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L'età giolittiana in Italia, Appunti di Storia

L'età giolittiana in Italia, un periodo di modernizzazione economica e riforme sociali che seguì la crisi politica e istituzionale di fine secolo. l'avvento di Giolitti al governo, i rapporti con i socialisti e le politiche adottate dal suo governo. In particolare, vengono descritti i provvedimenti nel campo della legislazione sociale, la municipalizzazione dei servizi pubblici e la ripresa della mobilitazione operaia. un quadro storico-politico dell'Italia di inizio Novecento.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 31/05/2022

manuela-bassano
manuela-bassano 🇮🇹

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Scarica L'età giolittiana in Italia e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! ETÀ GIOLITTIANA 0. INTRODUZIONE Superata la crisi politica e istituzionale di fine secolo, per l’Italia ha inizio la lunga “età giolittiana”. L’azione di governo di Giolitti mira ad allargare le basi sociali dello Stato liberale: ➢ Graduale modernizzazione economica del paese (che coinvolge essenzialmente il Nord); ➢ Caute riforme di carattere sociale → disinnescano la carica potenzialmente rivoluzionaria di alcune frange operaie e contadine. L’AVVENTO DI GIOLITTI 1. DALLA CRISI DI FINE SECOLO ALLA SVOLTA LIBERAL-DEMOCRATICA Negli ultimi anni dell’Ottocento, l’Italia aveva conosciuto una profonda crisi politica e istituzionale, causata dall’incapacità dei governi liberali di dare risposte diverse da quelle autoritarie all’affermarsi di ideologie e movimenti di massa. La caduta nel 1896 dell’ultimo governo Crispi portò alla presidenza del Consiglio Di Rudinì, esponente della destra più conservatrice e ostile a un’evoluzione democratica del sistema politico. Inoltre, l’allargamento del suffragio sancito dalla riforma del 1882 (potevano votare i maschi ventunenni con un biennio elementare e che pagavano 19,80 lire annue di imposte) e la nascita nel 1892 del Partito socialista italiano, primo partito di massa in senso moderno, apparivano agli occhi dei liberal-conservatori qualcosa da cui difendersi. Di fronte alle richieste di adeguate riforme politiche e sociali il ministro Sonnino propose di tornare alla lettera dello Statuto Albertino del 1848, con governi che dipendessero dalla fiducia del re, il quale si faceva garante dell’equilibrio dei poteri. Di Rudinì si trovò ad affrontare tra gennaio e maggio del 1898 un’ondata di proteste popolari causate da un forte rincaro del prezzo del pane. L’8 e il 9 maggio, a Milano, il generale Bava Beccaris ordinò all’esercito di prendere a cannonate i manifestanti in piazza e pose la città in stato d’assedio. Contemporaneamente furono colpiti i movimenti di opposizione: molti deputati e dirigenti socialisti, radicali e repubblicani ed esponenti del cattolicesimo sociale vennero arrestati e condannati. Nel febbraio del 1899 il nuovo presidente del Consiglio Luigi Pelloux presentò al Parlamento una serie di leggi che limitavano le libertà di stampa, di associazione e di sciopero. Socialisti, radicali e repubblicani (la politica “Estrema”) organizzarono una strenua opposizione parlamentare tramite l’ostruzionismo, alla quale si unirono le forze liberali progressiste guidate da Giolitti e Zanardelli. I governi non passarono e la crisi parlamentare portò nel giugno del 1899 a nuove elezioni, il cui esito fu una sensibile avanzata delle opposizioni, soprattutto dei socialisti, costringendo Pelloux alle dimissioni. Il re Umberto I affidò il nuovo governo al senatore conservatore Giuseppe Saracco come suo ultimo atto: il 29 luglio 1900, infatti, venne ucciso con tre colpi di pistola dall’anarchico Gaetano Bresci, il quale voleva con questo gesto vendicare tutte le vittime dei moti del 1898. Il regicidio, però, non determinò un ritorno a politiche autoritarie, in quanto il neo re Vittorio Emanuele III era sensibile agli orientamenti liberal-democratici ed era consapevole che il successo del fronte progressista corrispondeva a un nuovo corso per la politica italiana. Difatti, a seguito delle dimissioni di Saracco, affidò il governo a Zanardelli, leader della sinistra liberale, nel febbraio del 1901. Sotto la sua guida ebbe fine la fase autoritaria e prese avvio la svolta liberal-democratica. Vennero quindi approvati provvedimenti nel campo della legislazione sociali volti a ➢ tutelare il lavoro femminile e minorile; ➢ migliorare le norme sulle assicurazioni per la vecchiaia e gli infortuni sul lavoro; ➢ ridurre imposte sui generi alimentari; ➢ municipalizzare i servizi pubblici, in modo da estenderli e ridurne i costi. Nonostante tutti questi miglioramenti, il governo non riuscì a fare approvare il suo progetto ambizioso: una riforma tributaria. La nomina al ministero degli Interni di Giovanni Giolitti confermò la decisa discontinuità del nuovo esecutivo rispetto ai governi di fine secolo, i quali prediligevano l’uso della forza per risolvere il problema dello scarso consenso. Giolitti, invece, favoriva l’integrazione delle masse. Secondo lui, l’ascesa delle classi popolari e la progressiva affermazione dei principi di uguaglianza era un processo storico inevitabile, ma possibile da controllare. Difatti, solo con il miglioramento delle condizioni delle classi popolari si sarebbe potuta sventare la minaccia di una rivoluzione. In nome di ministro degli Interni, Giolitti riconobbe ai lavoratori il diritto di scioperare e la libertà di associarsi, mentre ai prefetti impose di far intervenire la forza pubblica solo nel caso in cui l’ordine e la sicurezza fossero stati minacciati. Tutto ciò porta a una ripresa della mobilitazione operaia che si tradusse in aumenti salariali. Inoltre, è da considerare che la nuova politica di apertura nei confronti del mondo del lavoro coincideva con una fase economica espansiva. A loro volta le organizzazioni sindacali conobbero a inizio secolo uno sviluppo impetuoso: le Camere del Lavoro passarono da 17 a 76, mentre le Leghe bracciantili si unirono alla Federazione nazionale fra i lavoratori della terra. 2. GIOLITTI AL GOVERNO E I RAPPORTI CON I SOCIALISTI Nel 1903 Zanardelli rassegnò le dimissioni, il re quindi diede l’incarico di formare il nuovo esecutivo a Giovanni Giolitti, il quale rimase alla presidenza del Consiglio fino al 1914. Questo periodo lungo prese il nome di “età giolittiana”. Il progetto di Giolitti era di introdurre la convergenza tra i liberal-democratici e le forze socialiste nel nuovo governo; di conseguenza, invitò il leader del Partito socialista Filippo Turati a entrare nella compagine ministeriale. Quest’ultimo era a capo, assieme a Claudio Treves, della parte riformista del partito, il quale era diviso in due “anime” che si alternavano per l’egemonia (l’altra aveva un’impostazione rivoluzionaria, guidata da Arturo Labriola ed Enrico Ferri). Nel settembre 1900, al VI congresso di Roma aveva prevalso la proposta riformista, con l’approvazione di un “programma minimo” che accantonava l’ipotesi di un’azione insurrezionale. All’interno del partito si era infatti diffusa l’idea della realizzazione del socialismo attraverso una riforma graduale dello Stato liberale per mezzo di una pacifica e democratica. In questo modo si mirava a una riforma profonda del sistema capitalistico- borghese. Secondo questo punto di vista, già durante il governo Zanardelli il gruppo parlamentare socialista aveva assicurato all’esecutivo il proprio appoggio esterno. Per Giolitti, l’apertura ai socialisti aveva in aggiunta l’obiettivo di isolare la corrente rivoluzionaria all’interno del PSI. I progetti andarono in fumo poiché Turati declinò l’invito a entrare nel governo per due ragioni: 1. per non provocare una rottura tra le due componenti del partito; 2. per non mettere a rischio il consenso popolare. La visione giolittiana di graduale modernizzazione politica, economica e sociale puntava in particolare sulla convergenza fra la borghesia industriale e il proletariato organizzato del Nord, il cui sviluppo avrebbe alla fine trainato il Sud agricolo e arretrato e favorito la sua evoluzione economica e sociale. Secondo questo pensiero, l’azione politica di Giolitti fu caratterizzata da un duplice aspetto, egli:  si dimostrò disposto ad assecondare le rivendicazioni degli operai e delle loro associazioni sindacali;  non esitò a reprimere qualsiasi forma di protesta, soprattutto nel Mezzogiorno. • la convinzione che la fabbrica fosse il perno della modernizzazione economica. 5. IL DIVARIO TRA NORD E SUD Uno dei più gravi problemi dell’Italia era lo squilibrio tra le regioni settentrionali e centrali e quelle meridionali. Difatti, lo sviluppo si era concentrato specialmente nel cosiddetto triangolo industriale, compreso fra le città di Torino, Genova e Milano, e in alcune zone del Veneto, della Toscana, dell’Emilia o dell’Umbria; mentre il Sud doveva affrontare sia il prezzo di un’insufficiente arretratezza industriale che le conseguenze della stazionarietà della produzione agricola, il cui tasso medio annuo di crescita risultava inferiore di tre volte rispetto a quello del Nord. Questa situazione prese il nome di questione meridionale ed ebbe grande rilievo nel dibattito politico dell’età giolittiana. In un’inchiesta pubblicata da Sonnino e Franchetti venivano messe in luce le dure condizioni di vita in Sicilia, la corruzione dell’amministrazione pubblica, la piaga della criminalità e una diffusa violenza. Inoltre, mancavano fognature e acqua potabile, i quattro quinti della popolazione erano analfabeti e la maggior parte dei giovani fisicamente inadatti alla leva militare. L’accusa principale dei meridionalisti rivolta alle classi dirigenti era di aver accresciuto il divario tra Nord e Sud: una critica che s’intensificò con Giolitti a causa del suo programma che privilegiava lo sviluppo industriale del Nord. In realtà, il Mezzogiorno non era stato del tutto abbandonato. Già dal governo Zanardelli era stata varata una serie di leggi speciali a sostegno della piccola proprietà rurale, per l’attuazione di lavori di bonifica e la costruzione di strade, ferrovie e acquedotti nelle regioni del Sud. Nel 1904 il governo Giolitti aveva approvato una legge per lo sviluppo industriale di Napoli, con la conseguente nascita dell’impianto siderurgico di Bagnoli, e altri provvedimenti legislativi volti a risollevare le condizioni economiche dell’Abruzzo, del Molise, del Sannio e dell’Irpinia. Questi provvedimenti rappresentarono la prima forma di intervento pubblico per lo sviluppo del Sud e comportarono notevoli impegni finanziari da parte dello Stato, che si rivelarono però insufficienti a superare l’originaria arretratezza del Sud rispetto al Nord. Inoltre, la sopravvivenza di antiquati metodi di coltivazione, le difficoltà di comunicazione a causa della conformazione dei territori, la scarsa vocazione imprenditoriale della borghesia locale furono tutti elementi che bloccarono la formazione sia di moderne aziende agricole sia di una salda base industriale. Per reagire alle miserevoli condizioni di vita e a una forte crescita demografica, molti decisero di emigrare all’estero, in particolare verso gli Stati Uniti e i paesi dell’America del Sud. Si trattava di una migrazione temporanea, ma una percentuale significativa di italiani si stabilì definitivamente all’estero. Nonostante ciò, l’esportazione di forza lavoro in eccedenza risultò un’“arma segreta” dell’industrializzazione italiana, in quanto i risparmi che venivano trasferiti in patria e alle famiglie di origine (rimesse degli emigranti) contribuirono a mantenere attiva la bilancia dei conti con l’estero. NAZIONALISMO E RIFORMISMO SOCIALE L’emigrazione era divenuto uno degli argomenti più polemici del nascente movimento nazionalista, i cui esponenti compativano il fatto che il governo assisteva a un deflusso di forza lavoro verso paesi stranieri, dove veniva sfruttata. Nel 1910 nacque l’Associazione nazionalista italiana con la regia dello scrittore Enrico Corradini e di Federzoni, Coppola e Rocco. Presto questo gruppo assunse precise connotazioni politiche. Per i nazionalisti, il governo italiano doveva prima di tutto tornare a farsi valere nello scenario internazionale: Corradini definiva l’Italia una nazione proletaria soggetta alle nazioni plutocratiche. Occorreva perciò riprendere la politica di espansione coloniale che era stata intrapresa dall’ultimo governo Crispi, in modo da fondere il mito imperialista con il populismo. Di fatto, il programma dei nazionalisti puntava all’instaurazione di un ordinamento autoritario e apertamente democratico. Il programma del quarto governo di Giolitti prevedeva in testa alla serie di riforme più avanzate l’introduzione del suffragio universale maschile, che estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero 30 anni senza limitazione di censo o di grado d’istruzione. A favore di questa norma vi era gran parte dei liberali e alcuni conservatori, poiché pensavano che portasse nuovi voti; più titubanti erano le sinistre, per la paura che gli elettori più poveri e sprovveduti potessero essere manipolati in chiave antisocialista. Alla viglia del confronto con la destra più conservatrice, contraria alla riforma elettorale, Giolitti si preoccupò di riassorbire l’opposizione nazionalistica promuovendo un’espansione coloniale. Questo tipo di progetto non era mai stato nei piani dello statista, ma egli non poteva ignorare i sempre più ampi consensi che raccoglieva la prospettiva di un maggior attivismo dell’Italia sulle sponde africane. Per Giolitti si trattava comunque di una fatalità storica alla quale l’Italia non poteva sottrarsi, L’Italia aveva possesso ancora sull’Eritrea e su buona parte della Somalia. L’unico lembo nordafricano disponibile era la Libia, in mano a un impero ottomano sempre più in crisi. Un accordo stipulato nel 1902 con la Francia delimitava le zone d’influenza in Nord Africa e riconosceva all’Italia libertà d’azione proprio in Libia. Nel marzo 1911 la questione libica finì per imporsi in seguito all’occupazione del Marocco da parte della Francia. Con una mossa difensiva e l’assenso di Parigi e Londra, il 29 settembre 1911 il governo italiano dichiarò guerra all’impero ottomano; pochi giorni dopo un corpo di spedizione sbarcò a Tripoli. Il conflitto si concluse con la pace di Losanna l’anno successivo: l’Italia acquisì la sovranità sulla Tripolitania e la Cirenaica, pagando però parte del debito pubblico turco e lasciando all’impero ottomano la giurisdizione religiosa della Libia, e sull’arcipelago del Dodecaneso. Sulla scelta del governo di intraprendere una guerra d’aggressione si era scatenato un serrato dibattito, durante il quale non mancarono le posizioni critiche, ma l’entusiasmo per la vittoria prevalse. Tuttavia, la Libia si rivelò ben presto uno scatolone di sabbia, invece di una regione ricca di terre fertili. Mentre la guerra volgeva al termine, il governo Giolitti iniziò a variare le sue riforme sociali. Riguardo all’istruzione, la legge Daneo-Credaro fece trasferire le spese relative all’istruzione elementare al bilancio statale: vennero aumentati gli stipendi dei maestri, migliorata l’edilizia scolastica e costruite nuove scuole. Venne inoltre istituito il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, grazie al quale furono finanziate le pensioni di invalidità e vecchiaia per i lavoratori. A questo scopo nacque nel 1912 l’Istituto nazionale delle assicurazioni. In più, sempre in quell’anno fu istituito l’Ispettorato del lavoro, con il compito di controllare e reprimere le violazioni sulle norme a favore dei lavoratori. A questo provvedimento fece seguito la creazione dell’Istituto nazionale di credito per la cooperazione. EPILOGO DELL’ETÀ GIOLITTIANA Con la nuova legge elettorale gli iscritti alle liste si triplicarono. Il risultato più significativo delle elezioni tenutesi tra ottobre e novembre del 1913 fu la vittoria dello schieramento liberale, il quale, grazie anche alla convergenza dei cattolici, riuscì a raccogliere la maggior parte dei voti degli elettori privi di determinati riferimenti partitici. Infatti, il conte Gentiloni aveva offerto l’appoggio a quei candidati che avessero sottoscritto un patto in sette punti, con il quale si impegnavano anche a opporsi a qualsiasi tentativo di introduzione del divorzio, a difendere le scuole cattoliche e l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Il non expedit venne sospeso in 330 collegi. Si stava affermando una tendenza clerico-moderata orientata politicamente verso un accordo con i liberali. A fare le spese era stata soprattutto la corrente democratico-cristiana raccolta intorno a don Romolo Murri, secondo cui il movimento cattolico doveva battersi per una partecipazione diretta delle classi più umili e più numerose del governo. Però la Santa Sede era contraria a queste posizioni; nonostante ciò, si andava sviluppando un’intensa attività organizzativa, specialmente in campo sindacale: le cosiddette leghe bianche, associazioni contadine e operaie di ispirazione cattolica. Alle elezioni di quell’anno si registrò anche un’avanzata dei partiti di sinistra. Il loro successo fu significativo in quanto premiò la drastica svolta avvenuta al contempo all’interno del partito: nel congresso del PSI la corrente massimalista e rivoluzionaria aveva conquistato la maggioranza. I riformisti di destra più compromessi vennero espulsi sotto una mozione presentata da Benito Mussolini. Alla crisi del socialismo riformista corrispose quella del liberalismo democratico giolittiano: Giolitti contava ancora su un’ampia maggioranza parlamentare, ma gli equilibri su cui aveva fatto affidamento non esistevano più. I radicali non vedevano di buon occhio la preminenza tra i liberali dei deputati “gentilonianizzati”. Avendo già ceduto due punti che avrebbero dovuto qualificarli, se avessero rinunciato anche alla tradizione anticlericale avrebbero perso ogni ragion d’essere. Il loro passaggio all’opposizione provocò di conseguenza la caduta del governo, nel marzo del 1914. Nonostante sembrasse un periodo di ponte tra un governo di Giolitti e l’altro, L’età giolittiana era giunta inevitabilmente al termine. Il nuovo primo ministro Antonio Salandra era un uomo dalla forte personalità politica. Sostenitore di un governo forte, venne messo subito alla prova dalle violente manifestazioni di massa che si espansero per tutta la penisola nel giugno del 1914. L’8 giugno di quell’anno la Confederazione generale del lavoro proclamò uno sciopero generale di protesta, al quale aderirono massicciamente i lavoratori. L’evento più importante fu l’esplosione di violenza che contagiò i dimostranti. L’ondata insurrezionale proseguì fino al 14 giugno e in alcune città si trasformò in “repubbliche rosse”. Nel frattempo gruppi antisocialisti erano scesi per la prima volta in piazza, dando luogo a controdimostrazioni guidate per lo più da esponenti nazionalisti che giunsero spesso a scontrarsi fisicamente con gli scioperanti.
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