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L'Europa del Novecento, Una storia, Sintesi del corso di Storia

Sintesi del libro "L' Europa del Novecento. Una storia" di Francesco Bartolini, Bruno Bonomo, Alessio Gagliardi, Editore Carocci, 2020. Sintesi per l'esame di storia contemporanea del Prof Bonomo, Sapienza.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica L'Europa del Novecento, Una storia e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! INIZIO NOVECENTO Inizio secolo – L’Europa entrava nel Novecento con vari progressi del secolo precedente, un periodo di forte sviluppo: aumento della produzione di beni e della creazione di ricchezza, percorso dell'Europa per diversificarsi dall'Asia e altre aree del mondo, grazie alle relazioni con i territori americani. Aumenta il peso del settore industriale e terziario a discapito di quella agricola. La produzione manifatturiera stava attraversando un intenso sviluppo, una seconda rivoluzione industriale, come nuovi settori di chimica, acciaio e elettricità. La crescita economica si accompagna ad una demografica: l'Europa nel 900 contava 430 mil di abitanti, più ¼ dell'intera popolazione mondiale. Mondo interconnesso e visione della guerra – Lo sviluppo economico e demografico si realizza in un mondo sempre più interconnesso. Si crearono reti di scambio di comunicazioni tra vari stati e continenti, dove merci da luoghi lontani da quelli in cui erano stati prodotte poterono raggiungere altri; decine di mil di persone emigrarono. Il processo di formazione di connessioni su scala globale, trovava l'Europa nel mezzo della rete, che ricopriva una centralità geografica, fungendo da anello di collegamento tra l'area Atlantica e del Pacifico. Aveva una forza politica e militare che si estendeva oltre i confini e, concluso l'espansionismo imperiale dell'800, controllava quasi totalmente Africa e Asia. In un mondo così interconnesso, la guerra iniziava ad apparire una tragedia sconveniente per tutti i paesi. Norman Angellnel, 1910, nel libro “La grande illusione”, sosteneva che la guerra era malvagia, distruttiva e inutile. Nel 900, il continente europeo veniva da un trentennio in cui nessun conflitto rilevante aveva avuto luogo e si moltiplicarono gli sforzi per mantenere la pace e l'equilibrio. Nel 1899 viene costituita la Corte permanente di arbitrato, per redimere in via pacifica controversie tra gli Stati; nel 1901 vengono assegnati per la prima volta i Nobel, di cui uno alla pace. Belle epoque – Nell'aprile 1900, all'esposizione universale di Parigi, 40 paesi presentarono a 50 mil di visitatori le meraviglie della tecnologia e dell'industria: treni, raggi-x, automobili. Molti politici e intellettuali trassero da questi elementi la convinzione che lo sviluppo era ormai inarrestabile, in qualsiasi campo, alimentando entusiasmo e fiducia nel futuro. Questo periodo viene chiamato belle époque. Tra gli intellettuali non mancava chi non era positivo, come marxisti, liberali e conservatori; nel campo di cultura e delle arti vigeva l'inquietudine per il positivismo ormai perso. Problemi – Anche l'egemonia Europea cominciò a mostrare delle incrinature, con i primi rovesci militari in Asia e Africa. Nel 1896 l'esercito italiano venne sconfitto in Etiopia e nel 1905 la Russia venne sconfitta dal Giappone. Questi fallimenti militari non erano occasionali, ma parte di un processo più profondo che avrebbe pian piano mutato il rapporto con i paesi extraeuropei, alcuni di quali, come il Giappone, avevano avviato un percorso di sviluppo economico e moderne economie industriali. Continuativa uno sviluppo generale, fino ai paesi rimasti fino a quel momento ai margini. La Germania divenne la principale economia del continente e, dopo gli Stati Uniti, del mondo: vantava settori tecnologicamente avanzati come chimica, elettricità, acciaio, e un apparato statale e bancario all'avanguardia. Tutta l’Europa centrale-settentrionale ottenne risultati, come Belgio, Olanda, Danimarca e Svezia, specializzati in varie produzioni e integrate nel mercato internazionale. Anche realtà periferiche come l'impero austro-ungarico, Italia e Russia si svilupparono, entro i propri confini: crescita lenta ed esposta alle fluttuazioni, ruolo importante dello stato, sistema bancario modellato su quello tedesco. Per un periodo ci fu un lento e costante aumento di prezzi e salari. Al miglioramento dei redditi, però non segui una distribuzione omogenea: salariati delle campagne e lavoratori di bassa qualificazione industriale non ne beneficiavano, al contrario di élite imprenditoriali, professionisti e tecnici. Generalmente, all’aumento dei redditi seguì quella della domanda e una trasformazione di produzione e distribuzione. Si venne sostituendo ad artigianato e industria domestica, una produzione in serie, con sistemi di meccanizzazione e razionalizzazione per grandi quantità di prodotti standardizzati. Per la prima volta dalla rivoluzione industriale, il motore principale dell'innovazione si trova al di fuori del continente europeo, negli Stati Uniti. Qui si crearono un modalità di organizzazione della produzione come il taylorismo, inventato da Frederick Taylor, basato su divisione delle mansioni e controllo dei tempi, e il fordismo, inventato da Henry Ford, basato sull'impiego della catena di montaggio. La dinamica economica facilitò la creazione della società d massa, in cui le persone erano più facilmente collegati ma spesso anonimi e impersonali. Le relazioni tra individui si basavano su dei processi standardizzati capace di includere grandi quantità di persone ovvero le masse. Importante in questo processo furono i nuovi consumi culturali come libri a basso prezzo, stampa popolare e spettacoli pubblici, legati alla crescente alfabetizzazione delle classi meno agiate. L’analfabetismo si andava riducendo, grazie alla diffusione di mezzi di comunicazione e all'accesso a informazioni facilitato. Questo clima di sviluppo e modernizzazione portò a cambiare anche la mentalità ancora legata all'ancien regime, ad allontanarsi dai vincoli di appartenenza familiare e comunità locale. Divario sociale e socialismo – Nell’Europa di inizio 900 era avviato un percorso di allontanamento da residui arcaici, immersa in forti squilibri territoriali, dove il divario tra le aree di maggiore industrializzazione e quelle meno avanzate andò crescendo. Il divario crebbe per molti strati delle popolazione. Gli operai continuavano a lavorare 12 ore al giorno in edifici sporchi e malsani, vivevano in case sovraffollate e privi di elementari servizi di igiene. Il formarsi di ampie sofferenze sociali si ritrovò nelle agitazioni di sindacati, in formazione di partiti e movimenti di orientamento socialista. Il movimento socialista acquisì nella prima fase del 900 più forza e consensi. Erano i partiti socialisti a contrastare la frammentazione offrendo una coesione ideologica e organizzativa. Il partito socialdemocratico tedesco raggiunse, nel 1912, il 34%, quello socialista italiano, nel 1904, il 21%. GERMANIA SOCIALISTA – La social democrazia tedesca risultò la capofila di questi sviluppi socialisti. La SPD fu la prima ad assumere una dimensione di massa e un nuovo modello organizzativo. Aveva un gruppo dirigente che partecipava alle elezioni. Sul piano ideologico, rivendicavano le teorie di Karl Marx e Friedrich Engels, con assunzione di orientamento meno gradualista e riformista. Seppure all'interno della SPD vi erano differenze ideologiche, tutti convergevano sulla partecipazione alle elezioni democratiche, presenza al parlamento nazionale e leggi favorevoli ai lavoratori. Questi erano i primi tre obiettivi. Una strada simile la troviamo nel partito socialista italiano guidato da Filippo Turati mentre, uno più distante nei socialisti russi. RUSSIA SOCIALISTA – In Russia, impero zarista, era attivo il partito socialista rivoluzionario e i marxisti nel partito operaio socialdemocratico. Questi ultimi svilupparono un intenso dibattito, guidati da Lenin. Egli contestava il modello tedesco affermando la necessità di una rivoluzione, guidando un partito votato alla lotta. Questa linea risultò maggioritaria, chiamata bolscevica, al contrario di quella riformista ispirata ai tedeschi, minoritaria, la menscevica. Nel 1912 bolscevichi e menscevichi si separarono e diedero vita a due distinti partiti. La situazione era rischiosa e andò a sfascio nel 1905, dopo le sorti negative della guerra col Giappone. In gennaio ci fu una dura depressione scatenata a San Pietroburgo contro lo sciopero di operai diretti verso il palazzo d'inverno. Gli operai volevano consegnare allo zar Nicola II una petizione in cui chiedevano fine della guerra, libertà politiche e riforme sociali. Vennero attaccati dall'esercito e iniziò un moto insurrezionale, con scioperi in fabbriche, contadini in protesta, ammutinamento delle truppe. Di fronte a questa crisi, in diverse città sorsero i Soviet, “consigli”: organismi di rappresentanza di operai, costituiti da membri revocabili secondo la democrazia diretta. Per riprendere il controllo, lo zar mise in atto una controffensiva a 2 facce: creò milizie paramilitari attive contro i rivoluzionari e i pogrom, parola che indica devastazione e distruzione, contro gli ebrei, come forma di diversivo verso cui indirizzare il malcontento popolare; poi concesse libertà di parola di stampa e di associazione e istituì un parlamento elettivo, la Duma. I gruppi liberaldemocratici e i menscevichi accolsero questi punti, mentre i bolscevichi e i socialisti rivoluzionari rifiutarono tutti i compromessi. La fine della rivoluzione era comunque conquistata. IL MOVIMENTO OPERAIO – In gran parte dell'Europa la forza acquisita dal movimento operaio era connessa alla sua legittimazione istituzionale. Molti partiti si mostrarono capace di avanzare rivendicazioni e avere propri governi. Il movimento operaio perse quel carattere internazionalista delle origini e assunse una dimensione nazionale. In funzione a ciò, vi era la Seconda Internazionale, un organismo costituito nel 1889 come federazione tra partiti socialisti di orientamento marxista, luogo di discussione e confronto, che non riuscì mai ad esercitare una vera influenza. L'ascesa del movimento operaio e socialista scatenò timore nelle elite borghesi e influirono sulle scelte dei governi. Essi concessero nuovi diritti, garanzie e tutele. Su esempio del modello instaurato in Germania da Bismarck negli anni 80 dell'800, vennero introdotti per gli operai delle industrie, dei sistemi assicurativi contro vecchiaia, malattia, infortuni sul lavoro, disoccupazione. Molti governi assunsero un atteggiamento di neutralità nei confronti dei conflitti sociali e concessero diritto allo sciopero e maggior libertà per sindacati e partiti socialisti. L'elemento più rilevante un estensione del diritto di voto: prima del 1890 il suffragio universale maschile era presente solo in Francia, Germania e di posizione erano caratterizzate da nuovi armamenti come fucili, cannoni, mitragliatrici, che colpivano con grande distanza ed efficacia. Diventava quindi impossibile avvicinarsi alla linea nemica. Emblematico è anche il caso dell'uso di gas velenosi, impiegati per la prima volta dalle armate tedesche nell'aprile 1915 presso Ypres. Decimati dagli attacchi dei primi mesi di guerra, i soldati iniziano nell'autunno a scavare fossati per proteggersi. I fossati vengono messi in comunicazione tra di loro e si sviluppano quindi le trincee. Ciascuna linea era protetta da filo spinato e mitragliatrici, separata da quella nemica da un terreno chiamato terra di nessuno. Dietro la prima linea di trincea ne fu costruita una seconda, meno esposta, dove trovavano riparo le truppe di riserva e i depositi. In questo profondo labirinto di 8-9 metri, si svolgeva gran parte della vita dei soldati sul fronte occidentale. La guerra di trincea caratterizzò i primi conflitti e fu peculiare del fronte occidentale, solo parzialmente di quello orientale. Sul fronte orientale si accesero le ostilità tra Russia e i grandi imperi dell'Europa Centrale, Germania e austria- ungheria. Dopo alterne vicende, si impose la superiorità dei tedeschi. I russi iniziarono la ritirata che coinvolse non solo soldati ma 3 mil di civili. La guerra di movimento durò a lungo su questo fronte. Nell'autunno 1941 però il fronte si era stabilizzato e rimase così fino alla fine della guerra. Si aprirono altri due fronti, nei Balcani dove Austria-Ungheria attaccò la Serbia. Nel 1915 gli eserciti di Austria, Germania e Ungheria annientarono l'esercito serbo. L'altro fronte sì apri nell'impero Ottomano, a fianco degli imperi centrali, sulla base dell'accordo segreto stipulato con la Germania. La guerra voltò il peggio per i turchi. Il fronte del mare si aprì in un'area vastissima nel mare del Nord e nel Pacifico. Al dominio inglese la Germania rispose con una guerra sottomarina. ENTRA ITALIA – Nel maggio 1915 entra in guerra l'Italia al fianco dell'intesa. Duri combattimenti si svolsero sul lato orientale con austria-ungheria. La guerra fin dall'inizio si sviluppa su molti fronti e scenari. Le potenze riescono a gestire un conflitto così complesso grazie soprattutto agli alleati. Sì mantengono neutrali Spagna, Svizzera, paesi bassi e paesi scandinavi. Nel 1916 si diffuse l'opinione che le sorti del conflitto si sarebbero decise sul fronte occidentale. In quell'anno ci fu un tentativo dei tedeschi di sconfiggere definitivamente i francesi. La battaglia di Verdun durò da febbraio a dicembre e venne vinta dai francesi. Un nuovo fronte si apre sulla Somme, dove gli eserciti di Regno Unito e Francia impiegarono per la prima volta su larga scala i tanks, i carri armati. La guerra quindi non era determinata dalle azioni dei militari ma dallo scontro di tecnologie e macchine belliche. Nel maggio 1916 gli austriaci scatenarono un’offensiva detta strafexpedition, spedizione punitiva contro gli italiani, i traditori della triplice alleanza. Il conflitto continuò anche l'anno successivo con eserciti e popolazioni sempre più stremate. Ad ottobre l'attacco austro-tedesco alle linee italiane risulta un successo, sfondando a Caporetto. Sì apri una crisi militare e politica che portò alla caduta del governo e alla sostituzione del generale Cardona con il generale Diaz per la guida dell'esercito. La disfatta di Caporetto rimarrà a lungo radicata nella memoria degli italiani. In Russia le condizioni divennero sempre più insostenibili e ci furono due rivoluzioni: una repubblicana e liberaldemocratica e l'altra socialista, guidata dai bolscevichi Lenin e Trockij. La prima non riuscì a risvegliare il patriottismo, la seconda comportò la rapida uscita della Russia dal conflitto. FINE GUERRA – La vera svolta fu l'ingresso in guerra degli Stati Uniti contro la Germania, annunciai dal presidente statunitense Wilson il 6 aprile 1916. Gli americani giunsero in Europa all'inizio del 1918. Le sorti della guerra ormai si identificavano con l'evoluzione del fronte occidentale. I tedeschi condussero una serie di offensive in Belgio e in Francia, al prezzo di perdite elevate e senza riuscire a sfondare le linee nemiche. In Europa erano ormai impegnati un mil di soldati americani. In luglio l'iniziativa passò nelle mani degli alleati e il mese successivo, la battaglia di Amiens, segnò la svolta decisiva. L'offensiva alleata costrinse i tedeschi a ritirarsi. Tra settembre e ottobre si apre una grande crisi in Germania, con la caduta del governo e le dimissioni del principale responsabile delle operazioni militari Ludendorff. L'ultimo tentativo austriaco di riprendere l'avanzata verso la pianura Padana fallì in giugno e le truppe italiane riconquistarono le terre occupate del Veneto e del Friuli. Gli austroungarici furono costretti alla resa e il 4 novembre firmarono l'armistizio; l'11 novembre anche la Germania chiese l'armistizio. La guerra era finita grazie alle azioni decise all'ovest. GUERRA BRUTALE – Diverse tecnologie belliche fecero apparizione in questa guerra: mitragliatrici, mezzi corazzati, sommergibili, gas. Il numero di soldati e ufficiali mobilitati in questa guerra fu enorme, circa 70 mil, di cui 10 morirono e 30 si ferirono gravemente. Innumerevoli furono i decessi provocati della diffusione di un virus, la febbre spagnola. Gli studiosi non sono mai stati in grado di stabilire il luogo d'origine con certezza: un focolaio in Francia o uno negli Stati Uniti. Il nome prende spunto dal fatto che la Spagna, neutrale in guerra, diffuse per prima la notizia di contagi e fu poi ripresa da tutta la stampa Europea. Il virus si propagò rapidamente dando origine ad una pandemia. Nel 1918 ci fu la prima ondata a cui seguirono una seconda tra estate e autunno e una terza nel gennaio 1919, che durò fino al 1920. Le stime dei morti vanno dai 25 e ai 100 mil. Il virus risultò molto letale tra coloro che vivevano in condizioni igieniche meno favorevoli e avevano una disponibilità nulla di risorse, situazioni in cui molti europei si trovava a causa della guerra. La pandemia trovò comunque meno spazio della guerra, in quanto le vittime della guerra furono considerate eroi e martiri della patria, mentre le vittime del virus erano dedicate solo a lutto privato. La grande guerra provocò un numero di vittime neanche lontanamente paragonabile a quello registrato nelle guerre precedenti. A pagarne il prezzo peggiore furono Russia e Germania, con circa 2 mil di vittime a Paese. L'enorme massa di uomini e materiali era impegnata in una guerra ideologica, di cui l'obiettivo era indicato non in conquiste territoriali, ma in un'affermazione di valori, cultura e civiltà, che la propria nazione incarnava e invece i nemici minacciavano. Anche per questo la guerra si caratterizzò per una ferocia e una drammaticità senza precedenti. Per i soldati impegnati nelle trincee la guerra diventò un'esperienza infernale. Erano ammassati nel fango e nella polvere, in condizioni disumane, nel caldo soffocante e nel gelo, con la vista di cadaveri e l'odore dei corpi in decomposizione, col frastuono di granate e colpi di artiglieria. Alla durezza delle loro condizioni si accompagnava l'impossibilità di dare un senso all'esperienza che stavano vivendo. Per i combattenti lo scontro militare è un evento incomprensibile, poiché sono ignari delle strategie e delle sorti generali del conflitto; la loro esperienza è fatta di confusione, paura della morte e fatica. I soldati passavano molto tempo in attesa nelle trincee e nelle gallerie, davanti ad un nemico invisibile. La guerra fu anche uno shock culturale, in quanto la fede nel progresso crollò, la tecnologia diventò una barbaria. La guerra non era in mano agli uomini ma era industrializzata e di massa. Non mancavano tentativi di ribellione tra i soldati: ammutinamenti, diserzioni e fughe collettive. Il modo in cui i governi e le gerarchie militari mantenevano disciplina e rispetto per l'autorità, era dovuto al timore delle punizioni, arresti, processi e condanne a morte, se non la paura della cattura da parte del nemico. Decisivo fu anche il sentimento di appartenenza alla patria in guerra, in quanto i soldati venivano educati fin da piccoli con una pedagogia nazional-patriottica. Questa si basava su una sacralizzazione della guerra, come fosse una missione santa e il martirio eroico, ovvero l'esaltazione del soldato disposto a sacrificarsi per la grandezza nazionale. Si trattava di un patriottismo difensivo, di una difesa estintiva della patria in pericolo, sostenuto dalla convinzione che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa. L'odio verso il nemico attingeva da stereotipi negativi e radicati pregiudizi, amplificati dalla stampa che attribuivano ai nemici azioni disumane non sempre vere. Importante strumento fu quello della propaganda, in cui tutti gli stati investirono risorse. In tutti i media si fece ricorso alla censura e al controllo per evitare il diffondersi di notizie non utili alla propria nazione. Spesso nei giornali si faceva uso di eufemismo per raccontare degli eventi drammatici con toni positivi: una carneficina diventava un valoroso combattimento e una perdita in guerra diventava un'eroica resistenza. Le popolazioni espressero per la maggior parte un consenso verso la guerra e il fronte interno, così chiamato, era egualmente manipolato come lo erano i soldati. Ovunque la vita sociale andò avanti ma non mancarono problemi alimentari, inflazioni e riduzione dei consumi. I civili sperimentarono in prima persona violenza e brutalità: occupazioni di eserciti stranieri, bombardamenti di città, deportazione, stupri, e esecuzioni pubbliche. Tutte le forze armate misero in atto forme di violenza nelle popolazioni nemiche. Il ricorso a una modalità di controllo coloniale qui si rifece presente. Di grande clamore fu il comportamento dei soldati tedeschi durante le prime settimane di avanzata in Belgio e in Francia, dove uccisero 5 mila civili, e di quello austro-ungarico verso i serbi, e degli imperi centrali verso gli italiani dopo Caporetto. Diffuso fu l’internamento di civili e militari e l'impiego del lavoro forzato. Gli stati impiegarono provvedimenti anche all'interno dei propri confini, nei confronti dei civili di nazionalità nemica. Il culmine delle violenze fu lo sterminio degli armeni nei territori dell'impero Ottomano. Tra maggio 1915 e settembre 1916, la popolazione armena, oggetto di campagne di odio e discriminazioni ormai da alcuni decenni, venne presa di mira dal governo Ottomano. La guerra fece da occasione per mettere in atto la soluzione definitiva della questione armena. Gli armeni vennero additati come nemico interno e arrestati nel 1915. La legge temporanea di deportazione portò al trasferimento dell'intera popolazione verso la Siria. Uomini, donne, bambini e anziani furono costretti a una lunga marcia, sottoposti a condizioni disumane e a violenze. Le vittime stimate sono tre 800 mila e 1 mil e mezzo. Da un lato si sostiene che le morti non furono pianificate ma una conseguenza delle circostanze del trasferimento, dall'altro si ritiene che sia stato un genocidio voluto dal governo. Rimane comunque il primo massacro dei civili su larga scala organizzato dall’autorità centrale di uno stato. GUERRA TOTALE – Le violenze sui civili segnarono il superamento della separazione tra guerra e popolazione. Tutti dovettero modificare abitudini e quotidianità nel lavoro, nei consumi e nelle sfere private. Per guerra totale si intende una realtà nella quale nessuno poteva chiamarsi fuori dal conflitto. Gli stati miravano ad una completa distruzione dell'avversario, violando i diritti internazionali e i limiti morali. Tutte le risorse vennero finalizzate a scopi bellici. Vennero coinvolti tutti gli ambiti della vita politica, sociale ed economica: enorme quantità di armi, spese per spostare mil di soldati, costruzioni per le trincee; tutto implicava l'intervento di industria, agricoltura e governo. In prima linea furono i sistemi produttivi, essendo uno scontro di macchine e tecnologie, non tra uomini. L'industria produsse armi e munizioni, mezzi di trasporto, combustibile, radio e telefono, vestiti e scarpe, zaini e tende. A questo si aggiungeva la preparazione del cibo e l’inscatolamento. Una parte dell'agricoltura e dei suoi raccolti venne dedicata alle esigenze delle truppe; vennero requisiti cavalli e mezzi meccanici per usarli nei trasporti bellici. Tra i contadini si conta il numero più alto di richiamati e caduti. Per soddisfare le esigenze belliche si richiedeva un impegno ai lavoratori maggiore. Per questo gli scioperi vennero sospesi e vietati, gli aumenti e le ferie bloccati, l'orario allungato. C'era bisogno di una nuova forza lavoro e si fece ricorso alla manodopera femminile. In massa, i numerosi settori tradizionalmente maschili, vennero inondati da donne: operaie, segretarie, contabili, impiegate di banca, infermiere. Alcuni impieghi subirono un processo di femminilizzazione, che mantennero o meno alla fine della guerra. Nessuno dei paesi era comunque preparato ha un impegno del genere. Per sostenere le spese gli stati avevano tre soluzioni: aumentare le tasse, incrementare la quantità di moneta in circolazione e ricorrere al debito pubblico. Vennero utilizzate tutte quante. Per i paesi dell'intesa fu decisivo ricorrere ai prestiti internazionali concessi dagli Stati Uniti. Per svolgere nuovi compiti, gli stati crearono nuovi uffici. Si formò un intreccio tra politica ed economia, tra imprese private e organismi pubblici, tra potere civile e militare. GUERRA GLOBALE – Anche se innescata da una contesa nazionale, non fu solo una guerra europea. Si definisce guerra mondiale per la sua importanza e dimensioni, per la quale viene chiamata anche “grande guerra”. Diversi stati vi presero parte sulla base di interessi e obiettivi personali. A spingere gli stati extraeuropei ad entrare in guerra furono i legami con il Regno Unito, particolarmente vincolanti nel caso dei Dominions. Altri obiettivi erano limitare la presenza tedesca nell'area, acquisire nuovi territori e legittimare la propria flotta. Nel 1917, altri Stati entrarono seguendo gli Stati Uniti: Cina, Brasile, Cuba, Panama, Costarica, Nicaragua, Honduras, Guatemala, Thailandia (a quel tempo Siam), Liberia. Il conflitto era ormai nelle fasi conclusive e queste partecipazioni risultano significative più sul piano politico e diplomatico che su quello militare. Le maggiori potenze avevano ancora disponibili gli imperi coloniali ed essi furono coinvolti nella guerra, in quanto parte costitutiva dei sistemi economici: riserve di soldati e forza-lavoro. Tutti i dominions bianchi inviarono uomini a combattere sui fronti principali. Le colonie africane vennero coinvolte come luoghi di combattimento. Nei possedimenti britannici e francesi partirono attacchi verso quelli tedeschi. Cruento fu il conflitto nella maggior Colonia della Germania, l'Africa orientale tedesca. I tedeschi opposero resistenza all'esercito britannico, ormai unito alle truppe belghe e del Portogallo. Si arresero solo alla fine della guerra. Regno Unito e Francia puntarono ad acquisire il controllo del Medio Oriente e del mondo arabo. Le loro ambizioni si tradussero in un progetto per la spartizione dell'area, firmato un accordo segreto nel maggio 1916. La guerra ebbe conseguenze anche sull'integrazione economica. Si inizia un periodo di allentamento della globalizzazione e si ebbe la disintegrazione del Gold standard, il sistema che regolava gli equilibri tra le valute e garantiva stabilità monetaria. Il Regno Unito e la Germania garantirono prestiti a molti dei loro alleati. Ma di fronte al prolungarsi del conflitto e ai costi sempre maggiori, i governi dell'intesa ebbero accesso ai mercati finanziari internazionali, soprattutto di New York. Questa possibilità era preclusa alla Germania. La finanza statunitense si rivelò un'importante risorsa e New York assunse un ruolo centrale nella finanza mondiale sostituendo Londra. Ci furono Losanna nel 1923, che modificava gli assetti stabiliti alla conferenza di Parigi: alla Turchia furono assegnate Anatolia e Tracia; venne stabilito uno scambio di popolazione, per il quale 1mil e mezzo di greci lasciarono l'Anatolia e 300mila turchi passarono alla nuova patria. In Irlanda, da decenni attraversata da agitazioni nazionalistiche per l'indipendenza, crebbe l'intensità della lotta indipendentista durante il periodo della prima guerra. A Dublino scoppiò una rivolta nel 1916, quando i militanti indipendentisti proclamarono la Repubblica d'Irlanda. Seguirono scontri con l'esercito britannico che riuscì a riprendere il controllo. Il bilancio delle vittime fu drammatico. Alla fine del 1918, il movimento indipendentista proclamò l'indipendenza dell'Irlanda dal Regno Unito, creando uno stato autonomo ma inserito in qualità di dominion dell'impero britannico. Crescita della democrazia e del movimento operaio – Prima del 1914 quasi tutti gli stati europei erano monarchie. A guerra finita invece, tutti, tranne la Russia, erano regimi parlamentari. Tutta l'Europa visse un ampliamento della partecipazione democratica. Grazie all’ascesa dei partiti socialisti e dei sindacati, gli operai e i contadini si mobilitarono per migliorare le loro condizioni. Diedero vita a conflitti con le autorità e riuscirono a ottenere aumenti e riduzioni dell'orario. La grande ondata di lotte operaie del 1919-20 viene considerata il Biennio Rosso. Queste lotte non si esaurirono però nelle rivendicazioni sindacali. Giravano aspirazioni più radicali. Lo stesso successo dei bolscevichi, indicava una possibile trasformazione socialista della società e dello stato, che non era più un'utopia. GUERRA CIVILE RUSSA – Tra il 1917-20 ebbe luogo la Guerra Civile Russa, una lotta tra Armata rossa ovvero governo bolscevico, e i Bianchi, ovvero esercito zarista e nazionalista. La guerra si caratterizzò dalle spinte indipendentiste e dalle insurrezioni contadine. Dopo oltre 2 anni di combattimento, i bolscevichi ebbero la meglio sui rivoluzionari grazie all'efficienza militare dell'armata Rossa. I bianchi erano deboli e male organizzati. Mentre la guerra civile volgeva alla fine, arrivò un attacco inatteso della Polonia, intenzionata ad approfittare della debolezza in cui si trovava il paese per acquisirne i territori occidentali. Si conclusero le ostilità alla fine del 1920. La Russia riuscì a sopravvivere agli attacchi, ad un prezzo elevato di vite umane. Il regime rivoluzionario dovete rinunciare alle proprie utopie. In campo economico venne attuato il comunismo di guerra: amassi e requisizioni forzate dei prodotti agricoli, nazionalizzazione di industrie, banche e commercio. Ripercussione in altri paesi – La rivoluzione d’ottobre e la guerra civile russa interagiranno con movimenti rivoluzionari e controrivoluzionari anche di altri paesi. Nel 1918 la Finlandia conobbe una guerra civile tra Rossi, che volevano dar vita ad una repubblica socialista, e Bianchi, forze conservatrici. In poco più di 3 mesi, morì l'1% degli abitanti, sancendo la vittoria dei Bianchi. DOPOGUERRA ITALIANO – In Italia, nel biennio successivo alla fine della guerra, si assistette all'avanzata dei socialisti e ad un'ondata di scioperi e proteste. Gli operai e i braccianti della pianura padana si unirono. Le lotte culminarono nel settembre 1920, con l'occupazione di grandi fabbriche. A trarne vantaggio furono i Fasci di combattimento, un movimento nazionalista fondato l'anno precedente da Benito Mussolini, ex leader socialista. I fasci diedero voce all spinte antisocialiste e si fecero interpreti dell'orgoglio dei combattimenti e della delusione dei nazionalisti. L'aspirazione era un rafforzamento della potenza nazionale. I fasci costituirono un modello di partito-milizia che integrava politica e squadre paramilitari. Fecero ricorso al molta violenza armata contro gli avversari. I bolscevichi intanto, partendo da Lenin, non rinunciarono all’esportazione della rivoluzione nel resto d'Europa. Per questo, nel marzo 1919, venne costituita a Mosca un’Internazionale Comunista, il Comintern, per coordinare gli sforzi rivoluzionari di tutto il mondo. Integrazione interrotta – La guerra interruppe il processo di integrazione economica nazionale. Crebbero le tariffe doganali e le barriere al commercio, crollarono gli scambi commerciali e la circolazione finanziaria tra continenti. I belligeranti videro ridursi la loro ricchezza, mentre i paesi extra-europei, che non avevano preso parte alla guerra, ne uscirono con perdite umane inferiori e senza ripercussioni economiche gravi. Questo offrì loro l'occasione per rafforzare le posizioni del sistema commerciali, aumentando le esportazioni. India e Giappone fornirono divise, stivali, armi e munizioni all'esercito russo e agli inglesi, contro l'impero Ottomano. Al crollo dell'agricoltura europea corrispose un boom di quella altrui, del Sudamerica, Australia, Nuova Zelanda e soprattutto Nord America. POTERE DEGLI USA Inevitabile fu lo spostamento del centro del sistema produttivo mondiale dall'Europa agli Stati Uniti. Nonostante blocchi neutrali e guerre sottomarine, le esportazioni statunitensi belliche verso gli alleati crebbero a dismisura e incrementarono le capacità produttive statunitense. La finanza americana divenne il centro della rete globale. Regno Unito, Francia, Belgio e Italia, non riuscendo a saldare in dollari le importazioni, si indebitarono. Finita la guerra, Washington reclamò la restituzione dei prestiti, incontrando resistenze nei paesi. Francia e Regno Unito vincolarono il pagamento agli USA alla possibilità di ricevere riparazioni della Germania. Gli indennizzi tedeschi andarono quindi a saldare i debiti con gli Stati Uniti. Inoltre l'America incarnava un nuovo modello di società: catena di montaggio industriale, musica jazz, Hollywood. Si andava creando una diversa idea di futuro. RAPPORTO CON LE COLONIE – Il rapporto con le colonie cambiò nel dopoguerra. La ridistribuzione dei possedimenti tedeschi modificò le carte politiche di Africa e Asia. Lo smantellamento dell'impero Ottomano comportò un ampliamento dei confini della Palestina. Si estesero di conseguenza i territori sotto il controllo della Francia, del Regno Unito e del Belgio. Le maggiori potenze europee avevano sostenuto le rivendicazioni di indipendenza, durante la guerra, favorendo una propaganda anticoloniale. La Società delle Nazioni introdusse l'Istituto del Mandato, che prevedeva la formazione di stati indipendenti sottoposti al controllo delle potenze europee. Le aspettative furono però deluse e in Africa e in Asia si organizzarono movimenti anticoloniali. Intellettuali locali acquisirono il consenso e la partecipazione della popolazione. Tutti questi cambiamenti ebbero un impatto sulla percezione degli Europei riguardo la propria collocazione. Gli sconvolgimenti della guerra obbligarono sia vincitori che vinti a riflettere sulle proprie prospettive. I timori di una perdita di forza economica e politica si sovrapposero a quelli di un declino demografico. Inoltre i mil di morti e l'aumento dei divorzi rappresentavano il compimento delle più pessimistiche previsioni. A complicare la situazione intervennero le condizioni dei trattati di Pace: nuovi Stati comportavano maggiore frammentazione del territorio, aumento dei confini, delle dogane e dei sistemi fiscali. Nuova società – Il panorama psicologico e culturale delle popolazioni era legato ai traumi, a lutto e alla paura, ma nonostante ciò le masse uscirono dalla guerra più consapevoli dei propri diritti, che reclamarono con forza liberandosi di tutti i residui arcaici. Vennero messi in crisi le strutture tradizionali della famiglia patriarcale. Le donne e i giovani avevano un'autonomia maggiore dagli uomini e dai padri, continuando a mantenere alcune occupazioni femminili anche dopo il la fine della guerra. GERMANIA NEL DOPOGUERRA Le convulsioni del dopoguerra furono riassorbite nel giro di pochi anni. In Germania invece furono molto più profonde e persistenti rispetto a resto dell'Europa. Guglielmo II abdicò e lasciò il paese, mentre a Berlino venne varato il programma della Repubblica. A guidarlo, furono i socialdemocratici, favorevoli alla democratizzazione. All'opposizione erano schierati le correnti più radicali del movimento operaio, a partire dalla Lega di Spartaco. Gli spartachisti incitarono i lavoratori di Berlino a rovesciare il governo. Per sedare la rivolta, furono mobilitate i corpi franchi, i Freikorps, dei soldati smobilitati che repressero nel sangue le rivolte. Nel frattempo, le elezioni per l'Assemblea Costituente vennero vinte dai socialdemocratici e fu varata la costituzione della Repubblica di Weimar. Si sancì la natura democratica della nuova Germania, basata su diritti individuali, sociali e del lavoro. Il pagamento delle riparazioni era oneroso e i governi lo fronteggiarono con un aumento della stampa della moneta, che andò ad aumentare i prezzi. L’estrema destra nazionalista cercò di cavalcare i risentimenti e le frustrazioni dando voce alla “leggenda della pugnalata alla schiena”, secondo cui l'esercito tedesco avrebbe potuto vincere se non fosse stato tradito. La “pugnalata” divenne una leggenda che contribuì a gettare discredito sulla Repubblica nata dalla sconfitta della guerra e sui partiti di sinistra democratici. Gruppi nazionalisti dell'estrema destra, tra i quali NSDAP guidata da Hitler, tentarono una offensiva contro la classe dirigente e vari colpi di stato. Il partito di Hitler rivendicava un programma: 1. riunione di tutti i tedeschi in una grande Germania; 2. parità di diritto del popolo tedesco di fronte agli altri paesi, abolizione dei trattati di Versailles; 3. rivendicazione di terra per nutrire il popolo tedesco; 4. gli ebrei non hanno diritti non essendo cittadini, “Solo chi è di sangue tedesco è tedesco a seconda della sua religione; nessun ebreo può essere connazionale”, antisemitismo biologico; 5. chi non è cittadino, è ospite e straniero, deve stare alle regole dello Stato e non partecipa alla vita pubblica. La situazione degenerò nel 1923, quando Francia e Belgio, in risposta al governo tedesco che sospese il pagamento, occuparono il bacino della Ruhr, una delle zone più ricche e industrializzate della Germania. Questo diede inizio al tracollo del sistema finanziario tedesco. Aumentò l'inflazione senza controllo, i prezzi passarono in un mese ad un aumento del 100%. Inizialmente il governo aveva incoraggiato gli operai della Ruhr a rifiutarsi di collaborare con gli occupanti. Dopo, il nuovo esecutivo guidato da Stresemann cercò di favorire un accordo con le potenze. La decisione provocò le proteste delle destre e alcune formazioni paramilitari che cercarono di dare vita a un colpo di stato. In seguito furono arrestati i promotori, tra i quali Hitler, condannato a 5 anni di carcere. Il governo intervenne per stabilizzare le condizioni economiche con tagli della spesa pubblica e aumento delle tasse. Nell'ottobre 1923 introdusse una nuova moneta, il Rentenmark. L'uscita dalla crisi fu raggiunta nel 1924 grazie al Piano Dawes, creato da Charles Dawes, finanziario statunitense. Il piano prevedeva di dilazionare e graduare nel tempo il pagamento delle riparazioni. Il superamento della crisi della Ruhr e questo piano resero possibile la piena stabilizzazione anche in Germania. Il dopoguerra si poteva considerare in larga parte chiuso. ANNI 20 – ECONOMIA EUROPEA A metà degli anni venti l'economia europea si era quasi ovunque ripresa. Crebbero la produzione industriale e quella agricola, gli scambi tra le nazioni e le esportazioni. Continuarono comunque forti squilibri tra i diversi contesti. Si possono distinguere tre diversi modelli strutturali. Il primo modello strutturale era quello di i paesi industrializzati come Regno Unito, Belgio, Svizzera, Olanda e Germania. Qui la gran parte della forza lavoro era occupata nell'industria e nei servizi; il peso dell'agricoltura era minore. Il secondo modello, di Francia, Cecoslovacchia, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia, vedeva la popolazione attiva distribuita in modo omogeneo tra i tre settori; l'agricoltura aveva ancora un ruolo rilevante. Il terzo modello, di tutti gli altri paesi, registra una decisa prevalenza dell'agricoltura, come Italia, Portogallo, Irlanda, Ungheria, Grecia e Spagna; la metà del totale della forza lavoro era impiegata nell'agricoltura. A crescere negli anni venti furono i paesi dei primi due gruppi, che avevano una base industriale consistente. STABILIZAZIONE MONETARIA – Il superamento dell'iperinflazione tedesca e il nuovo marco segnarono il passaggio a una fase di stabilizzazione monetaria generale. La gran parte delle nazioni rientrò nel Gold Standard, il sistema monetario basato su cambi fissi e convertibilità delle valute in oro. Le classi dirigenti avevano come obiettivo la stabilizzazione dei mercati e le relazioni sociali. La strada privilegiata fu quella di realizzare delle politiche di intervento pubblico. Vennero creati nuovi organismi e favorita la contrattazione tra grandi imprese e sindacati. Ebbe ampia circolazione la formula del capitalismo organizzato, un nuovo equilibrio tra stato e vita economica. Gli Stati Uniti ispirarono delle trasformazioni nei sistemi produttivi, come fordismo e taylorismo. Importanti furono i trasferimenti dei loro capitali, che affluirono nel vecchio continente in misura consistente. Le banche americane divennero il punto di riferimento per le prospettive di sviluppo del continente europeo e il piano Dawes fu la prova più evidente che nel mondo post-bellico, il primato economico spettava agli Stati Uniti. Al tempo stesso Washington aveva adottato una linea isolazionistica, chiamandosi fuori dall'ordine postbellico. Si accompagnava ad una chiusura del loro mercato interno, con forti dazi doganali e restrizioni all'immigrazione. LA DISTENSIONE Prese vita in quel periodo una fase tra Germania e Francia improntata sulla distensione. Stresemann diede iniziativa alla Germania di accettare i confini stabiliti con Francia e Belgio. I governi dei paesi, insieme a Regno Unito e Italia, organizzarono una conferenza nel 1925 a Locarno, per modificare gli assetti fissati nei trattati di Pace. Il principale degli accordi aveva riconosciuto le frontiere comuni tracciate a Versailles. La disponibilità della Germania riconoscere questi confini nasceva dalla volontà di creare un avvicinamento con la Francia e dalla convinzione che i veri problemi ormai venissero da est: i confini orientali con la Polonia erano i più penalizzanti. Ristabilire le relazioni con le potenze occidentali era necessario per poter discutere in futuro le demarcazioni territoriali con gli stati posti a Oriente della e la riduzione dei consumi. Si creò una diminuzione delle vendite, un calo della produzione e conseguenti licenziamenti. La crisi coinvolse tutto il mondo industrializzato in Europa. Alle origini – L'origine della crisi è da individuare non nel crollo del mercato ma in un processo complesso, iniziato nel ventennio precedente. Le nuove modalità di organizzazione industriale avevano garantito un incremento della produzione. Erano aumentati i profitti a discapito della quota dei consumi dei lavoratori e si era venuto a creare uno squilibrio tra una sovrabbondante produzione e una minore richiesta. L'Europa viene trascinata dall'economia degli Stati Uniti, con la quale aveva un livello di integrazione commerciale e finanziario profondo. La crisi europea nel 1932 toccò il picco negativo nella produzione. Ci vollero, in quasi tutti i paesi, almeno 5-6 anni per tornare a livelli precedenti. I più colpiti furono Germania, Austria, Polonia e Cecoslovacchia. Crollo delle banche e disoccupazione – Alla economia reale si agganciò la crisi bancaria. Furono colpite le banche miste, più esposte per i legami con le imprese travolte dalla crisi. Le prime a subire le conseguenze furono le banche austriache, che produssero dei contraccolpi nell'Europa centrale. Questo fu l'inizio di una serie di crolli delle maggiori banche europee. Il governo intervenne chiudendo le banche e la borsa per una settimana ma la crisi continuò a diffondersi nel resto d'Europa. Ovunque, furono messe sotto pressione le banche centrali che dovettero intervenire per salvare gli istituti colpiti dalla crisi. A rendere devastanti gli effetti della crisi, furono anche la coesistenza tra il sistema rigido del gold standard e gli squilibri ereditati dalla grande guerra. La crisi peggiorò in breve tempo le condizioni di vita di uomini e donne. Negli Stati Uniti all'apice della crisi nel 33, erano senza lavoro 1 lavoratore dell'industria su 4; in altri paesi europei il tasso di disoccupazione era anche più alto, 2/5 della popolazione per la Germania. La disoccupazione non risparmiò nessun settore, ma non colpì tutti allo stesso modo: il rischio era alto nelle classi meno abbienti e tra i lavoratori manuali dell'industria. La povertà tornò a crescere in Europa peggiorando il regime alimentare e le cure sanitarie e facendo crollare il tasso delle nascite. Fine dell’integrazione internazionale – I processi di integrazione internazionale con la crisi, andarono incontro ad un arretramento veloce. Negli anni 30 si entra in una fase di deglobalizzazione. Molti stati cercarono di limitare l'ingresso di beni dall'estero. Seguendo gli Stati Uniti, che nel 30 vararono una nuova tariffa che rendeva costoso importare merci, tutti gli stati europei adottarono politiche protezionistiche: aumentarono i dazi doganali, le tasse per l'ingresso di merci esteri; adottarono il sistema di clearing, una sorta di baratto che prevedeva lo scambio di quantità prefissate di prodotti tra due paesi. I primi provvedimenti instaurarono il meccanismo di reazioni a catena: ogni provvedimento preso da uno stato provocò ritorsioni uguali da parte dei suoi partner commerciali, che venivano danneggiati dal suo primo provvedimento. Gli scambi mondiali si ridussero di ¼ e le esportazioni delle economie europee crollarono del 60%. Gli scambi multilaterali, che mutavano gli stessi accorgimenti a tutti i paesi, lasciarono il posto ad accordi bilaterali tra soli 2 paesi. Il presidente statunitense Hoover decretò che la Germania era temporaneamente esentata dal pagare le riparazioni, per aiutarla a fronteggiare la crisi; questo però andò a danneggiare i paesi che ricevevano le quota maggiori dal pagamento dei tedeschi. Le banche degli Stati Uniti cessarono i prestiti esteri e adottarono un isolazionismo finanziario. Fine del Gold Standard – Nel 1931 il Regno Unito uscì dal Gold standard: la sterlina era stata per tutto l'Ottocento la moneta dominante ma, senza più rapporto di cambio fisso con l’oro e l'obbligo di conversione, il valore della sterlina ora poteva essere modificato. Abbandonando il gold standard, la sterlina subì una forte svalutazione e riduzione del valore. Gli altri paesi reagirono adottando la stessa politica e nel giro di 2 anni, tutte le maggiori economie del mondo erano uscite dal Gold standard. La tendenza dominante fu quella quindi di ridurre i rapporti con gli altri paesi e di stare alle proprie esigenze, alimentando le rivalità. Le economie più avanzate perseguivano le formazioni di grandi aree chiuse, blocchi di paesi legati tra loro da scambi, regolati da una moneta comune. Le maggiori potenze europee che aggregarono intorno a sè degli stati più arretrati, potevano esercitare una forte influenza e uno scambio ineguale, acquistando materie prime e beni agricoli a prezzi vantaggiosi. La frammentazione del sistema mondiale degli scambi fu determinato anche dall’assenza di un leader globale. Il ruolo era stato assunto dal Regno Unito e dopo dagli Stati Uniti, ma negli anni tra le due guerre vi era una situazione di stallo: il Regno Unito non aveva più la forza economica del passato e gli Stati Uniti non volevano assumersi le responsabilità di una posizione centrale. In assenza di un soggetto capace di individuare delle risposte appropriate, la crisi si prolungò nel tempo ed ebbe effetti ancora più drammatici. L'Europa stessa, non più al centro dell'economia globale, non poteva uscire dalla crisi senza il sostegno degli Stati Uniti. Ruolo dello stato – I governi nazionali seguirono tutti la tendenza comune di non attivare uno specifico intervento dello stato. Rilevanti furono i condizionamenti culturali, la mentalità degli uomini di governo, che condividevano una cultura economica ortodossa, la quale metteva al centro la libertà dei mercati e prevedeva per lo stato un ruolo minimo. Ritenevano che garantendo il funzionamento del mercato, si sarebbe interrotta la caduta. Seguirono politiche deflazionistiche: vennero limitati gli stipendi, le spese per la difesa, per le pensioni e altri servizi per la popolazione; venne svalutata la moneta di ogni paese. Ci volle un biennio perché le classi dirigenti si rendessero conto che la strada seguita fino a quel momento non aveva frenato il collo, ma aveva aggravato la situazione. Nel 1932 molti governi avviarono politiche basate sull'aumento dell'intervento statale e della spesa pubblica. Furono finanziati investimenti in opere pubbliche e i nuovi posti di lavoro. L'obiettivo era di aiutare gli individui in difficoltà e favorire un aumento del livello dei salari e dei consumi, per stimolare poi le imprese a tornare a investire: lo scopo era creare un circolo virtuoso che avrebbe dovuto accendere la ripresa. Negli Stati Uniti, nel 1932 Roosevelt attuò il New deal, “nuovo patto”, formato da riforme che intervenivano su tutti i settori dell'economia.In Germania, Papen avviò un programma per creare impieghi nel settore pubblico e incentivi alle imprese poiché assumessero manodopera. Fu però dal 1933, con l'avvento al potere di Adolf Hitler e dei nazionalsocialisti, che si ebbe la svolta definitiva. Il sistema finanziario e bancario fu sottoposto al controllo statale, l'agricoltura venne riorganizzata, aumentarono i prezzi dei prodotti e i redditi dei produttori, vennero erogati sussidi e agevolazioni ai cittadini per promuovere i consumi. In Italia le banche e le imprese vennero aggregate in un ente pubblico, l’IRI, il principale gruppo finanziario e industriale del paese. Le grandi democrazie e regimi fascisti compirono scelte analoghe. Se tutti gli stati dovevano affrontare gli stessi problemi, le soluzioni potevano essere condivise: il New deal di Roosevelt divenne per molti un termine di confronto e modello da seguire. L'URSS non fu toccata dalla crisi e le nuove politiche di Stalin sembravano proiettare il paese in una modernità industriale proficua. Molti europei, provando comunque ostilità per il comunismo, furono impressionati dall’espansione industriale sovietica e dalla capacità di rimanere al riparo dal disordine europeo. Aspetti positivi – Gli anni 30 non furono però solo anni di crisi: una parte della popolazione europea visse importanti cambiamenti. I ceti benestanti, al riparo dalla depressione, sperimentarono abitudini e stili di vita che 20-30 anni dopo sarebbero divenuti parte integrante della popolazione occidentale. L’urbanizzazione si accelerò e si espansero le classi medie. I mezzi di comunicazione di massa elettrici come radio e cinematografo si svilupparono facilmente. CRISI DELLA DEMOCRAZIA ANNI 30 Gli anni 30 furono caratterizzati sul piano politico da un indebolimento dei sistemi democratici. L’Europa meridionale, centrale e orientale era ormai sotto la guida di regimi autoritari. Scoppiata la seconda guerra mondiale, la democrazia in Europa si trovava solo in Regno Unito, Svizzera, Paesi scandinavi, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Negli anni 30, i parlamenti seguivano la strada dei monarchi precedenti. La grande crisi del 29 si sommò alla grande guerra e alle turbolenze del dopoguerra, in una diffusione di instabilità e incertezza del futuro. Gli europei si sentirono in balia del potere di forze impersonali, capaci di stravolgere le loro vite. Per affrontare la nuova sfida, i sistemi rappresentativi assunsero una forma istituzionale moderna. Le democrazie dei partiti post belliche mostrarono subito seri limiti. Una maggiore partecipazione si tradusse in una crescita delle formazioni politiche e differenziazione. Questa frammentazione produsse una ingovernabilità. Ormai la lotta politica si era ideologizzata: a scontrarsi non erano uomini e governi ma i principi alla base della società, i valori e modelli di civiltà. Capitalismo e comunismo, riforme e conservazione, democrazia e autoritarismo, espansionismo e distensione. Una politica così conflittuale veniva percepita come disgregazione sociale, perché alimentava i conflitti e le ostilità tra diversi gruppi sociali; allo stesso tempo sembrava corrispondere maggiormente alle logiche interne dei gruppi dirigenti e delle classi politiche. Sempre più europei invocarono la necessità di una società ricompattata e non lacerata da conflitti, un sistema politico concentrato alla soluzione dei problemi della società, un governo capace di avere risposte in tempi rapidi. In questo contesto crebbe l'attrazione al fascismo e al comunismo. Entrambi prefiguravano una politica non dilaniata da conflitti e promettevano di guarire i mali del capitalismo, all'insegna di un nuovo ordine dello stato. Il regime fascista in Italia, lo stato sovietico e gli altri regimi autoritari europei videro crescere il consenso e consolidarono il proprio potere. Le principali minacce per la democrazia venivano dalla destra radicale. Erano le formazioni fasciste, parafasciste e nazionaliste che avevano più consensi e adesioni. Esse partivano dalla rabbia, dalla frustrazione e dalla depressione economica al quale il popolo era sottoposto. POTERE A HITLER In Germania, la situazione drammatica vissuta dai civili proiettò il partito nazionalsocialista dei lavoratori, il NSDAP, guidato da Adolf Hitler, al potere. Fin’ora era stato confinato in una posizione marginale, ma nel giro di pochi anni, il partito passò dal 2% dei voti (1928) al 37% (1932). Un’ascesa così impetuosa derivava da molteplici ragioni: gli effetti della depressione economica, l’efficacia del discorso ideologico di Hitler, la frustrazione del trattamento subito alla Conferenza di Pace. Il successo di Hitler era anche alimentato dagli squilibri prodotti dal processo di modernizzazione e dalle debolezze di fondo della Repubblica di Weimar. Il presidente della Repubblica Hindenburg, conferì a Hitler, il 30 gennaio 1933, l'incarico di guidare un governo di coalizione. Un mese dopo, l'incendio alla sede del Parlamento diventò il pretesto per sospendere libertà di stampa e di associazione, per arrestare comunisti e socialdemocratici. Il partito cresce ancor di più in adesioni. Tra l'inizio 1933 e metà del 34, il governo nazista approvò delle leggi e iniziative quali: lo scioglimento di tutti i partiti a eccezione di quello nazionalsocialista; l’eliminazione della divisione dei poteri; un assetto centralista al posto dello stato federale. Crebbe ancora di più il potere personale di Hitler che, con la morte di Hindenburg, nel 1934 divenne presidente della Repubblica e assunse il titolo di “Fuhrer”, capo. Il leader impose il pieno controllo sul partito e sulle squadre paramilitari. Si diede vita ad un sistema associativo, dipendente totalmente da Hitler, in cui inquadrare tutti i segmenti della società per renderli coerenti con l'ideologia nazista. Come già avvenuto in Italia col fascismo, nacquero associazioni giovanili, sindacati e associazioni per il tempo libero. Fu usato l’apparato propagandistico, col pieno controllo dei mass media sotto la direzione del Ministero per l'educazione popolare e la propaganda. Furono poste le basi per il sistema del terrore che avrebbe caratterizzato l'esperienza della Germania nazista: venne reintrodotta la pena di morte, vennero aperti i primi campi di concentramento (il primo fu Dachau nel marzo del 33), al tempo luoghi di detenzione extra-legale per oppositori politici. Il governo di Hitler stabilì rapporti solidi con la maggior parte del mondo Cristiano, ottenendo il consenso di protestanti e siglando un concordato con la Chiesa cattolica nel 33. Nell'arco di meno di 2 anni tutti i pilastri dello stato di diritto vennero smantellati. Come già nell'italia fascista, un partito nato per rappresentare solo una parte della società divenne unico, fuso con lo stato. Prese così forma il terzo Reich. Lo stato monolitico presentava una rete articolata di apparati: alle strutture dello stato, quali i ministeri, forze armate, organi giudiziari, si aggiungevano quelli del partito, delle organizzazioni dipendenti e paramilitari. I compiti e i poteri si andavano a confondere generando conflitti. Il caos dei poteri incentivava il livello l'importanza che la decisione del Fuhrer poteva risolvere. La comunità nazionale tedesca – Lo stato nazista avrebbe creato una comunità nazionale, in cui tutti i veri tedeschi avrebbero preso parte e i bisogni individuali venivano subordinati a quelli collettivi. Quest'idea implicava omogeneità, e chiunque contestava il potere e sosteneva il conflitto sociale, veniva ritenuto non appartenente al popolo tedesco. L'omogeneità doveva essere anche biologica: il razzismo era un connotato fondamentale della ideologia nazista. Il mondo era visto come diviso in razze, ognuna diversa dalle altre per ragioni biologiche: la razza superiore era quella Ariana, ovvero i tedeschi. Bisognava rispettare questa gerarchia e la superiorità della razza ariana su quelle inferiori. Gli ebrei furono indicati come il maggior pericolo, perché presente in gran numero sul suolo tedesco e ritenuti veicolo delle idee più insidiose. Il popolo tedesco doveva essere tenuto al riparo dalle contaminazioni, doveva crescere demograficamente e aumentare la propria forza biologica, eliminando anche i soggetti più deboli come i disabili e i portatori di malattie. Vennero varate le prime misure per discriminazione e persecuzione degli ebrei e altre minoranze etniche e religiose. Fu avviato il programma di sterilizzazione obbligatoria dei gruppi considerati una minaccia per l'igiene razziale: malati psichici, portatori di handicap fisici, alcolizzati e asociali. Hitler e Mussolini – Per le politiche economiche e sociali, venne attuato un piano quadriennale il cui scopo era di preparare l'economia tedesca alla guerra; orientò le produzioni alle esigenze belliche e favorì il rapido calo della Per scongiurare un conflitto tra le maggiori potenze, Mussolini insieme al capo del governo britannico Chamberlain e di quello francese Daladier, organizzarono nel 38 una conferenza a Monaco per concedere i Sudeti alla Germania. La tendenza che si andava delineando era di una coalizione tra le dittature e un aumento de potere del terzo Reich. I successi di l'espansionismo tedesco rafforzarono i rapporti tra i regimi dittatoriali: Ungheria e Bulgaria, volendo modificare i confini definiti nei trattati del 19, si avvicinarono di più a Germania e Italia. Sul fronte opposto, il governo britannico rispecchiava una pacificazione con una politica di “appeasement”, finalizzata ad evitare una guerra e concedendo alla Germania alcune annessioni considerate minori e “ragionevoli”. Le concessioni territoriali vennero attuate per placare le mire espansionistiche del terzo Reich, ma si rivelarono delusione: l’espansionismo era ormai un carattere ineliminabile dello stato nazista. Le scelte di Regno Unito e Francia erano dettate per evitare un nuovo conflitto ed evitare alle popolazioni un nuovo trauma delle guerra. Stalin decise di svoltare la propria politica estera ed aderì alla Società delle Nazioni, stipulando nel 1935 un'alleanza militare con la Francia. La svolta però non fu sufficiente a dissolvere i timori e le diffidenze verso l'URSS radicati nelle classi dirigenti occidentali. A livello globale, si andava ad fortificare il rapporto con gli Stati Uniti. Il New Deal riconfigurò il modo di pensare l'azione dello Stato, non solo nella politica interna ma anche in quella estera. Infatti, in America si cominciò a titubare dell'isolazionismo, che impediva gli Stati Uniti di assumere un ruolo di leadership globale. Le due grandi democrazie europee intanto si indebolirono. Negli anni 30, Asia e Africa vissero l'avvio di un accrescimento demografico, mettendo sotto pressione il rapporto tra popolazione e risorse, che rese meno sostenibile i metodi di governo degli europei. L'aggressione fascista dell'Etiopia contribuì a sgretolare la fiducia nei sistemi dei mandati e della società delle Nazioni. Nel primo dopoguerra si allargano i modi indipendenti, le agitazioni, gli scioperi e le rivolte. La Francia rispose con dure repressioni, mentre il Regno Unito, attuò una politica più elastica, allentando il controllo sui territori coloniali. LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA Tra il 1936-39, le tensioni del periodo divamparono. In Spagna fu combattuta una dura guerra civile. Essa iniziò per delle dinamiche interne del paese, ma si intrecciò facilmente al contesto internazionale. Dal 1931 la Spagna era retta da un ordinamento repubblicano di impronta progressista, ormai l'ultima manifestazione dell’ondata di democratizzazione del primo dopoguerra. Nel 36 salì al governo una coalizione di Fronte Popolare, composta da repubblicani, socialisti e comunisti. Convinti di un prossimo cambiamento, operai e contadini diedero vita ad agitazioni e occupazioni. Questo preoccupò molto le destre. Poi, l'assassinio del leader monarchico conservatore Jose Sotelo, in luglio, spinse la destra a scegliere una soluzione eversiva. Le forze armate guidati da 5 generali, tra cui Francisco Franco, si rivoltarono contro il governo repubblicano. La ribellione, “alzamiento”, diede voce ad un fronte intenzionato a preservare i valori tradizionali. A difesa del governo e del fronte popolare, si schierarono operai e contadini, borghesia urbana e mondo intellettuale. Con il passare dei mesi, cominciarono a prevalere i nazionalisti di Franco. Italia e Germania sostennero gli insorti, inviando uomini e materiale bellico. Gli stati democratici invece non intervennero. A sostegno della Repubblica si schierò l'Unione sovietica, con l'invio di aiuti finanziari, armi, militari. Arrivarono a loro sostegno anche i volontari delle Brigate Internazionali, in maggioranza comunisti, a rappresentanza delle principali coalizioni antifasciste. Il sostegno dell'URSS e dei volontari non fu però sufficiente a bilanciare quello ricevuto dagli insorti. Nel 37, a Barcellona, si giunse ad uno scontro militare aperto, con l'intervento dell'esercito repubblicano contro gli anarchici e la sinistra. Questo segnò le sorti della Repubblica spagnola. Dopo quasi 3 anni di combattimenti, nel 39 i franchisti conquistarono Madrid e Franco diede vita ad un regime autoritario; annunciò l'adesione all'Asse con l'Italia e la Germania. La guerra civile spagnola rappresenta un compendio dei principali temi politici diplomatici e ideologici, dei conflitti e delle forme di violenza che segnarono L'Europa degli anni 30. Fu anche il primo esperimento di collaborazione militare tra Italia e tedeschi sullo stesso fronte. Inoltre fu la prima manifestazione dell'antifascismo internazionale, con l’intervento delle brigate internazionali: una mobilitazione che coinvolgeva settori di società e cultura differenti ma unite contro il fascismo, considerato una minaccia. Una minaccia, non solo per il singolo stato, ma per la pace Europea. La Repubblica spagnola crollò non solo per la forza dei nemici, ma per la sua fragilità intrinseca, l'incapacità dei governi di risultare inclusivi e allargare le basi di consenso della democrazia. Inoltre, rivelò quanto fosse alto livello di violenza “legittimo”, andando a prefigurare le forme del conflitto che sarebbero state peculiari della seconda guerra mondiale, nella quale il nemico è rappresentato come criminale e disumano, senza possibilità di un compromesso. La distinzione tra civili e combattenti cominciò a scomparire e fecero la loro comparsa le modalità di distruzione anonima e di massa, come i bombardamenti sui civili ad opera dei tedeschi e degli italiani. LA SECONDA GUERRA MONDIALE La seconda guerra mondiale costituisce uno snodo dell'età contemporanea, uno spartiacque che segna le sorti del continente europeo. Tra settembre 1939 e maggio 1945, l'Europa pagò uno spaventoso tributo di morte e distruzione, con 40mil di vittime, di cui 2mil civili. La guerra segnò il culmine dell'”età della catastrofe”, un trentennio messo a fuoco da contese tra Stati e conflitti di natura politica. Le origini – La guerra nasce come un conflitto europeo, che aveva come posta in palio l'egemonia continentale. Si concluse con la sconfitta e il crollo dei regimi fascisti responsabili, ma finì col suggellare anche il declino dell'intero continente a livello globale. Dopo aver realizzato nel 1938, il primo punto del proprio programma di politica estera, con la creazione di una grande Germania attraverso l'annessione di Austria e dei Sudeti, Hitler intendeva passare al secondo punto: la conquista del “Lebensraum”, lo spazio vitale, cercato ad est. Si trattava di un progetto che avrebbe dominato l'Europa sottomettendo i popoli, riprendendo i progetti imperiali delle grandi potenze coloniali, come Francia e Regno Unito. I generali tedeschi si prepararono all'invasione della Cecoslovacchia e nel 39 la “Wermacht”, l'esercito tedesco, invase il paese. La parte occidentale fu ridotta a protettorato del Reich, mentre la Slovacchia divenne uno stato satellite. L'occupazione di Praga rendeva evidente che Hitler voleva spingersi oltre l'annessione delle regioni confinanti e impossessarsi con la forza dei territori dell'Europa centro-orientale, indipendentemente dalla composizione etnica. Britannici e francesi non potevo accettare un'iniziativa del genere e spostarono la propria politica dell'appeasement verso un tentativo di contenimento con la forza. Era chiaro che il successivo obiettivo di Hitler sarebbe stata la Polonia, in quanto aveva rivendicato il controllo di Danzica e l'accesso al “corridoio polacco”, che divideva la Prussia orientale dal restante territorio del Reich. Chamberlain annunciò che il Regno Unito era deciso ad intervenire contro la Germania, se avesse attaccato la Polonia, stessa cosa che annunciò la Francia. IL PATTO D’ACCIAIO – Intanto, Mussolini occupò l'Albania, per dimostrare che l'Italia fascista non era da meno rispetto alla Germania e poteva condurre una politica espansionistica di eguali dimensioni. Il 22 maggio del 39, il ministro degli esteri italiano e tedesco siglarono un'alleanza militare difensiva e offensiva. Il “patto d'acciaio” fu una scelta abbastanza avventata da parte degli italiani, essendo impreparati ad affrontare un effettivo conflitto. Il patto Molotov-Ribbentrop – Decisivo fu l'atteggiamento di Stalin, diffidente delle potenze imperialiste della Germania nazista. Stalin propose un'alleanza che prevedeva l'as sistenza diretta a qualsiasi paese dell'Europa centro- orientale che fosse sotto attacco dalla Germania. Francia e Regno Unito erano ancora diffidenti nei confronti dell’URSS e risposero con freddezza, per timore che Stalin mirasse a riprendersi i territori persi con la guerra del 1920. I colloqui si protrassero comunque avanti, ma senza alcun esito. La Germania cominciò a pensare ad un accordo sovietico, per evitare la situazione dell'estate del 1914, quando si trovò stretta su due lati tra le potenze dell'Intesa. I tedeschi proposero un patto di non aggressione che i sovietici, preso atto delle trattative inutili con Francia e Regno Unito, accettarono. L'accordo tra i due regimi, fondati su ideologie contrapposte, prese il nome di “Patto Molotov- Ribbentrop”. Il patto suscitò sorpresa e sconcerto a livello internazionale. Esso risultava vantaggioso per entrambi i Paesi: Hitler faceva affidamento sulla neutralità sovietica per concentrarsi sullo scontro con le potenze occidentali, rinviando a dopo la vittoria la resa dei conti con l'URSS; Stalin scongiurava un conflitto armato con la Germania e assicurava all'URSS armamenti e macchinari, in cambio della fornitura alla Germania di materie prime; un protocollo segreto prevedeva la spartizione dell'Europa centro-orientale, dando ai tedeschi la parte occidentale della Polonia e ai sovietici Estonia, Lettonia, Finlandia e Polonia orientale. Invasione della Polonia – Il 1 settembre 1939 scattò l'attacco tedesco alla Polonia. 2 giorni dopo, Francia e Regno Unito dichiararono guerra alla Germania. Cominciava così un conflitto che vedeva le due potenze occidentali alleate per contrastare l'ambizione tedesca di dominare l'Europa. Grazie ad una nuova tattica militare della guerra lampo, “blitzkrieg”, basata su l'azione combinata delle forze di terr a e aeree , si poteva colpire il nemico in maniera fulminea e devastante. Così, l'impero tedesco impiegò solo un mese per avere la meglio sulle truppe polacche. Altre motivazioni – L’espansionismo di Hitler fu una causa scatenante, ma la guerra fu anche l'esito di una tensione strutturale che rendeva instabile il quadro delle relazioni internazionali. Da un lato, Francia e Regno Unito volevano rinsaldare la propria egemonia, che aveva affrontato un declino evidente. Dall'altro, le pressioni delle potenze più recenti non soddisfacevano lo status quo: Germania, Giappone e Italia, che nutrivano ambizioni Imperiali e mettevano in discussione gli equilibri esistenti. Continuo del conflitto nel 1940 – Dopo l’invasione della Polonia da parte della Germania, l'Armata rossa sovietica si mosse per impadronirsi della parte orientale del paese, come previsto dal protocollo segreto, mentre la parte occidentale andò alla Germania. A fine novembre, l'URSS attaccò la Finlandia, con la scusa di non aver acconsentito alle richieste territoriali: dopo una forte resistenza, il paese venne piegato a marzo e dovette cedere 1/10 del territorio alla Germania. In aprile, la Germania mosse guerra a Danimarca e Norvegia, per controllare il mare del Nord. Sul versante occidentale si vedeva una situazione di stallo. L'attacco tedesco alla Francia venne più volte rinviato, determinando una sospensione del conflitto, che cominciò ad essere descritto come strana guerra, guerra fasulla e guerra seduta. Una volta penetrati finalmente in territorio francese, le forze della Germania chiusero le truppe nemiche in una sacca e circa 35mila soldati britannici e francesi dovettero abbandonare il continente. A giugno la Germania entrò a Parigi. Il governo francese lasciò la capitale e decise di chiedere l'armistizio: il presidente del Consiglio Reynaud si dimise e venne sostituito da Pétain, che siglò ufficialmente la resa il 22 giugno. Per Hitler fu un magnifico trionfo, per i francesi una pura umiliazione. Mentre l'Unione sovietica terminava l'occupazione dei territori che spettavano loro in base al patto, l'Italia, che allo scoppio del conflitto aveva optato per la non belligeranza, entrò a fianco della Germania in guerra, il 10 giugno, approfittando del crollo francese. L'esercito italiano raccolse successi parziali, contro un nemico ormai in ginocchio. Venne dichiarata guerra a Regno Unito, nella convinzione che le sorti del conflitto fossero segnate e che l'ostilità sarebbero cessate presto. Mussolini ambiva a ritagliare per l'Italia il ruolo di potenza dominante del Mediterraneo. Attaccò la Grecia, paese con cui aveva buoni rapporti. La piccola ma vigorosa resistenza dei Greci costrinse le truppe italiane a ripiegare in Albania, che fu la prima vittoria contro un paese dell'Asse in Europa. Dopo la caduta della Francia, il Regno Unito era rimasto l'unico contro l'avanzata del terzo Reich. Hitler sperava di poter indurre i britannici a tirarsi fuori dalla guerra e concentrarsi sul vero obiettivo dell'URSS. Il 19 luglio, Hitler lanciò un “appello alla ragione” che Churchill, al quale passò il potere del governo qualche tempo prima, rifiutò. L’aviazione tedesca scatenò allora un’offensiva aerea contro la Gran Bretagna, a scopo di preparare il terreno per l’invasione dell'isola e chiudere la guerra. I britannici però resistettero con grande organizzazione e capacità di adattamento. Allora lo sbarco sulle coste britanniche venne rinviato, ma i bombardamenti proseguirono fino al 41, quando Hitler li sospese per concentrare le forze sull’attacco all'unione sovietica ormai imminente. Vitale per la resistenza britannica fu il sostegno degli Stati Uniti, che gli assicurarono un supporto economico. Il “Land Lease Act”, legge sugli affitti e prestiti, voluto da Roosevelt e approvato dal congresso nel 41, permetteva di f ornire materiale bellico , cibo e materie prime ai paesi la cui difesa era considerata essenziale per gli interessi statunitensi. 1941 – All'inizio del 1941, a sostegno dell'Asse vi erano ormai Ungheria, Romania, Slovacchia e Bulgaria, che avevano aderito al “patto tripartito”, un'alleanza firmata il 40 inizialmente solo da Germania, Italia e Giappone e che li impegnava a prestarsi aiuto in caso di attacco. Allora le forze italo-tedesco occuparono Jugoslavia e Grecia, facilmente soggiogate. La Jugoslavia fu smembrata e spartita tra i paesi dell'Asse, andando a costituire un nuovo Stato Croato che aderì al Patto Tripartito. rimpatrio dei tedeschi etnici, che vivevano fuori i confini del Reich, si accompagnò la colonizzazione tedesca dei territori conquistati, dai quali sarebbero stati rimossi i soggetti che i nazisti consideravano subumani: slavi, russi, rom , sinti, ebrei. La guerra segnò un'estensione delle politiche razziali naziste su scala europea. LA SOLUZIONE FINALE – I vertici nazisti si muovevano per allontanare il più possibile gli ebrei. Gli ufficiali lavorarono a progetti per una riserva ebraica da costruire nel distretto di Lublino, nella colonia francese del Madagascar. Intanto si procedeva alla segregazione degli ebrei nei ghetti, quartieri in cui sovraffollamento e pessime condizioni portarono all’alta mortalità. La “soluzione finale” del problema ebraico fu inteso come un vero annientamento. Nel 1941 cominciò il passaggio al genocidio degli ebrei europei, conosciuto come Olocausto o Shoah, “catastrofe”. Diversi fattori contribuirono a questo passaggio: l'operazione Barbarossa, che portò i tedeschi a invadere i territori dove c'erano più abitanti ebraici; altri fattori logistici. In una prima, fase si procedé alla fucilazione di massa nei pressi dei centri abitati, uccidendo quasi 1mil e mezzo di ebrei. Tali operazioni però presentavano inconvenienti per le autorità tedesche: notevole dispendio di tempo e uomini, eccessiva visibilità alle popolazioni locali, effetti sugli esecutori (per i quali si rivelò un'esperienza insostenibile sul piano psicologico). Alla fine del 41 si decise di adottare una soluzione più funzionale, allestendo campi di sterminio, in località isolate, dove gli ebrei sarebbero stati uccisi per asfissia, prima all'interno dei furgoni con gas di scarico e dopo nelle strutture fisse delle camere a gas. Questo era un sistema più “rapido ed efficiente”: le vittime venivano convogliate nei campi attraverso la rete ferroviaria; all'arrivo venivano selezionati e divisi tra chi poteva lavorare e chi andava direttamente alle camere a gas. Il tutto avveniva al riparo da occhi indiscreti, con un minor numero di addetti e i cadaveri non dovevano essere ammassati nelle fosse, ma direttamente bruciati nei forni crematori. Inoltre, il sistema della gasazione era già stato collaudato dai nazisti, per la soppressione delle persone affette da malattie ereditarie o infermità mentali. I campi di sterminio funzionavano velocemente: le vittime arrivavano col treno la mattina e la sera venivano bruciati già i loro corpi. Tra gli aspetti più inquietanti della Shoah, c’è il suo carattere “industriale” e “burocratico”. Infatti, l'approdo alle camere a gas era ormai l'esito di normali procedure amministrative. I burocrati che mandavano avanti le macchine dello sterminio però non erano necessariamente fanatici antisemiti nazisti, ma anche uomini comuni che operavano al servizio di un regime spietato, che li spinse ad uccidere per le autorità. Nel complesso, questo sterminio costò la vita a 6mil di persone, 2/3 degli ebrei presenti in Europa. Tra le vittime anche Rom e sinti, che identificano la Shoah con la parola “Porajmos”, “distruzione”: 1/3 di rom e sinti europei venne ucciso. Le vittime provenivano da tutti i territori sotto il controllo dell'Asse: i tedeschi trovarono spesso una disponibilità a cooperare alla cattura e alla deportazione degli ebrei. Il nazismo combinò degli elementi ideologici e degli assunti culturali: razzismo, darwinismo sociale, antisemitismo, nazionalismo aggressivo, disumanizzazione del nemico, morte anonime e di massa. SCONFITTA DELLA GERMANIA Nell'autunno del 43, l'esercito tedesco aveva perso l'iniziativa sul fronte orientale. Vennero costretti a ritirarsi dai territori. A tre anni dall'inizio dell'operazione Barbarossa, l'Armata Rossa lanciò una grande offensiva e sbaragliò le truppe tedesche, aprendosi la strada verso la Prussia orientale. Le sconfitte militari si accompagnavano ad un allontanamento degli alleati: Romania e Bulgaria dichiararono guerra alla Germania, la Finlandia firmò un armistizio con Mosca. I corpi d'armata americani e francesi cominciarono una rapida risalita in direzione di Parigi. La capitale francese venne poi liberata dai partigiani. Il generale De Gaulle, che per primo aveva lanciato l'appello alla resistenza nel giugno del 40, vi rientrerò da trionfante dopo oltre 4 anni di esilio. Nel 44, l'esito della guerra era segnato: Hitler però non era disposto a prendere in considerazione l'ipotesi della resa. I cospiratori intanto vennero giustiziati, mentre la guerra proseguiva. Gli americani conquistarono la prima città tedesca Aquisgrana il 28 ottobre. Le truppe sovietiche continuavano ad avanzare nel territorio tedesco, lasciando dietro di loro scie di violenze indiscriminate. Il 25 aprile dell’anno seguente, l'esercito sovietico e americano si incontrarono a Torgau sull'Elba. Gli accordi di resa furono firmati il 7 e il 9 maggio. Dopo quasi 6 anni di lotta feroce, devastazioni e atrocità, la seconda guerra mondiale era giunta al termine. Hitler si tolse la vita il 30 aprile in un bunker e Mussolini venne fucilato due giorni prima dai partigiani. La morte dei due leader sancì l'uscita di scena dei regimi fascisti in via definitiva. EREDITÀ DELLA GUERRA Oltre a lasciare violenza, lutti e d'istruzioni, la seconda Guerra mondiale produsse delle conseguenze profonde, come la fine del nazismo e del fascismo, la riconfigurazione di assetti geopolitici, il trasferimento dell'ordine internazionale dalle ex grandi potenze europee alle due superpotenze in ascesa, USA e URSS. Secondo dopoguerra – A differenza del primo dopoguerra, un trentennio di instabilità e crisi, il secondo fu all’insegna di stabilità e occasioni di rinascita. Il vecchio continente, subito dopo la fine la guerra, si trovava però in ginocchio. Moltissime città erano distrutte: a Varsavia, 9 abitazioni su 10 erano abbattute; Minsk era distrutta al 80%; in Normandia gli edifici distrutti erano l’82%; in diverse città tedesche, i ¾ delle case erano inservibili. Interi villaggi, campi e fattorie erano stati saccheggiati e distrutti, particolarmente in Ucraina e Bielorussia, a causa della tattica “terra bruciata”. La crisi delle attività economiche dei trasporti ebbe ripercussioni a livello sociale: la disponibilità di viveri era insufficiente, la malnutrizione e le cattive condizioni igieniche contribuirono alla diffusione di malattie e al fiorire del mercato nero. Di fronte a questo caos, gli alleati e le autorità locali faticavano ad imporre il proprio controllo e a ristabilire l'ordine. L'Europa dell'immediato dopoguerra appariva prostrata e affamata. Giustizia privata – La guerra aveva lasciato dei conti da regolare, come la punizione del collaborazionismo. Nei mesi seguenti, gruppi di partigiani sfogarono la propria rabbia su chi si era schierato a fianco degli occupanti tedeschi e diedero vita a episodi di “giustizia personale e social”. Una forma di vendetta si ebbe in Francia, contro le donne, accusate di “collaborazionismo orizzontale”, ovvero di aver avuto relazioni sessuali con i tedeschi. Le donne erano sottoposte alla rasatura del capo su pubblica piazza, denudate e tratteggiate con simboli nazisti sul corpo. L'Italia settentrionale fu una delle aree dove la violenza contro i collaboratori tedeschi risultò più estesa, per una ricerca di giustizia da sé e una scarsa fiducia nei confronti delle autorità. Giustizia etnica – Nelle regioni centro orientali che tra il 39-45 avevano subito diverse occupazioni tedesche sovietiche, il regolamento dei conti si intrecciò con la conflittualità etnica delle popolazioni. Esplosioni di violenza nazionalistica accompagnarono la fuga e il trasferimento forzato delle minoranze etniche. Il fenomeno maggiore fu l'espulsione in massa dei tedeschi dall'Europa centro-orientale, che vivevano in Cecoslovacchia e Polonia. I tedeschi, in generale, vennero privati delle loro proprietà, rinchiusi in campi di concentramento e fatti bersaglio della furia popolare: 12mil scapparono in Germania. Essi si andavano a sommare ai milioni di stranieri che al momento della liberazione si trovavano sul solo tedesco. Questi furono rimpatriati nei paesi di origine. Il dopoguerra fu particolarmente amaro anche per gli ebrei sopravvissuti allo sterminio, in quanto l'antisemitismo non era scomparso. Si contarono numerosi atti di ostilità e pogrom; il più sanguinoso scoppiò in Polonia nel 46, a seguito della diffusione di false notizie circa il rapimento e l’uccisione di bambini a causa degli ebrei. Una folla inferocita si scatenò sugli ebrei, provocando 42 vittime. Molti ebrei furono costretti ad abbandonare l'Europa e scappare in Palestina, dove nel 48 venne fondato lo Stato di Israele. Il processo di “rimozione delle minoranze”, avviato durante la guerra, venne portato a compimento. I processi giuridici – I responsabili primi della guerra subirono una serie di processi, tenuti contro i nazisti e i loro collaboratori, per “crimini di guerra e contro l'umanità”. I più importanti si tennero al tribunale militare internazionale di Norimberga, che giudicò alcuni dei maggiori esponenti del terzo Reich e li condannò a morte o lunghe pene. GUERRA FREDDA In meno di 2 anni, la grande alleanza, che aveva unito i vincitori della seconda guerra contro l'Asse, sarebbe rimasto solo un ricordo. Alla base di ciò c’era un antagonismo, fondato sul contrasto tra le due superpotenze. Questa antagonismo prese poi il nome di “guerra fredda”, un contrasto geopolitico e ideologico, che avrebbe raggiunto livelli di tensioni elevatissimi. La guerra fredda era un conflitto destinato ad assumere una dimensione globale. Nella sua fase iniziale, l'Europa rivestì un ruolo centrale, in quanto era la posta principale. Nuovo assetto – I futuri equilibri europei dopo la sconfitta dell'asse, furono discussi da americani, britannici e sovietici in due conferenze internazionali del 1945. Si approvò una Dichiarazione sull'Europa Liberata, che assicurava ai popoli affrancati da Hitler il diritto di definire il proprio assetto politico mediante libere elezioni. Il terreno tedesco venne diviso in 4 zone, affidate a URSS, USA, Regno Unito e Francia. Fine dell’alleanza – Le due superpotenze, USA e URSS, erano portatrici di ideologie e visioni contrastanti. Per i sovietici, era vitale rafforzare la posizione costituendo una fascia di sicurezza nell'Europa centro-orientale, formata da stati non ostili che avrebbero fatto cuscinetto davanti a nuove pressioni. Per questo, era necessario controllare i paesi di questa regione. Gli americani invece avevano come proposito quello di dar vita a un nuovo ordine capitalistico internazionale, basato su mercati liberi e interconnessi, in cui bisognava stabilire democrazia e pace. Per questo erano anche disposti a riconoscere un’egemonia a Mosca, ma non una sua sovietizzazione. Nel marzo del ‘46, in un celebre discorso, Churchill certificava la fine della “grande alleanza”, denunciando l'assoggettamento dei paesi dell'est da parte dei sovietici. Disse che una “cortina di ferro era calata attraverso il continente”. I britannici annunciarono di non essere più in grado di sostenere il governo conservatore in una lunga guerra civile contro i comunisti. Truman formulò invece la dottrina che impegnò gli Stati Uniti a sostenere i popoli liberi che intendessero resistere ai tentativi di soggiogamento. L’anno dopo, il governo statunitense elaborò la teoria del Containment, il contenimento della minaccia sovietica. Piano Marshall e Cominform – Washington temeva che Mosca intendesse sfruttare la condizione critica dell'Europa per favorire un’espansione del comunismo. Per scongiurare ciò, gli Stati Uniti vararono un programma per la ripresa del vecchio continente, “European Recovery Program”, che prese poi il nome di “Piano Marshall”. Il programma fu respinto subito dai sovietici, che lo videro come un cavallo di Troia, volto a favorire la penetrazione americana. A beneficiare del piano, che portò aiuti per 13 miliardi di dollari, fu principalmente l'Europa occidentale. I fondi e i beni materiali provenienti dall'America furono accompagnati da un operazione di propaganda internazionale che proponeva di rilanciare l'economia, elevare il tenore di vita e assicurare la stabilità. Volevano creare un modello di crescita incentrato sui valori guida della produttività e dell'integrazione economica a livello continentale. In risposta i sovietici istituirono un Ufficio di informazioni e dei partiti comunisti e operai, il Cominform, per il coordinamento e il controllo dei partiti comunisti dell'est e di Francia e Italia. Americani e britannici volevano favorire la ripresa dell'economia tedesca e alleggerire il suo peso finanziario: unirono i rispettivi settori danno vita ad una bizona. Si accordarono con i francesi per la formazione di uno stato tedesco nella porzione di Germania controllata dagli occidentali. Allarmati da questi sviluppi, i sovietici bloccarono tutti gli accessi alla parte ovest di Berlino, città che era sua volta ripartita in quattro zone. La prova di forza tentata dai sovietici con il blocco di Berlino produsse una tensione, ma essa fu risolta. Gli anglo-americani riuscirono a rifornire la parte ovest di Berlino tramite un ponte aereo. Stalin dovette rassegnarsi a togliere il blocco. Sui territori tedeschi occupati dagli occidentali nacque la Repubblica Federale Tedesca, RFT, alla quale i sovietici risposero con la creazione di uno stato comunista, la Repubblica Democratica Tedesca, RDT. Nuovi patti – Per placare le ansie anche dei propri alleati, gli Stati Uniti crearono nel ‘49 il “Patto Atlantico”, un'alleanza tra USA , Canada e Europa Occidentale (Francia, UK, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Norvegia, Islanda, Portogallo, Italia). Il patto impegnava i membri alla difesa collettiva in caso di aggressione e prevedeva un'organizzazione militare integrata, la NATO. Affiancandosi alla dottrina Truman e al piano Marshall, il Patto Atlantico suggellava a livello militare il nuovo impegno degli Stati Uniti nei confronti dell'Europa. DEMOCRAZIA RINNOVATA In tempo di guerra era maturato nelle classi dirigenti e negli intellettuali un ripensamento della democrazia su un ampio consenso riformista. Per riconquistare la fiducia delle masse bisognava affiancare alle libertà individuali e a diritti politici, la solidarietà e la sicurezza sociale. L'Europa occidentale vide nel dopoguerra una rinascita della democrazia profondamente rinnovata. I paesi che negli anni 20-30 avevano imboccato la strada del totalitarismo, si diedero a nuovi ordinamenti costituzionali. entrò a Budapest. La rivolta venne stroncata e Nagy fu arrestato e giustiziato nel ‘58. I fatti ungheresi rivelavano un profondo scollamento tra governanti e governati dell'est. LA STABILIZZAZIONE DEL CONTINENTE Nel primo decennio del dopoguerra si gettarono le basi di un ordine geopolitico che avrebbe assicurato un periodo di stabilità e pace. La divisione del continente in due blocchi contrapposti si rivelò un deciso elemento di stabilizzazione. L'assetto geopolitico bipolare, tra Patto Atlantico di Germania Ovest e Patto di Varsavia, sarebbe rimasto invariato fino alla fine degli anni ‘80. Anche essendo paradossale, l'arma atomica aveva posto fine alla seconda guerra mondiale: la bomba era un incubo capace di incidere sulla psicologia collettiva. Entrambi le potenze misero a punto la Bomba Termonucleare o Bomba H, molto più potente; si dotarono di missili balistici, capaci di colpire il territorio nemico con testate termonucleari, in maniera più rapida. In questo modo la prospettiva di un conflitto armato tra le due potenze si faceva molto più spaventoso. Si generò quindi un effetto di deterrenza, un equilibrio del terrore. Ormai la cortina di ferro era assunta come dato di fatto e non poteva essere rimosso, in quanto nessuno voleva rischiare di innescare una guerra di questa portata. La stabilità di questo assetto bipolare avrebbe favorito lo sviluppo di un nuovo sistema internazionale, nel quale la componente militare e la prospettiva della guerra avrebbero perso la propria centralità. Negli anni ‘50 i paesi dell'Europa occidentale furono contrassegnati da una stabilizzazione dell'egemonia moderata. In Italia continuò la stagione del centrismo, con governi guidati da De Gasperi e dopo il 53 da altri esponenti della DC. Le forze moderate e conservatrici beneficiarono della ripresa economica di quegli anni e si dimostrano più in sintonia con le popolazioni, che ormai volevano lasciarsi alle spalle i conflitti del dopoguerra e ambivano ad una stabilità. DECLINO EUROPEO E NUOVO ORDINE INTERNAZIONALE Nel secondo dopoguerra il primato europeo era un ricordo passato. La Francia aveva perso lo status di grande potenza con la sconfitta del giugno del 1940, il Regno Unito aveva potuto combattere solo grazie agli americani. I paesi europei assoggettati non erano stati in grado di liberarsi da soli, ma avevano avuto bisogno degli Stati Uniti e dell'URSS. Grazie al boom della produzione industriale per alimentare la macchina bellica, gli Stati Uniti avevano consolidato la propria posizione. Per quanto provata dall'esperienza bellica, anche l’URSS aveva conseguito risultati strategici e poteva vantare la forza militare più consistente sul territorio europeo. Negli anni di guerra, i PNL europeo era diminuito di circa 25%, mentre quello statunitense era aumentato del 50%. All'inizio degli anni ’50 le spese per la difesa di Francia, Regno Unito e Italia non raggiungevano 1/5 di quelle statunitensi. Nessun paese europeo aveva ancora l'arma atomica. Tra i paesi dirigenti che avevano una tradizione di leadership internazionale, non fu facile accettare il proprio ridimensionamento. Il Patto Atlantico e la NATO suggellarono la sostituzione degli Stati Uniti al Regno Unito come principale potenza estera impegnata nel mantenimento dell'equilibrio europeo. Per indicare l'ordine internazionale instaurato in Occidente nel dopoguerra si parla infatti di pax americana, che riprende la pax Britannica. Nel ’45, in una conferenza a San Francisco, i rappresentanti dei 50 Stati di tutto il mondo diedero vita all'Organizzazione delle Nazioni Unite, ONU. Si riprendevano i punti salienti della carta Atlantica firmata da Churchill e Roosevelt nel 1941. L'ONU nasceva dalle ceneri della Società delle Nazioni, per salvare le future generazioni dalla guerra. Lo scopo era quello di mantenere la pace attraverso il dialogo, il negoziato, la cooperazione internazionale. Alla base vi erano la difesa dei diritti umani, l'uguaglianza dei diritti delle nazioni e un progresso economico e sociale dei popoli. Per adempiere a questi scopi, fu creata una serie di agenzie specializzate come la FAO, contro la fame nel mondo, l'UNESCO, per interventi culturali e dell'istruzione, l'UNICEF, per la protezione dell'infanzia, l'UNHCR, per assistenza e rifugiati. Esisteva un Consiglio di Sicurezza che in caso di minaccia o violazione della pace poteva adottare misure coercitive, con uso della forza. A questo consiglio partecipavano 6 membri a rotazione e 5 permanenti, quali USA, URSS, Cina, UK, Francia. Questi 5 erano le maggiori potenze vincitrici della seconda guerra e costituivano l'architrave del sistema, poiché ciascuno di essi disponeva del potere di veto su eventuali risoluzioni non gradite. La creazione dell'ONU rappresentò il maggiore successo nella riorganizzazione internazionale della pace. Un'altra conferenza se ebbe a Bretton Woods nel ‘44, in cui si siglarono gli accordi che prevedevano che il dollaro fosse liberamente convertibile in oro e che le altre monete fossero agganciate nell'ambito di un sistema di cambi fissi. Si creò un “Fondo monetario Internazionale”, FMI, e una Banca Internazionale, poi “Mondiale”, per finanziare i prestiti a lungo termine. DECOLONIZZAZIONE Connessa a declino europeo fu anche la dissoluzione dei grandi imperi coloniali. I maggiori, quello britannico e francese, avevano la massima estensione nel dopoguerra, grazie alla spartizione delle colonie tedesche; era poi seguita la conquista italiana dell'Etiopia. Così, prima della seconda guerra, le potenze coloniali europee controllavano il 42% delle terre emerse. Già da tempo avevano iniziato a svilupparsi nelle colonie dei movimenti che rivendicavano maggiori diritti e migliori condizioni di vita, più autonomia e indipendenza. I possedimenti coloniali erano una risorsa preziosa per le potenze Imperiali, che infatti ne intensificarono lo sfruttamento, la forza lavoro e rifornimento i soldati. L'esperienza maturata attraverso la partecipazione al conflitto però, esercitò una influenza sui sudditi coloniali, molti dei quali ne uscirono con una maggiore consapevolezza della propria sottomissione e con la determinazione a lottare per degli obiettivi più radicali. Gli stessi eventi bellici ebbero effetti devastanti nelle colonie: le sconfitte subite dalle potenze europee per mano dell'Asse incrinarono la reputazione dei padroni imperiali e sgretolano il mito della invincibilità, contribuendo al rafforzamento dei movimenti. L'occupazione giapponese dei territori a est dell'india agì come fattore di destabilizzazione: cacciò gli amministratori europei e concesse l'indipendenza alla Birmania, britannica, e all’Indocina, francese. Queste proposte d’indipendenza resero più complicato per gli europei ristabilire la propria autorità dopo la fine della guerra. Le potenze coloniali rilanciarono la propria missione: riorganizzarono gli imperi facendo concessioni alle popolazioni e creando nuove architetture costituzionali; repressero proteste e rivolte con dei trasferimenti forzati, torture ed esecuzioni. Il nemico era considerato incivile e selvaggio e quindi indegno di un trattamento convenzionali. In generale, conservare il sistema imperiale divenne troppo dispendioso: i benefici dello sfruttamento di questi territori non bilanciavano i costi per il loro mantenimento. La decolonizzazione, ovvero il crollo del sistema coloniale e l'accesso e l'indipendenza dei popoli, fu un processo articolato e complesso. Oltre alla mobilitazione dei popoli, incise il nuovo quadro internazionale del dopoguerra: la pressione dell'ONU e delle due superpotenze, che richiamavano il principio di autodeterminazione dei popoli, imponevano alle potenze coloniali di sviluppare l'autogoverno delle popolazioni. Le due potenze erano ostili agli imperi coloniali, per ragioni ideologiche ed economiche. A tracciare la strada della decolonizzazione fu l'India, britannica, considerata la perla dell'impero. Un movimento anticoloniale si era ampliato dopo la prima guerra mondiale, con la leadership di Nehru e Gandhi. Essi avevano promosso campagne di disobbedienza civile, basate sulla non violenza e non collaborazione con il regime coloniale. Nel ‘42, spinto dai giapponesi, il governo inglese cercò di ottenere l'accordo del popolo indiano allo sforzo bellico, offrendo la concessione all'autogoverno. Il popolo però rifiutò. Dopo la guerra, Attlee accettò di porre fine al dominio britannico e concesse l'indipendenza, ormai inevitabile. Ma mentre cercava di fissare le condizioni per una transizione ordinata, il continente indiano precipitò nel caos. Ci furono scontri tra Indù e musulmani a Calcutta, facendo scoppiare una violenza generalizzata. I britannici volevano che il paese restasse unito, ma dovettero accettare le richieste separatiste della lega musulmana. Alla fine si decise per una bipartizione dell'India, in due stati indipendenti: India a maggioranza Indù e Pakistan musulmano. Continuò però la violenza, con campagne di pulizia etnica, condotte da estremisti di entrambe le parti, causando centinaia di morti. Lo stesso Gandhi cadde vittima di questo fanatismo, venendo assassinato nel gennaio del ‘48. Una volta emancipata si l'India, gli altri possedimenti britannici seguirono a ruota. Birmania nel 48, Malesia nel 51. Nelle Indie orientali olandesi, i leader del partito nazionale indonesiano proclamarono l'indipendenza. Il governo dei Paesi Bassi era però deciso a ristabilire la propria autorità e lanciò una vasta operazione militare. Il consiglio di sicurezza dell'ONU intimò di negoziare con i ribelli e gli Stati Uniti minacciarono di sospendere i prestiti, vitali per gli olandesi. Queste pressioni costrinsero i Paesi Bassi a riconoscere l'indipendenza dell'Indonesia nel 49. In Indocina i francesi non riconobbero l'indipendenza. Si scontrarono con una resistenza tenace, la Lega per l'Indipendenza del Vietnam. Essa aveva acquisito il controllo del territorio e nel ‘46 si aprì un lungo conflitto armato, tra il corpo di spedizione francese e le milizie del Vietnam. Questo conflitto indocinese venne trasformato in un nuovo fronte della guerra fredda: Unione sovietica e Repubblica popolare cinese fornirono supporto militare e logistico ai manifestanti, mentre gli Stati Uniti sostennero i francesi. Il conflitto si concluse nel 54 con la caduta di Dien Bien Phu, una sconfitta per i francesi. Nel 46 il governo francese mantenne la promessa di piena indipendenza fatta ai movimenti nazionali del Libano e della Siria. Nello stesso anno il governo britannico riconobbe l'indipendenza della Transgiordania, ora Giordania. AFRICA – Lo smantellamento del continente africano avvenne più tardi. Il primo paese europeo a lasciare le colonie fu l'Italia. In Etiopia, dopo la resa italiana ai anglo-francesi, si era insediato il Negus. Il trattato di pace di Parigi del ‘47 impose all'Italia la rinuncia di tutte le altre colonie. Alla Libia venne concessa la piena indipendenza e al governo italiano venne assegnata l'amministrazione fiduciaria della Somalia. Il possedimento francese dell'Algeria seguì un percorso più traumatico: parte integrante del paese, la Francia non era disposta a rinunciarvi. Il primo novembre del ‘54 i militanti del fronte di liberazione nazionale lanciarono una serie di attacchi coordinati. Parigi reagì con durezza ma la rivolta si estese a macchia d'olio. Il governo francese allora inviò in Algeria altri militari per stabilire l'ordine con ogni mezzo necessario, rastrellamenti, torture ed esecuzioni. Uno degli episodi più cruciali del conflitto fu la battaglia di Algeri 56-57. Parigi si rassegnò accordando la piena indipendenza al Marocco e alla Tunisia, poté così concentrarsi integralmente sull'Algeria. Con il passare del tempo, la società francese cominciò ad interrogarsi sulle modalità con cui veniva portata avanti questa guerra. Una guerra sporca, fatta di massacri e violenza gratuita, con la deportazione di civili. Cominciò a crescere una frustrazione e una stanchezza nell'opinione pubblica. La crisi precipitò nel ’58, quando i vertici militari francesi stanziati in Algeria avevano invocato il ritorno al potere di De Gaulle, minacciando un colpo di stato. De Gaulle comprese presto che una pace negoziata era l'unica soluzione e firmò con i rappresentanti della FLN gli accordi di Evian nel ‘62. Questo portò al riconoscimento dell'indipendenza dell'Algeria. Legate alla questione dell'Algeria era anche la crisi di Suez. Nel 56 Nasser, presidente dell'Egitto, decise di nazionalizzare il canale di Suez. Questo era un duro colpo per gli interessi dei britannici e francesi, che controllavano il canale. I due paesi si accordarono con Israele per rovesciare il leader egiziano. L'esercito israeliano attaccò l'Egitto e poi le truppe britanniche e francesi presero il controllo del canale. Questa iniziativa incontrò però una ferma opposizione delle due superpotenze. Gli Stati Uniti erano preoccupati e imposero ai due paesi di sospendere le operazioni e di ritirarsi. I paesi obbedirono. Si concluse così l'ultimo atto imperialista di Potenza Europea. L'esito disastroso della spedizione di Suez rappresentò un’umiliazione per i due paesi e diede vita a nuovi movimenti indipendentisti dei territori. Il 1960 passa alla storia come “l'anno dell'africa”, in cui 17 paesi ottennero l’indipendenza. Il 14 dicembre, l'Assemblea generale dell'ONU adottò una risoluzione che condannava il colonialismo, in quanto violazione dei diritti fondamentali. Nel 61 il Sudafrica recise i legami con il Regno Unito e si proclamò una repubblica; nel 63 raggiunse l'indipendenza il Kenya. Alla fine degli anni sessanta, dei grandi imperi coloniali europei non rimanevano che frammenti. Il processo che portò alla distruzione di questi imperi assunse forme diverse a seconda dell'atteggiamento delle potenze coloniali. A volte la decolonizzazione fu più contrastata nelle colonie di insediamento dove erano stati presenti coloni di origine europea che non intendevano rinunciare ai privilegi. Altre volte, le modalità furono pacifiche quando le autorità coloniali reputarono conveniente un accordo con l'elite locali. Una differenza è nell’atteggiamento britannico e francese: il Regno Unito fu più evolutivo, pragmatico, incline a concedere l'indipendenza; la Francia fu più riluttante, decisa difendere lo status quo con la forza. EFFETTI DELLA DECOLONIZZAZIONE Tra gli effetti più diretti, c’è il rapido aumento degli stati indipendenti. L'ONU, che contava al momento della sua fondazione 50 Paesi, nel 67 raggiunse i 122 paesi. Gli stati di una nuova indipendenza andarono a costruire il nucleo di quello che si chiamò il terzo mondo, paesi che non appartenevano né all'occidente capitalista né al campo socialista. LA QUESTIONE TEDESCA E LA CED – L'avvio del processo di integrazione Europea era legato a doppio filo alla questione tedesca. Un mese dopo la dichiarazione Schuman, scoppiò la guerra di Corea. Il leader del Nord comunista, Kim Il Sung, lancio l'invasione del sud con l'obiettivo di unificare l'intera penisola sotto il suo controllo. All'analogia tra la divisione della Corea e della Germania, si alimentò il timore che la divisione potesse essere violata anche in Europa. Gli Stati Uniti erano convinti di dover riarmare la RFT, privata dell'esercito dopo la seconda Guerra mondiale, per un eventuale scontro con l'Unione Sovietica. Gli americani annunciarono di voler integrare la Germania Ovest alla NATO per rafforzare il sistema di difesa. La prospettiva di un riarmo tedesco suscitava delle preoccupazioni negli alleati europei. Il primo ministro francese Pleven propose una Comunità Europea di Difesa, CED. Il piano prevedeva la creazione di un esercito europeo in cui venisse integrata anche la RFT, che però, a differenza degli altri paesi, non avrebbe avuto altre forze armate al di fuori di quella. La proposta prevedeva anche un’Assemblea Parlamentare e un Ministro della Difesa Comune. Le reazioni al piano Pleven furono tutt'altro che entusiasti: RFT e Stati Uniti preferivano l'ingresso alla Nato; per arrivare alla sottoscrizione del Trattato CED nel ‘52, fu necessario un lungo negoziato. Si decise alla fine che l'Esercito Europeo sarebbe stato integrato nella NATO e sottoposto agli ordini del comando supremo, quindi dei generali americani. L'articolo 38 del trattato CED prevedeva l'istituzione di una comunità politica: questo articolo era frutto dell'iniziativa italiana. Durante le trattative, De Gasperi volle evidenziare la contraddizione che veniva fuori dalla creazione di un esercito comune in assenza di una comune politica. I lineamenti di questa comunità politica vennero definiti dall'Assemblea della CECA: il progetto politico avrebbe incorporato CECA e CED sotto il nome di Comunità Europea. A quel punto, i governi cambiarono atteggiamento e si mostrarono riluttanti ad accettare un eccessivo federalismo; adottando una tattica dilatoria, lasciarono arenarie il progetto della comunità europea. CED VIENE RESPINTO – Le vicende interne a ogni paese avevano contribuito a mettere dubbi nel processo di unificazione. In Francia, nacque un governo che vedeva la partecipazione di liste che richiamavano De Gaulle, ostili a qualsiasi ipotesi federalista. In Italia, l'uscita di scena di De Gasperi fece venir meno il più deciso sostenitore dell'unificazione europea. Si creò una situazione di stallo: il 30 agosto, all'Assemblea Nazionale di Parigi, una coalizione di gollisti, socialisti e radicali, respinse il trattato. Il progetto della CED uscì di scena e la comunità politica non si creò mai. Nel maggio del ’55, la Germania Ovest fece il suo ingresso alla NATO. RILANCIO DEL PROGETTO – Questa fu una pesante battuta d'arresto per il processo di integrazione e si diffuse sconcerto e delusione tra i federalisti. L’evento che segnò invece il rilancio dell'Europa fu la Conferenza tra i ministri degli esteri dei sei paesi della CECA. Questa si tenne a Messina, nel giugno ’55, nella quale venne discusso di rilanciare il processo di integrazione. Vennero tracciate due modalità: la prima era “l'integrazione verticale”, estendendo le competenze della CECA ad altre fonti di energia e trasporti; l'altra “l'integrazione orizzontale”, di tipo globale che non limitava a specifici settori il controllo, ma dava vita ad un mercato comune con l'eliminazione di dazi e restrizioni. La prospettiva del mercato comune ovviamente incontrava resistenze da parte della Francia, che non voleva privarsi del protezionismo per tutelare le proprie produzioni. L’Italia espresse il proprio interesse per entrambe le proposte, pur chiedendo che il mercato comportasse la libera circolazione anche di manodopera e capitali, con programmi di sostegno per le aree arretrate. La Conferenza si concluse con la decisione di nominare un Comitato di esperti, che avrebbe studiato le questioni e proposto il da farsi. Il Comitato propose la creazione sia di una nuova comunità settoriale nel campo dell'energia atomica sia di un mercato comune di prodotti agricoli e industriali. Nel ‘56 i 6 si accordarono per un negoziato. L'anno dopo firmarono due trattati, che istituivano la Comunità Economica Europea, CEE, e la Comunità Europea per l'Energia Atomica, CEEA. Il primo prevedeva un mercato comune europeo, MEC, basato su libera circolazione, tariffa unica per le importazioni dall'estero per tutti i 6 paesi. Gradualmente sarebbe stata introdotta anche la libera circolazione di persone, capitali e servizi. L’Italia richiese il mantenimento del sistema delle quote d’immigrazione. Il trattato prevedeva l'armonizzazione delle politiche economiche dei membri nei settori dell'agricoltura, dei trasporti e del commercio estero. Inoltre, venne istituito un Fondo Sociale Europeo che andasse a supportare una riqualificazione delle professioni dei lavoratori; una Banca Europea per investimenti e finanziamenti di modernizzazione; un Fondo Europeo di Sviluppo, per i territori coloniali dei paesi membri. Vennero introdotte anche forme di cooperazione nel campo della ricerca e della produzione di energia atomica a scopi civili. La struttura istituzionale delle nuove comunità era molto simile a quella della CECA ma più orientata in senso intergovernativo. Ogni paese aveva il controllo per l'esercizio delle proprie funzioni, senza però potere decisionale. Il Consiglio dei Ministri, per prendere decisioni, doveva votare all'unanimità. Come sede delle due Commissioni e dei vertici dei Consigli dei Ministri fu scelta Bruxelles. Dopo essere stati ratificati dai parlamenti nazionali, i Trattati di Roma entrarono in vigore il 1 gennaio ‘58. Il processo di ratifica mostrò come l'aria di consenso all'integrazione europea si andasse ampliando. La nascita del MEC segnò una tappa fondamentale che incentivò l'età dell'oro, un periodo di crescita generale il cui sviluppo era trainato dalle esportazioni. I TRENTA GLORIOSI Età dell’oro – Dopo il dopoguerra segnato da inflazioni, razionamenti, restrizioni, seguì una ripresa economica spedita. Entro il 1951, in tutti i principali paesi, il PIL era tornato ai livelli massimi. Si andava delineando l'era del benessere. Tra i tardi ‘40 e i primi ’70, ci fu una crescita impetuosa e un miglioramento del tenore di vita. Gli anni 1950-73 furono sede del maggior dinamismo vissuto dall'economia mondiale. Il PIL europeo aumentò di quasi tre volte. Nell'età dell'oro, la disoccupazione calò sotto il 2%. Le retribuzioni aumentarono tra le 2 e le 3 volte. La crescita coinvolse tutti i paesi, benché con intensità e tempi diversi. Cause – Tre principali fattori alimentarono la crescita: il baby boom del dopoguerra, un aumento della popolazione e l'abbondanza di manodopera a basso costo. Importanti furono anche gli aiuti americani del piano Marshall. Altrettanto importanti furono i governi e le politiche pubbliche: sostennero gli investimenti e la crescita attraverso la spesa pubblica; contennero l'inflazione. La trasformazione maggiore fu il declino del settore primario con la correlata espansione dell'industria e del terziario. Il peso dell'agricoltura diminuì rapidamente in termini occupazionali: nella seconda metà degli anni ’50, la quota dell'industria e dei servizi superò quella dell'agricoltura. Nel 1970, su 204mil di occupati, 83mill erano nel settore secondario e 80mil in quello terziario, lasciando solo 41mil al primario. Il numero di contadini e allevatori crollò, per il richiamo alle fabbriche e per la riduzione della manodopera necessaria per effetto della meccanizzazione nei campi. Flussi migratori – Un grande numero di persone si spostò verso l'Europa per cercare lavoro e migliori condizioni di vita; diminuirono invece i flussi in uscita dal continente. L'Europa si trovò a guadagnare popolazione, con maggiori arrivi rispetto alle partenze. I movimenti erano legati ai differenti livelli di sviluppo in cui si trovavano i paesi. I paesi centro-settentrionali, che avevano guidato il processo di industrializzazione dal XIX secolo, come Regno Unito e Belgio, e quelli che stavano vivendo un impetuoso boom economico, come Francia Germania, attirarono i lavoratori dei paesi mediterranei, che invece vivevano in arretratezza. I principali erano il Mezzogiorno d'Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. All'origine di questi movimenti migratori vi era un interesse di import-export di manodopera: i paesi di destinazione avevano bisogno di forza-lavoro a basso costo per sostenere il proprio sviluppo, mentre i paesi di partenza volevano diminuire demograficamente e ridurre la disoccupazione. Fu così che i paesi stipularono una serie di accordi bilaterali per controllare gli spostamenti. Gli immigrati andarono prima a sostituire la manodopera nelle occupazioni meno appetibili, per il salario basso e le condizioni di lavoro. Le funzioni andarono poi ad espandersi all'industria pesante e al settore minerario, dove gli immigrati fungevano da “ammortizzatori”, essendo i primi a perdere il lavoro. Gli immigrati risultavano avere le occupazioni più dure e pericolose: ¾ dei lavoratori vittime di incidenti mortali sul lavoro, erano immigrati. La presenza di lavoratori immigrati era considerata inizialmente temporanea e prevedeva dopo un certo tempo il loro ritorno in patria. Erano considerati “lavoratori ospiti” e venivano esclusi dai diritti e benefici sociali, che invece erano i riservati solo ai propri cittadini. Con il passar del tempo però, i lavoratori stranieri cominciarono a stabilizzarsi e a moltiplicarsi, invitando le famiglie in modo permanente. I paesi dell'Europa centro-settentrionale decisero di porre un freno all'immigrazione per lavoro con vari provvedimenti restrittivi. Non mancavano nella società atteggiamenti di chiusura e ostilità nei confronti di immigrati. L'Italia era il paese da cui provenivano i più grossi flussi migratori dentro l'Europa. L'immigrazione italiana serviva per alleviare la disoccupazione. A questo fine, l'Italia pose la questione della libera circolazione di manodopera nelle trattative multilaterali dell'ONU e nel processo di integrazione europea. Siglò anche degli accordi bilaterali con Belgio e Francia, che prevedevano la fornitura di carbone in cambio di manodopera. Si andò a creare una specie di emigrazione assistita, controllata e pianificata dalle autorità italiane, che strinsero altri accordi con Svizzera, Regno Unito, Olanda, Lussemburgo, Svezia, Cecoslovacchia e RFT. Gli accordi però venivano rispettati solo parzialmente, in quanto formazione e sicurezza sul lavoro erano trascurate. Le condizioni erano precarie e i salari minimi. Il supporto da parte delle istituzioni italiane era totalmente inadeguato. Questi fattori portarono molti lavoratori ad immigrare in modo clandestino. Le migrazioni interne ai paesi partivano dalle aree rurali e dai piccoli centri verso le città, dalle regioni più arretrate verso quelle più sviluppate. Questo portò una grande spinta all'urbanesimo. In Italia gli spostamenti erano verso i capoluoghi, al centro-sud verso Roma e Genova-Milano-Torino. RIVOLUZIONE DEI CONSUMI E TRASFORMAZIONI SOCIALI Negli anni 50 e ancor più nei 60, si registrò in Europa occidentale una crescita dei consumi privati. Cresceva la quota di coloro che potevano spendere per consumi secondari, beni e servizi non di prima necessità, quali bellezza, cura della persona, arredamento della casa e tempo libero. Questa rivoluzione dei consumi partiva da: una tendenza alla diminuzione dei prezzi grazie alla progressione della produzione, una crescita del commercio internazionale, una maggiore disponibilità di reddito per le nuove opportunità di lavoro e di retribuzioni, delle forme di agevolazione degli acquisti, degli investimenti pubblici nel welfare state. La moltiplicazione dei beni di consumo durevoli (elettrodomestici e mezzi di trasporto privati), fu l'aspetto più vistoso della rivoluzione dei consumi. La televisione andò diffondersi con straordinaria rapidità fino ad arrivare nelle case, circa 1 apparecchio ogni 4 persone. L'automobile modificò le abitudini quotidiane, diventando “per tutti” e alimentando il turismo di massa nei fine settimana. L'accesso a beni e servizi che prima erano riservati ai ceti abbienti, determinò dei cambiamenti per vari strati della popolazione. Nonostante rimanessero notevole disparità sociali, si generò un regime di abbondanza rispetto ad uno di scarsità. Andava a formarsi in Europa occidentale una moderna società dei consumi di massa. Il vecchio continente seguì gli Stati Uniti in un percorso già intrapreso da loro da diversi decenni. GIOVANILISMO – Negli anni 60 i giovani si andarono configurando come gruppo sociale a sé stante, in un universo intermedio e autonomo. I consumi giovanili divennero una realtà di primaria rilevanza nei settori della musica e del vestiario. Seguirono mode e tendenze che venivano dagli Stati Uniti dal Regno Unito. Lo sviluppo di una cultura giovanile e l'affermarsi dei giovani come gruppo capace di esercitare un'influenza nella società, furono le promesse per il successivo emergere del giovanilismo. Nell'Europa del dopoguerra ancora dominavano valori e stili di vita tradizionali, ma gli anni ‘60 portarono profondi cambiamenti, come il rilassamento dell'etichetta e una moda più comoda. La società del benessere non sovvertì tutte le strutture sociali: nell'ambito familiare esisteva ancora il modello tradizionale della famiglia nucleare. L'egemonia di questo modello aveva una natura politica: la famiglia faceva riferimento a ideologie dei partiti moderati e democristiani. Nel Regno Unito, l'omosessualità restò illegale fino al 1967, nella RFT fino a ’69. Mentre i paesi occidentali vivevano la propria età dell'oro, l'Europa orientale conosceva la modernizzazione accelerata. Dopo aver avuto il potere, i partiti comunisti introdussero un modello economico sovietico. Questo era basato su industrializzazione forzata, pianificazione centrale e collettivizzazione agricola. Nel 1950, in tutti i paesi dell'Europa orientale oltre il 90% delle attività produttive non agricole erano state nazionalizzate. I primi piani quinquennali furono lanciati in Jugoslavia nel ‘47. La Jugoslavia adottò un sistema misto, basato su autogestione delle imprese da parte dei lavoratori in consigli elettivi e liberalizzazione degli scambi dei prezzi. La regione si era aperta al commercio con l'occidente e al turismo estero, vivendo un significativo sviluppo economico che consentì un aumento dei consumi. Intanto a Mosca, l'avvento di Kruscev, aveva segnato l'avvio di un indirizzo di politica meno rigido. Introdusse riforme in materia di lavoro e pensioni e aumentò le risorse per le produzione dei beni e consumi. I progressi registrati indussero la dirigenza sovietica a lanciare una sfida all'occidente sul terreno economico. Annunciarono che, in una decina di anni, l'URSS avrebbe raggiunto i livelli di sviluppo e benessere superiori agli Stati Uniti e agli europei. Alcuni paesi satelliti cercarono di intraprendere dei percorsi di riforma per una maggiore liberalizzazione. Quelli più importanti furono in Ungheria in Cecoslovacchia. Nel 1968 venne approvato il nuovo meccanismo economico, una riforma orientata all'abolizione della pianificazione di stampo sovietico, all'autonomia delle aziende e alla mutarono nel senso più democratico possibile. Al di là delle specificità nazionali, negli anni ‘60 le politiche sociali erano ancora prevalentemente basate sul modello standard di famiglia nucleare e una precisa ripartizione dei ruoli di genere. L'EUROPA DI DE GAULLE Gli orientamenti e le azioni di De Gaulle, esercitarono un peso rivelante sugli sviluppi per l'integrazione Europea negli anni 60. L'Europa del tempo era una “Europa delle patrie”, basata sulla cooperazione tra gli stati e i governi nazionali. Da qui partì un progetto l'unione di stati, presentato a Parigi nel 60. Il progetto prevedeva una cooperazione a vasto raggio, non limitata alla dimensione economica ma anche ad altri ambiti quale politica, difesa e cultura. Le politiche comuni sarebbero state il frutto di consultazioni permanenti tra i capi di stato. Gli obiettivi di De Gaulle non erano però condivisi dai partner comunitari, come Belgio e Olanda, che temevano un’eccessiva egemonia francese. Furono proprio questi paesi a porre fine al negoziato nel ‘62. Nello stesso anno viene avviata la politica agricola comune PAC. Secondo il trattato di Roma, si doveva incrementare la produttività dell'agricoltura e stabilizzare i mercati, per sostenere i redditi della popolazione. I 6 paesi adottarono un regime diverso: da un lato, la PAC era funzionale all'esigenza della Francia, grande produttore agricolo, per trovare uno sbocco per i propri prodotti all'interno della CEE; dall'altro, la scelta di privilegiare gli interessi dei produttori rispetto a quelli dei consumatori, rispondeva all'obiettivo prioritario di dare sostegno la famiglia contadina. Si pose poi il tema dell'allargamento della CEE. Nel 61, il Regno Unito presentò domanda di adesione, abbandonando la linea di autoesclusione. Alla domanda si associarono Irlanda, Danimarca e Norvegia. Il governo inglese però non voleva sacrificare i suoi legami commerciali e chiese delle deroghe alle regole. Queste incontrarono resistenze: De Gaulle era contrario perché le deroghe pretese da Londra avrebbero svuotato di senso la PAC e la Francia si sarebbe trovata un pericoloso contendente per la leadership. Nel ’63, il presidente francese dichiarò il commercio britannico incompatibile. La Francia di de Gaulle fu protagonista di altri scontri con i paesi della CEE. Nel ’65, la commissione propose di riformare il bilancio comunitario assegnando delle risorse proprie alla CEE, derivante dai prelievi sui prodotti agricoli. Così non sarebbe più dipesa finanziariamente dai contributi degli stati membri. La commissione sottopose questa proposta però senza previa consultazione del Consiglio: per questo Parigi fu messa in allarme. La Germania Ovest e l’Italia si lamentavano che gli oneri della PAC fossero distribuiti non equamente e che ne risultasse avvantaggiata la Francia. Per questo motivo, la Francia cominciò ad astenersi dalle sedute e si parlò di “crisi della sedia vuota”. Il compromesso di Lussemburgo trovò la soluzione del 66: nel Consiglio dei Ministri, le proposte avrebbero dovuto raggiungere l'unanimità se interessavano vitalmente uno stato membro. Il governo francese uscì quindi vittorioso da queste istanze. IL SEESSANTOTTO Nella seconda metà degli anni ’70, l'ordine costituito venne messo in discussione. Il 68 fu l'anno dei moti di rivolta giovanile, partiti dagli studenti. Importante fu la transizione dall'università di élite ad una di massa, che vide aumentare il numero di giovani studenti. Il movimento studentesco poneva l’attenzione sulle riflessioni e analisi della nuova sinistra, che rigettava il modello sovietico e si impegnava in un ripensamento del marxismo e socialismo. I principi erano anti-autoritarismo e anti-imperialismo. Sul piano internazionale, si sostenevano le lotte per l'autodeterminazione del terzo mondo, soprattutto contro la guerra in Vietnam. Alla base delle manifestazioni vi era una partecipazione, un’azione diretta, che ispirarono le forme di mobilitazione. Gli studenti scesero nelle strade e occuparono le facoltà, trasformando i centri universitari in centri di elaborazione politica e culturale. Gli studenti denunciarono I provvedimenti repressivi delle autorità accademiche e si scontrarono con le forze dell'ordine. In Francia, la mobilitazione si estese dalle università al mondo del lavoro e il 13 maggio venne proclamato lo sciopero generale operaio, in solidarietà col movimento studentesco e contro il governo. Il paese si trovò in una paralisi ed una sospensione. De Gaulle annunciò lo scioglimento dell'Assemblea Nazionale e la convocazione di nuove elezioni. In Italia il 68 fu policentrico ed ebbe una maturazione più lenta, partendo dalle agitazioni del 66-67. Gli studenti occuparono le università principali e rivendicavano il potere studentesco contro l'autoritarismo. L'apice della mobilitazione fu raggiunto il 1 marzo con la battaglia di Valle Giulia. Qui gli studenti si scontrarono duramente con la polizia, con una forte violenza di piazza, non solo subita ma anche praticata. Si andò a cercare un collegamento con le lotte operaie, con le commissioni dedicate alle fabbriche e al lavoro operaio. Si fecero inchieste sulle loro condizioni di lavoro e sulla nocività che portavano a malattie. Dopo l'estate, le università chiusero le agitazioni, mentre ci fu una ripresa del conflitto nelle fabbriche. L'”autunno caldo” fu contraddistinto da contrasto alla gerarchia di fabbrica, all’opposizione del sistema retributivo e da rivendicazioni di aumenti. Nel 1970, gli operai ottennero l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori. In Germania Ovest la contestazione èbbe una connotazione terzomondista ovvero si ispirò e si manifestò a sostegno della liberazione del terzo mondo. I giovani imputarono agli adulti di non aver fatto i conti con l'eredità del nazismo e denunciarono la continuità del terzo Reich. A guidare la rivolta fu la Lega socialista degli studenti. In Polonia, il 68 venne innescato dalla protesta di sospensione delle rappresentazioni al Teatro Nazionale di Varsavia, di un preciso dramma considerato antirusso. Gli studenti scesero in piazza e occuparono l'università. La mobilitazione però fu stroncata da una dura repressione. Nell'Europa dell'est, in Cecoslovacchia, ci fu un esperimento riformatore chiamato “Primavera di Praga”. Il segretario del partito comunista divenne Dubcekil, il quale varò un programma che prevedeva l'introduzione di pluralismo politico, di libertà di espressione e di stampa e l’abolizione della censura. Mosca optò subito per il ricorso alla forza: le truppe dei paesi del Patto di Varsavia occuparono la Cecoslovacchia. La popolazione scese nelle strade e mise in atto una ferma resistenza passiva con manifestazioni, scioperi e boicottaggio. Dubcek e altri dirigenti vennero persuasi a revocare i provvedimenti varati e a guidare il paese sulla strada della normalizzazione. Gli avvenimenti diedero spunto alla “dottrina Breznev”, che il leader sovietico illustrò: i paesi satelliti erano liberi di terminare il proprio corso politico fintanto che non andava contro i principi del socialismo e non metteva a repentaglio il bene del blocco orientale. Se questo non veniva rispettato, l’Unione sovietica aveva il diritto e il dovere di intervenire. Il 68 ebbe un impatto limitato comunque. Ci furono delle riforme dei sistemi educativi per accessi all'istruzione superiori e per l’aumento della partecipazione studentesca, ma non ci un rovesciamento dell'ordine costituito. Introdusse nella società forme di liberazione e democratizzazione, e nuovi movimenti presero vita come quello femminista. Gli anni 70 infatti furono caratterizzati dalla crisi e dalle transizioni della fine della modernità. Fu l'esordio di una grande trasformazione: cambiarono i rapporti tra paesi europei e le superpotenze; il ruolo dell'Europa occidentale andrò a dimensionare la supremazia statunitense e sovietica. ANNI 70 – LE CRISI Crisi monetaria – Gli Stati Uniti erano ormai indeboliti: a causa dei costi della guerra in Vietnam avevano appesantito il loro decifit. La Banca Centrale cominciò a stampare una quantità di banconote che aumentò l’inflazione e deteriorò la credibilità del dollaro. Alla fine degli anni 70, erano cresciute le richieste degli stati europei per convertire in oro le loro riserve di dollari. La conseguenza fu che le riserve di oro risultavano dimezzate. Washington decise di rinunciare a ruolo di garante del sistema monetario degli Stati Uniti e nel 71, Nixon annunciò una nuova politica economica, che prevedeva la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Da allora il dollaro cominciò a fluttuare secondo l'andamento delle altre valute. Questo provocò la fine dell'ordine monetario e l’inizio di una fase di competizione tra i sistemi monetari nazionali. I paesi europei risposero con politiche di svalutazione della propria moneta. Nel 73, dopo due svalutazioni del dollaro, si superatono definitivamente gli accordi finanziari di Bretton Woods e si introdusse un nuovo sistema basato sulla variabilità dei tassi di cambio. Le valute crollarono e il prezzo mondiale delle materie prime crebbe. Shock petrolifero – I paesi arabi, che erano esportatori di petrolio, decisero di ridurre la produzione e di aumentare il prezzo. Questa scelta fu guidata dalla politica all'appoggio degli Stati Uniti e dei paesi occidentali a Israele, che era impegnato in un nuovo conflitto con l'Egitto e la Siria. Fino ad allora, il petrolio era la principale fonte energetica industriale e aveva mantenuto dei prezzi molto bassi, favorendo la grande espansione economica. Con un aumento del prezzo duplicato e poi quadruplicato più avanti, i sistemi produttivi entrarono in crisi. I danni più gravi furono il Giappone e stati europei. Il Regno Unito, grazie alla scoperta di giacimenti nel mare del Nord, riuscì a essere autosufficiente. L'impennata dei prezzi provocò nei paesi capitalistici un brusco rallentamento dei tassi di sviluppo e una crescita dell'inflazione. Inizialmente i governi reagirono intensificando gli interventi statali e sostenendo i lavoratori. Poi però, pensarono ad una conversione deflazionistica, fondata sul rafforzamento del valore della moneta con un controllo del bilancio e una riduzione dei consumi. Se ne fece promotore il governo della Germania, che propose nel 78 l'introduzione di un Sistema Monetario Europeo, connotato da tassi di cambio fissi bilaterali e garantiti dalla stabilità del marco tedesco. Alla fine degli anni 70, emersero dei segnali di ripresa economica, ma la nuova impennata dei prezzi di petrolio innesco un'altra inflazione. Nonostante la stagflazione e la caduta del commercio internazionale del 13%, subito dopo lo shock petrolifero i tassi del PIL in Europa continuavano a rimanere positivi. TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE – Si parlò poi di “terza rivoluzione industriale”: ci fu la trasformazione delle strutture produttive nei paesi capitalistici più sviluppati, accelerata da innovazioni tecnologiche e scambi internazionali. Cominciò una divisione del lavoro che ridimensionò la presenza della produzione manifatturiera. Crebbero quindi le industrie pesanti come quelle mineraria, siderurgica, meccanica e quelle più tradizionali, come la manifattura e tessile. Questo fu un periodo caratterizzato da un processo di deindustrializzazione dell'Europa occidentale. Negli anni 70 in Italia si svilupparono le piccole imprese come industrie a conduzione familiare con pochi addetti, capace di creare produzioni flessibili e una sintonia maggiore con i compratori. Questo fenomeno nuovo contribuì al ripensamento delle teorie dello sviluppo, fondate sull’arretratezza delle piccole imprese che erano destinate a sparire davanti alle multinazionali. Invece fu proprio la grande industria fordista ad essere penalizzata: si deve riorganizzare sulla base delle piccole imprese. Questo modello riguardava un impiego della manodopera maggiore. Nell'italia del centro e nord est, emersero i distretti industriali, che andarono a definire una terza Italia: costellazioni di piccole e medie imprese concentrate in un territorio e attive nello stesso settore, che insieme divennero poli di produzione capaci di competere con le multinazionali. Il ridimensionamento del settore industriale suscitò allarme e proteste; negli anni 69-75 ci furono varie conflittualità nelle fabbriche con mobilitazioni e scioperi. Nel Regno Unito, i minatori costrinsero il governo a rinviare la chiusura delle miniere considerate improduttive. In Italia, sulla scia dell'autunno caldo, si moltiplicarono le proteste. Dai conflitti sindacali, i lavoratori ottennero molte delle loro richieste: diminuzione dell'orario di lavoro e delle differenze salariali tra i livelli alti e bassi. In Francia, Regno Unito e Italia si firmano accordi per i salari e le frazioni: i patti sociali, con i quali i governi, partiti e sindacati si impegnavano ad una politica di moderazione e concentrazione per difendere l’industria. Crebbe la forza dei sindacati e la loro rappresentanza negli interessi dei lavoratori dei servizi. MOVIMENTI AMBIENTALISTI E FEMMINISTI I tradizionali partiti di massa cominciarono a perdere dinamismo e consensi. Le politica della classe operaia andava a frantumarsi, quella dei ceti medi assunse un carattere rivendicativo e critico nei confronti delle istituzioni pubbliche. Si diffuse il modello di partito fondato sull'appartenenza di una classe sociale o un lavoro, forme di attivismo politico legate alla identità culturale e sessuale. Nascono movimenti monotematici concentrati su singole questioni, disinteressati al proseguimento di principi astratti o alleanze fra diversi interessi sociali. I movimenti più diffusi e influenti furono quelli femministi e ambientalisti. I primi criticavano la divisione di ruoli di genere ed ebbero considerevoli successi grazie alla mobilitazione culturale che riuscì a modificare l’immagine delle donne. Le donne erano sempre più numerose nel mondo del lavoro e rivendicavano il riconoscimento degli stessi diritti e salari degli uomini. Molti governi accettarono le richieste dei movimenti femministi. In Francia venne legalizzato l'aborto, in Germania occidentale venne approvata una legge sul matrimonio che cancellava l'obbligo di richiedere il consenso del marito per lavorare, in Spagna vennero depenalizzati adulterio e contraccezione. In Italia venne introdotto il divorzio nel 70, il diritto alla famiglia nel 75, la legalizzazione dell'aborto nel 78. S'impose una nuova identità della donna che chiedeva il riconoscimento di una eguaglianza effettiva con l'uomo. I movimenti ambientalisti ebbero un impulso che partiva dai disagi per gli effetti dell'industrializzazione e della modernizzazione. Si temeva per l’inquinamento atmosferico, l'impatto dell'espansione urbana, i rischi di all'energia nucleare. Per un mondo più naturale e una vita non contaminata dalla artificialità dei consumi, si univano destra e sinistra, conservatori e progressisti. Questi punti divennero la base per nuove organizzazioni politiche. I primi ecologisti si presentarono nel ‘73 alle elezioni locali in Francia e Regno Unito; in Germania nacque il partito dei verdi, i quali nel ‘79 erano già in due parlamenti regionali, fino a diventare una forza governo. Persino nei paesi comunisti dell'Europa orientale, nei quali il primato dell'industria era connotativo dell’ideologia statale, emersa la protesta ambientalista. Vennero mosse accuse ai politici, i quali Davanti alle difficoltà economiche, l'Unione sovietica si limitò a sovvenzionare i paesi satelliti. Non ci fu nessuna strategia per migliorare la produzione industriale e agricola. Si sviluppò un sistema dualistico, dove solo poche industrie tecnologicamente più avanzate potevano competere sul mercato internazionale, mentre il resto produceva merci scadenti solo all'interno del Comecon. In questi anni quindi si accentuò il divario economico tra le due Europe. Davanti a questo progressivo declino del blocco orientale, non mancarono però tentativi di reazione. Cecoslovacchia e Ungheria riuscirono a migliorare il loro tenore di vita, dedicando un'attenzione maggiore ai bisogni dei consumatori e varando riforme con lo scopo di stimolare l'iniziativa privata e ridurre le tasse su piccolo commercio. Alle difficoltà economiche si aggiunsero le tensioni provocate dalle politiche nazionalistiche. Preoccupavano molto i progetti di marginalizzazione e assimilazione culturale delle minoranze. In Romania, il governo mirò ad un annichilimento culturale degli ungheresi, che vivevano in Transilvania, a cui venne impedito l'accesso a servizi pubblici, corsi universitari e lavori meglio retribuiti. In Bulgaria, vennero introdotti provvedimenti discriminatori contro i turchi musulmani. Fu evidente il processo di degrado delle società comuniste nel corso degli anni ’70. Anche se non mancavano tecnologie e soluzioni avanzate, si continuava a convivere con delle forme di organizzazione di lavoro e vita sociale primitive. Il declino delle condizioni di vita andò a colpire gli strati della popolazione più povera, aumentando le disuguaglianze interne alla società. EFFETTI DELLA DISTENSIONE Accordi tra URSS e USA – Accanto all’Ostpolitik, la distensione fu decisiva per il ravvicinamento tra le due Europa. Dopo una fase di coesistenza pacifica, Washington e Mosca divennero più consapevoli del comune interesse alla stabilizzazione del bipolarismo. Avrebbe consentito ad entrambi di consolidare la propria egemonia all'interno dei rispettivi blocchi. Infatti, gli Stati Uniti erano indeboliti dal conflitto in Vietnam e l'Unione sovietica continuava a ad avere problemi con i paesi satelliti. Così, le due superpotenze iniziarono una strategia comune che aveva l'obiettivo di riconoscere definitivamente la divisione dell'Europa. Nel ‘67, sotto la guida degli Stati Uniti, i paesi della NATO approvarono il rapporto Harmel. Questo impegnava l'alleanza a intraprendere una politica di distensione. Si mirava soprattutto a porre le premesse per un accordo con Mosca che avrebbe consentito il controllo globale delle armi nucleari. Per ridurre i rischi di una guerra atomica, le due potenze avevano preso impegno di limitare la corsa agli armamenti in tutto il pianeta e concordato una regolamentazione per la gestione dei rispettivi arsenali. Mosca era giunta ad una parità strategica negli armamenti atomici e poteva trattare con il nemico alla pari. Questa svolta gli permise di superare l'isolamento diplomatico e rafforzare il dominio nell'Europa orientale. L'obiettivo principale di Breznev rimaneva la pace con gli Stati Uniti. Questa nuova sintonia si concretizza nel ‘72 con la firma dell'accordo “Salt”, che sanciva la parità strategica e regolava la corsa di armamenti. Fu la definitiva dimostrazione di un reale interesse comune alla stabilità, che venne dimostrato anche dalla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione, aperta nel ‘73 ad Helsinki, alla quale partecipano tutti i paesi europei. In questa conferenza si giunse alla firma di una serie di accordi nel ‘75, che ratificavano il quadro geopolitico: i partecipanti si impegnavano a rinunciare all'uso della forza e a rispettare la sovranità reciproca delle frontiere; favorivano una cooperazione tecnica, industriale ed energetica; rispettavano i diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. I governi dell'Europa occidentale coltivavano una visione peculiare della distensione: una cooperazione capace di dinamizzare i rapporti tra i blocchi e migliorare la vita dei cittadini. L’impiego assunto dagli stati per rispettare i diritti di cittadini divenne una nuova arma contro l'autoritarismo. Gli accordi di Helsinki infatti rappresentarono un successo per Mosca, ma accelerarono il processo di indebolimento del sistema comunista. Nacquero delle reti di dissidenti al comunismo, che invocavano le libertà fondamentali e denunciavano gli abusi dell'autorità, con lo scopo di una reintegrazione dei paesi dell'est nella tradizione culturale Europea. Nel partito comunista italiano, dopo l'avvento di Enrico Berlinguer nel ‘72, si sviluppò l'idea della necessità di una nuova strategia politica, che fronteggiasse le emergenze nazionali, quali la crisi economica e il terrorismo, ed emergenze internazionali, dettate dalla distensione tra est e ovest. Berlinguer immaginò un “compromesso storico” con l'altro grande partito di massa, la DC, che consentisse di accantonare le diversità in funzione di un governo di unità nazionale. Ad accentuare l'allontanamento ideologico dal comunismo, anche i leader dei partiti comunisti francese e spagnolo, diedero vita, nel ’75, ad un nuovo comunismo europeo, un “eurocomunismo”; esso fondava sull’apertura del marxismo ai principi del liberalismo. L’eurocomunismo registrò un parziale successo soltanto in Italia, dove arrivò alla maggioranza parlamentare per un breve periodo, per poi tornare. IL RITORNO DELLA DEMOCRAZIA NELL'EUROPA MEDITERRANEA Grecia, Spagna e Portogallo, sebbene avessero un livello di sviluppo economico inferiore agli standard europei, avevano costituito negli anni 50-60 un avamposto del blocco occidentale nell'area mediterranea. Agli inizi degli anni ’70, erano tutti guidati da governi autoritari sempre più anacronistici. Essi vennero messi in difficoltà dall'espansione dei ceti medi urbani e furono costretti a cedere il passo ad una democratizzazione. In Grecia, erano stati gli esiti della guerra civile a condizionare la vita politica. La sconfitta dei comunisti aveva consolidato un ruolo centrale dell'esercito nella ricostruzione post-bellica. I militari, ispirati da un radicale anticomunismo, rappresentavano un baluardo di ordine in un'area che era instabile. Non a caso, la Grecia era uno dei paesi che aveva più aiuti dagli Stati Uniti. I militari avevano faticato ad arginare l’instabilità politica, alimentata dai contrasti tra Parlamento e il monarca. Per superare quest’impasse, nel ‘67 presero il potere con la forza. Cominciò un regime dittatoriale che per 7 anni isolò la Grecia dalla modernità. Furono arrestati oppositori, censurata la stampa, vietato lo sciopero e proibiti i simboli considerati moderni, come capelli lunghi, minigonne, musica contemporanea e sociologia. Lo scopo era di creare uno stato autarchico. Nel ’73, gli studenti dell'università di Atene organizzarono la prima protesta contro il regime. I colonnelli reagirono cercando di mobilitare i sentimenti nazionalistici dell'opinione pubblica. A questo scopo, rilanciarono il progetto di annessione dell'Isola di Cipro. Nel ‘74 quindi presero Cipro e installarono un governo provvisorio. Nell’Isola intervenne la Turchia, che occupò a quasi metà del territorio. A questo punto i greci furono costretti a fare un passo indietro e chiamare al governo il leader nazionalista Karamanlis. Il nuovo partito di centro-destra, creò nuova democrazia e vinse le elezioni: decretò l'abolizione della monarchia e la nascita di una repubblica. Nel ‘75 venne approvata una nuova costituzione. Il governo cercò di risolvere la disputa su Cipro: la minoranza turca intanto proclamò la nascita di uno Stato Federato Turco di Cipro; il governo greco preferì allora delegare la soluzione alla diplomazia dell'ONU. Nel Portogallo, vigeva il governo autoritario di Salazar. Il paese era aggravato da un aumento delle spese militari e dovette fronteggiare le rivolte nei possedimenti coloniali in Africa. Nel ‘68 Salazar venne sostituito da Caetano, il quale provò a rivitalizzare l'economia nazionale, ma la situazione economica precipitò. Scoppiarono proteste popolari, scioperi e si diffuse il malcontento dell'esercito, malpagato. Nel ’74, un gruppo di ufficiali promosse un colpo di stato che voleva abbattere il regime all'insegna della democrazia, della decolonizzazione e modernizzazione. Antonio De Spinola divenne il leader di una giunta provvisoria: deliberò il rilascio dei prigionieri, il ripristino della libertà di stampa e dei partiti socialisti comunisti. La giunta era molto popolare ma, a causa delle richieste di riforme sempre più radicali, De Spinola entrò in difficoltà e si dimise. Il potere passò nelle mani di ufficiali più giovani, che cercarono di promuovere una rivoluzione sociale. Alle elezioni per l'Assemblea Costituente nel ‘75 vinsero i socialisti guidati da Soares. Comincia con Soares un periodo convulso: si temeva un colpo di stato comunista e lo scoppio di una guerra civile. I militari decisero di cedere il potere alle autorità civili. Fu approvata una costituzione che prevedeva una transizione verso il socialismo. Soares formò il primo governo eletto democraticamente, dopo quasi 50 anni di dittatura. Così anche il Portogallo presentò domanda di adesione alla CEE. In Spagna, dove si era diffusa una forte protesta operaia dagli anni 60, cominciò un periodo di democratizzazione. Quando Franco morì nel 75, la fine della dittatura divenne inevitabile. Il nuovo re Juan Carlos, designato dallo stesso Franco a succedergli, guidò il processo. Nel ’76, il re nominò primo ministro Adolfo Suarez, fondatore di un nuovo partito, l'Unione di Centro Democratico. Con un referendum venne approvata l'introduzione del suffragio universale e la costituzione di un Parlamento Bicamerale. Nel ‘77 il partito di Suarez conquistò il maggior numero di seggi all'Assemblea Costituente, 165, mentre i socialisti 121. Fu risultato rassicurante per i conservatori, sempre più timorosi di una svolta verso sinistra: consentiva ai socialisti di avere un ruolo importante nella formulazione della carta costituzionale. La costituzione venne approvata con un referendum nel ‘78 e designò una monarchia parlamentare, senza religione ufficiale e pena di morte. Con il riconoscimento del diritto di autonomia per le regioni storiche, la Spagna presentò domanda di adesione alla CEE. NUOVE TENSIONI TRA I DUE BLOCCHI Nonostante i risultati della politica di distensione, si entrò in crisi. Stati Uniti e Unione Sovietica congelarono ogni forma di dialogo e tornarono a confrontarsi con toni minacciosi. La ragione principale era la diversa concezione e interpretazione della distensione: Washington la considerava una strategia di portata globale, Mosca un mantenimento dei propri equilibri. I sovietici avevano esteso la propria influenza soprattutto in Africa, dove erano intervenuti per condizionare i conflitti civili esplosi. Con assistenza militare e vendita di armi, avevano stabilito rapporti con i paesi del terzo mondo, costruendo una rete di relazioni minacciosa per gli Stati Uniti. Sì aggiunse anche l'attrito provocato dalla distinzione dall'Europa occidentale: era un’occasione per rafforzare la propria autonomia dagli Stati Uniti, ma al tempo stesso gli occidentali temevano il disimpegno degli USA da ruolo di garante davanti ad una possibile minaccia sovietica, che si dovessero trovare soli a fronteggiare la pressione sovietica. Intanto, negli Stati Uniti, i gruppi dei pubblicani e dei conservatori denunciavano la distensione, vista come un compromesso inaccettabile con il nemico e una prospettiva di un futuro di sottomissione. Da qui iniziò una svolta nella politica estera statunitense: Jimmy Carter, eletto presidente nel ’76, si mostrò ostile alle logiche della politica di potenza di Nixon e Kissinger. Nel ‘79 si firmò il nuovo trattato “Salt 2”, che imponeva una diminuzione dell'arsenale nucleare. Sembrava aprirsi una nuova stagione di dialogo, ma due nuove crisi fecero precipitare le relazioni. La prima venne scaturita dalla decisione della NATO di installare nuovi missili di medio raggio in Europa, gli “euromissili”, in risposta al Unione sovietica che aveva schierato armi nucleari moderne ed efficienti ai confini del blocco occidentale. Questa mossa sovietica aveva allarmato i membri europei della NATO che consideravano i missili sovietici una minaccia la sicurezza. La seconda crisi venne innescata da Mosca, che inviò truppe in Afghanistan: fu la prima volta nel dopoguerra che i soldati sovietici intervennero al di fuori della sfera dell'Europa orientale. L'azione non era motivata dall’espansione, ma solo dal voler contenere la minaccia del fondamentalismo islamico. Mosca era infatti allarmata per gli effetti della rivoluzione in Iran. Queste motivazioni però non trovarono comprensione a Washington che giudicò l'invasione dell'Afghanistan una prova dei disegni espansionistici sovietici. Gli Stati Uniti azzerarono la politica della distensione, congelarono il Salt 2 e fornirono aiuti militari al Pakistan e agli islamici in Afghanistan. Dopo un decennio di dialogo e intese, le due superpotenze tornarono all’antagonismo. Il caso italiano – Agli inizi degli anni ’70 l’Italia non aveva ancora un sistema universale di sicurezza sociale. I governi ampliarono il raggio d'azione degli interventi nei settori della provvidenza, salute, assistenza sociale. Nel ‘78 nacque il Sistema Sanitario Nazionale, che assicurava prestazioni e servizi a tutti i cittadini, su una base di eguaglianza e uniformità di trattamento. NEOLIBERISMO Per tutte queste ragioni, alla metà degli anni ’70, il Welfare State era divenuto oggetto di dibattito. Si cominciò a parlare di “assistenzialismo”e “stato assistenziale” con intenzioni denigratorie. Chi lo criticava, riteneva che fosse un ostacolo alla crescita economica, in quanto lo Stato provocava inflazione e crescita della spesa pubblica, penalizzando i profitti. Derivato dalle teorie economiche neoclassiche dell'800, il neoliberismo esaltava le capacità di autoregolazione del mercato. Liberato da vincoli e controlli dello stato, il mercato sarebbe cresciuto al massimo e avrebbe distribuito la ricchezza in modo migliore. A diffondere le idee neoliberiste contribuirono le istituzioni culturali private, i “Think Tanks”, luoghi di elaborazione intellettuale. Essi godevano di finanziamenti da parte dei gruppi politici e dagli economisti che insegnavano nelle università migliori britanniche e statunitensi. Esse furono trasformate in centri di formazione di una nuova classe dirigente imprenditoriale, orientata sui principi del libero mercato. L'Università di Chicago era il centro di una scuola di pensiero economico ispirata al monetarismo, una teoria che postulava la necessità di limitare l'intervento statale sul mercato, con obiettivo la crescita economica sostenendo l'offerta e non la domanda. I neoliberisti insistevano sul valore della libertà di mercato come strumento di efficienza economica e presupposto per lo sviluppo della libertà individuali. I critici però denunciavano come questi principi fossero un'espressione degli interessi dei detentori delle proprietà private: secondo loro, miravano proprio a ristabilire le condizioni per un aumento dei profitti privati e del potere delle elite economiche, a sfavore delle classi lavoratrici. Crisi a Mosca – Fino a quel momento, Mosca aveva mantenuto il controllo sul paese instabile della Polonia, ma nel corso degli anni 70 ci fu un'ampia mobilitazione popolare che diede inizio ad una serie di scioperi, nei cantieri navali e nelle fabbriche. Erano state promosse delle riforme per la modernizzazione del sistema produttivo e il sostegno dei consumi privati, ma provocarono solo difficoltà di bilancio. Il ‘76 il governo aumentò i prezzi dei generi alimentari, scatenando un'altra protesta popolare con attacchi al partito comunista. Questo favorì un consolidamento dell'opposizione e nacque un Comitato di Difesa degli operai e altri movimenti per la difesa dell'uomo e dei cittadini. Queste organizzazioni crebbero di consensi fino all'elezione del ‘78. L'arcivescovo di Cracovia venne eletto a Pontefice con il nome di Giovanni Paolo II. Egli fu il primo Papa polacco non italiano dopo oltre 4 secoli. Divenne subito una figura di riferimento per la resistenza contro il comunismo e promosse una sorta di crociata contro l'ateismo degli stati europei. Mentre si moltiplicavano le voci di dissenso nelle fabbriche, i leader del comitato di difesa e degli operai elaborarono una carta dei diritti. Il governo reagì con arresti e licenziamenti; quando fu costretto ad annunciare un nuovo aumento dei prezzi, si scatenò una nuova ondata di insurrezioni. Il Solidarnosc – La terza ondata di scioperi si propagò rapidamente e raggiunse i cantieri navali della prima, dove ormai gli operai avevano costituito un sindacato non ufficiale, il Solidarnosc. Le autorità tentarono di negoziare e furono costretti ad accettare le richieste, liberando gli oppositori arrestati e concedendo il diritto di costruire sindacati. Nel 1980, il Solidarnosc divenne primo sindacato indipendente ufficialmente riconosciuto nello stato comunista, con 9 mil di iscritti. Era un movimento di massa diverso da quelli tradizionali perché rappresentava un’alternativa radicale al comunismo e predicava il dialogo. Per Mosca era un avversario che doveva essere arginato al più presto. Solidarnosc all'inizio si mosse con cautela continuando con gli scioperi ma evitando di sfidare l'autorità. Questo equilibrio si spezzò nell'81, quando il generale militare organizzò un colpo di stato: venne proclamata la legge marziale e migliaia di sindacalisti vennero arrestati, bandendo anche Solidarnosc. Ascesa di Gorbachev – Le vicende polacche costituirono un prologo al crollo del comunismo. In Unione sovietica si aggiunsero gli effetti delle invasioni militari dell'Afghanistan, ormai divenuto un conflitto tra Armata Rossa e milizie ribelli finanziate dagli Stati Uniti. La guerra ebbe un impatto traumatico sull'intera generazione dei giovani e la stessa coesione ideologica del sistema sovietico cominciò ad apparire fragile. Con la morte di Breznev, scomparve la classe dirigente diretta del bolscevismo. Subentrò una classe di politici nuovi, sostenitori di un nuovo modo di pensare il socialismo, che contribuì ad alimentare una sfiducia nei confronti delle istituzioni. A legittimare un rinnovamento fu Gorbachev, eletto nell’85. Egli era un comunista moderato, fedele agli ideali lenisti, ma disponibile ad accantonare i dogmatismi ideologici per i suoi obiettivi politici. Influenzato dalle esperienze intraprese negli stati satelliti dell'Europa, soprattutto dalla Primavera di Praga, cercò di realizzare un “socialismo dal volto umano”. Gorbachev rivendicò subito l'importanza di un nuovo modo di pensare per trovare le soluzioni ai problemi del paese e ristrutturare il significato del comunismo. Tre erano gli obiettivi principali: accelerazione dello sviluppo, riforma di istituzioni e apparato normativo, rimozione di censura e riconoscimento del diritto dell'informazione. Sarebbe cominciato così un processo di modernizzazione dell'Unione Sovietica. Gorbachev considerava prioritario il miglioramento del funzionamento dell'apparato produttivo e cercò di favorire la nascita del mercato socialista, dell'autonomia per le imprese e di cooperative. I risultati furono spesso deludenti a causa della resistenza burocratica. Aria di cambiamento – Mentre il ricorso riformista alimentava le aspettative di miglioramento, la produzione cominciò a declinare. Per contrastare inefficienze e corruzione, bisognava riformare il PCUS, che avrebbe comunque mantenuto un ruolo centrale. Serviva maggiore trasparenza d'azione. Un incidente alla centrale nucleare di Chernobyl nell’86, ree evidente la reticenza dei poteri pubblici: l'esplosione del reattore e la fuoriuscita della nube tossica divennero la testimonianze dell'obsoleto apparato tecnologico sovietico e della distanza tra la propaganda del partito e le reali condizioni del paese. I giornali cominciarono a occuparsi di argomenti prima vietati come aborti, povertà, droghe, reduci d guerra e deportazioni. Vennero revocati i bandi a film, libri e spettacoli. Si sviluppò un dibattito pubblico che alimentò la diffusione del rifiuto del comunismo; vennero divulgate informazioni sulle riflessioni del periodo staliniano, che indebolirono di più la fiducia del comunismo. Lo stesso Gorbachev denunciò pubblicamente lo stalinismo, segnando la svolta simbolica del suo atteggiamento verso il partito staliniano, ormai considerato un ostacolo al processo riformatore del sistema sovietico. Vennero varate riforme per ridimensionare il ruolo del partito e trasformare lo Stato in un’unione davvero federale; vennero rilanciati i soviet e istituito il Congresso dei Deputati del Popolo, nell’89, che permetteva il vero l'esercizio del voto libero. Politica estera – Per la politica estera, Gorbachev immaginò un nuovo ordine mondiale in cui l'abbandono di una superiorità militare avrebbe favorito l'interdipendenza degli stati e la pace. Annunciò la sospensione del dispiegamento dei nuovi missili in Europa, che avevano provocato un rafforzamento di quelli occidentali. Nell’85 organizzò un incontro a Ginevra con il presidente Reagan, per tentare un dialogo sul disarmo nucleare. Questo sviluppò un rapporto di fiducia tra i due leader. Con le sue proposte di disarmo, conquistò l'opinione pubblica internazionale, che vide in lui un nuovo pacifista capace di disinnescare il rischio atomico. Le trattative però si incagliarono, poiché gli Stati Uniti non erano disposti a rinunciare alla difesa missilistica. Il dialogo continuò comunque fino all’87, quando venne firmato un trattato sulle forze nucleari a medio raggio. Il trattato prevedeva lo smantellamento dei missili schierati in Europa: fu il primo accordo che prevedeva la riduzione effettiva degli arsenali atomici. FINE DEL COMUNISMO In pochi mesi dell'89, il blocco comunista si dissolse. Arrivò la fine dell’Impero Sovietico, che aveva esteso i suoi confini fino al centro dell'Europa, che aveva mostrato sempre segnali di indebolimento senza mai crollare. Mai nella storia fu provocato un collasso con questa rapidità. Le ragioni si possono trovare: all'origine dell'ondata di mobilitazioni, che ridimensionava l'idea di un'unica rivoluzione; nello sforzo di dialogo con le autorità comuniste; nell'attenzione al riconoscimento dei diritti civili piuttosto che alla tutela degli interessi economici. Il tutto, venne favorito dalla capacità dei mass-media di alimentare una circolazione di informazioni: le notizie che spesso venivano nascoste, ormai oltrepassavano i confini in modo veloce grazie a TV e radio. Inoltre, l’ampia partecipazione popolare, che manifestava il dissenso in piazza, era un segnale di un diffuso malcontento nella popolazione. Nell'88 Solidarnosc conquistò 99 seggi su 100 al Senato e tutti alla camera. Per il partito comunista fu una vera e propria disfatta. Divenne primo ministro uno dei fondatori di Solidarnosc, il primo politico non comunista a guidare un governo in Europa orientale dopo gli anni ‘40. L’anno seguente fu riformata la costituzione e il partito comunista si sciolse. In Ungheria, furono gli stessi comunisti a provocare la fine del comunismo. Nell'88 andò al potere Grosz, un comunista riformista ispirato da Gorbachev. Vennero approvate riforme per lo sviluppo dell'economia e un sistema politico multipartitico, che modificò il regolamento interno del partito comunista. Il governo avviò un dialogo con i partiti di opposizione che si concluse con l'abolizione del ruolo guida del partito comunista e le elezioni multipartitiche nel ‘90. GERMANIA E CADUTA DEL MURO In Germania orientale, con la decisione di aprire i confini all'Austria nell'89, si accelerò la caduta del regime comunista. Quando Budapest cominciò ad allentare i controlli ai propri confini, migliaia di tedeschi orientali si spostarono in Ungheria, con la speranza di poter raggiungere l'Austria e poi la Germania occidentale. Davanti a questo aumento di flussi, le autorità ungheresi decisero di consentire il passaggio in Austria e quelle tedesche permisero ai connazionali rifugiati di raggiungere la Germania occidentale. Nacquero dei movimenti dissidenti, sorsero manifestazioni in piazza, che preoccuparono il partito comunista della Germania orientale. Per disinnescare la protesta, il governo liberalizzò parzialmente i viaggi ma, dopo l'annuncio di questa riforma, il 9 novembre migliaia di berlinesi orientali si accalcarono a ridosso del muro per attraversarlo. Cominciando a demolirlo, cadde inaspettatamente il muro, simbolo della divisione. Il giorno dopo la caduta del muro, si concluse il dominio comunista in Bulgaria a sostituzione di un riformista. In Cecoslovacchia il dissolvimento del regime comunista avvenne invece in modo estremamente pacifico. RIUNIFICAZIONE DELLA GERMANIA – La caduta del muro di Berlino riportò alla ribalta la questione della riunificazione della Germania. Sempre più tedeschi cominciarono a reclamare l'unità nazionale. Fu riformata la costituzione, abrogando il principio del ruolo del partito comunista, che cambiò nome in Partito del Socialismo Democratico. Kohl, cancelliere del governo della Germania occidentale, accelerò i tempi per un assorbimento della RDT nella RFT. Consapevole del consenso dei tedeschi occidentali, stipulò un trattato di unione tra le due germanie. Quale sarebbe stato però il ruolo politico della nuova Germania e la sua collocazione internazionale? Regno Unito, Francia e Italia furono inizialmente ostili ad una riunificazione, impauriti dalla destabilizzazione dell'ordine che avrebbe causato e dal possibile indebolimento della posizione di Gorbachev. Kohl però riuscì a superare questo fronte di resistenza, facendo cambiare idea alla Francia, che accettò l'unificazione. Kohl fu pronto a garantire all'Unione sovietica, che si trovava alle prese con un declino, un ingente flusso di finanziamenti. Inoltre fu decisivo il sostegno da parte degli Stati Uniti, che volevano impedire una scelta di neutralità da parte della nuova Germania. Nel maggio del ’90, le due germanie firmarono un trattato di unione monetaria, economica e sociale. Il marco occidentale sostituì quello orientale, con un cambio paritario di 1 a 1. Il 3 ottobre venne firmato il trattato che fissava il definitivo assorbimento della RDT nella RFT. La nuova Germania potò entrare così nella NATO. CRISI NELLA POLITICA DI GORBACHEV – Assecondando la riunificazione tedesca, Gorbachev rafforzò la sua credibilità all'estero, ma indebolì la popolarità interna. A Mosca molti interpretarono le concessioni alla Germania come la prova d’incapacità del leader di difendere gli interessi sovietici. A destare allarme, erano i movimenti nazionalisti che mettevano in discussione il legame federale. Le organizzazioni erano più attive in Lituania, Lettonia ed Estonia, che erano le repubbliche più benestanti ed esposte all'influenza occidentale, che di più avevano preservato le identità nazionali. I primi a chiedere l'indipendenza fu la Lituania nell'89. L'esempio fu contagioso e quasi tutte le principali repubbliche sovietiche affermarono la propria sovranità e indipendenza. Ciò che risaltò, fu lo sforzo di auto- preservazione dei leader comunisti locali, che si trasformarono in paladini di un nazionalismo solo nel momento opportuno. Gorbachev decise di usare la forza negli Stati Baltici, per lanciare un segnale di ammutinamento e riprendere il controllo. La repressione, che produsse morti e feriti, non riuscì però a riportare l'ordine e le proteste cominciarono a dilagare anche a Mosca. ASCESA DI EL’CIN – Di questa situazione approfittò Boris El’cin, ex segretario del comitato cittadino di Mosca. Egli riuscì a divenire il più autorevole interprete di una sorta di sciovinismo della grande Russia. Si schierò a difesa dei nazionalisti baltici in funzione antisovietica. Nel ‘91 venne eletto Presidente della Repubblica sovietica russa. I conservatori all'interno del PCUS si allarmarono e decisero di organizzare un colpo di stato. Destituito Gorbachev, assunsero i poteri dichiarando lo stato di emergenza. El’cin denuncio l'illegalità e invitò la folla a circondare il palazzo dei Soviet Russo per difenderlo dall'attacco dei militari. In questo modo e grazie ai movimenti popolari, El’cin prevalse. Il fallimento del colpo di stato segnò il destino di Gorbachev, che si dimise da segretario generale. Ormai la maggior parte delle persone voleva smantellare il comunismo e il sistema sovietico. A dicembre, i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono un accordo che sostituiva l'Unione sovietica con una Comunità degli Stati Indipendenti. A quel punto Gorbachev concordò con El’cin le modalità del dissolvimento dell'unione: La Repubblica Russa avrebbe ereditato il posto nella comunità internazionale e il controllo delle strutture amministrative e militari. Il 31 dicembre del 99, l'Unione sovietica cessò di esistere. DOPO IL COMUNISMO Il collasso del blocco comunista sconvolse la mappa politica dell'Europa. Nel corso degli anni ‘90 cessarono di esistere 4 stati e ne nacquero 14 nuovi. Il dissolvimento delle ultime grandi federazioni multietniche lasciò spazio a stati indipendenti. La diplomazia europea ribadì la validità, stipulata ad Helsinki nel ‘75, del rispetto dei confini stabiliti dopo la seconda guerra. La fine della guerra fredda favorì la collaborazione tra tutti gli stati europei. Cominciò un processo di rinnovamento delle istituzioni statali e delle culture politiche, una transizione verso la democrazia, una trasformazione post-comunista. I nuovi governi furono chiamati a trovare strategie per introdurre i principi e le istituzioni democratiche in delle società che avevano avuto solo fuggevoli esperienze liberali. Il ruolo decisivo fu svolto dalle generazioni più giovani, meno legate al passato comunista. I vecchi partiti liberaldemocratici non si ricostruirono ma ne emersero di nuovi. Ovunque fu intrapreso un lavoro di revisione degli ordinamenti costituzionali e un aggiustamento delle norme comuniste. I nuovi governi furono costituiti da movimenti anticomunisti, chiamati a formare sistemi istituzionali propri di uno stato di diritto. Ma i risultati contraddittori di questa fase favorirono un ritorno al potere dei post-comunisti. Alle seconde elezioni, si affermarono i partiti post-comunisti di sinistra. Giustizia sociale – Al centro del dibattito politico si impose la questione delle reazioni degli apparati statali, di chi si era reso responsabile di crimini e abusi nel regime comunista. Come i movimenti antifascisti e antinazisti in Italia e in Germania, questi erano difficili da risolvere, a causa del controllo politico sulle istituzioni e l'individuazione di responsabili individuali. Non si riusciva quindi a distinguere una collaborazione colpevole e punibile da una dettata dal timore di ribellarsi. In Cecoslovacchia si adottò la “legge di illustrazione”, che imponeva un esame del passato dei
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