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L'espansione europea in Asia (secc. XV - XVIII) - Guido Abbattista , Sintesi del corso di Storia E Istituzioni Dell'asia I

Breve sintesi sulla storia del colonialismo europeo in Asia dal Quattrocento a fine Cinquecento

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica L'espansione europea in Asia (secc. XV - XVIII) - Guido Abbattista e più Sintesi del corso in PDF di Storia E Istituzioni Dell'asia I solo su Docsity! L’espansione europea in Asia (secc. XV-XVIII) L’avvio su ampia scala e con maggiore continuità che nel passato di relazioni economiche con l’Asia orientale avvenuto alla fine del Quattrocento non si configura come una novità assoluta nella storia europea. Contatti esistevano fin dall’antichità greco-romana e, all’interno del mondo e della cultura classici, si può riscontrare una significativa presenza di elementi provenienti dalle maggiori civiltà dell’Oriente. Già in epoca romana imperiale si stabilirono tra mondo mediterraneo e Oceano Indiano relazioni commerciali relativamente stabili, con caratteristiche che anticipano il tipo di scambi che si sarebbero avviati in epoca moderna. Le vicende della storia dei rapporti tra Europa e Asia in epoca premoderna presentano una continuità che attesta il perdurante e ostinato interesse occidentale per i beni e prodotti orientali. Per tutto il basso Medioevo, si susseguirono scambi e contatti, benché senza la possibilità di stabilire relazioni stabili. Le conquiste musulmane costrinsero gli europei ad accentuare l’intermediazione commerciale araba, ma non a rinunciare a importare prodotti orientali, in attesa che si creassero le condizioni storiche per assumere iniziative rivolte a garantire maggiore libertà d’azione all’intraprendenza occidentale. L’Asia nel Cinquecento: commercio e civiltà L’apertura della comunicazione diretta tra Europa e Asia orientale non rappresenta un evento paragonabile all’impresa di Cristoforo Colombo – peraltro finalizzata in origine a quello stesso obiettivo. Ciò che accadde negli ultimi anni del XV secolo oltre il Capo di Buona Speranza non fu propriamente la scoperta di un nuovo mondo. Fu semmai, per gli europei, l’apertura di una nuova rotta verso l’India e l’inizio di relazioni dirette con il mondo asiatico. La portata rivoluzionaria riguardò soprattutto la natura dei rapporti commerciali, il modo di praticarli e organizzarli, il tipo di impegno pubblico profuso nel loro sostegno e il genere di relazioni Europa – Asia che ne derivò, e non l’esistenza in sé e per sé di contatti e di forme di scambio tra mondo occidentale e Oriente. Dalla fine del Quattrocento prese dunque avvio una ristrutturazione profonda di relazioni che in realtà l’Occidente europeo, sia pure secondo modalità, protagonisti e ritmi via via molto diversi, aveva intrattenuto con i paesi orientali fin dall’antichità. Se l’America poteva essere considerato un ‘vuoto’ nel tempo e nello spazio in quanto continente di cui non si conosceva assolutamente niente, l’Asia orientale, al contrario, era e non poteva non apparire come un ‘pieno’. Per quanto imperfettamente conosciuta in tutta la sua estensione e ancor più imperfettamente nella sua millenaria storia, essa era sede di civiltà superiori, con tradizioni antichissime, culture complesse. L’Asia non costituiva insomma uno spazio che si potesse in alcun modo considerare disponibile per l’occupazione di nuovi venuti. Essa costituiva un mondo oggetto di rappresentazioni leggendarie e mitiche, ma la cui esistenza era ben presente ai paesi mediterranei grazie agli scambi commerciali. Nel XV secolo il mondo asiatico appariva come una realtà geopolitica ed economica caratterizzata da un elevato grado di interconnessione e dall’esistenza di costruzioni statali e civili di grande antichità e complessità. Nel complesso, l’impressione del viaggiatore che alla fine del Quattrocento avesse attraversato le regioni dalla Mesopotamia alla Persia, dall’India alla Cina all’Indonesia sarebbe stata di trovarsi al cospetto di paesi di grande vivacità economica, prosperi, fertili, ben coltivati, abbondanti di produzioni manifatturiere e artigianali. Avrebbe incontrato paesi formicolanti di popolazioni varie, attive, ricche di risorse che facevano pensare a un tenore di vita e a un livello generale di sviluppo per niente inferiori a quelli dell’Europa contemporanea e, anzi, semmai decisamente superiori. era quest’ultima a trovarsi in una condizione di inferiorità e a rivolgersi costantemente a Oriente alla ricerca di prodotti raffinati, di segreti tecnici e manifatturieri, di merci rare e preziose. città e commerci nel mondo asiatico Nel 1400 la popolazione mondiale era di circa 350 milioni di individui, di cui oltre 260 nelle varie zone dell’Asia e solo 60 in Europa. Le prime sei tra le dieci città più grandi del mondo erano asiatiche: Nanchino, Il Cairo, Vijayanagar, Hangzhou, Pechino e Canton. Solo Parigi si poteva avvicinare a queste dimensioni. Il mondo a est di Alessandria d’Egitto era costellato da una serie di importanti città che rappresentavano altrettanti snodi di un tessuto di relazioni commerciali intense e varie sia terrestri che marittime. Il Cairo e Alessandria erano certamente i centri commerciali più grandi dell’impero mamelucco (che regnò sull'Egitto dalla metà del XIII secolo ai primi anni del XVI), seguiti da Aleppo e Alessandretta. Costantinopoli era e continuò ad essere una capitale di eccezionale vitalità. A Gedda, sulla costa arabica del Mar Rosso, approdavano le spedizioni di fedeli dell’Islam diretti in pellegrinaggio alla Mecca e di mercanti che poi proseguivano per Medina. Dalla Mesopotamia all’altopiano iraniano si trovavano splendide città, nobilitate e arricchite dalla presenza di centri del potere politico, della cultura islamica e del commercio carovaniero. Baghdad, la capitale degli Abbasidi fondata da al-Mansur nella seconda metà del’ VIII secolo, è presto divenuta un centro di cultura islamica, una metropoli commerciale eccezionalmente fiorente e la seconda città del mondo fuori dalla Cina, con una popolazione cosmopolita. Anche l’India era terra di grandi e talora antichi centri urbani di primaria importanza commerciale o politica, spesso integrati in circuiti economici internazionali. Sulla costa occidentale, innanzitutto, le città del Gujarat: tra grandi e piccole, se ne contavano sessantamila. Questo potente e florido sultanato, sotto governo islamico dalla fine del Duecento, era certamente lo stato più importante della regione e lo sarebbe rimasto anche dopo la conquista moghul nel tardo Cinquecento. La capitale, Ahmadâbâd, Surat, Cambay erano veri crocevia multiculturali, mercati ricchi e vivacissimi animati da un potente ceto mercantile locale di religione islamica, dalla ricchissima casta indù dei mercanti e da colonie internazionali. Quando re Manuel di Portogallo nel 1499 comunicò ai sovrani di Castiglia l’esito del viaggio di da Gama, egli obbedì certamente al desiderio di destare in loro meraviglia e invidia, ma nel parlare di grandi città, grandi palazzi e fiumi e grandi popolazioni non andò troppo distante dal vero. V’erano poi le città dell’interno, che sarebbero divenute i centri del potere moghul: Agra, Delhi e ancora Lahore e Burhanpur. Nel cuore del Deccan c’era Vijayanagar, capitale di un grande impero indù che nel primo Cinquecento avrebbe toccato quota 500.000 abitanti, seconda solo a Pechino. La Cina del Quattrocento era una civiltà largamente basata sull’agricoltura e presentava un grado eccezionale di urbanizzazione, specie dopo il rapido sviluppo e l’impetuosa commercializzazione che il paese aveva conosciuto sotto la dinastia Sung (1000 – 1250). Nel corso dei due millenni dell’era cristiana al vertice della classifica delle città più popolose del mondo ci sono sempre state quelle cinesi. Alla vigilia della conquista mongola, poco prima della visita dei fratelli Polo (1275), Hangchou, la capitale dei Sung, contava un numero di abitanti stimato tra 1,6 e 2 milioni e mezzo, Nanchino e Canton ne avevano 200.000. la conquista mongola (1279) e l’avvento della dinastia Yuan non arrestarono, ma anzi potenziarono lo sviluppo economico cinese e il paese fu beneficiato della politica delle ‘porte aperte’ nei confronti degli stranieri. Allora si moltiplicarono le comunità musulmane, gli scambi panasiatici furono incoraggiati, città costiere come Canton accrebbero la propria popolazione cosmopolita, impegnata in traffici a lungo raggio nell’Oceano Indiano. Sotto i Ming, la dinastia che nel 1368 si era elevata sulle rovine del governo mongolo, la Cina conobbe un nuovo percorso di profonda riorganizzazione amministrativa, economica e culturale, con centro a Nanchino. Nel giro di alcuni decenni questa divenne la prima città al mondo. La Cina del Quattrocento non era solo un paese altamente urbanizzato ed economicamente florido. Tutt’altro che ripiegata su se stessa, conobbe nella prima metà del XV secolo una fase di espansione militare, commerciale e diplomatica nell’Asia continentale, nel sudest, a oriente, in Insulindia e in tutto l’Oceano Indiano fino all’Arabia e all’Africa orientale: non è superfluo ricordare, a dimostrazione dell’alto livello delle tecniche cantieristiche e nautiche cinesi dell’epoca, come le sessanta giunche impiegate nei sette viaggi dell’ammiraglio Cheng-Ho (1405-33) fossero mastodonti di 1.5000 tonnellate di stazza – le caracche di Vasco da Gama e le caravelle di Colombo a paragone erano gusci d’uovo – e appartenessero ad una flotta di oltre 6.500 navi. Nei primi due secoli della dinastia Ming, perciò, la Cina aveva consolidato il proprio rango di economia e società di gran lunga più ricca e più sviluppata dell’Eurasia e una delle società preindustriali più ricche del mondo. I centri commerciali, i porti, gli empori di varie dimensioni che alla fine del XV secolo punteggiavano la carta delle relazioni economiche eurasiatiche e delle rotte mercantili dell’Oceano Indiano sono moltissimi. Una breve menzione merita Kyoto, dalla fine del XIV capitale del Giappone shogunale degli Ashikaga. Anche Kyoto era all’epoca una città dalle dimensioni decisamente superiori alle medie europee; ma in un’economia come quella giapponese intensamente commercializzata e in stretti rapporti di scambio con la Cina, la Corea, le Filippine, le isole del Mar Cinese, l’Insulindia, non mancavano molti altri centri relativamente minori, destinati ad avere un importante futuro commerciale o politico: alla fine del Seicento Osaka aveva 350.000 abitanti, Nagasaki sarebbe cresciuta come centro unico dei traffici con i portoghesi prima e gli olandesi poi e Edo (attuale Tokyo), divenuta capitale Tokugawa, raggiunse una popolazione di mezzo milione. Una simile abbondanza di centri urbani di rilievo politico e commerciale faceva dell’Asia orientale e meridionale uno scenario di grande vivacità, ricchezza e potenza. Non c’è niente che attesti meglio l’esistenza di un sistema di scambi a largo raggio nella vasta area dell’Oceano Indiano quanto l’organizzazione del credito, in particolare l’immensità della rete di relazioni finanziarie create e gestite dalla casta di mercanti, banchieri e cambiavalute indù dei Banya. I Banya sarebbero divenuti gli interlocutori privilegiati delle compagnie di commercio europee, fornendo loro un sostanziale appoggio In una visione storica in cui l’Europa tra Quattrocento e Cinquecento è considerata in una fase di vitalità socioeconomica, le scoperte geografiche assumono un ruolo simbolo centrale. A far data da questo momento l’Europa avrebbe imboccato la strada della supremazia mondiale. Nella realtà, i portoghesi non riportarono dalle Indie niente che non fosse già conosciuto, ricavarono dai traffici orientali profitti considerevoli, ma non tali da mutare le sorti del proprio paese e, infine, dovettero da subito rinunciare all’idea di conquistare in Oriente una posizione di rilievo politico-territoriale. Dal punto di vista della grande storia asiatica, essi furono una presenza nuova, ma comunque minoritaria e passeggera, che solo in parte modificò lo svolgimento tradizionale dei commerci. metodi e risultati A credito dei portoghesi va certamente riconosciuta la capacità di inseguire con grande determinazione un primo obiettivo: spezzare il monopolio indomusulmano delle spezie e conquistarne una fetta. A questo scopo tradussero in atto una visione strategica brillante con metodi aggressivi sconosciuti nei mari orientali. Dato che sarebbe stato impossibile perseguire gli interessi commerciali basandoli su estese conquiste sulla terraferma, essi puntarono a installarsi in posizioni strategiche per il controllo della navigazione. In questo furono favoriti dal fatto che le pur cospicue marinerie degli stati indiani e indonesiani con le quali si trovarono ad avere a che fare non ebbero capacità militare adeguata a contrastare le flottiglie portoghesi di caracche e galeoni armati di artiglieria. L’uso sistematico della forza, sia nei rapporti diretti con i sovrani sulla terraferma sia in mare con atti di pirateria, fu una prerogativa dei nuovi arrivati e se sulla terraferma non dette buoni risultati, diversamente andò per mare. Dalla costa africana all’Insulindia, queste posizioni strategiche funzionarono non come piattaforme di un’impossibile espansione territoriale, ma come basi navali e commerciali. Non si può dire che non vi sia stata affatto una strategia di occupazione territoriale, ma il disastro patito nel 1511 dagli uomini di Albuquerque nel tentativo di sbarco a Calicut dimostrò che non era il caso di sfidare un sovrano indiano sul proprio terreno. Fu così che quello che si sarebbe chiamato l’Estado da India consistette essenzialmente di basi, punti di appoggio, teste di ponte più o meno fortificate. Un fattore fondamentale fu la capacità di inserirsi nelle rivalità politiche locali e volgerle a proprio favore (pag. 52). In tempi relativamente brevi i portoghesi erano riusciti a realizzare un progetto complessivo di cui artefice principale fu l’ammiraglio Alfonso de Albuquerque 1509-15) e che rese possibili ulteriori iniziative in direzione della Cina e del Giappone. Mediante questo sistema di basi navali fortificate e di agenzie commerciali sulla terraferma, essi cercarono di insidiare il commercio marittimo arabo e indomusulmano e di imporre il proprio controllo monopolistico sulle spezie. Controllo della navigazione commerciale non significò certo che le sole navi adibite al trasporto delle spezie e delle altre merci orientali fossero portoghesi. Si tradusse bensì nell’imposizione, grazie alla superiorità militare per mare, di un sistema di licenze (cartazas) e di ingiunzioni di transito attraverso determinati porti per pagarvi diritti doganali. I portoghesi, in pratica, crearono un vero e proprio sistema terroristico finalizzato ad ostacolare metodicamente il commercio musulmano. La giustificazione giuridico-ideologica è forse data dallo storico Joao de Barros: “è vero che esiste un diritto comune, per cui tutti possono navigare sui mari, e in Europa noi riconosciamo i diritti che altri fanno valere contro di noi; ma questo diritto non ha valore fuori dall’Europa, e i portoghesi, nella loro qualità di Signori del Mare, sono quindi giustificati quando confiscano le merci di coloro che navigano senza il loro consenso”. Tuttavia, il successo del grande piano strategico portoghese fu assai limitato. Intanto fallì l’obiettivo di imporre un blocco sul Mar Rosso, attraverso il quale continuarono a passare le tradizionali rotte di rifornimento delle spezie. Tutto ciò che riuscirono a fare fu di pirateggiare i convogli arabi e indiani diretti nel Mar Rosso. Ma dopo il 1538, quando i turchi occuparono Aden, dovettero rinunciare anche a questo e rassegnarsi a che il Mar Rosso continuasse a essere ciò che era sempre stato, un lago musulmano. Va poi precisato che a est di Malacca la situazione dei portoghesi fu sempre assai meno brillante che nei mari indiani. Nei mari della Cina e del Giappone, la presenza portoghese fu di nessuna importanza dal punto di vista politico, diplomatico e del controllo della navigazione, ma di un certo livello sotto il profilo commerciale e religioso. I contatti diplomatici erano iniziati nel 1517 ma né allora né in seguito dettero buoni risultati. Tuttavia traffici di contrabbando di una certa consistenza si svolsero tra i portoghesi di Malacca e varie città cinesi della costa meridionale. Il consolidamento di questi rapporti ebbe due importanti effetti: permise ai portoghesi di stabilirsi nel 1557 a Macao, che sarebbe divenuta una vera e propria colonia commerciale, e li trasformò in intermediari commerciali per conto della Cina, lasciando nelle loro mani la gestione dei traffici col Giappone. L’opera di cristianizzazione, quindi l’attività missionaria, costituì parte integrante dell’attività portoghese e vedi all’opera in India, Cina e Giappone figure di prima grandezza come i gesuiti Francesco Saverio e Matteo Ricci, iniziatori dell’apostolato cattolico in Oriente. I decenni centrali del Cinquecento rappresentarono il punto di massima espansione dell’attività portoghese, che però non fu che una delle componenti della fitta e variegata rete di scambi dell’Oceano Indiano. Nella parte finale del secolo si delineò un lento, ma inarrestabile declino, che finì con il ridurre la presenza portoghese a dimensioni marginali durante il XVII secolo, a fronte della contemporanea affermazione delle potenze concorrenti di Olanda e Inghilterra. << I papi, che non si lasciano sfuggire l’occasione di ribadire che sono padroni della Terra, donarono al Portogallo tutte le coste che avessero scoperto nell’Oriente e riempirono questa piccola nazione della follia delle conquiste >> - Due Indie, Rayanal 1780 L’inserimento dell’Olanda e la conquista del primato Se il Portogallo non riuscì ad andare oltre l’occupazione di singole località strategiche, ben diverso fu il caso dell’Olanda e soprattutto dell’Inghilterra. Con l’entrata in scena di questi due paesi, la cui attività si dispiegò a partire dall’inizio del Seicento, si assiste al tentativo di passare dal controllo delle vie di comunicazione e dei flussi di scambio a quello diretto delle fonti di approvvigionamento e della produzione, con l’acquisizione in forme diverse di autorità politico-militari. In questo senso, è molto più appropriato parlare di ‘potenze coloniali’ per l’Olanda e l’Inghilterra. Ancora una volta, ciò non significò l’avvento di una reale supremazia commerciale o politica europea, ma solo la comparsa nell’arco dei secoli XVII e XVIII di forme nuove e sostanziali di presenza. Queste, per quanto si siano successivamente sviluppate in dominazioni imperiali, continuarono a convivere con più antiche e sperimentate pratiche che costrinsero gli europei a contentarsi per lungo tempo di una posizione decisamente subalterna, come in Cina e in Giappone. Presupposti Dagli anni settanta-ottanta del XVI secolo la Repubblica delle Provincie Unite fu impegnata in una logorante guerra per mare e per terra contro la Spagna, che si sarebbe protratta fino 1648, per affermare la propria indipendenza. Nonostante lo sforzo bellico, le istituzioni della Repubblica erano in fase di consolidamento e l’arrivo di capitali provenienti da Anversa, ricaduta in mano spagnola nel 1585, accrebbe anche la disponibilità di risorse finanziarie e umane. In precedenza, l’unione delle corone di Spagna e Portogallo nel 1580 e il blocco antiolandese deciso da Filippo II di Spagna aveva causato la chiusura di Anversa, Lisbona e dei porti spagnoli al commercio olandese, i più grandi redistributori di prodotti orientali sui mercati nordeuropei. Queste circostanze furono determinanti nell’indurre la Repubblica a investire energie nei ricchi traffici orientali, cosicché la decisione spagnola del 1598 di reimporre il blocco commerciale trovò l’Olanda pronta a intraprendere la via delle Indie. Tentare di arrivare alla fonte dei commerci significava non solo danneggiare economicamente il nemico iberico, ma anche attaccarlo militarmente là dove pareva più debole. Quelle che gli olandesi avviarono dal 1590 in poi furono imprese tanto militari che commerciali, in un quadro di relazioni e di conflitti internazionali dal carattere ormai ‘globale’. I due rivali – divisi anche nella religione: calvinisti in Olanda e cattolici romani nella penisola iberica – si trovarono a competere su uno scenario esteso dal Brasile al Mozambico. Gli anni dal 1598 al 1663 furono dunque caratterizzati da uno stato di quasi continua ostilità lusitano-olandese sui diversi fronti oltremare. Questi settant’anni di guerra portarono a una ommercia La East India Company dal commercio all’impero La presenza inglese nei mari orientali fu per buona parte del XVII secolo di entità decisamente inferiore rispetto a quello olandese. Anche l’Inghilterra operò attraverso una Compagnia privilegiata, la East India Company, fondata nel 1600, ma vi erano delle differenze strutturali con quella olandese. Innanzitutto il capitale raccolto per la prima spedizione inglese fu di circa otto volte inferiore a quello iniziale della VOC e, soprattutto, la East India Company funzionò dapprima con l’allestimento di viaggi finanziati singolarmente e in seguito con investimenti a breve o medio termine, di sette-otto anni, i cosiddetti joint stocks. Solo nel 1657si trasformò in una vera e propria società commerciale con azionato stabile. le prime imprese inglesi Come tutti gli altri europei, anche gli inglesi puntarono inizialmente alle spezie dell’arcipelago indonesiano e indirizzarono i primi viaggi verso Achem, Bantam, Sumatra e le isole Banda (1601-1608). Immediata fu da parte loro l’individuazione del problema dei traffici orientali: la scarsa richiesta locale di prodotti europei e la necessità di finanziare gli acquisti di spezie senza eccessivi esborsi di metallo prezioso. Fu questa la ragione che spinde gli inglesi ad appuntare la propria attenzione sui tessuti dell’India e a creare a tal fine un punto d’appoggio a Surat nel 1612, dopo aver affrontato l’ostilità portoghese. Gli sforzi inglesi si concentrarono su due zone, con risultati positivi in India ma alla lunga fallimentari in Indonesia. Dagli anni trenta divenne chiaro che il futuro delle attività inglesi sarebbe stato in Persia e soprattutto in India, dove i traffici della Compagnia si svilupparono a poco a poco nelle tre regioni del Guajarat, del Coromandel e del Bengala, grazie anche alle condizioni di sicurezza garantite dall’autorità moghul. Verso la fine del secolo la Compagnia iniziò a importare direttamente dalla Cina porcellane e soprattutto tè. Tuttavia, a paragone di quelle olandesi, le attività inglesi erano di entità nettamente inferiori e tali rimasero fino al primo Settecento. Molto minore era il numero di basi e agenzie attive e soprattutto i traffici inglesi non erano abbastanza integrati nel sistema di commercio interasiatico. Un successo inarrestabile Una delle ragioni che limitarono la crescita della East India Company fu il fatto che la sua posizione in madrepatria, fino alla Restaurazione, continuò ad essere appesa ad un filo. Completa era la sua dipendenza dallo stato per il rinnovo dei privilegi, che dovevano essere acquistati a caro prezzo, e continua era la pressione degli avversari per il monopolio. Una svolta decisiva si ebbe con lo statuto del 1657 che dette fondamento più stabile alla Compagnia, che alla fine del Seicento conobbe uno dei suoi periodi di maggiore progresso. La legislazione restrittiva nei confronti dell’importazione di tessuti di seta e cotone indiani, adottata in Inghilterra nel 1700 non danneggiò veramente le attività, orientandole piuttosto alla riesportazione in Europa. Entro gli anni venti del Settecento superò la Compagnia olandese. Intorno alla metà del Seicento fu deciso di ammettere i mercanti provati al commercio locale, compresi i di dipendenti della Compagnia. Fu una misura saggia, equivalente alla legalizzazione della situazione di fatto. In seguito a questo provvedimento si sviluppò un’intensa attività gestita da privati inglesi, che si svolgeva tra porti asiatici, su navi costruite in Asia e con equipaggi largamente composti da marinai asiatici. Da questo punto di vista essi non fecero che aggiungersi al già ricco intreccio di forze mercantili impegnate nei traffici orientali e rimasero per tutto il Settecento una componente essenziale della presenza inglese in Asia. In secondo luogo, la politica inglese in India nel corso del Seicento e fino circa alla metà del Settecento fu caratterizzata dal limitatissimo uso della forza militare. Gli insediamenti inglesi avevano guarnigioni ridotte e la volontà di contenere le spese sconsigliò la regola di ricorrere alla violenza a garanzia delle attività commerciali, facendo preferire gli accordi diplomatici, le alleanze. Dopo l’abdicazione di Giacomo II e la ‘Gloriosa Rivoluzione’, che gettò le basi della monarchia costituzionale britannica, vi fu nel 1698 la creazione di una nuova Compagnia mediante atto del Parlamento. Per un breve periodo la vecchia e la nuova Compagnia coesistettero finché, nel 1709, considerazioni di opportunità spinsero alla loro fusione. La Compagnia Unita delle Indie Orientali assunse allora un ruolo di primo piano nel sistema economico britannico e nelle finanze della monarchia. All’inizio del XVIII secolo la posizione della East India Company appariva solida e promettente. Si era ormai delineato lo spostamento dell’asse dei suoi commerci dalla costa occidentale dell’India alla sua parte orientale, soprattutto Madras e il Bengala, i due maggiori centri di produzione tessile. Il valore del suo commercio era già pari a quello delle Indie occidentali e nettamente superiore a quello dei commerci nordamericani. La riesportazione in Europa, nelle colonie nordamericane e in Africa era estremamente fiorente. Dai nuovi commerci stavano ormai derivando profondi mutamenti di abitudini, di consumi e di gusti in tutti gli strati della società britannica. La East India Company e le relazioni locali Sempre più viva divenne la necessità di godere del favore dei governanti locali e di appoggiarsi a mercanti, banchieri, interpreti asiatici. Se nel caso olandese fu acquisito il controllo diretto di regioni di estensione limitata nelle quali si concentrava una particolare produzione, gli inglesi in India dovettero contentarsi di mantenere posizioni marginali e subordinate rispetto ad una potenza imperiale, senza alcuna pretesa di imbarcarsi in costose imprese militari oltremare contro nemici potenti. I periodi di stabilità e di prosperità commerciale dipesero dal relativo equilibrio che poté essere raggiunto nei rapporti con le potenze locali; per gli inglesi sfidare sulla terraferma una potenza come quella moghul non fu mai una prospettiva realistica. Le cose cominciarono a cambiare nel corso degli anni quaranta del XVIII secolo, per effetto di tre cause concomitanti: l’importanza crescente che le attività inglesi andarono assumendo in regioni economiche-chiave, come il Bengala, anche per la società locale con inevitabili riflessioni in termini di controllo politico; la rivalità anglo-francese nell’India meridionale; il declino inarrestabile dell’autorità moghul, specie nelle zone periferiche. Gli altri paesi europei I piani francesi per inserirsi nei traffic orientali si contraddistinsero per il loro carattere del tutto artificioso: furono cioè la Corona e I suoi ministri a prendere l’iniziativa, perseguendo una politica di prestigio e di potenza spinti dal desiderio di rafforzare la monarchia e fare concorrenza sia commerciale sia politico-militare ai rivali europei. Fu grazie a Colbert che nel 1664 si giunse alla fondazione della Compagnia francese delle Indie Orientali. Si trattò di una creatura di laboratorio mercantilistico: dotata di privilegio di lunghissima durata, agevolata dalla concessione di prestiti regi senza interesse e di premi di esportazione, finanziata da una sorta di prestito forzoso imposto all’alta nobiltà di spada e di toga. La Compagnia francese si distinse sempre per una dipendenza molto forte dalla Corona: questa nominava i direttori, interferiva continuamente con le scelte commerciali, compensava con risorse proprie la scarsa partecipazione del capitale privato e interveniva con mezzi e personale propri nelle attività militari. Nei dieci anni dopo la fondazione, fallì completamente una serie di aggressivi piani antiolandesi, ma alcune filiali stabili molto importanti furono impiantate in India. Ma gli anni a cavallo tra Seicento e Settecento non furono brillanti, a causa sia dello stato di guerra semipermanente con Inghilterra e Olanda fino al 1713. L’unico commercio francese che conobbe un certo progresso fu quello di esportazione verso l’Europa, mentre insufficiente attenzione venne dedicata al commercio locale, cosa che fu causa perenne di indebitamento delle agenzie. La vita della ‘Compagnie Perpetuelle’ fu breve: venne messa in liquidazione nel 1769 e il commercio orientale venne dichiarato libero. Quanto al resto dei paesi europei, i loro tentativi di partecipazione ai traffici orientali furono legati all’iniziativa di figure particolari: quei commercianti soprattutto inglesi e olandesi che, esclusi dalle attività monopolistiche dei propri paesi, mettevano la propria esperienza al servizio di altri sovrani. In questo senso, molte compagnie europee minori altro non furono che coperture per le attività di contrabbando. Così avvenne per la Compagnia danese, quella svedese, di Genova, della Prussia di Federico II. In ciascuno di questi casi fu determinante il ruolo degli esperti inglesi od olandesi, anche se nessuna di queste imprese sortì risultati duraturi o comunque in grado di interferire con gli interessi commerciali e con il ruolo preponderante svolto da Inghilterra, Olanda e Francia in India e in minor misura in Cina. Lo scontro decisivo con l’India Un primo scenario della conflittualità angol-francese verso la metà del Settecento fu quella dell’India meridionale. Qui francesi e inglesi intervennero a partire dal 1744 a sostegno delle parti rivali nelle lotte per il potere a Hyderabad e ad Arcot, inaugurando le cosiddette guerre del Carnatico. I motivi di questi conflitti vanno ricercati in una particolare situazione locale in cui la possibilità di continuare a svolgere un ruolo commerciale di qualche rilievo venne a dipendere proprio dall’esito di uno scontro diretto. Questo periodo di intensa competizione ebbe fine solo nel 1760, con la vittoria inglese a Wandiwash, e nel 1761 con la caduta del quartier generale francese di Pondichéry e la trasformazione del Carnatico in uno stato satellite dell’East India Company. Il secondo scenario fu quello del Bengala, dove la Compagnia inglese entrò in aperto conflitto con il nawab locale, estremamente sospettoso della crescente influenza europea. Quando nel 1756 il nawab si impossessò di Calcutta, fu scontro aperto. L’artefice della vittoria inglese fu Robert Clive: all’inizio del 1757 riconquistò Calcutta, sconfisse a Plassey le truppe del nawab e installò un nawab apertamente filoinglese. Una seconda e decisiva vittoria la ottenne nel 1764 contro la coalizione dell’imperatore moghul Shah Alam II e da altri principi indiani con lo scopo di riportare nel Bengala un nawab a loro fedele. Il successivo trattato di Allahabad (1757) conferì alla East India Company il cosiddetto diwan, ossia l’amministrazione civile e fiscale delle provincie del Bengala, Bihar e Orissa. Da questo momento data l’inizio di una profonda trasformazione dei modi della presenza inglese in India: non più solo rete di basi commerciali, ma ormai vera e propria forma di dominio politico territoriale, specie nel sudest e nel nordest dell’India. Il commercio euroasiatico: strumenti e organizzazione Il capitalismo della Corona portoghese, la Compagnia olandese delle Indie orientali, la Compagnia inglese e la Compagnia francese costituiscono altrettanti modelli distinti medianti i quali i paesi europei organizzarono i propri traffici e le proprie attività in Asia in età moderna. In Portogallo la monarchia cercò di mantenere saldamente il controllo di tutto il commercio orientale, anche se ciò rivelò l’incapacità della casa regnante di assicurare capitali sufficienti alla conduzione delle operazioni. Le organizzazioni private create in Olanda e in Inghilterra si rivelarono più efficienti e in grado di sostenere l’onere finanziario e organizzativo delle attività orientali. I problemi maggiori derivarono loro da tre ordini di fattori: la necessità di garantirsi l’appoggio dell’autorità pubblica per il rinnovo dei privilegi monopolistici, il tentativo da parte delle autorità politiche asiatiche, specie Cina e Giappone, di mantenere sotto controllo le attività europee e, infine, le contraddizioni che si aprirono allorché quelle che erano nate come semplici imprese commerciali si trasformarono, in India, Ceylon e Indonesia, in agenti imperiale, guidati da logiche espansionistiche, militari e di potere rivelatesi difficili da contenere. Tutto diverso fu il caso francese, caratterizzato da una Compagnia, nata non come espressione di energie private, ma per le ambizioni di grandezza della monarchia assoluta. Questo vizio d’origine limitò sempre in modo considerevole le capacità operative di un organismo in cronica carenza di capitali e ripetutamente coinvolto in improvvide iniziative speculative e crisi finanziarie: dopo i rovesci patiti nel conflitto con gli inglesi in India, la Compagnia finì messa in liquidazione nel 1769. Gli europei in Asia fra Cinquecento e Settecento La presenza europea in Asia nella prima età moderna si realizzò in forme simili a quelle che sono state definite ‘diaspore commerciali’. Essa si concentrò in agenzie e basi dalle funzioni essenzialmente mercantili, talvolta fortificate, e più raramente dette vita a veri e propri insediamenti di qualche importanza territoriale. Attorno agli insediamenti originari si svilupparono in alcuni casi centri urbani di rilievo, come Goa, Macao, Batavia e Calcutta, dove prese vita una variegata società euroasiatica, con forme di meticciato etnico, linguistico e culturale e all’interno della quale non mancarono casi di conflitto etnico-sociali di notevole gravità. Tuttavia non si realizzò mai un’autentica integrazione tra gruppi europei e popolazioni asiatiche e il numero degli europei presenti in Asia restò sempre limitato. Questa situazione cambiò verso la fine del Settecento, quando l’assunzione di responsabilità di governo da parte della East India Company portò alla moltiplicazione delle presenze civili e militari britanniche. Un fenomeno socioculturale degno di nota fu quello dei dipendenti dalle compagnie rientrati dopo lunghi periodi di soggiorno in Oriente. Queste figure portarono con sé ingenti ricchezze accumulate grazie alle attività non sempre legittime svolte in Asia, nonché costumi, abitudini e mentalità spesso violentemente in contrato con il tradizionalismo delle società di appartenenza. Asia ed Europa nella prima età moderna: un bilancio
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