Hitler combatté per 4 anni nell'esercito bavarese. Era uno spiantato con velleità artistiche quando nell'estate del 1919 incontro la politica. In 2 anni Hitler trasformò un partito esiguo ma strutturato, modificandone la denominazione con l'aggiunta dei riferimenti al nazionalismo e al socialismo. Una retorica mesmerizzante, vuota di contenuti quanto martellante di slogan, che trasfigurava uno psicopatico senz’arte né affetti, nell'idolo di masse adoranti. Una forza di seduzione nella quale il Führer si specchiava e da cui traeva le energie per la sua missione: elevare la "razza" germanica, depurata degli elementi deboli e alieni, a dominatrice dell'Europa e del mondo. Questo popolo aveva diritto il suo spazio vitale (Lebensraum) che gli era stato negato a Versailles e dal complotto internazionale ebraico-comunista che lo teneva in catene. Tutti gli altri popoli o individui erano gerarchicamente subordinati al germanico, a cominciare dagli slavi. L’ebreo, era il nemico assoluto. La NSDAP si dotò di una milizia armata e in seguito ad alcune azioni, costò a Hitler alcuni mesi di carcere, durante i quali dettò il suo manifesto, il Mein Kampf, nel quale sono tratteggiate le linee del compito storico che volle assegnarsi. I tedeschi non erano in grado di vedere quest’ossessione distruttrice e autodistruttrice nel Führer di un partito che a molti pareva velleitario e che alcuni speravano di usare per il proprio vantaggio. La presa del potere di Hitler fu frutto della sua capacità manovriera, della sua totale mancanza di scrupoli e del suo fascino sulle masse. Dopo la scomparsa di Stresemann, l’esaurirsi dell’effimero “spirito di Locarno” e il crollo di Wall Street, scoccò l’ora di Hitler. La NSDAP inanellava una sequenza di successi negli scrutini locali, regionali e nazionali. Nel 1932 il partito di Hitler ottenne la maggioranza e lui si candidò alla presidenza della Repubblica. Gli venne affidato il cancellierato il 30 gennaio 1933, Hitler era affiancato da 2 ministri della NSDAP, Wilhelm Frick e Hermann Göring. All’interno del partito Hitler poteva contare sui propri paramilitari, organizzati nelle SA e nella diramazione SS, determinati a sradicare le opposizioni di sinistra e dar sfogo al loro profondo odio verso gli ebrei. Hitler sciolse il Parlamento e indisse nuove elezioni per il 5 marzo. L'incendio del parlamento nella notte del 28 febbraio, gli offrì il pretesto di un decreto "per la protezione del popolo dello Stato". Venivano colpiti e affondati le libertà di opinione, stampa, riunione e associazione, si istituiva la censura di Stato sulle comunicazioni, mentre veniva abolita l'inviolabilità del domicilio. La NSDAP elevata a partito unico, era preso da salto da convertiti dell'ultim'ora deciso saltare sul carro dei vincitori, tanto che il 1° maggio venne imposto il blocco del tesseramento. Il Terzo Reich si presentava così quale regime di massa sottoposto al duce. Le ultime resistenze alla dittatura vennero dall'interno del movimento e dalla destra che si era illuso di domare Hitler. Il 30 giugno 1934 scattò la repressione contro i leader delle SA, accusati di preparare un colpo di Stato. Fu la "notte dei lunghi coltelli", dove la polizia segreta si segnalò nell'eliminazione dei presunti ribelli. Vennero messi fuori gioco gli elementi della destra, classificati come “reazionari”. Capitolo 16: La Germania dalla dittatura alla guerra 1. L’instabile (non-)Stato hitleriano La caratteristica dominante del nazismo al potere fu la febbrile determinazione a costruire una comunità nazionale omogenea, grazie ad una rivoluzione culturale prima che sociale. Di questa strategia si tende oggi ricordare il tratto demoniaco, rivelato in tutta evidenza durante la seconda guerra mondiale e reso palese infine nei processi dei gerarchi del regime e nella Pagina 45 pubblicistica del dopo guerra. Il razzismo aveva all'epoca dignità scientifica anche fuori della Germania nazista, avendo contribuito fra l'altro alla legittimazione degli imperi coloniali europei. Il terrore di regime si scatenò con la presa del potere. Nasceva lo “Stato delle SS”. Il partito rilevava dalle istituzioni formali gli strumenti di controllo della società e dei singoli individui e gli affidava al supremo comando del duce cancelliere. La politica razziale di Hitler verteva sul debellare il “virus ebraico”. Ebrei che erano scienziati, dottori, imprenditori, artisti e letterati famosi di cui il Reich poteva approfittare per rinascere dalle ceneri di Versailles, ma così non fu. Contro di essi si accaniva la dittatura nazista. Appena al potere, Hitler invitò a boicottare uffici, negozi, medici ebrei ma con scarso successo. La popolazione tedesca aveva in genere altre priorità, il regime fece allora ricorso a misure drastiche, come ad esempio l'estromissione degli ebrei dalla pubblica amministrazione e dalle scuole. I "non ariani", erano emarginati e perseguitati, privati dei diritti civili. Con le leggi razziali di Norimberga, varate nel settembre 1935, l'emancipazione degli ebrei compiuta nel 1871 era abolita. Si stabiliva inoltre il divieto di matrimonio fra tedeschi ed ebrei, toccò poi alle proprietà e ai patrimoni dei "parassiti" giudaici, sequestrati. Il culmine della campagna antisemita fu la "notte dei cristalli" tra il 9 e il 10 novembre 1938. Le squadre naziste scatenarono un pogrom senza precedenti, in tutto il Reich sinagoghe, negozi e abitazioni di ebrei furono saccheggiati e dati alle fiamme. La maggioranza dei tedeschi apprezzava Hitler perché stavo mantenendo le sue promesse in campo economico e sociale. Vigeva ormai una nuova religione, il culto di Hitler. Si indottrinava e modellava allo stile di vita nazista ragazzi e ragazze dal 10º anno di età. Il fulcro delle sue attività erano il culto del corpo, esibizioni ginniche di massa, indottrinamento ideologico e addestramento paramilitare. Il regime aspirava al controllo totale del popolo. La dittatura di Hitler non escludeva i conflitti fra strutture statali, i capi nazisti localizzavano per il controllo delle risorse o all'accesso al Führer. La mobilità sociale nel Terzo Reich non era compatibile con l'aristocratismo del Secondo. La proprietà privata era garantita, con limitazioni implicite nel dirigismo economico e nella mobilitazione bellica. I grandi industriali passarono quasi tutti al regime, per fede o per interesse. 2. Le politiche economiche e sociali Grandiosi progetti infrastrutturali contribuirono a ridurre drasticamente la disoccupazione, al punto che nel 1937 si lamentava una carenza di manodopera che sarà parzialmente soddisfatta in tempo di guerra dal lavoro forzato dei deportati dalle terre conquistate. Punta di diamante furono le autostrade, sulle quali Hitler contava per costruire una rete di trasporti che avrebbe collegato i principali centri urbani e favorito la motorizzazione. Il cui simbolo era la Volkswagen, l’”automobile del popolo”. L'altro volano della ripresa economica per riarmo, avviato con cautela per non suscitare l'allarme francese e britannico, divenne esplicito e accelerato dal 16 marzo 1935. In pochissimo tempo i tedeschi erano passati dalla povertà diffusa a un grado di sicurezza economica e di benessere modesto ma accessibile alle grandi masse. I nazisti mettevano all'indice l’ "arte degenerata”, si scagliarono contro la “musica degenerata”, sia quella scritta da autori di ceppo ebraico, sia quella moderna, considerata una degenerazione della classica. Ma l'americanizzazione aveva raggiunto anche la Germania, almeno per quanto riguardava il jazz, i film Hollywoodiani di intrattenimento e la traduzione di scrittori famosi. A plasmare lo spirito popolare erano dedicati i grandi raduni di massa. Come tutte le religioni, anche quella hitleriana aveva i suoi riti e suoi miti. A schierarsi sempre apertamente contro il nazismo furono invece i testimoni di Geova. 3. La Grande Germania Hitler sapeva che il Reich non aveva né amici né alleati, nemmeno l’Italia di Mussolini. Le affinità ideologica e l'amministrazione non ricambiata diglielo per il capo del fascismo cedette il posto le divergenze strategie geopolitiche di Germania e Italia. I percorsi geopolitici di Mussolini e iHitler cominciarono ad avvicinarsi solo nel 1935, con l'avventura italiana in Etiopia e l'anno dopo della guerra civile spagnola, che vide i due dittatori impegnarsi a fianco dei nazionalisti di Francisco Franco contro i difensori della Repubblica, sostenuti dall’Unione Sovietica. Nel novembre 1936 veniva battezzato l'asse Roma-Berlino, parallelo al patto anti-Komintern fra Berlino e Tokyo, rivolto contro Mosca, a cui l'Italia aderì nel Pagina 46 1937. Segui il “patto d’acciaio", che nel maggio 1939 sembrò legare il destino dell'Italia fascista a quello della Germania nazista. Nell'ottobre del 1933, la Germania abbandonava la Società delle Nazioni, a certificarne l'impotenza. Nel 1934 Hitler firmò un patto di non aggressione con la Polonia, l'obiettivo era spezzare l'improponibile accerchiamento allestito da Parigi che puntava su Varsavia. Hitler intanto, dava slancio al riarmo e per far guadagnare tempo alla sua macchina militare e rassicurare i britannici, stabilì nel 1935 un accordo navale con Londra, che limitava la flotta tedesca. 4. La guerra di Spagna La guerra civile spagnola scaturì dalla ribellione di una parte delle forze armate spagnole contro il legittimo governo della Repubblica. La scintilla che provocò il conflitto fu l’assassinio del leader monarchico e a difesa della Repubblica si estero operai e braccianti, ma anche una quota rilevante della borghesia dell'intellettualità spagnola. Lo sconto più grave si ebbe a Barcellona. Francia e Gran Bretagna si dichiaravano neutrali, ma Hitler e Mussolini vollero marcare il carattere ideologico della guerra civile spagnola inviando rinforzi in armi e truppe ai generali ribelli. I tedeschi usarono la guerra per sperimentare i nuovi armamenti di punta, specie carri armati e aerei da caccia. A difesa della Repubblica si schierò l’Unione Sovietica. Dopo quasi 3 anni di massacri, i nazionalisti di Francisco Franco conquistarono Madrid il 28 marzo 1939. 5. La via tedesca alla guerra mondiale Lo scopo strategico era conquistare lo "spazio vitale" necessario allo sviluppo e al benessere del "nucleo razziale germanico". Hitler indicava il 1943-1945 come obiettivo temporale, fu allora che Gôring, capo della Luftwaffe, prese in mano anche il timore dell'economia, sempre più autarchica. Il primo obiettivo era l'Austria dove Hitler aveva alimentato le correnti pantedesche, a partire dai nazisti locali. Mussolini non aveva più la Forza né l'intenzione di ostacolare il suo antico ammiratore, ormai assunto al rango di suo superiore nella sbilanciata e ambigua intesa italo-tedesca. Le previsioni di Hitler sulla postura inglese e francese si rivelarono corrette. Londra non intendeva impelagarsi in un conflitto con Berlino, Parigi, assai meno disponibile ad accettare le ragioni tedesche ma incapace di concepire una strategia attiva, sperava ancora di poter credere alle promesse di pace del Führer. Toccò poi alla Cecoslovacchia, ma Hitler non voleva solo la sua resa, la voleva con la forza. L’attacco alla Polonia era fissato per il 26 agosto 1939. Le ultime illusioni inglesi e francesi stavano ormai evaporando. Insieme avevano negoziati segreti con Mosca per accerchiare Hitler. Ma la diffidenza reciproca prevalse sulla logica strategica. Stalin, che non voleva rischiare una guerra per la quale era impreparato non meno di inglesi e francesi, accettò allora l’offerta di Hitler: una clamorosa intesa tattica, che rinviava lo scontro diretto fra Germania e Unione Sovietica. Questo accordo era il frutto dell’assenza di stima dell’apparato militare sovietico da parte di Hitler. Il 23 agosto i ministri degli esteri von Ribbentrop e Molotov, firmarono il patto di non aggressione tedesco-sovietico. La notizia sconvolse il mondo. I due acerrimi nemici stringevano un’intesa per spartirsi in anticipo la preda polacca sulla quale stavano per avventarsi. Truppe tedesche varcarono la frontiera polacca all’alba del 1° settembre 1939. Capitolo 17: La seconda guerra mondiale: tempo 1° 1° settembre 1939 - settembre 1945 La seconda guerra mondiale fu la somma di diversi conflitti, alcuni paralleli e altri intrecciati. Diversi altri fattori contribuirono a determinare il conflitto e a condizionarmi gli eventi, anche ideologici; l'incompatibilità fra le visioni del mondo nazista e fascista, e quelle liberal-democratica e comunista. Germania, Giappone e Italia, pur ideologicamente affini, non arrivavano mai a coordinare le rispettive strategie. Pagina 47 entusiasta di impegnarsi in un nuovo conflitto e delle Forze armate stremate dalle campagne di Spagna ed Etiopia, mal equipaggiate e peggio motivate. La prima direttrice offensiva italiana era il Nordafrica, dove la guerra durerà tre anni e la posta in gioco finale sarà il controllo del Mediterraneo. L'altro teatro offensivo secondo Mussolini, era quello balcanico. Qui fin dalla tarda estate del 1940 il Duce aveva preparato in gran segreto l'invasione della Grecia, a partire dall’Albania, convinto di poterne entrare in possesso nel giro di qualche settimana. Il Führer considerò da subito la spedizione militare italiana in Grecia un grave errore. Hitler aveva ragione, l'avanzata italiana fu bloccata dopo pochi chilometri, anche a causa delle piogge e del terreno impervio. La campagna di Grecia fu la tomba delle ambizioni balcaniche dell'Italia, come il Nordafrica, il fallimento dell'offensiva italiana indusse i tedeschi a intervenire per impedire il collasso dell'alleato, distraendo forze e risorse in parte già assegnate all'operazione “Barbarossa". Il doppio fallimento in Nordafrica nei Balcani segnò l'inizio della fine del regime fascista. Le forze armate italiane si erano confermate inadeguate alla guerra e nei loro vertici. L'alleanza tripartita Italia-Germania-Giappone, si confermava incapace di esprimere una strategia coordinata, avevano proprietà diverse, mai composte in un'unica equazione. 6. Operazione “Barbarossa” All'alba del 22 giugno 1941, soldati e le forze armate del Reich, sfondarono le linee sovietiche lungo tre direttrici. A fine luglio si aggregò un corpo di spedizione italiano, Mussolini intendeva con ciò pareggiare l'umiliazione subita in Nordafrica e riaffermare il suo rango di "primo alleato" del Reich. Ma le divisioni italiane non furono in grado di svolgere una funzione strategica nell'operazione “Barbarossa", erano prive di mezzi ed equipaggiamenti adatti alla campagna. Inoltre, furono trattate come risorse secondarie dal comando germanico. I tre gruppi d’armate miravano a Leningrado, Mosca, Kiev e Caucaso. Hitler non seppe stabilire con definitiva chiarezza quale fosse la proprietà strategica dei tre fronti, anche se inclinava a considerare più importante mettere mano sulle risorse agricole (Kiev) ed energetiche (Caucaso) piuttosto che prendere Mosca o la stessa Leningrado, con le sue rilevanti industrie. Vastità del fronte e incertezza strategica significarono dispersione delle forze, allungamento delle linee di riferimento logistiche e alla fine demoralizzazione delle truppe, preparate ad una guerra d'assalto, non ad una guerra di logoramento. Applicando la propria razionalità strategica a Hitler, il leader sovietico non riusciva a concepire come la Germania potesse permettersi di aprire il fronte orientale senza aver prima liquidato la Gran Bretagna. Inoltre, il Giappone aveva deciso di attaccare gli Stati Uniti, non l’URSS. Ciò permise alle forze armate sovietiche di concentrarsi sul fronte occidentale. Altro fattore di svantaggio per i sovietici erano gli effetti delle grandi purghe ai vertici e persino nell'ufficialità medio-bassa dell'Armata Rossa. Stalin aveva normalizzato il partito nel suo primo decennio di potere, ma continuava a temere il bonapartismo dei vertici militari. Al tempo di “Barbarossa”, Stalin aveva appena cominciato a riorganizzare il suo apparato militare con uomini di stretta fiducia, si trattava di ufficiali poco immaginative e timorosi di prendere iniziative proprie. Tutto questo contribuisce a spiegare il fulminante successo dell'attacco tedesco nelle prime settimane di guerra. Ma contrariamente a quanto si aspettava Hitler, l’URSS non collassò. Innanzitutto civili e soldati sovietici non abbandonarono il regime. A cementare la loro realtà contribuì la svolta nazionalista di Stalin, il quale lanciò il 3 luglio dalla radio la parola d'ordine della "grande guerra patriottica" rivolgendosi non solo ai "compagni e cittadini" ma anche ai "fratelli e sorelle”. In secondo luogo, i generali tedeschi non avevano considerato la capacità del nemico di sostituire rapidamente uomini e mezzi perduti. Inoltre, buona parte dell'industria militare sovietica era concentrata nella Russia europea, ma Stalin dette ordine di smantellare e rimontare a est degli Urali le linee produttive sfuggite alla presa germanica. L’Armata Rossa disponeva di riserve formidabili. Il Reich, per di più, doveva impegnarsi su più fronti e mantenere una quota del proprio potenziale militare a protezione delle conquiste in Europa, l'Unione Sovietica poteva concentrarsi invece nella difesa della patria. La prima svolta della campagna di Russia si ebbe all'inizio del dicembre 1941 e fu quando i sovietici, bloccate le avanguardie tedesche ormai a ridosso di Mosca e rinforzati dalle truppe provenienti dalla Siberia perché non più necessari a contrastare il Giappone, passarono alla controffensiva su tutti i fronti, in particolare al centro. L’operazione russa ebbe un notevole successo, anche perché Hitler ordinò alle sue truppe di non arretrare, di combattere fino Pagina 50 all'ultimo uomo, aumentando così le perdite e minando il morale di ufficiali e soldati chiamati a inutili sacrifici. Il contrattacco sovietico non diede tutti i risultati sperati, ma sancì la fine delle speranze tedesche di annientare il nemico prima che la campagna-lampo diventasse guerra di logoramento. Hitler subì qui una grave sconfitta strategica Capitolo 18: La seconda guerra mondiale: tempo 2° Il 7 dicembre 1941 l'aviazione giapponese attacca la base statunitense di Pearl Harbor, si salvarono solo tre poteri perché in mare: un colpo di fortuna, essenziale per il futuro della guerra oceanica. 1. Le premesse della guerra fra Tokyo e Washington Già dei primi anni 30 il Giappone, sotto la morsa della grande depressione e sulla spinta degli ultranazionalisti che guardavano con simpatia al fascismo e al nazismo, avevano cercato di costruirsi un vasto spazio coloniale a spese della Cina e delle colonie europee nell'Asia del sud- est. Nel 1937 il Giappone lanciò una violenta offensiva nel nord della Cina. Il governo di Tokyo cercò vanamente di separare la Cina dai suoi sponsor occidentali, in particolare dagli Stati Uniti. Il tallone d'Achille del Giappone era la sua dipendenza dalle importazioni di materie prime, in particolare del petrolio e dell'acciaio acquistati da Stati Uniti e Impero britannico. Questa linea di riferimento entrò in crisi già nel 1939, quando Roosevelt abrogò il trattato commerciale con Tokyo, aprendo una guerra economica che nei due anni successivi si trasformò fino a minacciare la sopravvivenza stessa dell'impero giapponese. Con l'attacco tedesco all'URSS, la storia economica di Washington contro il Giappone si fece più serrata. L'obiettivo di Roosevelt era soprattutto di impedire che i nipponici sfondassero sul fronte siberiano. Fu l'embargo americano a inclinare Tokyo verso il secondo punto del dilemma. L'11 dicembre Hitler dichiarò guerra agli Stati Uniti e lo stesso fece contemporaneamente Mussolini. Ancora oggi gli storici si interrogano sulle ragioni che indussero in particolare Hitler ad impegnarsi nello scontro diretto con la massima potenza industriale al mondo. Egli aveva sottovalutato la potenza e la volontà di combattimento gli Stati Uniti, il Führer immaginava che Roosvelt avrebbe finito per logorarsi sul fronte del Pacifico, lasciandogli campo libero su quello Atlantico. Vista a posteriori, la scelta di Hitler appare suicida, egli considerava che gli Stati Uniti sarebbero comunque entrati in guerra di li a breve. Nel dicembre 1941 la collana delle "guerra lampo" con cui Hitler aveva sperato di cogliere la vittoria finale, veniva così ad esaurirsi. Si cristallizzava invece una costellazione strategica che sarebbe rimasta immutata fino alla fine della guerra: da una parte le potenze dell’Asse (Italia- Germania-Giappone), dall’altra, la coalizione “anti-Hitler” (U.S.A.-UK-URSS), ma anche questa costellazione combatteva guerre separate. 2. La Shoah e la guerra di Hitler Per Hitler la guerra mondiale avrebbe dovuto risolvere una volta per sempre la questione ebraica. Per Hitler dove non potevano arrivare l'emigrazione più o meno forzata e la deportazione di massa, toccava dunque ai campi di sterminio. L'importante era la “soluzione finale” della questione ebraica. Ma non c'è dubbio che la peculiarità della guerra Hitleriana consisteva nel suo movente razziale. Quanto alla responsabilità personale di Hitler nello sterminio degli ebrei, essa è fuori di dubbio. Indiscutibile è anche la partecipazione attiva di centinaia di migliaia di esecutori materiali tedeschi. Ma assegnare una responsabilità collettiva ai tedeschi è assurdo, anche se non c'è dubbio che milioni di cittadini del Reich sapessero della macchina della morte. Dopo la caduta della Francia, il regime aveva considerato l'idea di deportare in massa tutti gli ebrei in Madagascar. Ma nei mesi successivi e poi con l'inizio dell'operazione "Barbarossa", quando milioni di operai e di altri "subumani" finirono sotto il tallone nazista, prevalse la tesi della “soluzione finale”. Il capo operativo era Heinrich Himmler, tra i principali organizzatori delle operazioni di sterminio degli ebrei. Non appena penetrati in territorio sovietico, i commando speciali delle SS e della polizia si dedicarono all’uccisione di tutti gli ebrei che capitassero a tiro. Le fucilazioni di massa non Pagina 51 bastavano più, anche per i traumi che provocarono nei militari chiamati a sparare su donne e bambini. Ma la maggior parte delle vittime cadde nei campi di sterminio. In molti casi l’atteggiamento dei paesi satelliti era dettato dall’opportunismo. A mano a mano che con l'andamento dei combattimenti la vittoria del Reich appariva meno probabile, il loro atteggiamento verso gli ebrei diventava meno ostile. 3. Midway-El Alamein-Stalingrado: le svolte militari della guerra mondiale Hitler aveva erroneamente previsto che gli Stati Uniti avrebbero impiegato cinque anni per costruire un'economia di guerra. Le fabbriche tedesche, italiane e giapponesi, sottoposte alle incursioni aeree del nemico e dipendenti da materie prime sempre meno disponibili, non potevano avvicinare i ritmi produttivi tenuti dagli omologhi impianti statunitensi. Continuare a combattere guerre separate significava avviarsi a perdere ciascuno dei rispettivi obbiettivi, oppure optare per una pace separata con questo o con quella potenza nemica, cosa che per Hitler era inconcepibile. Il Führer immaginava una gigantesca operazione a tenaglia che dall'Asia del sud-est conquistata dai giapponesi, avrebbe dovuto muovere verso l'India, cuore dell'Impero britannico. L'Unione Sovietica sarebbe stata circondata e isolata, ma su come sconfiggere gli Stati Uniti, Hitler confessava in privato di non averne idea. Forse si illudeva che, liquidato l'alleato britannico e accerchiata l'URSS, Roosevelt avrebbe ripiegato, accontentandosi di mantenere il controllo del suo continente. Di fronte a tale piano i giapponesi esitarono. Londra si sentì obbligata a promettere che a guerra finita avrebbe concesso l'indipendenza alla principale colonia asiatica. Tokyo scoprì che l'alleato Hitler, prigioniero della sua tassonomia razzista, non giudicava gli indiani degni di un proprio stato. Per il Führer, l’India andava conquistata e soggiogata, non consegnata ai nazionalisti indiani come invece avrebbe fatto Tokyo. La Germania nazista non volle mai elaborare per il dopo guerra un concreto progetto di comunità europea, Hitler non valutava gli altri popoli degni di coesistere nella stessa famiglia. La retorica europeista a cui talvolta ricorreva la propaganda Hitleriana, non trovava il minimo riscontro nei fatti. Il razzismo nipponico non aveva nulla da invidiare a quello germanico, anche se, alla fine, due teorie della razza suprema erano evidentemente incompatibili. A differenza della Germania, il Giappone provò ad articolare compiutamente il progetto di una comunità di Stati asiatici a egemonia nipponica. La priorità dichiarata era liberare il continente dai “bianchi". Si spiega così l'indipendenza concessa alla Birmania, alle Filippine, all'Indonesia e il riconoscimento di un governo cinese "amico" che si dedicò a smantellare i possedimenti europei sulla costa orientale. L'autunno del 1942 segnò per il Giappone la fine dell'illusione di prevalere in una sequenza di guerre-lampo. Contemporaneamente, anche Hitler doveva accettare a perdere la prerogativa di iniziativa e a combattere le campagne scelte dal nemico. Ci fu un summit a Casablanca tra Roosvelt e Churchill, doveva presenziare anche Lenin ma per impegni militari fu costretto a declinare l’invito. La dichiarazione di Casablanca prevedeva come obbiettivo una resa incondizionata da parte dell’Asse, resa che doveva essere ottenuta a qualsiasi modo. Venne anche sottoscritto di non trattare con Hitler alle spalle dell’Unione Sovietica. 4. Crollo del fascismo e collasso dell’Italia Il 23 ottobre 1942 l'aviazione britannica scatenava l'inferno sul cielo di Genova. Il vero obiettivo degli attacchi alleati dall'aria era di spezzare il morale degli italiani e con esso il vincolo che li teneva ancora legati al regime e allo Stato. L'Italia fascista fu il primo paese dell’asse a crollare, ma a differenza della Germania e del Giappone, cade di schianto, dall'interno, trascinando con sé quel che restava del prestigio di casa Savoia. La sconfitta italiana fu morale prima che strategica. Nel giugno 1940 alle caserme si erano presentati più volontari di quanti fossero disponibili allo scoppio dell'ostilità contro l’Austria- Ungheria. Due anni e mezzo dopo le disfatte subite nei Balcani, nelle campagne d'Africa e di Russia, avevano suscitato un senso di rassegnazione nei soldati mandati al fronte mal equipaggiati, dove ci si batteva per sopravvivere come singoli. Ai vertici dello Stato, specie negli ambienti militari e alla corte di Vittorio Emanuele III, si tentava di allacciare discreti contatti con gli alleati usando anche i canali vaticani. Ad accomunare gli esponenti del regime era il timore che dalla sconfitta sprigionasse la scintilla della rivoluzione comunista, o il puro caos. Fu l'alba della futura resistenza e fu anche l'occasione Pagina 52 affidando la responsabilità delle rovine del Reich all'ammiraglio Dönitz, il quale verrà arrestato il 23 maggio. La Germania era in cenere. 6. Fine del Giappone e fine della guerra Nella seconda metà del 1943, il Giappone controlla ancora un enorme spazio tra Indocina, Indie olandesi e Pacifico: territori ricchi di materie prime, che però non seppe sfruttare al meglio. Il conflitto che Tokyo aveva provocato per guadagnare libero accesso al petrolio, ai prodotti agricoli e ai minerali essenziali al suo sviluppo, fu perso proprio su questo fronte. Sul piano bellico, la strategia americana mirava a recuperare il controllo delle isole utilizzabili come basi navali e aeree in vista dell'invasione dell'arcipelago giapponese. Gli americani obbedivano come sempre all'imperativo di contenere al massimo le perdite, elemento di poca cura per il Giappone e ne erano testimonianza i kamikaze. Ma non c'era solo il vasto fronte marittimo, dove la posta in gioco era la sopravvivenza del Giappone. Nel cuore del continente asiatico, si combatteva una guerra dalle implicazioni geopolitiche e persino più importanti in chiave post bellica. Nell'ottobre 1943 i giapponesi diedero il via libera Singapore alla formazione di un governo dell'India Libera, guidato da Bose. Nel gennaio 1944 il gabinetto indiano si installava in Birmania, Bose immaginava che la notizia dell'ascesa in campo di un esercito nazionale almeno parte degli indiani si sarebbe sollevata e avrebbe costretto i britannici ad abbandonare la perla dell’impero. Ciò si rivelò illusorio, l’appuntamento con l'indipendenza dell'India era rinviato al dopo guerra. A Tokyo si fronteggiavano i possibilisti, pronti a una resa che non implicasse l'abdicazione dell'imperatore Hirohito, e i fanatici della resistenza che avrebbero voluto trasformare la nazione giapponese in un popolo di kamikaze. Nell'estate del 1945 un altro fattore contribuì a complicare l'equazione strategica nella partita nipote-americana: l'Unione Sovietica. L'amministrazione americana guidata da Truman, aveva subito inclinato verso un approccio più duro verso Stalin, di cui non si fidava affatto. Truman aveva ordinato la sospensione degli aiuti americani all'Unione Sovietica il giorno dopo la capitolazione tedesca. Ai leader giapponesi, il timore di un'invasione sovietica pesava alquanto nei loro scenari per il dopo guerra. A sciogliere i dubbi di Truman fu a luglio la notizia che il progetto Manhattan aveva prodotto finalmente 3 ordigni atomici. Il presidente americano e il premier britannico si trovarono d'accordo sull'opportunità di usare queste armi di distruzione di massa contro il Giappone, se non si fosse arreso subito. Il 26 luglio i Tre Grandi lanciarono un ultimo avviso al Giappone perché si arrendesse senza condizioni. Di fronte alla risposta di Tokyo, gli americani decisero di impiegare la bomba atomica e i sovietici di entrare in guerra. Il 6 agosto la prima atomica fu sganciata su Hiroshima, 3 giorni dopo la seconda superbomba annientava Nagasaki. Lo stesso giorno l'armata Rossa sfondare il fronte nipponico in Manciuria e in Corea. L'imperatore veniva ritenuto responsabile dell'esecuzione del trattato di pace. Il 14 agosto Hirohito si spendeva personalmente per superare le ultime resistenze dei militari più ottusi. Tokyo comunicava la resa gli Stati Uniti, resa che venne solennizzata il 2 settembre 1945. Capitolo 19: All’origine delle due Europe (1945 - 1961) 1. Logica della guerra fredda Per guerra fredda si intende la fase storica avviata dalla sconfitta del Terzo Reich (1945) e conclusa dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991). Lo scontro armato fra Stati Uniti e Unione Sovietica, se portato alle estreme conseguenze, si sarebbe concluso con perdite insopportabili anche per il presunto “vincitore”, se non con la distruzione del pianeta. Washington e Mosca si trovarono più di una volta alla soglia dell’olocausto nucleare. La collisione fra gli interessi sovietici e americani nel vecchio continente produrrà la spartizione di fatto dell’Europa in 2 blocchi: “Est” e “Ovest”. - L’Europa definitivamente non è più il centro del mondo. L’emergere di 2 poli esterni all’Europa, Washington e Mosca. In questa fase l’Europa è tagliata dalla “cortina di ferro”. - Per conquistare l’egemonia sul continente occorre impadronirsi di quel che resta della Germania. Ciò implicherebbe una terza guerra mondiale. L’alternativa è spartirsi i resti del Reich, impiantandovi l’URSS uno Stato satellite, la Repubblica Democratica Tedesca e gli USA una sorta di semiprotettorato, la Repubblica Federale Germania, come avverrà dal 1949. Pagina 55 - Non si tratta solo di contrapposizione tra potenze, ma tra visioni del mondo. Stati Uniti e Unione Sovietica si rappresentano titolari di marchi ideologici antitetici, il liberaldemocratico- capitalista e il sovietico-comunista. Entrambe si rappresentano come portatrici di una missione universale. La guerra delle ideologie viene enfatizzata dai duellanti, ciascuno a suo modo e con i mezzi di cui dispone. La dimensione ideologica serve anche a scopo di legittimazione interna. Da Roosevelt in avanti, i leader statunitensi insistono sulla proiezione globale dei valori americani, intesi come universali. Da Stalin in avanti i leader sovietici seguono un percorso speculare, agitando lo spauracchio dell’imperialismo americano per combattere il proprio campo e giustificare le repressioni interne contro dissidenti veri o presunti. - Ne risulta in Europa la compressione delle posizioni intermedie. Dalla prospettiva dei due coprotagonisti la partita si gioca sopratutto sulla capacità di suscitare nel campo avverso forze eterodosse. 2. Meccanica della spartizione (1945-1949): il caso tedesco Le radici della guerra fredda affondano nella seconda guerra mondiale. Dei 5 vincitori formali, 3 sono in grado nettamente inferiore a quello dei 2 trionfatori, Stati Uniti e Unione Sovietica. Il dollaro è a un tempo divisa nazionale e moneta di riferimento degli scambi internazionali. La guerra fredda consegue dall’incompatibilità degli obbiettivi, degli interessi e delle ideologie dei vincitori. Nel 1945, americani e sovietici non hanno un progetto definito per il dopoguerra. Ambiscono alla pace, ma diffidano profondamente del partner con cui dovrebbero garantirla. Questo spiega perché alla fine delle ostilità in Europa non sia seguito un trattato di pace con la Germania. La conferenza di Jalta (4-11 febbraio 1945) fra i 3 Grandi - Roosvelt, Stalin e Churchill _ prepara la nascita delle Nazioni Unite. La “cortina di ferro” non è frutto di un piano, semmai, dell’assenza di un piano. In assenza di un progetto condiviso sul futuro della Germania, lo spazio storicamente centrale in Europa, prevale la logica dei fatti compiuti. La Germania è amputata della Prussia orientale. I vaghi progetti unitari tratteggiati alla fine della guerra in Europa da americani , sovietici e britannici, sanciti dagli accordi di Postdam (2 agosto 1945) si limitano a evocare principi molto generali, quali denazificazione, smilitarizzazione e democratizzazione. Ciascuno degli occupanti interpreta tali criteri a suo modo. Il primo passo verso la Repubblica Federale si compie il 1° gennaio 1947 con la nascita di Bizona. L’evento decisivo verso la nascita di uno Stato tedesco, è il battesimo del marco. Il 20 giugno 1948 nasce la Deutesche Mark, la nuova moneta delle Zone occidentali, che sancisce la frattura tra le economie dell’est e dell’ovest germanico. Il marco è molto più di una moneta, diventerà nel tempo il simbolo del miracolo economico tedesco-occidentale , capace di superare il livello di vita dei “vincitori” francesi e inglesi. Contemporaneamente, Mosca decide il blocco di Berlino. Rappresaglia conto la riforma monetaria unilaterale degli occidentali . Tutti i corridoi dall’Ovest verso Berlino vengono sbarrati. Est e Ovest sembrano sull’orlo della terza guerra mondiale. A Washington il presidente Truman decide di giocare la carta del ponte aereo. Per quasi un anno, ogni giorno centinaia di aerei riforniranno i berlinesi dell’Ovest di tutti i beni necessari alla sopravvivenza. Fino a indurre Stalin a levare l’assedio. Gli americani hanno conquistato “i cuori e le menti” di milioni di tedeschi. E hanno dimostrato a Stalin di essere pronti a tutto pur di impedire che Berlino Ovest cada nelle sue mani. 3. Nascita e precario consolidamento dell’impero sovietico (1949-1953) Vista da Mosca, la Zona di occupazione sovietica in Germania, poi ribattezzata Repubblica Democratica Tedesca, è l’avamposto della “sua” Europa. Quanto alla Finlandia, i governanti di Helsinki sanno bene di non potersi permettere slittamenti occidentali. Con “finlandizzazione” si vuole indicare una sorta di neutralità limitata, dove una democrazia parlamentare assimilabile agli standard occidentali evita di sfidare il colosso sovietico. Dopo la Germania, la questione per Mosca più delicata è quella polacca. La parte orientale viene inglobata dall’URSS, Stalin ottiene il controllo diretto di una parte del territorio polacco e l’accesso immediato a Varsavia consentono a Mosca di ricattare i “partner” eventualmente irrequieti. L’altro anello strategico della catena che lega all’URSS i suoi satelliti est-europei è la Cecoslovacchia. Pagina 56 La prevalenza dei fattori geopolitico-strategici su quelli ideologici nel determinare gli assetti dell’Europa centro-orientale è illustrata dai casi albanese e jugoslavo. Qui è la resistenza locale a sconfiggere le armate germaniche e a instaurare regimi comunisti. Più che i dissidi ideologici, che porteranno gli jugoslavi a elaborare una propria via al socialismo, meno liberale, e solo le ambizioni di potenza di Tito che irritano Mosca. “Titino” diventa per la propaganda bolscevica sinonimo di traditore. I satelliti dell’Est sono concepiti come una cintura di sicurezza. 4. L’Europa atlantica Agli Stati Uniti non resta che rispondere con il “contenimento di lungo termine, paziente ma fermo e vigilante” dell’imperialismo sovietico. Si tratta di impedire a Stalin di espandere la sua sfera di controllo all’intera Germania e a tutta l’Europa. Alla Gran Bretagna prostrata dall’enorme sforzo bellico mancano i mezzi per contrastare la pressione comunista in quell’area chiave del Mediterraneo. Truman non solo raccoglie il testimone lasciatogli dai britannici in Grecia, ma si assume il compito assai più impegnativo di “sostenere i popoli liberi che resistono al tentativo di soggiogarli compiuto da minoranze armate o attraverso pressioni esterne”. Gli Stati Uniti non intendono ripetere l’errore degli anni ’20-’30, quando decisero di abbandonare gli europei al loro destino. Washington si offre di guidare un vasto schieramento geopolitico, plasmato non solo dai propri interessi ma anche da valori di fondo riassumibili nell’adesione alle regole liberal-democratiche e dell’economia di mercato. L’inasprimento della guerra fredda in seguito al blocco di Berlino accelera la nascita del Patto Atlantico, corrispettivo strategico del Piano Marshall. Il trattato firmato a Washington che istituisce l’organizzazione dell’Atlantico del nord e la dota di un robusto apparato militare è un’iniziativa americana. I suoi fini sono espressi da Truman e dai suoi principali collaboratori in una riunione segreta, svoltasi alla Casa Bianca la sera prima della firma del patto. L’obbiettivo principale è il contenimento dell’Unione Sovietica e dell’influenza comunista in Europa. Il grande disegno di Truman richiede però che gli europei accettino la leadership americana e rinuncino almeno in parte alle colonie. A francesi e britannici, olandesi, belgi e portoghesi, viene chiesto di smantellare alcuni loro domini coloniali. Si offre a Stalin la possibilità di ergersi a campione dei nuovi nazionalismi e delle lotte anticoloniali nel Terzo Mondo, per stabilirvi propri avamposti. Uno speciale sacrificio viene richiesto alla Francia, occorre infatti preparare il terreno alla piena integrazione della Germania occidentale nella NATO: operazione compiuta il 9 maggio 1955. SI può dire che il padre fondatore dell’Europa sia Harry Truman. L’istituzione della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità economica europea (Euratom), che allargano il campo dell’integrazione all’intera economia e dovranno dar luogo a un mercato comune. L’idea è di usare delle leve economiche per produrre una solidarietà geopolitica fra gli europei che si oppongono a Mosca. 5. Dal disgelo al Muro Stalin muore il 5 marzo 1953, senza un successore designato. Ne consegue una “direzione collettiva”, successivamente, emergerà la figura di Nikita Chruščëv. Con lui vengono rilasciati prigionieri politici, chiusi alcuni campi di concentramento (GULag), mentre la censura è molto cautamente ammorbidita e si abbozzano misure economiche tese a incentivare i consumi. È il “disgelo”, avviene nel febbraio 1956, quando Chruščëv leggerà il rapporto segreto con cui la dirigenza sovietica demolisce il mito di Stalin. Alle aperture sul fronte interno corrisponde il tentativo di ristabilire un dialogo con gli Stati Uniti e con le potenze occidentali che passerà alla storia come “coesistenza pacifica”. Il “disgelo” viene accolto con prudente favore dal presidente Eisenhower, che il 16 aprile 1953 pronuncia un discorso sulle nuove “opportunità per la pace”. È l’armistizio del giugno 1953 a chiudere la guerra di Corea. Né Washington né Mosca sono disposte a riconoscersi le rispettive sfere d’influenza. Come spesso accade quando un regime chiuso e autoritario cerca di aprirsi, il “disgelo” è interpretato da molti come occasione di radicale cambiamento. Il primo segnale viene dalla rivolta degli operai di Berlino Est. La rivolta prende di mira il regime di Berlino Est al grido di “pane e libertà”. Pagina 57 Ci vollero 12 anni di negoziati, dal 1961 al 1973, per associare il Regno Unito alla Comunità. Tanta lentezza fu determinata dalla prolungata resistenza francese alla prospettiva di vedersi affiancata alla guida della CEE da una potenza più o meno omologa. La Francia poneva il suo veto preventivo all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE. Sulla linea golliana si allineò nei primi anni ’60 la Germania, Adenauer considerava l’atteggiamento americano nei confronti del suo paese poco affidabile. DI qui la sempre più stretta intesa con la Francia, suggellata nel trattato dell’Eliseo che poneva le basi di una vera e propria alleanza strategica franco-tedesca. Quanto all’Italia, l’allargamento d’oltre Manica era visto con un certo favore dalla nostra diplomazia, per ragioni insieme geopolitiche e di prestigio, Roma voleva rafforzare il carattere atlantico della CEE, concepita non come terza forza ma quale stretto alleato degli Stati Uniti. L’ingresso di una potenza atlantica come quella britannica, fedelissima della NATO, era dunque coerente a tale obbiettivo. Per consentire l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità economica europea bisognerà attendere il ritiro definitivo dalla vita politica del generale de Gaulle, sostituito da Georges Pompidou e l’avvento a Londra di un gabinetto conservatore diretto da Edward Heath. A quel punto prevalse la linea che vedeva nell’ingresso nel mercato europeo una necessità per rilanciare l’economia e per godere del contributo dei fondi comunitari a favore delle aree più depresse del Regno Unito. I 6, consapevoli dello stato di necessità imposero però a Heath condizioni penalizzanti, costringendo Londra a contribuire al bilancio comunitario in una misura ritenuta iniqua da Downing Street. Il 1° gennaio 1973 il Regno Unito aderiva alla CEE, insieme a Danimarca e Irlanda. L’altro candidato, la Norvegia, il 25 settembre 1972 rovesciava per referendum il sì all’integrazione sancito a grande maggioranza dal Parlamento, che si vedeva minacciata dalle regole europee. Di minore rilievo parvero i due allargamenti successivi con l’ingresso della Grecia (1981) e poi della Spagna e del Portogallo (1986). 6. La via della moneta Il sistema dei cambi fra le principali divise mondiali era entrato in crisi e doveva essere rifondato su altre basi. La fine della convertibilità del dollaro portò al suo deprezzamento, quindi al corrispettivo e disorganico apprezzamento delle monete europee. Con ciò pesando sulla competitività delle merci germaniche sui mercati internazionali. Si poneva così agli europei il tema di come stabilizzare le rispettive economie in via di integrazione rispetto ai rischi delle eccessive fluttuazione dei cambi fra le principali valute. Dall’emergenza poteva infatti scaturire un processo che sfociasse nella moneta unica europea. L’unione monetaria, a sua volta, avrebbe reso inevitabile l’unione politica, poiché non si era mai dato nella storia il caso di una moneta senza sovrano. L’importante per costoro era non esplicare il senso del percorso che si voleva intraprendere. Nell’aprile del 1972 i 6 inaugurarono il meccanismo del “serpente monetario”, cui aderirono subito dopo anche Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. L’accordo verteva sulla determinazione di un margine di fluttuazione negli scambi fra ogni coppia di valute comunitarie. L’obbiettivo era di favorire la stabilità monetaria in una fase assai tempestosa dell’economia mondiale europea. Nel dicembre 1974 gli Stati membri annunciarono la morte del “serpente”. I forti divari fra alcuni paesi a basso tasso di inflazione, in primo luogo la Germania e altri strutturalmente più esposti all’aumento dei prezzi, quali l’Italia, rendevano impossibile mantenere un sistema di cambio quasi fisso. Eppure la via monetaria non fu definitivamente abbandonata. Maggiore integrazione significava sopratutto massima convergenza delle politiche monetarie, avendo mira di una valuta comune. L’alternativa sarebbe stata l’anarchia monetaria o il predominio del marco tedesco. Su queste premesse si fondò nel 1979 la nascita del Sistema monetario europeo (SME), iniziativa impensabile senza l’impulso della coppia Giscard-Schmidt. Lo SME verteva sulla determinazione di una parità centrale per i cambi fra le coppie di monete degli Stati membri. I britannici rifiutarono di aderirvi fino al 1990, Italia, Spagna e Portogallo ottennero un ben più ampio spazio di movimento mentre la Grecia non fu in grado di sottoscrivere il patto. La decisione italiana di entrare nel Sistema monetario europeo fu particolarmente sofferta. Pagina 60 Capitolo 21: La sfida USA-URSS nel mondo postcoloniale 1. Gli indipendentisti asiatici nella guerra fredda Per Terzo Mondo si intendeva non solo l’insieme dei paesi meno sviluppati, ma anche la volontà di affermare un soggetto terzo come coprotagonista della scena geopolitica. Il Terzo Mondo non è mai stato uno spazio coerente né tanto meno un soggetto geopolitico. Molto spesso però gli attori del Terzo Mondo non riuscirono a far valere le proprie istanze. Fu dapprima nell’Asia in rapida decolonizzazione che si concentrò la sfida sovietico-americana per l’allargamento delle rispettive aree di influenza. Inizialmente gli Stati Uniti scelsero di adottare un basso profilo, la strategia americana aveva una doppia priorità, geopolitica ed ideologica. Si trattava di allargare il contenimento dell’Unione Sovietica. Per questo Truman decise di favorire la stabilizzazione e la ripresa economica del Giappone, per farne il perno della presenza anche militare degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico. Mosca faceva leva sul richiamo ideologico ostentandosi campione dell’anticolonialismo e dell’antimperialismo in modo da acquisire influenza nei paesi che si emancipavano dai vincoli occidentali. 2. La partizione del Raj In India le due principali forze si battevano per l’indipendenza, il Congresso ispirato da Gandhi e guidato da Nehru, e la Lega musulmani Mohammed Ali Jinnah. Per il Congresso il nuovo Stato doveva nascere nei confini del Raj, struttura fortemente centralizzata e garantire i diritti delle minoranze religiose, accanto alla maggioranza hindu. Per la Lega musulmana l’obbiettivo era un’India unita ma decentrata, imperniata sulla prevalenza delle singole province rispetto al centro. La questione dell’assetto postcoloniale dell’India britannica non poteva risolversi con il negoziato. Il destino dell’India era nelle mani di Nehru e Jinnah. Il 15 agosto 1947 Nehru proclamò l’indipendenza del nuovo Stato indiano, mentre Jinnah presiedeva al battesimo del Pakistan, secondo la sua stessa espressione. Esso nasceva diviso in due territori maggiormente musulmani, l’occidentale, centrato sul Punjab, e l’orientale, nelle province islamiche del Bengala. 3. La Cina rossa Durante la seconda guerra mondiale i nazionalisti guidati da Jiang e i comunisti di Mao avevano combattuto due conflitti paralleli contro i giapponesi, sospendendo la guerra civile. Alla fine delle ostilità la guerra civile riprese. I nazionalisti furono sconfitti e il 1° ottobre 1949 Mao battezzava a Pechino la Repubblica Popolare Cinese. Le residue truppe del Guomindang si arroccarono sull’isola di Taiwan, continuando a rivendicare il proprio rango quale Repubblica di Cina. Mao prevalse grazie all’abilità tattica, alla superiore coesione e disciplina delle proprie truppe. Lo scontro era fra due nazionalismi: Mao non era meno patriottico di Jiang Jieshi. Quest’ultimo anzi, stretto alleato degli americani, poteva essere considerato strumento di interessi stranieri. Il marxismo-leninismo-stalinismo adattato da Mao alla cultura e alle tradizioni imperiali non intendeva sciogliere la Cina nel contesto dell’internazionalismo proletario, ma servirsi di quell’ideologia occidentale per rivoluzionare i rapporti fra le classi nel suo immenso paese e spingere il popolo verso ambiziose conquiste sociali, culturali e geopolitiche. Furono la carestia alla fine degli anni ’50 causata dalle avventate scelte di politica economica del “grande balzo in avanti”, voluto da Mao e quello della “Rivoluzione culturale”, lanciata dal leader nel 1966 che fino al 1969 scatenò un’ondata di violenze contro chi fosse accusato di revisionismo e di “spirito borghese” in nome di un egualitarismo radicale. Il crollo dell’Impero nipponico aveva favorito l’infiltrazione sovietica nella Cina settentrionale, il controllo diretto sul Giappone aveva trasformato gli Stati Uniti in potenza asiatico-pacifica. Mao si trovava a operare all’interno di questa doppia pressione, che minacciava l’indipendenza appena riconquistata. Mao scelse di appoggiarsi a Stalin, non perché si fidasse del dittatore sovietico, ma in quanto solo l’accordo con Mosca gli consentiva di rafforzare il fronte settentrionale. L’importante era non farsi accerchiare dalle due superpotenze rivali. Mao sottoscrisse il 14 febbraio 1950 un trattato di alleanza con l’Unione Sovietica che obbligava le parti all’assenza reciproca in caso di guerra. Cina e URSS avevano appena riconosciuto nel gennaio 1950, la Repubblica Democratica del Vietnam, in mano ai comunisti del Vietminh. Mosca e Pechino parevano dunque aver stretto Pagina 61 un’intesa che avrebbe minacciato la sfera d’influenza americana in Asia, da Taiwan al Giappone. L’accordo Mao-Stalin mascherava le antiche ma sempre vive rivalità russo-cinesi. Roosevelt, la Cina doveva diventare uno dei “quattro poliziotti”, a mano a mano che la guerra fredda s’inaspriva, negli Stati Uniti si diffondeva il timore che la Cina scadesse ad ancella dell’URSS, sconvolgendo gli equilibri geopolitici in Asia e nel mondo. 4. La guerra di Corea Convinto della propria superiorità militare, nell’aprile del 1950 Kim Ilsong ottenne da Stalin luce verde per l’aggressione al Sud. Il leader nordcoreano asserì che gli americani non sarebbero intervenuti o l’avrebbero fatto troppo tardi, dato che la riunificazione sarebbe stata compiuta nel giro di giorni. Stalin l’avvertì: “se avrai bisogno rivolgiti a Mao”. Mao non si impegnò in modo netto, ma lasciò intendere a Kim che non sia sarebbe opposto alla sua impresa, forse non rendendosi conto che in tal modo rinunciava di fatto a Taiwan, perché se anche avessero tollerato l’aggressione comunista in Corea gli Stati Uniti sarebbero dovuti poi intervenire a protezione della Cina nazionalista. Il 25 giugno 1950 le truppe nordcoreane sfondavano la linea del 38° parallelo. Truman reagì immediatamente a quella che dal suo punto di vista era un’aggressione comunista sponsorizzata dai sovietici. Ottenne una risoluzione che acconsentiva allo sbarco in Corea del Sud di un contingente internazionale a guida americana, sotto il comando del generale Douglas Mac Arthur. L’Unione Sovietica non potè opporre il veto a quel primo intervento militare dell’ONU perché aveva boicottato il Consiglio di Sicurezza in segno di protesta contro la mancata ammissione della Repubblica Popolare Cinese al posto della Repubblica di Cina (Taiwan) come membro permanente. La controffensiva americana ebbe successo. Nell’entusiasmo Truman ordinò alle sue truppe di varcare il 28° parallelo. A questo punto Kim dovette ricorrere alla Cina. Mao mobilitò i suoi “volontari”, immediatamente spediti sul fronte coreano. Presi di sorpresa, americani e sudcoreani arretrarono, Mao aveva deciso di entrare in guerra contro l’America e la stava vincendo. Nel gennaio 1951 i nordcoreani ripresero Seoul. Il generale Mac Arthur chiese allora al suo presidente di autorizzarlo a sganciare la bomba atomica sulla Corea del Nord, ma Truman si oppose. Fu deciso invece di riprendere i negoziati. Le trattative fra le parti portarono nel 1953 a fissare il confine fra le due Coree vicino circa a dove si trovava prima dell’inizio delle ostilità. La leadership cinese, sentendosi usata da Mosca, si considerò anzi libera di agire in sempre maggiore autonomia. Gli Stati Uniti trassero dalla guerra di Corea la conclusione che era necessario radicare la propria presenza sul continente asiatico. Truppe statunitensi furono quindi schierate a protezione di Seoul, in aggiunta a quelle collocate in Giappone. Washington si impegnava a garantire la sicurezza di Taiwan, stroncando le velleità di Mao di riprenderla con la forza. Contemporaneamente, gli Stati Uniti decisero di rafforzare il sostegno alla Francia, per impedire che il Vietnam finisse sotto il giogo comunista. 5. La guerra del Vietnam Nel maggio 1954 la Francia subiva una decisiva disfatta ad opera delle truppe vietnamite. L’indocina francese pareva perduta, il dominio comunista sul Vietnam sembrava imminente. Una conferenza internazionale tenuta a Ginevra pochi giorni dopo la caduta di Dien Bien Phu, con la partecipazione di Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna, Cina, Cambogia, Laos e di due delegazioni vietnamite rivali, sancì la provvisoria divisione del Vietnam in due zone. Nella logica del dominio, allora prevalente nell’establishment americano, il Vietnam assurgeva a teatro di una partita globale. Gli Stati Uniti si trovarono in doppia contraddizione con se stessi. Avevano appoggiato una potenza coloniale, la Francia, nel disperato tentativo di conservare il suo dominio indocinese. Inoltre, la teoria del dominio era falsa. Il governo comunista di Hanoi, sotto la guida carismatica di Ho Chi Minh, perseguiva obbiettivi tipicamente nazionalistici. La contraddizione etica e la svista strategica costringevano Washington in una posizione di debolezza da cui non seppe mai emanciparsi fino al disastroso termine della partita. John Fitzgerald Kennedy avviò l’americanizzazione del conflitto, inviando un cospicuo numero di “consiglieri militari” a supportare il regime di Diem. Nell’agosto 1964, un misterioso incidente avvenuto nel golfo vietnamita offrì al presidente Lyndon Johnson l’occasione per ottenere dal Congresso una risoluzione che gli avrebbe consentito di Pagina 62 Washington tornò presto allo strumento più elementare: quello militare. Lo impiegò direttamente a Santo Domingo, dove nel 1965 il presidente Johnson spedì ventimila Marines per impedire che vi si stabilisse un governo di sinistra. Capitolo 22: Il Medio Oriente in fiamme (1948 - 1991) 1. La nascita di Israele La regione del Medio Oriente fu più tardivamente e mano profondamente segnata dalla guerra fredda. Fu invece l’epicentro di una lunga sequenza di conflitti, nei quali Stati Uniti e Unione Sovietica vennero progressivamente coinvolti. Nel contesto della decolonizzazione, il caso più gravido di conseguenza fu il conflitto tra ebrei e arabi intorno allo spazio tra Mediterraneo e Giordano. Territorio carico di memorie storiche antagoniste e di luoghi sacri alle religioni monoteistiche, a cominciare da Gerusalemme. Il conflitto che covava da decenni si configurò come scontro fra due rappresentazioni geopolitiche che denominano l’identico spazio in modo diverso: Israele o Palestina. Dopo il 1945, la Shoah fu un fattore di legittimazione del sionismo, ma non l’origine dello Stato d’Israele. La leadership sionista aveva rivendicato la creazione di uno Stato ebraico centrato su Gerusalemme già nella convenzione riunita nel maggio 1942. Tra il 1945 e il 1948, decine di migliaia di ebrei scampati allo sterminio cercarono di raggiungere i correligionari stanziati in Palestina, penetrando le maglie dei controlli britannici. Il governo laburista di Londra era però contrario al progetto sionista. Il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale votò a maggioranza un piano di spartizione dello spazio mandatario che prevedeva la nascita di uno Stato ebraico, con l’area di Gerusalemme e Betlemme sotto controllo ONU. I leader sionisti l’accettarono, gli arabi palestinesi la rifiutarono. Entrambi decisi a difendere la loro causa armi in pugno. Mentre la rivolta araba si allargava, incentivata anche dai britannici, i leader sionisti preparavano la nascita di Israele. L’obbiettivo principale era quello di dare subito al suo popolo una piattaforma statuale su cui far perno per consolidare rapidamente la presa ebraica sulla Terra d’Israele richiamandovi una quota rilevante della Diaspora. Il 14 maggio 1948 Ben Gurion decretava la nascita dello Stato d’Israele. 11 minuti dopo gli Stati Uniti riconoscevano Israele, seguiti dall’Unione Sovietica. Le due superpotenze rivali battezzavano entrambe il nuovo Stato. Ma il 15 maggio Egitto, Iraq, Siria, Libano e Giordania si univano alla resistenza araba interna al nuovo Stato per cercare di eliminarlo. Israele nasceva sotto attacco. Nel gennaio 1949, dopo gli armistizi che posero fine alla guerra d’indipendenza, lo Stato ebraico aveva notevolmente espanso il territorio assegnandogli dal piano ONU. Si rassegnava però ad accettare la spartizione di Gerusalemme con la Giordania. Era il prezzo da pagare per remunerare l’acquiescenza del Regno hascemita, che aveva segnalato segretamente di non volersi opporre alla nascita di Israele. L’Egitto otteneva Gaza, già ricompreso dall’ONU entro i confini della Palestina. I veri sconfitti della guerra erano dunque i palestinesi. Utilizzati e abbandonati dagli arabi, sopraffatti dalla potenza militare israeliana, centinaia di migliaia di abitanti arabi dei territori palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case. 2. Da Suez alla pace Israele-Egitto La vittoriosa guerra d’indipendenza che battezzò lo Stato ebraico fu vissuta come un’umiliazione nel campo arabo ed ebbe un effetto di delegittimazione sui regimi arabi della regione, in particolare sulla monarchia egiziana. Nell’ottobre 1954 Nasser si impose quale capo assoluto al Cairo rivelando l’ambizione di affermare l’Egitto come grande potenza regionale. Contemporaneamente nel 1955 fu stipulato un corposo accordo per l’acquisto di armi cecoslovacche. Il leader egiziano segnalava il suo avvicinamento all’URSS. La rottura con il campo occidentale fu completata il 26 luglio 1956 con la nazionalizzazione del canale di Suez, anche in risposta alla decisione americana di interrompere il finanziamento della strategica diga di Ausan, sul Nilo. Per Parigi e per Londra non era tollerabile che il Canale finisse nelle mani di Nasser e dei suoi sponsor del Patto di Varsavia. Le due ultime potenze imperiali europee decisero allora di sbarazzarsi del leader egiziano e di servirsi a questo scopo della collaborazione di Israele. Fra i governi francese e israeliano si stabilì segretamente nel 1956 un’intesa profonda: Ben Gurion ottenne da Parigi le armi necessarie a mantenere la superiorità sugli arabi in generale e sugli egiziani in particolare. In cambio, offriva alla Pagina 65 Francia informazioni di intelligence sull’Algeria e ad entrambi i governi europei la disponibilità ad attaccare l’Egitto per far cadere Nasser. Nella visione di Ben Gurion, si trattava anche di consolidare il successo della guerra d’indipendenza estendendo il territorio israeliano verso sud. Quanto alla Giordania, doveva essere smantellata, estromesso Nasser e affidati i paesi arabi vicini a leader deboli se non vassalli, sarebbe stato possibile stipulare con essi vantaggiosi accordi di pace. Il 29 ottobre 1956 le truppe dello Stato ebraico penetrarono a Gaza e nel Sinai, infliggendo serie perdite agli egiziani e costringendo Nasser a ritirare in gran fretta il grosso del suo esercito del Sinai per evitarne l’annientamento. Il testo era concepito in modo che gli egiziani dovessero respingerlo, ciò che puntualmente accadde. Il 5-6 novembre scattò allora l’attacco di paracadutisti francesi e inglesi contro l’Egitto. A questo punto intervennero le superpotenze. Il presidente americane Eisenhower, profondamente irritato da Ben Gurion e ancora più insofferente con gli alleati europei che in nome di patetiche pretese imperiali si erano insabbiati in un’avventura capace di scatenare la terza guerra mondiale e di mettere in ombra la contemporanea invasione sovietica dell’Ungheria, richiamò i tre aggressori all’ordine. Da parte americana si ventilavano sanzioni economiche contro Israele. Non si escludeva nemmeno la sua espulsione dall’ONU se Ben Gurion non avesse subito fermato l’attacco. L’avventura di Suez marcava l’ingloriosa fine degli imperialismi francese e britannico e l’affermazione della logica della guerra fredda nella partita arabo-israeliana. La crisi del 1956 segnò quindi il punto più basso nelle relazioni fra Israele e Stati Uniti. Nel successivo decennio Israele si dedicò al consolidamento delle conquiste territoriali ottenute con la guerra d’indipendenza e confermate nel conflitto del 1956. A produrre la scintilla della terza guerra arabo-israeliana fu la tensione fra Israele e gli Stati arabi che giuravano di voler liberare la Palestina. Il clima era molto peggiorato dopo l’avvento al potere in Siria del partito Baath. I baathisti avevano stretto un patto d’alleanza con l’Egitto, cui aderì anche la Giordania. Israele si sentiva compresso in una tenaglia. Ai suoi confini l’ostilità con i vicini arabi era palpabile e sfociava talvolta in brevi conflitti a fuoco. Dopo egiziani e giordani, fu la volta della Siria. Il 10 giugno il governo Eshkol decise di accettare il cessate il fuoco invocato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Israele aveva triplicato il suo territorio. Gli arabi erano stati umiliati. Lo Stato ebraico si trovava di fronte al dilemma che non avrebbe cessato di tormentarlo nei decenni a seguire: che cosa fare della popolazione araba dei territori occupati. La soluzione estrema era tenersi la “dote” e cacciare la “sposa”, ciò avrebbe comportato costi strategici, politici e morali difficilmente sopportabili. Dopo la guerra dei Sei giorni parve evidente che una soluzione duratura al conflitto avrebbe potuto fondarsi solo sulla restituzione dei territori conquistati da Tsahal, o almeno di gran parte di essi, in cambio della pace con i vicini arabi, che avrebbero dovuto riconoscere il diritto dello Stato ebraico a esistere. Il governo israeliano non voleva né negoziare né combattere un’altra guerra. Lo status quo gli era favorevole. Sadat era deciso a ottenere i suoi obiettivi in modo pacifico, ma non trovò alcuna sponda in Israele, confitto nella logica dello status quo e sordo alle mediazioni americane. Sadat si rese conto che gli restava solo il ricorso alla forza per avvicinare i traguardi stabiliti. Non per distruggere Israele, ma per inchiodarlo al tavolo della pace e riavere indietro almeno parte delle terre perdute. Strinse un’intesa con il dittatore di Damasco, in vista di un attacco a tenaglia che avrebbe inflitto una lezione allo Stato ebraico. Quando il 6 ottobre 1973, giorno della festività ebraica della espiazione, egiziani e siriani partirono all’attacco, Israele fu colto di sorpresa. La prima settimana di guerra sembrava disegnare un successo arabo. La controffensiva di Tsahal fu però devastante. I leader dei due paesi erano convinti di aver almeno ristabilito l’equilibrio con gli israeliani, mentre questi ultimi videro scosso il senso di invincibilità che li animava dal 1948. Nella quarta guerra contro Israele gli arabi potevano almeno rivendicare un pareggio. I seguenti negoziati di pace consentirono all’Egitto di recuperare il Sinai e di essere ammesso nel campo occidentale, mentre la Siria restava asserragliata nell’area d’influenza di Mosca. Sadat si spinse ad arrischiare l’avventura diplomatica solitaria, rompendo con gli altri arabi pur di chiudere la partita con Israele. L’Egitto fu il primo paese arabo a firmare la pace con Israele e a riconoscerne l’esistenza con il trattato del 26 marzo 1979. Pagina 66 3. La causa palestinese e i suoi nemici Fino alla guerra dei Sei giorni la causa dei palestinesi era considerata parte dell’agenda panarabista che verteva sulla liquidazione di Israele come condizione necessaria dell’unità di tutti gli arabi. La sconfitta dei vicini arabi di Israele e la conseguente occupazione della Cisgiordania di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza cambiarono scala e carattere della causa palestinese. La fine del sogno panarabo obbligò i palestinesi dei territori occupati e della diaspora a imprimere un marchio nazionalista alla loro lotta. Occorreva essere riconosciuti anzitutto come palestinesi, qualificarsi come nazione senza Stato, decisa a fondarlo a spese dello Stato ebraico. La radicale inconciliabilità fra causa palestinese e causa israeliana verteva e continuerà a vertere sulla coincidenza territoriale delle rispettive idee di patria, insieme alla profonda diffidenza reciproca che chiudeva la prospettiva di uno Stato binazionale. Ci vollero 16 anni perché i palestinesi si dessero una struttura politica. A promuoverla fu Nasser. L’Organizzazione per la liberazione della Palestina fu battezzata al Cairo nel 1964 per iniziativa della Lega Araba. La centrale operativa dell’OLP era a Gerusalemme Est e comprendeva i principali gruppi della resistenza. Solo la conquista israeliana di nuovi territori d’insediamento palestinese, seguita dalla morte di Nasser, consentirono di superare la tutela panarabista, che imprigionava la causa palestinese in quella di una nazione di tutti gli arabi che stentava a prendere corpo e sostanza geopolitica. Era scoccata l’ora dei nazionalisti. Presidente dell’OLP venne pertanto eletto, nel 1969 Yassir Arafat, il quale conservò la carica fino alla morte nel 2004. Da quel momento l’OLP si trovò a combattere non solo Israele, ma anche gli Stati arabi che mal ne tolleravano il protagonismo. L’obbiettivo di Arafat era di portare la causa palestinese all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, per ottenere il riconoscimento della Palestina come Stato indipendente. Arafat doveva scontare non solo la schiacciante superiorità militare dello Stato ebraico ma anche la mancanza di una piattaforma territoriale da cui partire alla riconquista della patria perduta. L’abbandono della Giordania fu particolarmente traumatico. Migliaia di rifugiati e di combattenti palestinesi furono uccisi dalle Forze armate fedeli al sovrano, sotto lo sguardo impotente o compiacente degli altri regimi arabi. La guerra civile scosse la leadership e rivelò le fratture nel campo palestinese, che si divise fra chi prese le armi contro le truppe giordane e chi invece sostenne re Hussein. Fu il Settembre Nero, una delle sconfitte più tristi per la resistenza palestinese, sopratutto perché avvenuta per mano araba. La parte più estrema del movimento si convinse che d’ora in avanti occorresse far ricorso al terrorismo su scala internazionale per recuperare visibilità alla propria causa. Vi si distinse il gruppo che si intitolò appunto Settembre Nero, al quale erano affiliati non ufficialmente anche diversi uomini del Fath. A tale struttura rispondevano i terroristi che in occasione delle Olimpiadi di Monaco del 1972 uccisero 11 atleti israeliani. Una delle più clamorose operazioni del terrorismo palestinese fu il sequestro della nave da crociera italiana Achille Lauro, che provocò una crisi nei rapporti fra Stati Uniti e Italia. Cacciati dalla Giordania, i leader dell’OLP trovarono rifugio a Beirut. Il Libano era una costruzione geopolitica assai fragile, fondato sul precario equilibrio, codificato nella stessa Costituzione, fra cristiani, musulmani sunniti e sciiti. Il flusso dei profughi palestinesi, dopo il 1948, aveva contribuito ad alterare i rapporti di forza a favore dei musulmani. Il Libano Israele non aveva raggiunto i suoi obbiettivi, anzi, aveva provocato una campagna di protesta internazionale che gli attribuiva la responsabilità indiretta del massacro di Sabra e Shatila. Lo Stato ebraico non appariva più come il Davide minacciato dal Golia arabo. Semmai, l’immagine tendeva a rovesciarsi, con i forti israeliani colpevoli di perseguitare i deboli profughi di Palestina. 4. La diffusione dell’islam politico La sconfitta degli Stati arabi nella guerra dei Sei giorni ebbe un effetto devastante sul panarabismo e sulle fumose variazioni intorno al “socialismo arabo”. Ad avvantaggiarsene fu l’islam politico, si intendevano gruppi, movimenti e partiti per i quali la risposta a tali umiliazioni stava nella creazione di Stati fondati sulla legge islamica. Le radici dell’islam politico crebbero in Egitto. Qui era sorto nel 1928 il movimento dei Fratelli musulmani, che si proponeva di islamizzare la società. Tale predicazione fu interpretata non solo in chiave filosofico-religiosa, ma anche come precetto che implicava la guerra santa. Fu sopratutto Sayyd al-Qutb a stabilire le fondamenta del Pagina 67 1. Nascita della Prima Repubblica L'Italia uscì dalla seconda guerra mondiale in regime di occupazione militare alleata. Solamente il 1° gennaio 1946 fu restituita al Regno la sovranità sul Nord. Sotto questo ombrello, operavano e competevano per il potere due fonti di legittimità: la monarchia e il governo di unità nazionale. Decisiva fu la scelta del partito comunista guidato da Palmiro Togliatti, di considerare almeno provvisoriamente prevalenti i condizionamenti geopolitici internazionali, che assegnavano l'Italia alla metà occidentale dell’Europa. Al medesimo asse geopolitico aderiva il partito socialista di unità proletaria, il suo leader, Pietro Nenni, intendeva mantenere saldo il patto di unità d'azione stretto con i comunisti nel pieno della battaglia antifascista. Il PCI si poneva nella scia sovietica e precostituiva le ragioni della sua perdita di egemonia nella sinistra in Italia. La forza determinante era la democrazia cristiana, la nuova formazione si collocava nel campo antifascista e segnava un netto confine ideologico con il comunismo e con le sinistre marxiste in genere. L'emergenza nazionale costringeva forze politicamente eterogenee a una fase di cooperazione per costruire insieme le fondamenta dello Stato. I partiti antifascisti dovevano rappresentare in questo contesto la fonte unica di legittimazione delle istituzioni. L'Italia dell'immediato dopo guerra era caratterizzata da una profonda crisi economica, sociale e morale. I governi di unità nazionale dovettero affrontare la gestione dell'ordine pubblico e la necessità di determinare un nuovo quadro istituzionale in un contesto sociale tutt'altro che pacifico.su tutto incombeva la questione istituzionale sulla quale la grande maggioranza delle forze politiche aveva le idee chiare: occorreva una Repubblica. Gli italiani scoprivano nei partiti di massa la chiave di accesso alla partecipazione politica. Il 2 giugno 1946 gli italiani votarono per la Repubblica, con una maggioranza piuttosto netta, i risultati vennero comunque contestati dagli sconfitti che lamentavano irregolarità e brogli. Il voto spaccava in due l'Italia, il sud monarchico e il centro e il Nord verso la Repubblica. Il contemporaneo voto per l'Assemblea costituente, segnò un risultato che nelle grandi linee anticipava i rapporti di forza per quasi tutta la prima Repubblica. La Carta fondamentale della Repubblica italiana entrava in vigore il 1 gennaio 1948. 2. Costituzione geopolitica e costituzione politica La rottura della maggioranza antifascista avvenne il 24 maggio 1947, quando De Gasperi ricevette dal capo dello Stato provvisorio l'incarico di formare un nuovo governo. Il leader della democrazia cristiana ne escludeva comunisti e socialisti, vi ammetteva liberali e tecnici. Il 31 maggio un governo essenzialmente democristiano sostenuto dei partiti moderati minori venne a crearsi. L'Italia si orientava dunque verso gli Stati Uniti, in cerca di protezione dalla minaccia sovietica e comunista su un piano di subordinazione. Iniziava il semiprotettorato americano, sancito nell'aprile 1949 con la partecipazione italiana alla fondazione della NATO. Il rango dell'Italia nel contesto internazionale aveva trovato sanzione formale nel trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. Quel trattato fu la nostra costruzione geopolitica, procedette di quasi un anno la costituzione politica. Privò l'Italia di tutte le colonie, incluse quelle conquistate in epoca prefascista, salvo concederle l'amministrazione fiduciaria della Somalia fino al 1960. L’o obbligava poi accedere la Jugoslavia, parte della Venezia Giulia, tutta l'Istria, Fiume e Zara ma non Trieste. La questione dell'Alto Adige era già stata regolata con gli accordi del 5 settembre 1946, che mantenevano all’Italia la provincia di Bolzano in cambio di un'ampia autonomia culturale, economica e amministrativa. Se non vincitori, potevamo considerarci parte dello schieramento che aveva liberato l'Europa dall'incubo nazista e fascista. La costituzione approvata il 22 dicembre 1947 con 453 voti favorevoli e 62 contrari, era frutto del compromesso fra le culture politiche dominanti. La Carta costituzionale definitiva definiva i principi di una repubblica socialmente avanzata. Il rischio di una guerra civile aleggiò sulle elezioni del 1948, infatti, non va dimenticato che i partigiani non avevano del tutto smobilitato. Sul fronte moderato, gli americani avevano predisposto un piano di emergenza, in caso di vittoria delle sinistre e/o di presa violenta del potere, che prendeva la forma di un vero e proprio colpo di Stato. Pagina 70 In questo frangente anche la chiesa cattolica ritenne di impegnarsi nettamente a favore della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati, fra l'altro costituendo dei comitati civici che avevano il compito di agitare lo spauracchio dei "senza Dio", cioè dei comunisti atei. La DC ottenne il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla camera. La lungimiranza di De Gasperi e il fatto di non disporre di una propria maggioranza in Senato spinse però i democristiani a formare una coalizione con liberali, repubblicani e socialdemocratici. Comunisti e socialisti erano costretti all'opposizione, mentre nelle file socialiste cominciava a serpeggiare l'insofferenza per un'alleanza soffocante. Fra i comunisti cresceva la tentazione di riprendersi con le armi ciò che era andato perso con il voto, specie dopo l'attentato a Togliatti. Il segretario del PCI ordinò ai suoi di mantenere la calma, mentre già in diverse città del Nord erano in corso episodi insurrezionali. 3. Dalla ricostruzione al miracolo economico L'Italia si sviluppò fino a diventare una potenza industriale e commerciale capace di competere su scala mondiale.ma i primi anni della risalita furono durissimi, soprattutto perché il paese non costituiva un'unità economica.un abisso separava la miseria del Nord da quelli del sud, tra la città più ricca (Milano) e la più povera (Agrigento), il divario quanto a reddito pro capite era di 5 a 1. L'impatto degli aiuti americani fu uno dei fattori decisivi per la ricostruzione.ma il sostegno esterno a poco sarebbe servito se non avesse contribuito a innescare dinamiche interne di medio periodo, incentivate da alcune scelte strategiche di politica economica destinate ad accelerare la ripresa. L'altro grande colosso pubblico di quegli anni era l'ente nazionale idrocarburi (ENI), fondato nel 1953 da Enrico Mattei. Con il superamento dell'emergenza postbellica e il passaggio da una società ancora largamente agricola a una industriale, mutavano anche usi e costumi popolari. Al Nord cominciava ad aderire uno stile di vita protoconsumistico, mentre le campagne del centro-sud si svuotavano dei contadini, calamitati dall'opportunità di lavoro e di vita offerto dall'industria del triangolo Milano- Torino-Genova, oppure costretti a lasciare l'Italia per cercare fortuna nell'Europa centro- settentrionale. La rapidità del passaggio da una società contadina a un insieme sempre più urbanizzato nel contesto di un'economia industriale, determinò l'affermazione di aspettative consumistiche assai diverse nell'ambito di una stessa generazione. Tre fenomeni segnarono il dopoguerra: - L’inizio della motorizzazione di massa (e.s.: FIAT) - Il boom delle telecomunicazioni - Il concesso sviluppo di una cultura consumistica diffusa Si diffusero frigoriferi, auto, telefoni, radio e apparecchi televisivi. Ne conseguiva soprattutto per i giovani, una libertà di scelta e di movimento sconosciuta alle precedenti generazioni. Attecchiva il modo di vivere americano, con la sua musica, il suo cinema, la sua letteratura, i fumetti e le produzioni di Hollywood. Alla cultura di importazione si affiancavano spesso polemicamente e si opponevano omologhi prodotti italiani. La stagione del grande cinema fu il marchio di un paese che sapeva riscattare con le armi della cultura la triste fama guadagnata nel mondo durante l'età fascista. 4. Gestazione e ascesa del centro-sinistra Dal punto di vista del partito centrale nel sistema politico, la Democrazia Cristiana, si trattava di compiere una scelta di fondo: muovere verso l'espansione dell'area di governo verso sinistra, oppure puntare sulle destre. Il tentativo dell'ala conservatrice della DC di allargare l'area di governo alle destre, trova la sua più organica espressione della tesi della "democrazia protetta”. Le correnti di destra della DC e fino a un certo punto lo stesso De Gasperi, immaginavano di dover proteggere l'Italia contro le “quinte colonne” del comunismo internazionale, ricorrendo a tutte le misure necessarie. Malgrado le fortissime pressioni vaticane, De Gasperi decise di rinunciarvi. Pur non essendo affatto un uomo di destra, De Gasperi condivideva l'idea di uno "Stato forte”. Alle elezioni del 7 giugno 1953, la lista di centro si fermo al 49,8%, mancando l'obiettivo di appena 54.000 voti. La DC perse circa 2 milioni di voti, le destre segnarono una notevole avanzata, come pure socialisti e comunisti. Ad aprire la strada verso un nuovo equilibrio politico che integrasse socialisti, contribuì il disgelo nei rapporti est-ovest dopo la morte di Stalin. Pagina 71 L'anno decisivo fu il 1956, prima il 20º congresso del PCUS, in cui il nuovo leader sovietico denunciava i crimini di Stalin, e poi la rivolta d'Ungheria repressa nel sangue, sconvolsero il movimento comunista nel mondo intero. Togliatti volle inizialmente minimizzare gli esiti del 20º congresso, ma alcuni fra i più prestigiosi intellettuali comunisti abbandonarono per protesta il PCI, aprendo una discussione. L'avvento di papa Giovanni XXIII e di John Fitzgerald Kennedy, segnalavano il cambio del clima anche sull'altra sponda della guerra fredda. Papa Roncalli inaugurava una fase di apertura e di rinnovamento culminata nel concilio Vaticano II. Negli Stati Uniti, il giovane ed energico leader della casa bianca proclamava la “nuova frontiera” ed esibiva al mondo l'immagine di un'America progressista, al passo con i tempi. 5. La prima stagione del centro-sinistra Fu Aldo Moro l’ago della bilancia del primo esperimento moderatamente riformista della storia repubblicana. Moro e gli altri leader democristiani rovesciarono l'ordine delle priorità, prima l'unità del partito, per confermare nella DC il garante dell'adesione al campo Atlantico e quindi dell'esclusione del PCI dal governo. Da quando Moro apre la fase del centro-sinistra, fu evidente che l'impulso riformistico originario era stato ridimensionato entro margini ristretti proprio per evitare eccessivi traumi nel bacino di consenso su cui poggiava l'egemonia del partito di maggioranza relativa. L'Italia intendeva bilanciare le scelte del mercato con l'allocazione di investimenti pubblici mirati anzitutto alla riduzione del dualismo nord-sud. Un paese così geopolitica mente esposto non poteva permettersi una frattura troppo netta fra settentrione e meridione. Due i principali terreni di scontro: - La nazionalizzazione dell’energia elettrica - La riforma urbanistica La prima fu portata a compimento, mitigata dall'indennizzo alle società nazionalizzate, prima fra tutte la Edison. La seconda invece fu boicottata e infine svuotata per la pressione di gran parte della DC, perché prevedeva l'esproprio obbligatorio dalle aree fabbricabili incluse nei piani regolatori comunali e andava a colpire al cuore i piccoli proprietari, quota non indifferente dell'elettorato democristiano. Nel 1970, si portava a compimento un dettato della Costituzione, con l'istituzione delle regioni a statuto ordinario e le convocazioni delle prime elezioni regionali. 6. Dal Sessantotto al caso Moro Il Sessantotto come stagione di protesta e di ribellione studentesca e operaia contro "il potere" trasse origine dalle aspettative suscitate dal "miracolo economico", in gran parte frustrate dai modesti esiti del riformismo di centro-sinistra. Oltre alle migrazioni dal sud al Nord e dalle campagne alle città, che trasfigurarono la società italiana, si stava affermando la scuola di massa, che elevava il livello culturale dei giovani, spesso al di sopra di quello dei loro padri. Inoltre, ci fu una richiesta di crescente specializzazione nel mercato del lavoro. Il PCI sì lascio sorprendere dai movimenti studenteschi e operai che pur confusamente echeggiavano temi maxisteggianti, salvo poi dividersi tra chi nel Sessantotto vedeva solo l'espressione del sovversivismo piccolo-borghese e chi, dette poi vita all'eresia espressa dalla rivista "il Manifesto”. Tre momenti tipici marcavano l'espressione del movimento studentesco: l'occupazione, l'assemblea e il corteo. La prima era il surrogato dello sciopero operaio: nelle scuole la forma più efficace di protesta era la presa di possesso diretta delle aule, accompagnata dalle assemblee come momento di mobilitazione e di crescita politica collettiva, che poi sfociava nelle sfilate per le vie delle città, dove talvolta le dimostrazioni studentesche incrociavano i cortei operai. Ad aprire la stagione del movimento studentesco furono l'agitazione dell'Università cattolica di Milano, tra novembre 1967 e gennaio 1968.le scintille furono l'aumento delle tasse universitarie e la proibizione da parte del rettore di una raccolta di firme contro la guerra americana nel Vietnam.il 68 italiano si richiamava ad analoghi movimenti americani ed europei, come ad esempio il maggio parigino del 1968. Nasceva una sinistra extraparlamentare, ma è troppo estesa in termini di adesione, ma il riducibile al "sistema", nel quale essa ricomprendeva anche i partiti della sinistra tradizionale. I servizi dormire del movimento studentesco e dei suoi gruppi organizzati ingaggiavano sanguinosi tornei con la polizia e carabinieri, il più celebre fu lo scontro di Valle Giulia, a Roma il 1° marzo 1968. Pagina 72 cambio fra le monete presero a fluttuare. Il signoraggio del dollaro si confermava obiettivo determinante della strategia americana. Gli anni ’60 furono marcati dei movimenti pacifisti e di contestazione dei poteri tradizionali e delle gerarchie stabilite. Ne furono protagoniste le giovani generazioni, nate e cresciute nel dopo guerra. Le agitazioni studentesche trassero spunto dall'opposizione della guerra del Vietnam, per sfociare in Europa nel 1968 e nella contestazione del "Maggio francese”. Sul fronte sovietico, Chruščëv venne rovesciato nel 1964, accusato di dilettantismo. Con Kennedy e papa Giovanni XXIII, il nuovo leader sovietico sembrava interessato alla pace e alla convivenza pacifica. Sotto Chruščëv l’Unione Sovietica aveva aperto un nuovo fronte nella sfida con gli Stati Uniti, la competizione per la conquista dello spazio. Il lancio nel 1957 del primo satellite artificiale, lo Sputnik, e quattro anni dopo il viaggio del primo cosmonauta, Jurij Gagarin, avevano accresciuto il prestigio universale dell'URSS e costretto gli Stati Uniti a un’ardua rincorsa, conclusa trionfalmente nel 1969 con lo sbarco del primo uomo sulla luna, Neil Armstrong. L'impantanamento statunitense nel Vietnam sembrava schiudere per Mosca scenari promettenti. I problemi, per l'URSS, venivano non solo dall'arretratezza e dall'inefficienza economica del sistema socialista pianificato, ma anche dalla crescente dipendenza del paese dal proprio immenso patrimonio di idrocarburi. L'URSS assumeva le caratteristiche di uno Stato sorretto dalla rendita derivante dall'esportazione di materie prime: la spesa pubblica si espandeva. A cavallo del 1690 si consumò la rottura con la Cina di Mao. Vestita di ideologia, la disputa era di fatto geopolitica. Le velleità sovietiche di espansione verso la Cina settentrionale si scontravano con la robusta resistenza di Mao. Era evidente che il tallone d'Achille di Mosca stava nella sovra estensione del suo dominio europeo. "Primavera di Praga": questo è il termine usato per illustrare il coraggioso tentativo della leadership del partito comunista cecoslovacco, di avviare qualche forma di liberalizzazione del sistema importato dall'Unione Sovietica. Contro questa pericolosa eresia, Mosca decise di reagire con la forza e il 20 agosto 1968 i carri armati del Patto di Varsavia penetrarono nel paese. Come di fronte alla ribellione di Berlino est e di Budapest, la reazione americana fu misurata. Il presidente Johnson, impegnato in Vietnam, non poteva aprire un fronte europeo. La mancata reazione americana alla repressione di Praga confermò i sovietici nella sensazione che la via della distensione con Washington potesse essere intrapresa con più vigore. L'avvento alla Casa Bianca di Richard Nixon, con al fianco nelle vesti di consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger, rendeva più fertile il terreno della cooperazione nella riduzione delle armi nucleari. Il due Nixon-Kissinger concepiva l’uso della negoziazione per meglio condurre il conflitto strategico con l’Unione Sovietica. L’obbiettivo era vincere la guerra fredda, non pareggiarla. Occorreva anzitutto limitare al massimo il rischio dell’olocausto nucleare ma anche la competizione militare diretta. Quello militare era l’unico terreno in cui le due superpotenze si equivalessero. La nuova amministrazione repubblicana era convinta che per vincere la guerra fredda occorresse evitare lo scontro armato. Si sviluppò nei primi anni ’70 la diplomazia dei summit bilaterali, dedicati al ristabilimento di un grado di fiducia fra i leader dei due blocchi e al disarmo atomico controllato. Nel 1972 Nixon e Breznev firmarono a Mosca il primo trattato di limitazione delle armi strategiche, seguito nel 1973 dall’accordo sulla prevenzione della guerra nucleare. Nixon decise di allargare il campo della competizione alla Cina. L’obbiettivo era un triangolo strategico con Washington-Mosca-Pechino all’interno del quale le prime due potenze contrastassero la terza. L’allineamento sino-americano doveva imperniarsi sulla convergenza degli interessi nazionali. La geopolitica contava più dell’ideologia. Nixon decise di ricorrere alla diplomazia segreta, inviando nel 1971 Kissinger in incognito a Pechino. Ricevuto da Mao e dal suo braccio destro, il consigliere per la Sicurezza nazionale constatava con entusiasmo che la prospettiva evocata da Nixon appariva perfettamente realistica e che i suoi interlocutori erano partner affidabili. Il 21 febbraio 1972 Nixon sbarcava trionfalmente a Pechino accolto da Mao Zeong. La priorità di entrambi era contenere la minaccia sovietica, che Mao percepiva come particolarmente imminente. Per i cinesi, gli Stati Uniti erano il massimo contrappeso contro l’URSS. Come Nixon, Mao era convinto che l'Unione Sovietica fosse indirizzata verso la fine perché le sue ambizioni erano troppo superiori alle sue risorse. Nello spettro politico americano, Mao sarebbe stato senz'altro classificato fra i falchi antisovietici. Eppure agli occhi della grandissima parte degli americani, restava il capo di un odioso regime Pagina 75 "rosso", le cui differenze rispetto all'Unione Sovietica non venivano nemmeno percepite. I semi piantati nel viaggio di Nixon a Pechino erano destinati a non produrre un albero, tanto che due anni dopo il presidente sarebbe stato travolto dallo scandalo Watergate e i suoi successori non ne avrebbero condiviso la vocazione geopolitica. Ma il suo provvisorio allenamento Stati Uniti-Cina, marcò una rivoluzione strategica. 2. La geopolitica cattolica verso l’Est La cortina di ferro separava la chiesa euro-occidentale, dalle "Chiese del silenzio" dell'Est, che rischiavano di scomparire sotto la pressione dei regimi socialisti, ai quali si accreditava in genere una lunga vita. L'avvento di Papa Giovanni XXIII portò una ventata d'aria nuova sottospecie liturgica, ermeneutica e teologica, riscoprendo la cattolicità della chiesa. Nel mondo bipolare, il cattolicesimo non poteva schiacciarsi su una parte per combattere l'altra, la sua missione contrastava intrinsecamente con la logica della guerra fredda. Nel momento più critico dello scontro USA- URSS, durante i giorni della crisi di Cuba, Giovanni XXIII rispondendo ad una sollecitazione di Kennedy, intraprese un tentativo di mediazione che venne accolto da Chruščëv, esso contribuì a evitare la catastrofe. Con il Concilio Vaticano II, Roncalli aggiornava la chiesa e la apriva al mondo della distensione, oltre a porre nuove premesse del nuovo protagonismo della Santa Sede come attore ecumenico. Con il Vaticano II, adattamento alla realtà locali e inculturazione andarono a marcare il volto missionario della Chiesa. L’ultimo documento di Giovanni XXIII disegnava il perimetro e lo sfondo dell’iniziativa della Santa Sede per il bene supremo della pace nel pianeta sull’orlo dell’autodistruzione per via nucleare. Fu sotto il successore di Giovanni XXIII, Paolo VI, che le suggestioni ecumeniche e le sollecitazioni alla pace maturate nei primi anni del Concilio trovarono espressione geopolitico-diplomatica. 3. L’Ostpolitik, distensione in salsa tedesca La costruzione del muro di Berlino e la politica di distensione, avevano consolidato quella della Germania: la neue deutsche Ostpolitik. Essa era destinata a segnare la politica tedesco-federale estera fino alla riunificazione delle due Germanie nel 1990. Sarebbe tuttavia improprio considerare la caduta del muro di Berlino come conseguenza voluta e ricercata della Ostpolitik. I trattati orientali funsero da apripista della conferenza di Helsinki, furono stipulati dal governo di Bonn con l’Unione Sovietica, con la Polonia, con la DDR e con la Cecoslovacchia. La cooperazione fra la Germania occidentale e l'URSS fu immediatamente consolidata grazie alla geopolitica energetica. Nel 1970 venne firmato un accordo che assicurava ai tedeschi una fornitura annua di gas per vent’anni. La Repubblica Fderale tentava così di mediare fra due spinte geopolitiche contraddittorie: quella che la portava ad aderire al blocco occidentale per ragioni di sicurezza, di affinità socio- economica e del sistema politico, e quella che il nome della riunificazione nazionale la sospingeva verso la vecchia centralità geopolitica spezzata dalla cortina di ferro. L’Ostpolitik non sarebbe stata concepibile senza la disponibilità dei partner orientali. Mosca seguiva con favore l'approccio dialogante perché lo considerava un potenziale elemento di conflitto in seno al blocco avversario. Qualsiasi mossa che tendesse ad allontanare gli europei occidentali dagli americani era più che benvenuta. Sanciva l'accettazione tedesco-occidentale, ma anche europea e americana, della spartizione del continente, normata dagli accordi di Helsinki per i quali la diplomazia sovietica si era tanto spesa. 4. Il nuovo gelo fra USA e URSS Mentre la politica orientale tedesca, apprezzata e sostenuta in Europa occidentale da forze di diversa ispirazione, continua a svilupparsi fino a tutti gli anni ’80, la distensione fra le superpotenze si avvita su se stessa già alla metà degli anni ’70. Essa non derivava da una revisione strategica, né a Mosca né a Washington, era invece frutto del comune desiderio di ridurre la corsa alle armi nucleari. L'ultimo progresso sulla via del disarmo fu infatti l'accordo Salt II, che colmava alcune lacune del Salt I ed evocava l'urgenza di ridurre bilanciatamente il numero dei missili con testata nucleare. Pagina 76 Dopo Nixon salì Jimmy Carter, opposto alla concezione realistica della politica internazionale coltivata dal suo predecessore. Il colpo di distensione definitivo lo dette l’invasione Sovietica in Afghanistan. La scelta fu interpreta a Washington come un’offensiva, ma in verità, per i russi si trattava di una mossa difensiva. Nella guerra d’Afghanistan si determinò un allineamento fra americani, sauditi e pakistani, i quali sostennero, finanziarono e armarono la guerriglia antisovietica, animata dalla convinzione di combattere una guerra santa contro gli atei invasori. Per Washington si presentava l'occasione di dissanguare l'impero sovietico in una riedizione a rovescio del Vietnam. Mosca, interpretava il supporto americano i suoi nemici afghani come un tentativo di allargare la sfera di influenza asiatica di Washington. La fallimentare invasione dell'Afghanistan inflisse un serio colpo al prestigio e all'influenza sovietica del mondo. Il colpo di scena fu il boicottaggio dei giochi olimpici di Mosca del 1980, promosso dagli Stati Uniti e seguito da diversi paesi, tra cui Germania federale, Cina, Canada, Iran e Giappone. Atto simbolico, di pura propaganda, che decretava la fine della distensione e inaugurava il nuovo gelo fra USA e URSS. 5. Exit URSS Mai nessun impero nella storia universale è crollato così rapidamente e senza aver perso la guerra come l'Unione Sovietica. Il suo crollo è identificabile in 4 fasi: 5.1 Come Gorbačëv delegittimò l’URSS Tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni ’80, quasi nessuno avrebbe scommesso sulla scomparsa dell’URSS. Gli Stati Uniti dovevano ancora assorbire la disfatta in Vietnam, l'emergere del Giappone come nuovo polo tecnologico e produttivo induceva i pessimisti a considerare plausibile il prossimo superamento dell'economia statunitense da parte di quella nipponica. In Unione Sovietica erano gli anni della "stagnazione", il sistema sembrava bloccato, ma non per questo minacciato. Nel 1976 un sondaggio rivelava che i cittadini sovietici erano soddisfatti delle loro condizioni materiali. Solo ai vertici delle strutture di intelligence (il potente KGB) si era consapevoli dei limiti strutturali del sistema economico e delle persistenti faglie etnico-culturali che corrodevano le fondamenta dell'edificio imperiale. Tra i fattori interni che minacciavano l'URSS emergevano con sempre maggiore evidenza l'alcolismo e una seria crisi demografica. Dai primi anni ’80, si fece evidente il crescente isolamento internazionale dell’URSS. I suoi unici alleati, costosi, scomodi e poco affidabili, erano i satelliti dell'est europeo. Soprattutto, sotto il geniale successore di Mao, Deng Xiaoping, la Cina aveva intrapreso il cammino delle "quattro modernizzazioni” (agricoltura, industria, difesa e scienza). Deng contribuiva a legittimare l'egemonia comunista eliminando la fame e limitando la povertà, mentre centinaia di milioni di cinesi cominciavano ad avvicinare gradualmente standard economici accettabili. Nel 1980 la Polonia sembrava sull'orlo della rivoluzione. L’avvento a Roma nel 1978 di un Papa polacco, Karol Wojtyla (Giovanni Paolo II) convinto che il comunismo non fosse destinato a durare a lungo e quindi orientato verso una postura più offensiva nella geopolitica vaticana, si rivelava per Mosca una spina nel fianco. La Polonia pareva in fermento pre rivoluzionario, Mosca era incerta su come reagire. Venne scartata al Cremlino l'ipotesi di invadere la Polonia, anche se aleggiò a lungo, toccò a comunisti e polacchi abbozzare il contenimento. L’URSS era sotto pressione quando l'11 marzo 1985 salì al potere un leader relativamente giovane e apparentemente carismatico: Gorbačëv. L'obiettivo strategico di Gorbačëv era di modernizzare l'Unione Sovietica liberalizzando gradualmente il sistema politico. La squadra di governo cercò di elevare il rango dello Stato rispetto al partito, cui le istituzioni pubbliche erano di fatto sottomesse e di dare fiato alla voce delle periferie. Il ridimensionamento del ruolo del partito rese instabile l'intera architettura del sistema sovietico. Nell'opinione pubblica sovietica, la diffusione delle tragiche verità sugli orari del passato non solo staliniano e l'ammissione da parte degli stessi vertici del partito delle inefficienze del sistema politico e dell'arretratezza dell'economia, furono uno shock. Gorbačëv era l'estremo rappresentante di una lunga quanto minoritaria tradizione dell'intellettualità russo-imperiale. La nuova leadership non intendeva affatto sovvertire il sistema, solo attualizzarlo, liberalizzare, renderlo più efficiente. Nella speranza di rigenerare l’Urss, Gorbačëv finì per sconfessarla. Pagina 77
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