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L'Europa del Novecento. Una storia, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto del libro "L'Europa del Novecento. Una Storia" di F. Bartolini, B. Bonomo e A. Gagliardi a cura di L. Rapone

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica L'Europa del Novecento. Una storia e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! 1. L’alba del secolo 1.1 Il primato europeo L’Europa entrava nel Novecento sull’onda di una lunga serie di progressi economici, tecnologici, sociali e politici. Gli ultimi decenni dell’Ottocento avevano fatto segnare un aumento della produzione di beni e della creazione di ricchezza. Si era al culmine di quella “grande divergenza” (Pomeranza, 2004) che aveva visto, nel corso dell’Ottocento, il percorso dell’Europa divaricarsi sempre di più da quello dell’Asia, grazie anche al carbone. Vi furono profonde trasformazioni strutturali dell’apparato produttivo: aumentava il peso del settore industriale e del terziario; la produzione manufatturiera stava attraversando la cosiddetta “seconda rivoluzione industriale” basata su una più stretta collaborazione tra ricerca scientifica e produzione industriale, che portò ai primi esempi di grande impresa. Ci fu una diffusa propensione a produrre per il mercato e, nel contempo, ad aprirsi ai nuovi consumi. Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, dopo il lungo predominio inglese, questi fenomeni avevano interessato prevalentemente Germania, Francia e Belgio e ora si espandevano ulteriormente. La crescita economica si era accompagnata a una crescita demografica senza precedenti. L’Europa contava, nel 1900, circa 430 milioni di abitanti (più di ¼ dell’intera popolazione mondiale); un secolo prima gli abitanti erano meno della metà. Il continente aveva dunque fatto segnare un incremento consistente e continuativo superiore – escluso il Nord America- alla media mondiale. Grandi reti di scambio e comunicazione vennero a legare gli Stati e i continenti; vi furono: efficienza ed economicità dei mezzi di trasporto, decine di milioni di persone emigrarono, i progressi tecnologici del telegrafo, del telefono, della radio e della stampa resero possibile la circolazione di informazioni da un continente all’altro. L’Europa ricopriva una centralità geografica che le consentiva di essere un anello di collegamento tra l’area atlantica e quella del Pacifico; esercitava un controllo diretto sulla quasi totalità dell’Africa e su ampia parte dell’Asia. Parlamenti, grandi eserciti, università divennero un modello a cui ispirarsi. Il processo inverso, l’arrivo in Europa di oggetti e pratiche extraoccidentali (soprattutto in ambito religioso e artistico) fu marcato come “esotismo” e “orientalismo”. Numerosi osservatori sottovalutarono le profonde contraddizioni che segnavano la politica europea e l’accumularsi di tensioni e rivalità tra potenze, che sarebbero esplose in forme drammatiche. In questo clima si moltiplicarono gli sforzi per dare vigore a una prospettiva di pace. L’Esposizione universale di Parigi, nell’aprile del 1900, vide 40 paesi presentare a 50 milioni di visitatori le meraviglie della tecnologia: erei, nuovi treni, percorsi ferroviari, telefoni, automobili. Fu questo clima ad alimentare negli anni successivi l’idea che l’inizio del secolo fosse stato una belle époque. Gia tra i contemporanei non mancarono voci di ben altro segno. I marxisti trovarono che alla base dello sviluppo del capitalismo ci fosse l’acuirsi di contraddizioni. Anche moti liberali e conservatori espressero una visione tutt’altro che ottimista. Hobson definì il dominio coloniale “una scelta corrotta della vita nazionale, imposta da interessi egoistici”. Numerose voci diedero espressione all’idea che le certezze consolidate si stessero sgretolando; ne troviamo significative testimonianze nelle opere di Sigmund Freud, nei romanzi di Italo Svevo, nei dipinti di Picasso e Cézanne. Il sempre più diffuso impegno per la pace non riuscì a compromettere l’affermazione dei movimenti nazionalisti né a frenare la corsa agli armamenti e al militarismo. Anche l’egemonia europea mostrò incrinature. Nel 1896 l’esercito italiano subì ad Adua, in Etiopia, una pesante sconfitta. Quasi dieci anni dopo, nel 1905, vi fu una vittoria del Giappone sulla Russia (parzialmente europea). Furono in particolare le relazioni con il continente americano a mutare rapidamente di segno nel passaggio tra i due secoli; gli Stati Uniti avevano assunto nel 1900 una dimensione economica e uno sviluppo sociale pari a quelli di Regno Unito e Germania. 1.2 La fine dell’ancien régime: industrializzazione, società di massa, secolarizzazione L’economia conobbe un periodo di espansione. La crescita fu intensa e continuativa; la nuova fase fu segnata da uno sviluppo più esteso che interessò quasi tutti i fattori. La Germania emerse a tutti gli effetti come la principale economia del continente; il paese si giovò di alcuni fattori peculiari: il sostegno alla ricerca, all’istruzione tecnico-scientifica e alla formazione di imprese di grandi dimensioni. Il Belgio, l’Olanda, la Danimarca e la Svezia seppero specializzarsi in alcune produzioni e integrarsi nel mercato internazionale; la Francia diede luogo a un’industrializzazione disseminata e meno concentrata; il Regno Unito affrontò l’inizio del proprio declino, il paese continuò a crescere, ma a un ritmo più lento. L’Impero austro-ungarico, l’Italia e la Russia videro svilupparsi importanti processi di industrializzazione. Rimasero indietro invece Spagna, Portogallo, Bulgaria, Grecia, Romania e Serbia poiché tutte gravate da forti chiusure protezionistiche. Nessun’altra area nel mondo con l’eccezione del Nord America tenne in quegli anni un ritmo di crescita così elevato. Un altro fattore rilavante fu la variazione dei prezzi e dei redditi. Il continente europeo si era trovato immerso in una drastica e prolungata deflazione. Prese avvio dal 1896 un periodo di lento e costante aumento dei prezzi a cui si accompagnò un incremento più elevato dei salari medi. Il miglioramento dei redditi tuttavia non coinvolse tutta la popolazione ed ebbe una distribuzione disuguale. Si allargò la dimensione del mercato (la gente iniziò ad acquistare “beni di consumo durevole” ossia biciclette, automobili, libri e giornali, orologi). L’allargamento del mercato fu anche il risultato della disponibilità di prodotti nuovi per soddisfare le esigenze della nuova vita urbana. Il commercio si svolgeva poi attraverso una rete commerciale sempre più estesa e ramificata di negozi: grandi magazzini in cui vigeva il prezzo fisso scritto e non trattabile. Furono introdotti i pagamenti rateali, la pubblicità tramite inserzioni e tabelloni. Negli USA si svilupparono nuove modalità di organizzazione della produzione come il taylorismo (da Frederick Taylor, basato su un controllo serrato dei tempi) e il fordismo (l’impiego sistematico della catena di montaggio). Fu negli USA che nacquero le prime grandi agenzie pubblicitarie. Nei grandi agglomerati urbani i legami tra individui erano spesso anonimi e impersonali. Le relazioni si basavano sempre meno sulle conoscenze bensì passavano attraverso le strutture del mercato; erano legami di massa. I nuovi consumi culturali (libri, stampa popolare, spettacoli pubblici) contribuirono all’alfabetizzazione delle classi. La crescita culturale si combinava con la maggiore diffusione dei mezzi di comunicazione di massa come la stampa che ebbe un fortissimo impatto sull’ “opinione pubblica”. Si affievolovano così le forze e le mentalità dell’ancient régime. Emerse una disponibilità maggiore a trascorrere il tempo libero fuori dall’ambiente domestico e familiare: cinema, teatro popolare, fiere. Si fece meno ferrea l’adesione ai valori e alle norme di tradizione. L’Europa del Novecento appariva avviata su un percorso di progresso. Si trattava, tuttavia, di un processo segnato da forti squilibri territoriali: il divario tra le aree di maggiore indistrializzazione e quelle meno avanzate andò crescendo. Appariva evidente una forte disparità di genere: le donne erano relegate nell’ambito domestico ed escluse da ogni protagonismo pubblico. 1.3 Un nuovo protagonista: il movimento operaio Ampi settori della popolazione rimasero indietro ai margini dello sviluppo, costretti a rimanerci chiusi per dodici ore al giorni in edifici malsani, con i fumi, a svlogere mansioni faticosi, sottoposti a una rigida disciplina. Il resto del tempo lo trascorrevano in case sovraffollate, quartieri sporchi, bui e inquinati. Nelle campagne le condizioni non erano migliori. La disoccupazione e sottoccupazione erano uno sprettro sempre presente. Ad attestare il perdurare di disagi, nel primo ventennio del Novecento, circa 18 milioni di europei emigrarono negl USA (6 milioni erano italiani). La sofferenza sociale trovò la sua immediata espressione nei sindacati, partiti e movimenti di orientamento socialista. Questo movimento acquisì nella prima fase nel Novecento più forza e maggiori consensi. Il primo partito socialista in Europa fu quello tedesco: il Partito socialdemocratico tedesco (SPD). La socialdemocrazia tedesca risultò la capofila degli sviluppo che investirono il socialismo europeo in quanto fu la prima ad assumere una dimensione di massa e a sviluppare un nuovo modello organizzativo; il partito aveva il proprio gruppo dirigente, era presente su tutto il territorio nazionale e partecipava alle elezioni politiche e locali. Sul piano ideologico la SPD oltre a rivendicare i principi di Marx ed Engels, assunse un orientamento gradualista e riformista. Questa linea era sostenuta da entrambe le componenti del partito; la prima guidata da Kautsky, convinto che il passaggio al socialismo sarebbe stato il momento culmine di un lungo processo di trasformazione del sistema; la seconda da Bernstein il quale invece si spingeva oltre sostenendo che il socialismo fosse continuo e inarrestabile. A opporsi al riformismo era una terza corrente seppur minoritaria guidata da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, sostenendo la necessità di operare per rendere realizzabile in breve tempo una rivoluzione sociale e politica. Una strada analoga fu presa anche da altri partiti socialisti, come quello italiano guidato da Filippo Turati, quello austriaco da Viktor Adler, e i pariti dell’Europa del Nord. In Francia vi fu una netta divisione politica tra il partito socialista, la SFIO e il sindacato: parito socialista: indirizzo riformista; SFIO: orientamento radicale influenzato dall’anarchismo; sindacato: “sindacalismo rivoluzionario” secondo cui le masse rivoluzionarie non dovevano accomodarsi nell’attesa della rivoluzione né accontentarsi di riforme parziali. Il culmine sarebbe stato lo “sciopero generale”. Chi si mantenne più distante dal modello tedesco furono i socialisti russi. Nell’impero zarista era arrivato il Partito socialista rivoluzionario, mentre i marxisti erano organizzati nel Partito operaio socialdemocratico che sviluppò un intenso dibattito interno. Il principale dirigente del Partito, Lenin, era un esponente dell’ala rivoluzionaria. Contestava il modello della socialdemocrazia tedesca, affermando la necessità di favorire nel più breve tempo le condizioni per la rivoluzione costituendo un parito interamente votato alla lotta e non disposto a compromessi. Nel 1912 vi fu una scissione tra bolscevichi (rivoluzionari) e menscevichi (moderati). La situazione russa era potenzialmente esplosiva e l’incendio esplose nel 1905 a seguito del cattivo andamento della guerra con il Giappone. A gennaio, la dura repressione scatenata a San Pietroburgo contro la processione di operai in sciopero diretta verso il Palazzo d’Inverno, la residenza dello zar Nicola II. Gli operai, intenzionati a consegnargli una petizione in cui chiedevano la fine della guerra, furono attaccati dall’esercito; nuove fabbriche entrarono in sciopero e i contadini si unirono alle proteste. Sorsero i Soviet ossia organismi di rappresentanza degli operai eletti nei luoghi di lavoro secondo un principio di democrazia diretta. Per riprendere il controllo della situazione, lo zar mise in atto la propria controffensiva: incoraggiò la formazione di milizie paramilitari, attive contro i rivoluzionari, e iniziò una lotta contro gli ebrei. Dall’altro lato però concesse la libertà di parola, di stampa e di associazione e istituì un Parlamento elettivo, la Duma. In grande parte dell’Eurpa, molti partiti si mostrarono capaci di avanzare rivendicazioni ai propri governi, derivandone due effetti: 1. il movimento operaio perse quel carattere internazionalista e le istituzioni dello Stato vennero considerate anche come controparte principale da cui ottenere miglioramenti, diritti e tutele. Era in funzione all’inizio del XX secolo, la Seconda Internazionale, un organismo transnazionale costituito nel 1889 e come federazione tra partiti socialisti di orientamento con numerose preoccupazioni. L’entusiasmo patriottico finì per coinvolgere anche i partiti socialisti che sostennero la necessità di partecipare attivamente alla mobilitazione. 2.2 Una guerra lunga La Germania avviò le ostilità applicando il piano Schlieffen: prevedeva, in caso di guerra su due fronti, di concentrare inizialmente lo sforzo verso la Francia, aggirandone le linee di difesa con una penetrazione da nord attraverso il Belgio. Il 4 Agosto la gran parte dell’esercito tedesco si riversò oltre il confine. I soldati tedeschi risposero con massicci attacchi alla popolazione civile. La Germania riuscì a entrare facilmente in Francia. Le armate francesci organizzarono la controffensiva. Entrambi gli schieramenti cercarono di prendere l’iniziativa alla battaglia decisiva. Iniziò una sanguinosissima gerra di posizione nella quale la resistenza della Francia fu sostenuta dall’intervento delle truppe britanniche. Lo sviluppo tecnologico aveva messo a disposizione dei belligeranti armi con potenza di fuoco. Emblematico è il caso della battaglia di Ypres del 1915 (da qui il nome di “iprite”) in cui vennero usati gas velenosi. Nell’autunno del 1914 i soldati iniziarono a scavare per proteggersi. Si svilupparono le trincee. Tra una trincea e l’altra vi era terreno vuoto detto “terra di nessuno”. La guerra di trincea fu peculiare soprattutto del fronte occidentale. A metà dell’agosto del 1914 si accesero le ostilità sul fronte orientale, tra la Russia e i grandi imperi dell’Europa centrale (Germania e Austria- Ungheria). Dopo alterne vicende, si impose la superiorità dei tedeschi che, seppure impegnati su due fronti. I russi iniziarono allora una durissima ritirata che coinvolse anche 3 milioni di civili. Sul confine orientale, dunque, la guerra di movimento durò a lungo. Nell’autunno 1915, il fronte si era stabilizzato su una linea che sarebbe di fatto rimasta immutata fino alla fine della guerra. L’ingresso in guerra della Romania al fianco dell’Intesa, nel 1916, fu un ulteriore fattore di destabilizzazione. Nell’agosto del 1914 si aprirono altri due fronti. L’Austria-Ungheria attaccò la Serbia. Il conflitto si risolse solo nel 1915, quando gli eserciti di Austria, Germania e Bulgaria annientarono l’esercito serbo. L’anno successivo lo scontro si riaprì in Grecia. L’altro fronte si riaprì in Medio Oriente nei territori dell’Impero Ottomano; la guerra volse al peggio per i turchi. Nell’agosto del 1914 si aprì il fronte del mare. Al dominio inglese, culminato nel blocco verso la Germania, questa rispose con la guerra sottomarina. L’affondamento il 7 maggio 1915 del transatlantico inglese Lusitana ebbe un enorme impatto sull’opinione oubblica internazionale. Nel maggio del 1915 entrò in guerra, al fianco dell’Intesa, l’Italia. Le numerose offensive condotte dall’esericito italiano sull’Isonzo e sul Carso si infransero contro l’efficace difesa di austriaci e tedeschi. La guerra si sviluppò sin dall’inizio su una molteplicità di fronti e scenari, con caratteristiche strategiche e politiche molto spesso diverse. Una guerra di coalizione di così ampie dimensioni creò anche problemi alle potenze maggiori. Il 1916 si caratterizzò per il tentativo invano dei tedeschi di sconfiggere i francesi. La battaglia di Verdun, da febbraio a dicembre, vide 600.000 morti sul fronte e fu favorevole per i francesi. La guerra a Ovest era ormai determinata non dalle azioni dei combattenti ma dallo scontro di tecnologie, di macchine belliche e capacità logistiche. Nel maggio 1916 gli austriaci scatenarono una dura offensiva, la Strafexpedition, “spedizione punitiva” contro gli italiani che consideravano traditori della Triplice Alleanza. Il conflitto durò fino all’anno successivo. Sul fronte occidentale, i ripetuti tentativi francesi di spezzare le linee tedesche ebbero un esito fallimentare: l’esercito transaplino precitipitò in una crisi profonda. In queste occasioni furono sperimenatte innovazioni tattiche che riducevano la superiorità della difesa e prefiguravano un tipo di guerra nuovo: gli scontri aerei, l’uso dei carri armati, l’impiego di truppe d’assalto mobili. Fu in ottobre l’attacco austro-tedesco alle linee italiane che si concluse con lo sfondamento di Caporetto (24 ottobre) contenuto poi sul Piave: per l’Italia si aprì una crisi militare e politica, che portò alla caduta del governo e alla sostituzione del generale Luigi Cadorna con il generale Armando Diaz alla guida dell’esercito. Sempre più insostenibli furono le condizioni della popolazione in Russia che diedero vita a due rivoluzioni: una repbblicana e liberal- democratica in febbraio, e l’altra socialista, guidata da Lenin e Trockij, in ottobre. La prima non riuscì a risvegliare il patriottismo; la seconda comportò la rapida uscita della Russia dalla guerra, in seguito alla quale Germania e Austria poterono disimpegnarsi sul fronte orientale. La vera svolta fu degli Stati Uniti contro la Germania, in risposta alla decisione tedesca di riprendere la guerra sottomarina che colpiva anche i coinvolgimenti navali e interessi commericali americani. Le sorti della guerra si identificavano sul fronte occidentale. Tra marzo e giugno i tedeschi condussero una serie di offensive in Beglio e in Francia. In luglio la battaglia di Amiens segnò la svolta decisiva. L’offensiva alleata costrinse i tedeschi a una progressiva ritirata. Tra settembre e ottobre si aprì una grande crisi in Germania, con la caduta del governo, le dimissioni del principale resposabile delle azioni miltari, Ludendorff. Le truppe italiane in ottobre passarono alla controffensiva riacquistando le terre perdute nel Veneto fino a Trieste consentendo così all’Italia di compiere il processo risorgimentale. Gli austriaci furono obbligati alla resa il 4 novembre firmando l’armisitizio. La stessa cosa l’11 novembre con la Germania. La guerra era finita. 2.3 Una guerra brutale Tra il 1914 e il 1918 fu messo in campo un potenziale distruttivo senza precedenti. Diverse tenologie belliche fecero la loro apparizione: mitragliatrici, sommergibili, aeroplani, gas velenosi. A queste si aggiunse la dimensione degli eserciti. Il numero dei soldati impiegati tra il 1914 e il 1918 fu di 70 milioni di cui 10 mikioni morirono, 30 milioni rimasero feriti. A questa contabilità si aggiunsero innumerevoli decessi per un virus che passò alla storia come “febbre spagnola”. Le origini del focolaio sono state collocate nell’ipotesi degli USA o della Francia. Il nome “spagnola” deriva dal fatto che essendo la Spagna paese neutrale consentiva la circolazione delle informazioni circa i contagi, informazioni che invece passarono in sordina nei paesi belligeranti per evitare di compromettere l’andamento della guerra. La pandemia durò 2 anni, fino al 1920. I contagiati furono centinaia di milioni, mentre le stime dei morti oscillano tra i 25 e i 100 milioni in larga parte tra uomini di età compresa tra i 20 e i 40 anni. Il virus risultò letale soprattutto tra chi non disooneva di condizioni igienico-sanitarie ottimali. Per quanto riguarda la guerra di trincea, fu un’esperienza infernale. I soldati vivevano ammassati nel fango e nella polvere tra i topi e le pulci in condizioni igieniche disumane, nel caldo soffocante durante l’estate e nel gelo dell’inverno. Nella Prima guerra mondiale, l’annebbiamento della percezione fu elevatissimo: i soldati passavano molto tempo in attesa. Fu anche uno shock culturale: la fede nel progresso crollò. Si ebbero numerose forme di regressione culturale, di fuga dalle moderne concezioni della realtà: in molti si rifugiarono nella superstizione e nei miti. Non mancarono tentativi di ribellione ma decisivo fu il sentimento di appartenenza in guerra. La santificazione della guerra venne tanto accesa dall’odio verso il nemico che attingeva a stereotipi negativi e radicati pregiudizi. Un ruolo rilevante fu svolto dalla propaganda. Furono impiegati tutti i media e vennero coinvolti intellettuali e artisti. Il ritorno alla censura accompangò l’uso sistematico dell’eufemismo. Anche la popolazione infatti espresse per la maggioranza un forte consenso verso la guerra, o quantomeno una passiva accettazione. Le violenze durante le invasioni furono durissime. Il culmine delle violenze fu costituito dallo sterminio degli armeni che vivevano nei territori dell’Impero ottomano tra il maggio 1915 e settembre 1916. La popolazione armena era da tempo oggetto di odio. Ancora oggi è forte oggetto di discussione tra gli storici: morti accidentali o genocidio premeditato? 2.4 Una guerra totale Le violenze sui civili fecero sì che tutti in un modo o nell’altro cambiassero le loro abitudini e pratiche quotidiane. Durante l’ultima fase del conflitto si inizia a parlare di guerra totale proprio per definire questa nuova realtà. Si inaugurò una nuova fase del rapporto tra guerra e società. Un conflitto come quello del 1914-1918 aveva bisogno del coinvolgimento di tutti gli ambiti della vita politica, sociale ed economica. Non meno rilevante fu l’impatto sull’agricoltura: molta parte era destinata al sostentamento dei soldati e fu inoltre organizzata la requsizione di cavali, muli e mezzi meccanici da usare nei trasporti bellici. L’aprovvigionamento alimentare delle popolazioni divenne un problema. I governi ricorsero al razionamento e alla disciplina dei prezzi. Le donne entarono in massa in numerosi settori lavorativi in cui erano tardizionalmente poco presenti. Il conflitto segnò un momento di svolta: la maggiore indipendenza delle donne contribuì al modificarsi del rapporto tra i sessi e incrinò l’immaginario più tradizionalista. Gli Stati avevano tre solzioni: aumentare le tasse, incrementare la quantità di denaro in circolazione e ricorrere al debito pubblico: le misero in campo tutte e tre in maniera alternata. Alla fine per i paesi dell’Intesa risultò decisiva la possibiltà di usufruire dei prestiti internazionali degli USA. Si formò in tutti i paesi belligeranti un intreccio tra politica ed economia. Si moltiplicarono i poteri di controllo e di integrazione dello Stato, anche nei Paesi retti da sistemi meno liberali, i quali introdussero tutele e nuovi diritti sociali. 2.5 Una guerra globale La Prima guerra mondiale fu innescata da una contesa territoriale e nazionale interna all’Europa. Tuttavia, essa non fu solo una guerra europea. L’espressione “guerra mondiale” fu impegnata per definire l’importanza del conflitto e le sue dimensioni. Quasi ovunque fu preferita la denominazione “Grande guerra”. Quella del 1914-18 fu una guerra globale: diversi stati vi presero parte sulla base di interessi e obiettivi personali. Anche in Asia e nel Pacifico. La guerra di proiettò lontano dall’epicentro europeo ma sul conflitto principale si innestarono conflitti interni ad altre aree geografiche decisivi per gli equilibri di quelle regioni. Nel 1917 Stati come Cina, Brasile, Cuba, Panama, Costarcia ecc. entrarono in guerra accanto all’Intesa. La guerra assunse una dimensione globale anche per il ruolo rilevante che vi ebbero le colonie. Tutti i dominions “bianchi” inviarono uomini a combattere sui fronti principali. Le colonie africane vennero coinvolte anche come luoghi di combattimento. UK e Franica puntarono ad avere il controllo sul Medio Oriente e il mondo arabo. La guerra fu globale anche per le forti ricadute che ebbe sui processi di integrazione economica; interruppe i processi di integrazione commerciale e finanziaria che avevano caratterizzato i decenni precedenti. La struttura e i cambiamenti del sistema finanziario internazionale e furono uno dei fattori che alla lnga contribuirono a orientare le sorti del conflitto. UK e Germania garantirono prestiti a molti dei loro alleati. Ma la principale fu la finanza statunitense che si rivelò un’importante risorsa per gli alleati. La guerra innescò un profondo cambiamento nelle relazioni politiche ed economiche globali, mettendo in discussione il ruolo dell’Europa all’alba del Novecento. 2.6 La Rivoluzione russa Nel contesto della Prima guerra mondiale ebbe luogo un altro evento: la Rivoluzione russa del 1917. Alla viglia della guerra, l’impero zarista viveva una fase segnata da intensi cambiamenti: veloce crescita economica, sviluppo demografico, formazioni di grandi città moderne, l’emergere di una nuova élite di intellettuali. La guerra trovò la Russia nel pieno di una complessa transizione ed ebbe un impatto enorme. Pesante fu anche il tributo pagato dal fronte interno. La produzione agricola diminuì di circa un terzo a causa della chiamata dei contadini alle armi. Nel febbraio del 1917 arrivò la svolta.Un’insurrezione esplose a Pietrogrado. I moti si diffusero in tutto l’impero coinvolgendo anche le popolazione rurali e urbane a cui si aggiunsero i soldati. Lo zar fu costretto ad abdicare. Si ricostruirono i soviet nati con la Rivoluzione del 1905 e si formò un governo provvisorio; la Russia passò da autocrazia antiliberale a un modello avanzato di democrazia: la censura e la pena di morte furono abolite, vennero promessi diritti civili alle etnie minori. Ma il cambiamento basava su basi molto fragili, il paese continuava rimanere in una situazione caotica. La rivoluzione di febbraio generò una mobilitazione spontanea; si affiancarono le rivolte dei contadini e le ribellioni dei soldati. Con la diffusione dei Soviet prese forma un doppio potere: da un lato il governo ufficiale apresso dal Parito costituzional-democratico e legittimato dalla Duma, dall’altro i Soviet, dove prevalevano le forze socialiste. Lenin annunciò un nuovo programma espresso nelle Tesi di aprile: la fase democratico-borghese era conclusa ed era ormai matura una rivoluzione socialista condotta da operai e contadini; i Soviet avrebbero dovuto prendere i pieni poteri per poi far uscire immediatamente la Russia dalla guerra, redistribuire la terra ai contadini. Seguirono mesi di grande incertezza. A luglio, il ministro della guerra Kerenskij, scatenò una dura repressione che costrinse Lenin all’esilio. Il governo provvisorio risultava indebolito. Lenin, tornato nuovamente in Russia, convinse il resto del suo partito alla necessità di un’insurrezione. Il 25 ottobre la mobilitazione dei bolscevichi a Pietrogrado e in altre grandi città rovesciò il potere costituito e prese possesso del palazzo d’Inverno, sede del governo. Il nuovo governo, presieduto da Lenin, proclamò la pace immediara, la confisca delle terre e la loro redistriuzione., nazionalizzò le banche. L’Assemble costituente fu sciolta dai bolscevichi. La Russia fu costretta a perdere tantissimi territori. La chiusura del conflitto non decretò l’inizio di un periodo di pace. 3. Le convulsioni del dopoguerra 3.1 I lasciti della guerra Gli eventi del 1914-18 furono il punto di arrivo di processi avviati decenni prima: le nuove tecnologie belliche, la guerra indutriale, la “battaglia dei materiali” costituivano un esito della seconda rivoluzione industriale e dei processi di standardizzazione e uniformazione; anche la brutalità del conflitto arringeva a pratiche e approcci verso “l’altro” dispiegati nelle guerre coloniali e nelle politiche di occupazione in Asia e Africa. La Prima guerra mondiale e la Rivoluzione russa rappresentarono una novità assoluta, dagli effetti traumatici. L’impatto psicologico e culturale fu reso più significativo dall’enorme ricorso alla scrittura da parte di soldati e civili che costituisce una fitta rete di testimonianze. La guerra lasciò in eredità all’Europa diffuse ostitlità tra i popoli che avevano combattuto su fronti opposti, creò nuovi confini e Stati. Al tempo stesso, fu un evento omologante che fece compiere agli europei la stessa indimenticabile esperienza. Hobsbawm ha sostenuto che gli eventi dal 1914-18 hanno rappresentato un momento di cesura e profonda discontinuità nella storia mondiale. Secondo questa periodizzazione ebbe inizio il Novecento, che sarebbe da considerare un “secolo breve”. Nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale assunsero grande rilievo ideologie e movimenti politici transnazionali – come il comunismo e le nuove correnti democratiche - , o capaci di coordinarsi con gli omologhi di altre nazioni, come i fascismi e i nazionalismi autoritari. Lo scontro politico fu uno scontro tra sistemi di valori, tra modelli di organizzazione della società, dell’economia e della politica. Tutto ciò ha condotto alcuni storici a definire il periodo tra il 1914 e il 1945 come gli anni della “guerra civile europea”. In primo luogo è da tenere conto che la storia di scontri e violenze che segnò l’Europa dal 1914 al 1945 fu il risultato di un intrecciarsi e sovrapporsi di fenomeni diversi: guerre tra Stati, scontri etnici, spinte rivoluzionarie, conflitti sociali radicalizzarti. La dimensione ideologica non fu l’unico fattore che guidò scelte e azioni dei protagonisti: non meno rilevamenti furono gli obiettivi di carattere geopolitico e geoeconimico. In secondo luogo, bisogna tenere conto che anche per gli europei il trentennio dal 1914 al 1945 si svolse non solo all’insegna dello scontro ideologico e della violenza politica, ma anche di importanti processi di cambiamento sociale e di crescente partecipazione collettiva: le manifestazioni più rilevanti: diritto di voto, espansione nello Stato sociale, crescita della disponibilità dei beni di consumo, circolazione di informazioni. Una delle conseguenze della Prima guerra mondiale fu un relativo ridimensionamento del peso internazionale dell’Europa, per il protagonismo acquisito, dopo il 1917, degli USA e della russia. La storia dell’Europa del 1914-45 presenta una grand ecomplessità, perché vede intrecciarsi una molteplicità di eventi e processi anche profondamente contraddittori. carattere rivoluzionario. A Berlino venne proclamata la Repubblica. A guidare il passaggio furono i social democratici contrari a una rivoluzione in senso sovietico. Per questa seconda rivoluzione erano schierate le correnti più radicali del movimento operaio, a partire dalla Lega di Spartaco. Gli spartachisti incitarono i lavoratori di Berlino a rovesciare il governo. Per sedare la rivolta furono mobilitate squadre di volontari (i corpi franchi), composte da soldati smobilitati e guidate da ufficiali nazionalisti e conservatori: arrestarono e trucidarono i leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Nel frattempo si erano tenute le elezioni per l’Assemblea costituente, vinte dai socialdemocratici, e in agosto fu varata la costituzione di quella che fu comunemente detta la Repubblica di Weimar: si sanciva la natura democratica della “nuova” Germania. I tentativi rivoluzionari finirono. Nei primi anni Venti sarebbero venute dall’estrema destra le più serie minacce all’ordinamento democratico. Simili furono le vicende in Austria. A Vienna i comunisti animarono alcuni tentativi insurrezionali, subito repressi dal governo socialdemocratico. In Ungheria, i counisti guidati da Béla Kun, instaurarono una repubblica sul modello sovietico. L’esperimento durò pochi mesi e il potere fu assunto dall’ammiraglio Miklòs Horty, che governò il paese con durezza e dando vita a un regime autoritario. La Spagna e l’Italia videro agitazioni socialiste rilevanti. In Italia, nel biennio successivo alla guerra, si assistette all’avanzata elettorale dei socialisti e un’imponente ondata di scioperi e proteste, che videro in prima fila gli operai delle regioni settentrionali e i braccianti della Pianura Padana. Le lotte culminarono, nell’occupazione di alcune grandi fabbriche da parte degli operai socialisti. A trarne vantaggio, alla fine del 1920, furono i Fasci di combattimento, un movimento nazionalista fondato nel marzo dell’anno precedente da Benito Mussolini, ex leader socialista poi passato su posizioni interventiste nel 1914. I fascisti diedero voce alle spinte antisocialiste e si fecero imterpreti dell’orgoglio dei combattimenti, della delusione degli ambienti nazionalisti e dell’aspirazione a un rafforzamento della potenza nazionale. I Fasci costituirono un modello di “partito milizia” e, con il loro ricorso sistematico alla violenza armata verso gli avversari furono un esempio tra i più rilevanti della brutalizzazione e militarizzazione della politica del primo dopoguerra. Nel marzo del 1919, venne istituita a Mosca un’Internazionale comunista, per coordinare gli sforzi dei partiti rivoluzionari di tutto il mondo e favorire una netta separazione dalle forze socialdemocratiche e riformiste. 3.5 L’Europa nel mondo La prima guerra mondiale interruppe il processo di integrazione economica internazionale iniziato nei decenni precedenti. Fece seguito, nel dopoguerra, la proliferazione di tariffe doganali e di barriere di commercio. I paesi europei avevano riportato immense perdite umane e incalcolabili danni materiali. Gli scambi e la circolazione finanziaria interni al continente erano crollati, quasi tutti i paesi belligeranti avevano visto ridursi la loro ricchezza. Al contrario, i paesi extraeuropei e quelli neutrali, ne uscirono senza aver subito ripercussioni economiche gravi. Anzi, la guerra offrì loro l’occasione per rafforzare le posizioni nel sistema commerciale internazionale, aumentando le esportazioni di quei beni la cui domanda riusciva a essere soddisfatta solo parzialmente dalle economie europee. La quota europea sul totale della ricchezza mondiale iniziò a ridursi. A trarne vantaggio furono gli USA; erano già da alcuni anni la maggiore potenza industriale del globo. Il conflitto rafforzò ulteriormente questo primato: tra il 1913 e il 1920 il PIL nord-americano aumentò del 15% mentre quello europeo si contrasse di oltre il 10%. Gli USA incrementarno la capacità produttiva e innalzarono il livello di sviluppo tecnologico dell’apparato industriale. La finanza americana divenne il centro della rete globale di circolazione di capitali. UK, Francia, Belgio, Italia e alleati minori, non riuscendo a saldre in dollari le importazioni, si indebitarono con gli USA. Gli indennizzi tedeschi ai paesi europei vincitori andarono in parte a saldare i debiti contratti con gli USA: un rilevante flusso di capitali iniziò a muoversi dall’Europa centrale verso quella occidentale per dirigersi oltre Atlantico. Nel dopoguerra gli europei videro nell’America non solo un fornitore di beni e un prestatore di capitali, ma l’incarnazione di un nuovo modello di società. La catena di montaggio, la musica jazz, i film di Hollywood, le automobili Ford, la publicità, le catene di negozi sembravano rappresentare una diversa idea del futuro e uno stile di vita “moderno”. Dopo il 1918 cambiò anche il rapporto con le colonie. Si estesero di conseguenza i territori posti sotto il controllo della Francia, del Regno Unito e del Belgio. I quattordici punti di Wilson prevedevano di riconsiderare le rivendicazioni coloniali, garantendo il rigoroso rispetto degli interessi delle popolazioni africane e asiatiche. La Società delle nazioni introdusse l’istituto del mandato che prevedeva la formazione di Stati formalmente indipendenti sottoposti al controllo delle potenze europee, che avevano tuttavia l’obbligo di garantire il benessere e lo sviluppo delle poolazioni dei territori controllati. Le promesse degli anni di guerra furono realizzate solo in parte: la sofferenza e le aspettative disattese finirono con il rafforzare le richieste di parità e indipendenza politica di quelle popolazioni. In Africa e in Asia si organizzarono movimenti anticoloniali. Tutti questi cambiamenti ebbero un impatto rilevante sulla percezione degli europei riguardo la propria collocazione nel nuovo sistema internazionale. 3.6 Una società in movimento La Prima guerra mondiale fu vissuta come un trauma non soltanto dalle élite intellettuali e politiche . Per elaborare il lutto furono adottate numerose pratiche pubbliche, come la commemorazione ufficiale dei morti, l’istituzione di cimiteri militari, i riti funebri collettivi e i monumenti ai caduti. Rituali privati, credenze e superstizioni, pratica dello spiritismo, riscoperta della religione. L’immaginario doloroso della Grande guerra trovò ampio spazio nell’arte, nella letteratura e nel cinema postbellici. La guerra aveva richiesto una vastissima mobilitazione di risorse: i costi erano stati pari akmeno al doppio dell’intero PIL dell’ultimo anno di pace. Gli Stati avevano fatto ricorso all’aumento delle tasse e alla sottoscrizione di prestiti nazionali. Avevamo messo in circolazione grandi quantità di denaro con il risultato di provocare un’impennata dell’inflazione. Fra il 1915 e il 1918 i prezzi aumentarno ovunque di due o tre volte. Crebbe un diffuso sentimento di frustrazione e risentimento. A complicare ancora la situazione intervennero le condizioni prodotte dai trattati di pace: la nascita di nuovi Stati comportava una maggiore frammentazione del territori europeo. Le masse uscirono dalla guerra più consapevoli di sé e dei propri diritti. L’aaenza prolungata dei capifamiglia chiamati al fronte, l’ingresso di milioni di donne nel mondo del lavoro avevano messo in crisi le strutture tradizionali della famiglia patriarcale. Il modo di vestire e i comportamenti pubblici si fecero più liberi e disinvolti. La gioventù cominciava a percepirsi e a essere percepita come un mondo a parte, riconoscibile per l’abbigliamento, i modi di divertirsi e stare insieme, i consumi culturali, tra i quali sempre più rilevanti divennero, nel corso degli anni Venti, il cinema e la musica di provenienza statunitense: il jazz, i film di Hollywood, le notizie sulla vita delle star non offrivano solo motivi di divertimento e distrazione, ma proponevano un modello culturale e um’immagine della vita sociale molto lontani da quella cultura europea. Crebbero i movimenti femminili che rivendicavano parità di diritti con gli uomini. Diversi paesi introdussero il suffragio femminile. Nuovi movimenti politici del dopoguerra esaltavano la “giovinezza” come un valore in sé positivo. Incontrarono opposizioni e resistenze, di cui si fecero interpreti le destre politiche e le Chiese. 4. Verso una stabilizzazione 4.1 Germania 1923 Le convulsioni del dopoguerra furono in quasi tutta Europa riassorbite nel giro di pochi anni. In Germania si rilevarono molto più profonde e persistenti. I governi che guidarono il paese nei primi anni Venti vi fecero fronte stampando nuova moneta: era una scelta che alimentava la già marcata tendenza all’aumento dei prezzi. L’estrema destra nazionalista tentò di cavalcare i sentimenti e le frustrazioni per la sconfitta nella Prima Guerra mondiale e le perdite territoriali soprattutto a Est dando voce alla leggenda della “pugnalata alla schiena”, secondo cui l’esercito avrebbe potuto uscire vittorioso se non fosse stato tradito da una parte della società. La leggenda della pugnalata alla schiena contribuì a gettare discredito sulla Repubblica nata dalla sconfitta e sui partiti di sinistra e democratici. I gruppi nazionalisti dell’estrema destra – fra i quali la piccola NSDAP, partito guidato da Adolf Hitler -, scatenarono una vera e propria offensiva contro la classe dirigente repubblicana, la cui affermazione consideravano il risulato di un complotto internazionale di matrice ebraica e bolscevica. Vi furono tentativi di colpo di Stato e numerosi attentati. Le contraddizioni esplosero nell’autunno del 1923, quando l’instabilità politica si intrecciò con quella economica e monetaria. Francia e Belgio in risposta al governo tedesco che aveva sospeso il pagamento delle riparazioni, occuparono con le proprie truppe il bacino della Ruhr, una delle zone più ricche della Germania. L’evento diede avvio al definitivo crollo finanziario tedesco. Il paese precipitò in un’inflazione con i prezzi che raddoppiavano o triplicavano nel giro di una settimana. Inizialmente il governo aveva incoraggiato gli imprenditori a gli operai della Ruhr a rifiutarsi di collaborare con gli occupanti. Stresemann ordinò la fine della resistenza passiva. Tra l’8 e il 9 novembre, alcune formazioni ultranazionaliste e paramilitari cercarono di dare vita a un colpo di Stato. Seguì l’arresto dei promotori: Hitler fu condannato a cinque anni di carcerazione, che avrebbe però scontato solo in parte. Parallelamente, il governo intervenne per sensibilizzare le condizioni economiche: avviò una politica di tagli della spesa pubblica e di aumento delle tasse, introdusse una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark (marco di rendita) per porre sotto controllo la massa monetaria in circolazione. L’uscita definitiva dalla crisi fu raggiunta all’inizio del 1924, grazie all’accordo con le altre potenze e all’elaborazione del cosiddetto “Piano Dawes”, finanziere e uomo politico statunitense. Il piano prevedeva di dilazionare e graduare nel tempo il pagamento delle riparazioni e di favorire l’erogazione alla Germania di prestiti a lunga scadenza da parte di bache estere, soprattutto statunitensi. Il superamento della crisi della Ruhr, il rassegbamento dei rapporti tra Germania e Francia e il varo del Piano Dawes resero possibile la piena stabilizzazione anche in Germania. Il dopoguerra poteva essere considerato in larga parte chiuso. L’Europa sembrava ai contemporanei ormai avviata verso la pace, la stabilità politica e la crescita economica. 4.2 La crescita economica Alla metà degli anni Venti l’economia europea era quasi ovunque in forte ripresa: crebbero la produzione industriale e quella agricola, così come gli scambi tra le nazioni e le esportazioni. Tuttavia, continuavano a persistere forti squilibri. E’ possibile distinguere almeno tre diversi modelli strutturali. Il primo era wuello dei paesi maggiormente industrializzati. Qui la gran parte della forza lavoro era occupata nell’industria e, in misura inferiore, nei servizi. Il secondo gruppo aveva compiuto importanti passi avanti sulla strada dell’industrializzazione. La popolazione attiva era distribuita omogeneamnte tra i tre settori: l’agricoltura aveva ancora un ruolo rilevante sia nell’impiego di manodopera sia nella produzione di ricchezza nella struttura delle gerarchie sociali. Tutti gli altri paesi, infine, registravano ancora una decisa prevalenza agricola. A crescere maggiormente nella seconda metà degli anni Venti furono i paesi dei primi due gruppi. La crescita fu accompagnata da un rafforzamento delle istituzioni e delle regole preposte a garantire la stabilità economica e finanziaria. Il superamento dell’iperinflazione tedesca e l’introduzione del nuovo marco segnarono il progressivo passaggio a una fase di stablizzazione monetaria. La gran parte delle nazioni europee rientrò nel gold stamdard, sistema monetario basato sui cambi fissi e sulla convertibilità delle valute in oro. Stabilità fu la parola chiave del decennio. Nei paesi economicamente più avanzati, la strada privilegiata fu quella di realizzare politiche di intervento pubblico nelle quali lo Stato si assumeva il compito di coordinare e dirigere rilevanti segmenti della vita economica, sulla scia delle esperienze di mobilitazione industriale sperimentate durante la Prima guerra mondiale. Vennero creati nuovi organismi statali e favorita la contrattazione tra grandi imprese e sindacati. Il “capitalismo organizzato” fu il nuovo equilibrio tra Stato e vita economica. Nei paesi con un reddito pro capite più alto, la crescita fu trainata anche dai cosumi. E i consumi furono uno dei principali canali attraverso i quali si affermò un importante elemento di novità rispetto ai decenni prebellici: la grande influenza degli USA sull’economia europea. Le maggiori innovazioni maturate oltreoceano durante gli anni di guerra arrivarono negli anni Venti nei mercati europei: automobili ed elettrodomestici. Le nuove merci ebbero un impatto di crescente rilevanza sulla vita sociale. Gli USA ispirarono anche innovative trasformazioni dei sistemi produttivi. Numerosi imprenditori iniziarono ad adottare la catena di montaggio. Il Piano Dawes costituì la prova più evidente che nel mondo postbellico il primato economico era passato irrevocabilmente all’altra sponda dell’Atlantico, e che le economie del vecchio continente si legavano in modo sempre più rilevante alle opportunità e al supporto offerti dagli USA. 4.3 La ricerca della distensione L’uscita dalla crisi tedesca segnò un punto di svolta anche nelle relazioni tra le maggiori potenze europee. La decisione di Stresemann di porre fine alla resistenza passiva nella Ruhr contribuì nell’immediato a stemperare i contrasti con la Francia e pose le basi per mitigare gli attriti e gli squilibri creati dai trattati di pace. Prese allora avvio una fase nei rapporti tra Germania e Francia improntata alla distensione. I governi dei due paesi, insieme a quelli di UK e Italia, organizzarono una conferenza nell’ottobre del 1925 a Locarno. Tra gli accordi il principale prevedeva il riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles. Gli accordi di Locarno apparvero ai contempornei un decisivo momento di svolta, capace di mettere fine alle aspre tensioni del dopoguerra e all’emarginazione della Germania, che l’anno successivo fece ingresso nella Società nelle nazioni. Il clima di distensione ebbe una manifestazione nel cosiddetto “Patto Briand-Kellogg” con cui i contraenti si impegnavano a rinunciare alla guerra per risolvere controversie internazionali. Si trattava di un atto impegnativo. Nell’agosto del 1929 fu varato un nuovo piano per sistemare il problema delle riparazioni tedesche. Owen D. Young, ideò un piano che preveeva un’ulteriore riduzione dell’entità delle somme dovute dalla Germania e ne dilazionò il pagamento in sessant’anni. La decisione di far entrare la Germania nella Società delle nazioni rappresentò l’attestazione del rinnovato clima di collaborazione tra vincitori e vinti della Prima guerra mondiale. 4.4 Il fascismo e l’ondata autoritaria La stabilizzazione economica e l’allentamento delle tensioni internazionali non furono accompagnati dal consolidamento degli ordini democratici. L’esperimento politico più innovativo ebbe luogo in Italia, dove nell’ottobre del 1922 assunse la guida del governo Benito Mussolini, leader del PNF (Partito nazionalfascista), evoluzione dei Fasci di combattimento. Erano sin dall’inizio presenti elementi di rottura e violenza. La scelta del re Vittorio Emanuele III di affidare l’incarico a Mussolini era avvenuta sull’onda della marcia su Roma, ovvero l’arrivo alle porte della capitale di alcune decine di migliaia di miliziani fascisti armati (le “camicie nere”). L’ascesa politica dei fascisti nei due anni precedenti era stata accompagnata da un crescendo di violenze, aggressioni e decine di uccisioni. Le intimidazioni e le violenze delle camicie nere non cessarono neanche dopo l’ascesa al potere. Nel 1925-26, superate le proteste generate dall’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti, il governo fece approvare una serie di leggi “fascistissime” che rafforzavano i poteri delle forze di polizie, attaccavano la libertà di associazione e di stampa, sopprimevano di fatto i partiti d’opposizione. Alla fine del 1926 prese forma un vero e proprio regime dittatoriale di un partito unico strutturato e militarizzato, il PNF, il Gran consiglio del fascismo, che nel 1928 divenne organo costituzionale del Regno d’Italia. Il fascismo si proponeva di attirare, coinvolgere e mobilitare vasti settori della popolazione, a partire dai ceti medi. Parte integrante del regime fascista furono un sempre più capillare apparato propagandistico, il crescente intervento nell’economia, l’ideologia e le istituzioni corporative. In esso si intrecciavano tradizione e innovazione, restaurazione e rivoluzione. L’ambizione a trasformare mentalità, valori, abitudini e stili di vita della popolazione italiana secondo i dettami dell’ideologia fascista coesisteva con i legami del regime con gli altri gradi dell’esercito e della burocrazia, con i maggiori gruppi industriali e finanziari e con la Chiesa cattolica. Alcuni oppositori definitrono il fascismo “totalitario”, in considerazione della sua volontà di essere identificato con la totalità della sfera squilibri ereditati dalla Grande Guerra, che avrebbero invece necessitato di politiche flessibili e di continui aggiustamenti. Le crisi bancarie produssero effetti profondamente negativi sull’economia produttiva. 5.2 Disoccupazione e povertà La crisi peggiorò in breve tempo le condizioni di vita di decine di milioni di uomini e donne. Furono i disoccupati e le loro famiglie a sopportare il peso maggiore del crollo dell’economia. L’occupazione si contrasse quasi ovunque. Negli USA nel 1933 risultava senza lavoro 1 lavoratore su 4. In alcuni paesi europei si registrarono tassi di disoccupazione ancora più elevati. La sitazione più drammatica toccò alla Germania: nel 1932 la disoccupazione nell’industria superò il 40%; si contavano 8 milioni di disoccupati, equivalenti a 2/5 dell’intera popolazione lavorativa. In alcuni paesi (UK e Italia) la situazione disastrosa dei primi anni Trenta ebbe un impatto meno sconvolgente poiché faceva seguito a una lunga fase già di alta disoccupazione. La società tedesca, in particolare, ne venne profondamente destabilizzata, ma anche perché essa investiva un sistema politico e istituzionale già fragile nelle sue basi di consenso. Il rischio di rimanere senza lavoro era più alto nelle classi meno abbienti. Per quanto riguarda la composizione anagrafica, i giovani e i più anziani ebbero problemi maggiori: i primi, impiegati in condizioni contrattuali più precarie, erano più vulnerabili quando si trattava di decidere i licenziamenti; i secondi, ebbero più grande difficoltà nel trovare un impiego dopo aver perso il precedente. Si ridusse il tasso di occupazione femminile. La povertà tornò a crescere in Europa: il tasso delle nascite crollò, ripresero le migrazioni interne (dalla campagna alla città), aumentarono i crimini, soprattutto piccoli reati come furti, borseggi e il piccolo contrabbando. L’indagine più sistematica e metodologicamente ambiziosa fu condotta a un gruppo di sociologi austriaci a Marienthal, un sobborgo industriale vicino Vienna rimasto quasi interamente disoccupato. Osservarono come le giornate degli uomini, private di impegni di lavoro, si svuotassero progressivamente di senso: aumentava il tempo dedicato al sonno o a passeggiare senza una meta nei dintorni del villaggio. Le donne mostrarono una crescente sofferenza. Molte famiglie si disgregarono. Crollò la partecipazione alle attività associative e l’interesse per la vita pubblica. La formazione nazista, d’altra parte, stabilì intorno al 1933 una sempre più ampia presenza nel villaggio, diventando in breve il partito più votato. L’indagine sociologica condotta a Marienthal mise in luce come nella comunità prevalsero ben presto il disincanto, la passività, il senso di estraneità rispetto alla vita sociale, la perdita di fiducia in sé stessi e nel futuro. Anche lo scrittore inglese George Orwell, in un’inchiesta giornalistica condotta a Wigan, notò come la disoccupazione prolungata produceva un ozio, sfiducia e disinteresse verso la comunità e la vita pubblica. 5.3 La frammentazione del mercato internazionale Con la crisi, i processi di integrazione internazionale andarono incontro a un rapido arretramento. Se l’epoca a cavallo tra i due secoli aveva visto svilupparsi imponenti processi di globalizzazione, negli anni Trenta si entrò in una fase che si potrebbe definire di “deglobalizzazione”. Molti Stati cercarono di limitare l’ingresso di beni dall’estero. Gli Stati europei adottarono politiche protezionistiche che prevedevano l’aumento del livello dei dazi doganali e il ricorso a sistemi di clearing, una sorta di baratto, che prevedeva lo scambio di quantità prefissate di prodotti tra due paesi sulla base di accordi pluriennali. Nell’attuare politiche di chiusura furono le economie più grandi. Ogni tentativo di proteggere le riproduzione attraverso una riduzione dell’accesso di merci all’estero si basava sul presupposto di scaricare gli effetti della crisi sui produttori delle altre nazioni. I primi provvedimenti protezionisti innescarono un meccanismo di reazioni a catena. Il risultato fu che il volume degli scambi mondiali si ridusse di un quarto dal 1929 al 1932. Le esportazioni delle economie europee crollarono. Anche i flussi internazionali dei capitali ebbero una rapida contrazione. Nel 1931 il presidente americano Hoover, per aiutare la Germania a fronteggiare la crisi finanziaria, decretò una moratoria dei pagamenti stabiliti dopo la Prima guerra mondiale: la Germania era provvisoriamente obbliagata esentata dall’obbligo delle riparazioni dei debiti bellici agli USA. Il provvedimento finiva però con il penalizzare i paesi che ricevevano i maggiori pagamenti tedeschi (UK, Francia, Belgio e Italia). Le banche degli USA cessarono l’emissione di prestiti esteri. Molti paesi per difendersi dagli attacchi speculativi scelsero di svalutare la propria moneta. Il passo decisivo in questa direzione fu compiuto dall’UK, che nel settembre 1931, deliberò l’uscita dal gold standard. Senza più un rapporto di cambio fisso con l’oro e l’obbligo di conversione, il valore della sterlina poteva ora essere modificato sia per l’agire delle forze economiche che per le scelte del governo. Fece seguiro una forte svalutazione: decretando una riduzione del valore nominale della sterlina nei confronti di tutte le altre, il governo britannico si prefiggeva di rendere più economici e convenienti gli acquisti delle proprie merci all’estero. Altri paei reagirono adottando la stessa politica. Nel giro di due anni, quasi tutte le maggiori economie del mondo erano uscite dal gold standard. Fallimentari furono i tentativi di stabilire regole comuni e un coordinamento delle politiche nazionali per fronteggiare la nuova situazione. Le economie più avanzate perseguirono la formazione di grandi aree chiuse: si trattava di blocchi di paesi legati tra loro da rilevanti correnti di scambio di beni e di servizi, regolati da una moneta comune. Oltre agli USA che rafforzarono i rapporti con l’America Latina e con l’Asia si mossero in questa direzione le maggiori potenze europee, che aggregarono intorno a sé Stati economicamente più arretrati o periferici, su cui esercitavano una forte influenza politica e con i quali imbastirono uno scambio “ineguale”: acquistavano materie prime e beni agricoli a prezzi vantaggiosi in cambio di prodotti industriali e servizi venduti al riparo della concorrenza. La crisi indusse le potenze europee a rafforzare i legami con i loro domini d’oltremare. La tendenza alla formazione di aree economiche chiuse ridisegnò altresì i rapporti tra le maggiori potenze europee e gli altri Stati del continente. La Germania, dopo l’ascesa al potere dei nazionalsocialisti, diede vita nella seconda metà degli anni Trenta a un’area del marco. La Germania importava petrolio dalla Romania, tabacco dalla Bulgaria e grano dall’Ungheria, ed esportava macchinari e materiali bellici. Alla fine del decennio anche l’Italia si sarebbe legata al blocco tedesco. La frammentazione del sistema del sistema mondiale e il crollo dei meccanismi di cooperazione furono determinati dall’assenza di una nazione leader a livello globale. Quel ruolo era stato assunto nel cinquantennio precedente la Prima guerra mondiale dall UK, e dopo il 1945 sarebbe stato svolto, per il mondo capitalistico, dagli USA. In ogni caso, è indubbio che la crisi apertasi alla fine degli anni Venti incontrò un vuoto di leadership globale: in assenza di un soggetto capace di individuare risposte appropriate, essa si prolungò nel tempo ed ebbe effetti ancora più drammatici. L’Europa non era più al centro dell’econimia globale, e non poteva pensare di uscire dalla crisi senza il sostegno degli Stati Uniti. 5.4 Le prime risposte dei giovani: nel solco della tradizione La scelta dei governi di mettersi al riparo dalla crisi riduendo i legami con mercati internazionali ne accentuò invece la caduta. Un discorso del tutto analogo piò farsi per le politiche economiche interne dei primi anni Trenta. I governi nazionali seguirono una tendenza comune: nella convinzione condivisa che i meccanismi di mercato avrebbero spontaneamente ritrovato il loro equilinrio, non attivarono uno specifico intervento dello Stato. A determinare questa scelta contribuì la condizione di fragilità in cui si trovavano le finanze pubbliche. Non meno rilevanti furono i condizionamenti culturali, la mentalità e i convincimenti profondi degli uomini di governo. Per tutti costoro era salda la condivisione di una cultura economica ortodossa, che metteva al centro la libertà dei mercati e dell’iniziativa privata e prevedeva per lo Stato un ruolo minimo della stabilità monetaria. Lontane sembravano le sperimentazioni condotte durante la Prima guerra mondiale quando erano stati attuati efficaci programmi di interventismo economico e una mobilitazione di risorse finanziarie da parte dello Stato senza precedenti. Di fronte all’instabilità finanziaria e alla crisi bancaria, i governi europei e non volleto prendere in considerazione provvedimenti che avrebbero potuto incrinare la fiducia degli investitori. Ritenevano che solo garantendo il funzionamento del mercato e incentivando si sarebbe potuta interrompere la caduta e di conseguenza rilanciare l’occupazione. I governi mantennero il pareggio del bilancio e ribadirono finchè possibile l’ancoraggio della moneta al gold standard, per favorire l’afflusso di capitali dall’estero. Il gold standard, implicando il contenimento dell’inflazione e il mantenimento del livello di cambio, comportò un ferreo controllo della quantità di moneta in circolazione e un aumento del costo del denaro, limitando la possibilità di spendere e investire, e nel contempo rese più costose le esportazioni. In Francia il governo proseguì fino al 1936 una politica di ortodossia monetaria e limitazione delle uscite, tagliando gli stipendi degli impiegati dello Stato. Una politica analoga fu condotta dal UK con meno vigore e per un periodo inferiore. Particolarmente dure furono le politiche condotte in Germania. Il governo Bruning, del partito cattolico di centro, tagliò le spese sociali e le pensioni, ridusse il numero dei dipendenti pubblici e il salario di quelli che conservarono il posto. Anche in Italia si diede priorità in un primo momento alla stabilità monetaria e ai salvataggi delle banche. 5.5 La ricerca di un New Deal europeo Ci volle almeno un biennio perché le classi dirigenti europee si rendessero conto che la strada seguita fino a quel momento non solo non aveva frenato il crollo, ma aveva addirittura contribuito ad aggravarlo. A partire dal 1932 molti governi si allontanarono via via dai dettami del laissez-faire e avviarono politiche basate su un forte aumento dell’intervento statale e della spesa pubblica. Iniziarono a finanziare investimenti e opere pubbliche per creare nuovi posti di lavoro e nello stesso tempo a rafforzare le politiche assistenziali. L’obiettivo degli interventi era non solo aiutare gli individui più in difficoltà ma anche favorire un aumento dei livello dei salari e dei consumi, in modo da stimolare le imprese a tornare a investire e ad assumere nuovo personale; i finanziamenti erogati dallo Stato avrebbero fatto da volano per la ripresa dell’economia privata. L’idea del “moltiplicatore” fu messa a punto dall’economista inglese Keynes. Egli, nel 1936, sintetizzò le linee fondamentali della nuova politica economica, più tardi nota come “keynesismo”, fondata sull’intervento pubblico a sostegno della domanda interna e sulla necessità che lo Stato facesse proprio dell’obiettivo di una riduzione drastica e tendenzialmente totale della disoccupazione. Negli Stati Uniti, l’elezione nel 1932 del democratico Roosevelt portò all’approvazione di un consistente pacchetto di riforme, il New Deal, che intervenivano su tutti i settori della produzione, sul credito, sulle opere pubbliche e sulla previdenza sociale. Le maggiori potenze economiche europee seguirono una strada simile. In Germania il governo di Franz van Papen, varò un programma di creazione di impieghi nel settore pubblico e incentivi alle imprese private perché assumessero manodopera. Fu però dal 1933, con l’avvento al potere di Adolf Hitler e dei nazionalsocialisti che si ebbe la svolta definitiva: il sistema finanziario e bancario fu sottoposto al diretto controllo statale; l’agricoltura venne riorganizzata secondo un piano nazionale, che consentì di aumentare i prezzi dei prodotti e quindi i redditi dei produttori; si avviarono programmi statali per le infrastrutture e vennero erogati sussidi e agevolazioni fiscali ai cittadini per promuovere spese e consumi. In Italia, le bamche e le imprese vennero aggregate in un ante pubblico, l’IRI, principale gruppo finanziario e industriale del paese: controllava la gran parte del settore siderurgico, un terzo di quello elettrico, la quasi totalità dei cantieri navali, la telefonia. La svolta nel UK fu più contenuta nelle dimensioni, ma non meno significativa: dopo lo sganciamento dal gold standard nel 1931, il governo finanziò opere pubbliche, sostenne l’agricoltura, intervenne nella realizzazione dei maggiori settori industriali e si attivò per favorire il credito e stimolare gli investimenti. Fu tardivo l’abbandono delle politiche di austerità da parte della Francia. Anche i paesi del Nord Europa, seguirono una strada analoga: la Svezia avviò una politica di stimolo alla ripresa finanziata dal debito pubblico e rafforzò le politiche sociali e previdenziali, gettando le basi di un avanzamento modello di welfare state. La svolta keynesiana non ebbe riflessi significativi a Est. Nella parte orientale il problema continuava ad essere rappresentato non dal calo della domanda ma dalla questione agraria e dall’arretratezza strutturale dell’apparato produttivo: la maggior parte dei paesi di quella regione era ancora alle prese con il complesso passaggio dall’economia contadina all’industria. Tornando ai paesi industrializzati, è da notare come le grandi democrazie e i regimi fascisti comprimono scelte in larga parte analoghe sul piano delle politiche economiche e sociali. Esperti, funzionari, uomini di governo guardarono con crescente interesse a quanto si veniva realizzando all’estero e promossero visite, scambi di personale, traduzione di testi e convegni internazionali. Persino le politiche dell’Italia fascista e della Germania nazista furono osservate con grande interesse negli stati democratici. L’URSS non era stata toccata dalla crisi. Molti europei, anche provando una forte ostilità per il comunismo, furono impressionati dalla spettacolare espansione dell’industria pesante sovietica e dalla sua capacità di rimanere completamente al riparo dal disordine delle economie di mercato. Negli anni Trenta il capitalismo assunse connotati nuovi che l’avrebbero caratterizzato fino all’inizio degli anni Settanta. Gli anni Trenta furono anche anni in cui una parte della popolazione europea, minoritaria ma quantitativamente significativa, visse importanti cambiamenti: i ceti benestanti, culturalmente più vivaci, poterono sperimentare abitudini, stili di vita, pratiche e menralità che venti o trent’anni dopo sarebbero divenuti parte integrante dell’esperienza di vita di ampi settori delle popolazioni dell’Europa occidentale. Anche i mezzi di comunicazione di massa “elettrici” (radio e cinematografo) ebbero un significativo sviluppo: i mass media vennero a rappresentare non solo uno strumento di informazione o intrattenimento, ma la fonte di un nuovo immaginario e la vetrina per un diverso modello di vita (quello dei divi del cinema o dello sport). Il decennio vide altresì svilupparsi fenomeni e processi che negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale avrebbero acquisito una dimensione effettivamente di massa, producendo una profonda trasformazione negli equilibri sociali, nella vita politica e nelle mentalità. 6. La crisi della democrazia e degli squilibri internazionali 6.1 La democrazia sotto assedio Gli anni Tremta furono caratterizzati sul piano politico, da un progressivo indebolimento dei sistemi democratici. Con l’inizio della depressione economica, la fragilità degli Stati europei più giovani, gli squilibri prodotti dalla Prima guerra mondiale, le scelte del dopoguerra, assunse i contorni di una crisi strutturale. La Grande crisi iniziata nel 1929 si sommò alla guerra del 1914-18 e alle turbolenze dell’immediato dopoguerra nel generare una diffusa sensazione di instabilità, incertezza nel futuro e disaffermazione per le istituzioni che regolavano la vita collettiva. Gli europei si sentirono in balia dello strapotere di forze impersonali. A fare le spese di questa condizione psicologica e culturale furono la democrazia e il sistema parlamentare, ritenuti da ampi segmenti dell’opinione pubblico non in grado di garantire il benessere dei cittadini in quel difficile frangente. Per affrontare la nuova sfida, i sistemi rappresentati, a lungo organizzati intorno ai cosiddetti “notabili” – figure di rilievo - , avevano assunto una forma istituzionale più moderna, che vedeva ora al centro i grandi partiti di massa e un sistema elettorale proporzionale. Le “democrazie dei partiti” postbelliche mostrarono immediatamente seri limiti. In primo luogo, la maggiore partecipazione si tradusse in una crescita del numero delle formazioni politiche e in una loro sempre più accentuata differenziazione; la frammentazione, a sua volta, produsse effetti di ingovernabilità. I governi, come accadde in Francia o nella Germania di Weimar, furono formati da coalizioni larghe ed eterogenee. Inoltre, dopo la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione russa, la lotta politica si era ideologizzata. Negli anni Trenta una dialettica politica così altamente conflittuale venne vissuta con insofferenza crescente: veniva percepita come disgregamento del corpo sociale, perché alimentava i conflitti e le ostilità tra i diversi gruppi sociali; dall’altro appariva rispondente più alle logiche interne dei gruppi dirigenti e della classe politica che alle esigenze concrete della popolazione. In questo contesto crebbe la capacità di attrazione e il fascino esercitato dal fascismo e dal comunismo: in maniera profondamente diversa, l’uno e l’altro prefigravano una politica non dilaniata dai conflitti; fascismo e comunismo promettevano di guarire i mali del capitalismo e istituire un “nuovo ordine”. I partiti antisistema conquistarono sempre più adesioni, grazie alla promessa di risolvere con mezzi estremi la crisi economica e politica del loro paese. 6.5 Totalitarismo e dittatura di massa Stalin fu un dittatore di inusitata ferocia, pronto a ricorrere al terrore sistematico ma, al tempo stesso, anche un leader carismatico, capace di suscitare l’entusiasmo di milioni di lavoratori; si fece sistematico ricorso alla forza mobilitante dell’ideologia, al culto del leader e all’integrazione degli individui nelle strutture del regime; il fine era non solo rendere uniforme la società ma sollecitare l’adesione, la mobilitazione e la condivisione di mentalità e stili di vita pienamente coerenti con il nuovo sistema di valori. Anche la conformazione assunta dal potere sovietico negli anni Trenta presentava significative analogie con i regimi fascisti. Alcuni osservatori vollevo annoverare l’Unione Sovietica tra gli Stati totalitari. Se l’impiego del concetto di totalitarismo ha messo in luce significative similitudine nell’organizzazione del potere politico, esso però è andato incontro a due ordini di obiezioni. Il primo chiama in causa le profonde differenze tra i regimi soprattutto nei “valori” di riferimento e nella struttura economica e sociale. Ad accomunare le tre dittature sarebbe, comunque, la contrapposizione ai principi e alle istituzioni della democrazia liberale . Altre obiezioni riguardano il carattere “totale” dal potere esercitato dai regimi. Numerose ricerche hanno sottolineato come nei tre paesi, negli anni Trenta, l’apparente sottomissione integrale della popolazione ne nascondeva in realtà forme sotterranee, di resistenza alle pressioni. Per superare queste obiezioni, la ricerca storica ha fatto ricorso alla categoria “dittatura di massa”: appare meno connotata sul piano interpretativo, dal momento che non intende delineare un comune modello politico, ma mettere in evidenza le differenze tra il tradizionale dispotismo e le grandi dittature del XX secolo, inevitabilmente costrette a plasmarmi sulla dimensione di massa della società. 6.6 Destabilizzazione e appeasement La difficile situazione economica e politica dell’Europa negli anni Trenta condizionò anche i rapporti tra le maggiori potenze. Fecero venire meno un importante terreno di connesione e accesero contrapposizioni e rivalità. Anche la crisi della democrazia contribuì a rendere più fragili e precari gli equilibri costruiti in precedenza. Il ridursi del numero degli Stati liberal-democratici indebolì la loro capacità di garantire equilibrio e condizioni favorevoli alla pace. Dopo il 1933, con Hitler, il fascismo iniziò a rappresentare una sfida non solo interna ai singoli paesi, ma anche una minaccia all’equilibrio geopolitico europeo. Sia Mussolini che Hitler avevamo sempre ostentato la loro volontà di ridisegnare la carta geopolitica del continente; né avevano mai nascosto la loro convinzione che un cambiamento di quella portata sarebbe potuto scaturire solo da una guerra: nell’ottobre 1933 la Germania uscì dalla Società delle Nazioni, dopo avviò un programma di rafforzamento dell’apparato militare e nel marzo 1935 reintrodusse la leva obbligatoria. Centrale, nell’ideologia espansionistica del Terzo Reich, era il concetto di “spazio vitale” che intendeva le dimensioni territoriali senza le quali la sopravvivenza della razza germanica era considerata impossibile. La conquista e la colonizzazione di nuovi territori si sarebbe dovuta indirizzare verso Est: l’Europa orientale era abitata da popolazioni considerate inferiori (popoli slavi e minoranze ebraiche). Il primo passo concreto per destabilizzare l’ordine inernazionale fu compiuto dall’Italia che nell’ottobre 1935 invase l’Etiopia, uno Stato indipendente membro della Società delle nazioni. Quest’ultima reagì tiepidamente. Forti furono le proteste sia delle forze antifasciste in Europa sia dei movimenti anticoloniali in Africa e Asia. L’aggressione all’Etiopia non solo fu scatenata nel disprezzo di ogni accordo e trattato, ma vide altresì il ricorso ad armi come i gas asfissianti. Nel maggio 1936 Mussolini dichiarò concluse le ostilità e proclamò la nascita di un impero italiano in Etiopia. La Germania nel marzo 1936 entrò in Renania. Nel contempo, Hitler e Mussolini consolidarono i loro rapporti: la firma nell’ottobre 1936 di un patto d’amicizia (l’”Asse Roma-Berlino”) avvicinò le due dittature ponendo le basi di una futura alleanza. Hitler manifestò l’intenzione di dirigere le proprie mire espansionistiche verso i Sudeti. Per scongiurare il rischio di un conflitto tra le maggiori potenze, Mussolini, il cao del governo britannico, il conservatore Chamberlain, e quello francese, Daladier, organizzarono a Monaco una conferenza in cui si accordarono per concedere i Sudeti alla Germania. Anche sul piano interno si avviò una dinamica convergente: il concretizzarsi della prospettiva di una gara generalizzata spinse i due regimi a radicalizzare i meccanismi di controllo e la persecuzione di oppositori e minoranze. Ungheria e Bulgaria si avvicinarono ancora di più alla Germania e all’Italia. Sul fronte opposto, la posizione nei confronti della Germania assunta dal governo britannico fu chiamato appeasement (pacificazione): una politica finalizzata a evitare una guerra. La Francia non riusciva a concepire una strategia diversa anche perché non voleva mettere a rischio i rapporti con l’alleato britannico. L’espansionismo del Terzo Reich era inevitabile, il cui obiettivo era non un limitato ampliamento territoriale, ma un’integrale tarsformazione degli assetti politici e geopolitici del continente. UK e francia cercando di evitare a ogni costo un nuovo conflitto si fecero interpreti del desiderio della grande maggioranza delle proprie popolazioni. C’era inoltre la paura che da un conflitto con la Germania nazista avrebbe potuto trarne vantaggio la Russia bolscevica. Eppure dopo l’ascesa di Hitler, Stalin aveva impresso una svolta alla propria politica estera. Nel settembre 1934 aderì alla Società delle nazioni e nel maggio 1935 stipulò un’alleanza militare con la Francia. La svolta non fu sufficiente a dissolvere timori e diffidenze verso l’URSS radicati nelle classi dirigenti occidentali. Una coalizione di Stati europei compattamente schierati contro l’avanzata del fascismo faticò dunque a prendere forma. Nella seconda metà degli anni trenta le opinioni pubbliche e le classi dirigenti non colsero fino in fondo quanto le proprie possibilità d’azione fossero sempre più condizionate dai mutamenti dello scenario globale. Iniziava a profilarsi un nuovo rapporto con gli USA. L’entourage roosveltiano manifestò una crescente insofferenza nei confronti dell’isolazionismo che impediva agli USA di assumere il controllo di leadership globale, senza il quale il Paese non avrebbe potuto proseguire il suo sviluppo. Roosevelt indicò l’imoegno per la difesa della democrazia. Le due grandi democrazie europee vedevano indebolirsi il proprio ruolo imperiale. Asia e Africa vissero l’avvio di imponenti processi di accrescimento demografico. Il rapporto tra popolazione e risorse veniva messo sotto pressione. L’aggressione fascista all’Etiopia contribuì a sgretolare la residua fiducia nel sistema dei mandati, nelle regole difese dalla Società delle nazioni e nelle capacità riformatrici dell’imperialismo occidentale. In India nelle colonie caraibiche si allargarono i moti indipendentisti esplosi nel primo dopoguerra. La Francia rispose con dure repressioni; l’UK adottò una politica più elastica, allentando il controllo esercitato sui territori coloniali, pur conservando stretti legami economici; nel 1936 i britannici concessero la piena indipendenza all’Egitto, ma mantennero il controllo sul canale di Suez. 6.7 La guerra civile spagnola Tra il 1936 e il 1939 in Spagna fu combattuta una sanguinosa guerra civile. Iniziata per dinamiche interne, il conflitto ebbe ben presto ripercussioni molto più vaste, intrecciandosi strettamente con il contesto internazionale. Dal 1931 la Spagna era retta da un ordinamento repubblicano e da una costituzione progressista. Nel febbraio 1936 salì al governo una coalizione di Fronte popolare composta da repubblicani, socialisti e comunisti. Operai e conadini diedero vita a una serie di agitazioni nelle maggiori città. La svolta politica fu accolta con grande timore dalle destre, mentre gruppi di estremisti riposero alle mobiltitazioni con la violenza squadrista. L’assassinio del leader monarchico-conservatore Sotelo, da parte di poliziotti repubblicani. Alcuni giorni dopo, reparti delle forze armate tra cui Francisco Franco, si rivoltarono contro il governo repubblicano. A difesa del fronte popolare si schierarono operai e contadini. Se lo scontro parve inizialmente favorevole ai repubblicani, con il passare dei mesi iniziarono a prevalere i nazionalisti di Franco. Italia e Germania sostennero gli insorti. Gli Stati democratici, prefigurando la politica di appeasement, scelsero il non intervento. A sostegno della Repubblica si schierò invece l’Unione Sovietica. In Spagna, per combattere contro i nazionalisti arrivarono anche i volontari delle Brigate internazionali: circa 40.000 uomini e donne in maggioranza comunisti ma comunque di tutte le principali tendenze antifasciste. Il sostegno fornito dall’URSS non era sufficiente: a penalizzare le forze repubblicane furono i crescenti contrasti interni. Dopo quasi tre anni di duri combattimenti, nel marzo 1939 i franchisti conquistarono Madrid. Franco diede vita a un regime autoritario e annunciò l’adesione all’Asse con Italia e Germania. L’interveno di potenze stranierre prefigurò schieramenti e contrapposizioni future. L’esperienza delle Brigate internazionali costituì la prima manifestazione dell’antifascismo internazionale. Inoltre, le vicende spagnole portarono alla luce l’immobilismo sul piano internazionale delle grandi democrazie europee. La guerra di Spagna rivelò quanto fosse alto il livello di violenza considerato legittimo dalle culture politiche del tempo e prefigurò le forme del conflitto della Seconda guerra mondiale. Nei combattimenti fecero la loro comparsa anche nuove modalità di distruzione anonima e di massa, destinate a un impiego sistematico nella Seconda guerra mondiale: i bombardamenti sui civili. 7. La Seconda guerra mondiale 7.1 Le origini del conflitto e la posta in palio La seconda guerra mondiale costituisce uno snodo cruciale dell’età contemporanea, uno spartiacque che ha segnato le sorti del continente europeo determinando modifiche territoriali e una profonda riconfigurazione dei rapporti tra gli Stati e anche rilevanti trasformazioni nei sistemi politici e nella sfera della mentalità. Tra il settembre 1939 eil maggio 1945 l’Europa pagò uno spaventoso tributo di morte e distruzione, con oltre 40 milioni di vittime, quasi 2/3 di civili. La Seconda guerra mondiale fu una lotta all’ultimo sangue tra eserciti capaci di scatenare una potenza distruttiva devastante, un’esplosione di violentza che coinvolse tra le popolazioni civili nuove forme e su scalda inedita, ma anche una resa dei conti tra visioni del mondo diverse e inconciliabili. Nata come un conflitto europeo che aveva come posta in palio l’egemonia continentale, da un lato essa si concluse con la sconfitta e il crollo dei regimi fascisti responsabili del suo scoppio e poi del suo allargamento. Dopo aver realizzato nel 1938 il primo punto del proprio programma con la creazione di una “grande Germania” attraverso l’annesione dell’Austria e dei Sudeti, Hitler intendeva passare al secondo, la conquista del Lebensraum (“spazio vitale”) a Est, sottomettendo i popoli slavi. Passato meno di un mese dalla conferenza di Monaco, i generali tedeschi avevno ricevuto l’ordine di prepararsi per l’invasione della Cecoslovacchia. Il 15 marzo 1939, l’esercito tedesco nazista invase il paese: la parte occidentale (Boemia e Moravia) fu ridotta a un protettorato del Reich, mentre la Slovacchia ne divenne uno Stato satellite. L’occupazione di Praga rendeva evidente che Hitler ambiva a impossessarsi con la forza dei territori dell’Europa centro-orientale indipendentemente dalla loro composizione etnica. Britannici e francesi spostarono dunque il baricentro della propria politica dell’appeasement verso un tentativo di contenimento che contemplava anche l’suo della forza. Il successivo obiettivo di Hitler sarebbe stata la Polonia: il Fuhrer aveva rivendicato il controllo di Danzica e l’accesso al corridoio polacco che divideva la Prussia orientale dal restante territorio del Reich. Intanto Mussolini, che aveva assistito con fastidio all’iniziativa tedesca in Cecoslovacchia, ordinò l’occupazione dell’Albania con l’intento di dimostrare che l’Italia fascista non era da meno rispetto al Terzo Reich. Il 22 maggio il ministro degli Esteri italiano quello tedesco siglarono un’alleanza militare, il Patto d’acciaio. Fu una scelta avventata da parte dell’Italia, essendo il Paese impreparato ad affrontare un conflitto di vasta portata come quello che ormai si delineava all’orizzonte. Diventava decisivo l’atteggiamento dell’Unione Sovietica. Parigi e Londra lanciarono a Mosca segnali per un possibile accordo in funzione antitedesca. Stalin propose un’alleanza che prevedeva l’assistenza diretta di qualsiasi paese dell’Europa centro-orientale che fossero oggetto di attacco del Terzo Reich. Francia e UK risposero con freddezza. I colloqui si protrassero fino all’estate inoltrata senza produrre alcun esito. Le democrazie occidentali non era le sole a muoversi su questo versante. Anche la diplomazia tedesca aveva cominciato a sondare la disponibilità sovietica a un accordo. I tedeschi proposero un patto di non aggressione ai sovietici che decisero di accettare. L’accordo tra i due regimi era totalitari di ideologie contrapposte, noto come Patto Molotov-Ribbentrop, suscitò sopresa a livello internazionale. Tuttavia esso risultava vantaggioso per entrambe le parti: se Hitler poteva fare affidamento sulla neutralità sovietica per concentrarsi sullo scontro con le potenze occidentali, Stalin scongiurava un conflitto con il Terzo Reich; inoltre assicurava all’URSS armamenti e macchinari in cambio dalla fornitura alla Germania di materie prime; e infine un protocollo segreto prevedeva la spartizione dell’Europa centro-orientale in sfere di influenza, riservando ai tedeschi la parte occidentale della Polonia insieme alla Lituania e ai sovietici l’Estonia, la Lettonia, la Finlandia, la Polonia orientale e la Bessarabia romena. Il 1° settembre 1939 la Germania invase la Polonia. Due giorni dopo, Francia e UK dichiaravano guerra alla Germania. Se l’espansionismo hitleriano ne constituì senz’altro la causa scatenante, la guerra era in realtà l’esito di una tensione strutturale che rendeva instabile il quadro delle situazioni internazionali. Da un lato, la determinazione a rinsaldare la propria egemonia da parte di Francia e UK; dall’altro, vi erano le pressioni esercitate da potenze emerse in tempi più recenti che non erano affatto soddisfatte dallo status quo: la Germania, il Giappone e l’Italia che nutrivano ambizioni imperiali. 7.2 L’offensiva dell’Asse Grazie a una nuova tecnica militare detta Blitzkrieg (“guerra lampo”) che attraverso l’azione combinata di forza di terra e aerea consentiva di colpire il nemico in maniera fulminea e devastante, l’esercitò tedesco impiegò appena un mese per avere la meglio sulle truppe polacche. A seguito della vittoria, la porzione più occidentale della parte di Polonia venne incorporata dal Reich, mentre i restanti possedimenti furono annessi a un Governatorato generale (tedesco). L’Armata rossa si era mossa per impadronirsi della parte orientale del paese come previsto dal patto tedesco-sovietico. A fine novembre l’URSS attaccò la Finlandia. Il paese fu piegato nel marzo 1940 e dovette cedere circa un decimo del proprio territorio. La Germania mosse guerra alla Danimarca e Norvegia per assicurarsi il controllo del Mare del Nord e ampliare le basi di partenza per le future missioni marittime e aeree contro il UK. Sul versante occidentale si viveva, invece, una situazione di stallo. Nessuna iniziativa fu presa da parte franco-britannica. Il 10 maggio 1940 la guida del governo britannico passava da Chamberlain al suo collega di partito Winston Churchill, che si era opposto alla politica dell’appeasement ed era determinato a tenere una condotta più energica. Penetrate in territorio francese, le forze del Reich: per mettersi in salvo, 350.000 soldati britannici e francesi abbandonarono il continente inìmbarcandosi dal porto di Dunkerque alla volta delle coste inglesi. Il 14 giugno la Wehrmacht entrò a Parigi. Il governo francese lasciò la capitale e decise di chiedere l’armistizio: trionfò. Per i francesi fu una drammatica umiliazione. Intanto, mentre l’Unione Sovietica portava a termine l’occupazione dei territori che ricadevano nella sua sfera di influenza, l’Italia – che allo scoppio del conflitto aveva optato per la non belligeranza – il 10 giugno si risolse a entrare in guerra a fianco della Germania. L’esercito italiano raccolse successi assai parziali contro un nemico ormai in ginocchio. Fu dichiarata guerra anche al Regno Unito. Mussolini ambiva a ritagliare per l’Italia il ruolo di potenza dominante nel Mediterraneo, ma le campagne belliche intraprese a tal fine produssero esiti tutt’altro che eclatanti. A fine Ottobre fu attaccata la Grecia, paese neutrale. Grandi difficoltà caratterizzarono anche le battaglie combattute contro i britannici nel Mediterraneo e partite in quest’ultimo teatro di guerra. L’Italia perse i possedimenti coloniali che aveva nella regione (Eritrea, Etiopia e Somalia). Dopo la caduta della Francia, il UK era rimasto l’unico baluardo contro l’avanzata apparentemente inarrestabile del Terzo Reich. Hitler sperava di poter indurre i britannici a tirarsi fuori dalla guerra, il che gli avrebbe consentito di concentrarsi sul suo vero obiettivo, l’URSS, senza dover combattere su due fronti. La Luftwaffe (aviazione tedesca) scatenò allora una massiccia offensiva aerea contro la Gran Bretagna. I britannici resistettero dando mostra di grande organizzazione: a ottobre, lo sbarco sulle coste britanniche venne rinviato, ma i bombardamenti proseguirono fino alla primavera del 1941, quando Hitler diede ordine di sorprenderli per concentrare le forze sull’ormai imminente attacco all’Unione Sovietica. Vitale per la capacità di resistenza britannica fu il sostegno degli USA, che nonostante la formale neutralità nel conflitto, assicurarono al Regno Unito un consistente supporto econimico. Particolarmente rilevante fu il Lend-Lease Act voluto dal presidente Roosevelt, che permetteva di fornire materiale bellico, cibo e materie prime ai paesi la cui difesa era considerata essenziale per gli interessi statunitensi. Roosevelt sottoscrisse con Churchill la carta atlantica: pieno rispetto dei principi di sovranità nazionale e autodeterminazione dei popoli, rinuncia all’uso della forza per regolare i rapporti tra Stat, cooperazione economica, libertà di commercio. Le file dell’Asse si eran ingrossate grazie all’adesione di Ungheria, Romania, Slovacchia e Bulgaria al Patto tripartito tra Germania, Italia e Giappone. Il 6 aprile 1941 le forze italo-tedesche imvasero la Jugoslavia e la Grecia. I due paesi balcanici furono rapidamente soggiogati. Conseguenza principale dell’invasione fu lo smembramento della Jugoslavia, con la spartizione del suo territorio tra i Paesi istituzioni religiose prestarono aiuto agli ebrei braccati dai nazisti e dagli antisemiti locali. I medici olandesi si dimisero in massa dalla propria associazione professionale, ribellandosi così dall’esclusione dei colleghi ebrei. In Polonia, si diede vita a un vasto programma educativo clandestini, con corsi frequenatati da decine di migliaia di studenti. Iniziative e condotte diverse attraverso cui emergeva la volontà di resistere al “nuovo ordine” tutelando l’integrità e i diritti della persona e i valori fondamentali delle società oppresse. 7.6 La guerra razziale e la Shoah Per la dirigenza nazista la guerra aveva una specifica dimensione razziale, essendo volta a creare le condizioni per una riorganizzazione complessiva dell’Europa centro-orientale su base etnica. Al rimpatrio dei “tedeschi etnici” che vivevano fuori dai confini del Reich (Polonia, Stati baltici, Romania, Ungheria, Russia), avrebbe dovuto accompagnarsi la colonizzazione tedesca dei territori conquistati, dai quali sarebbero stati rimossi in tutto o in parte gli Untermenschen, i subumani: slavi, rom e sinti e soprattutto ebrei, che nella perversa visione di Hitler incarnavano il più insidioso agente patogeno che attentava alla purezza e alla salute della comunità del popolo. La guerra segnò dunque l’estensione delle politiche razziali su scala europea. Nei primi due anni del conflitto, centinaia di migliaia di tedeschi furono reinsediati nella porzione di Polonia occidentale annessa al Reich e da germanizzare, mentre circa 1 milione di polacchi ed ebrei furono espulsi da questi territori. Si procedeva alla segregazione degli ebrei nei ghetti: quartieri urbani dove il sovraffollamento, le pessime condizioni igienico-sanitarie e la penuria di cibo e altri generi di prima necessità si traducevano in alti tassi di mortalità. Anche su questo versante il salto qualitativo coincise con l’attacco all’Unione Sovietica, a seguito del quale la “soluzione finale” del problema ebraico non fu più intesa come espulsione di massa ma come annientamento. Detto Olocausto o Shoah. Diversi fattori contribuirono a determinare questo passaggio cruciale. L’operazione Barbarossa portò i tedeschi a invadere territori dove si registrava un ancora più elevata presenza di popolazione ebraica. I nazisti cnsideravano gli ebrei sovietici particolarmente pericolosi, poiché associavano ebraismo e bolscevismo, considerando questo una derivazione di quello. Un ruolo decisivo lo ebbero poi i fattori logistici. La frustrazione per i mancati successi in Russia si tradusse nella ricerca di una rivalsa nella guerra agli ebrei. In una prima fase procedettero a fucilazioni di massa nei pressi dei centri abitati. Il massacro più sanguinoso fu quello di Babij Jar, nella periferia di Kiev, dove 33.000 persone vennero fucilate tra l 29 e il 30 settembre 1941. Tuttavia, il notevole dispendio in termini di tempo e uomini necessari, l’eccessiva visibilità da parte delle popolazioni locali, gli effetti sugli esecutori, si rivelò un’esperienza logorante, per alcuni insostenibile sul piano psicologico. Alla fine del 1941 si decise di adottare una soluzione più funzionale, allestendo appositi campi di sterminio in località isolate dove gli ebrei sarebbero stati uccisi in strutture fisse, le camere a gas. Quello messo in atto negli anni seguenti nei campi di sterminio era effettivamente un sistema assai più rapido, più “pulito” ed efficiente: le vittime venivano convogliate nei campi attraverso la rete ferroviaria; una selezione divideva coloro che potevan essere avviati al lavoro forzato da quanti venivano indirizzati direttamente verso le camere a gas; le esecuzioni avvenivano al riparo dagli occhi indiscreti. I cadaveri non dovevano essere ammassati nelle fosse comuni, ma venivano bruciati nei forni crematori. Quello della gasazione era un sistema già collaudato dai nazisti tra il 1939 e il 1941 nell’ambito dell’Aktion T4, programma eugenetico finalizzato alla sopressione di persone affette da malattie ereditarie e infermità mentali. Tra gli aspetti più inquietanti della Shoah vi è il suo carattere industriale e burocratico. L’approdo alle camere a gas era l’esito di “normali” procedure amministrative che viero un gran numero di funzionari e impiegati lavorare alla classificazione e definizione delle vittime, al loro concentramento, alla confisca dei beni, all’organizzazione dei trasporti e alla logistica dei campi. I burocati che mandarono avanti la macchina dello sterminio non erano necessariamente fanatici antisemiti imbevuti dell’ideologia nazista. La Shoah costò la vita a un enorme numero di persone: i conteggi più affidabili oscillano tra 5 e 6 milioni, ossia 2/3 degli ebrei in Europa. Il genocidio ebbe una dimensione europea non solo in quanto le persone uccise provenivano da tutti i territori sotto controllo dell’Asse, ma anche perché i tedeschi trovarono spesso un’ampia disponibilità a cooperare alla cattura e alla deportazione. La “soluzione finale” è il prodotto dell’ideologia nazista e delle politiche razziali del Terzo Reich. Il nazismo, combinò in forme nuove, reinterpretandoli e spesso portandoli all’estremo, una serie di elementi ideologici e assunti culturalimereditati dal “lungo Ottocento”: razzismo, darwinismo sociale, eugenetica e antisemitismo, nazionalismo aggressivo, imperialismo e violenza coloniale, disumanizzazione del nemico, la morte anonima di masse e le violenze contro i civili della Prima guerra mondiale; la razionalità amministrativa degli apparati burocratici; i sistemi per disciplinare i copri e gestire le attività umane tipici della prigione e della fabbrica fordista. La Shoah rappresenta uno dei prodotti di questa civilità, della quale rivela il volto più oscuro e inquietante. 7.7 La sconfitta del fascismo Nell’autunno del 1934 l’esercito tedesco aveva definitivamente perso l’iniziativa sul fronte orientale. Il 22 giugno, a tre anni dall’inizio dell’operazione Barbarossa, l’Armata rossa lanciò una grande offensiva che sbaragliò le truppe della Wehrmacht e le aprì la strada verso la Prussia orientale. I tedeschi furono scacciati dai Balcani. Tra fine agosto e settemre, Romani e Bulgaria cambiarono campo dichiarando guerra alla Germania, e anche la Finlandia firmò un armistizio con Mosca. Sul fronte occidentale, gli Alleati sbarcati in Normandia sfondarono le fortificazioni tedesche dilagando nel cuore della Francia. La capitale francese fu liberata dai partigiani e dall’Esercito di liberazione: il 25 agosto il generale de Gaulle, colui che per primo aveva lanciato l’appello alla resistenza, vi rientrò trionfatore dopo oltre quattro anni di esilio. Le formazioni partigiane ebbero un peso decisivo nella cacciata degli occupanti tedeschi dalla Grecia e soprattutto dalla Jugoslavia. In Italia tra agosto e i primi di settembre dal 1944 Firenze fu teatro di una vittoriosa insurrezione guidata dal CLN contro i tedeschi in via di ritirata e i fascisti di Salò. Nell’autunno del 1944 l’esito della guerra era ormai segnato. Pur non avendo più alcuna possiilità di vittoria, Hitler non era assolutamente disposto a prendere in considerazione l’ipotesi della resa. Il 20 luglio era sfuggito di un soffio a un attentato ordito da alti ufficiali della Wehrmacht e altri esponenti delle élite tedesche nel tentativo di evitare che la Germania precipitasse nel baratro insieme al Fuhrer. Quando gli americani conquistarono la prima città tedesca, Aquisgrana, l’Armata rossa era già penetrata nella Prussia orientale. Le truppe sovietiche avanzarono nel territorio del Reich, contribuirono i bombardamenti a tappeto che gli anglo-americani continuavano a effettuare sulla Germania, come quello che colpì Dresda nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945 e lasciando 25.000 morti sul terreno. La capacità bellica tedescaappariva ancora più significativa agli occhi degli Alleati, che intendevano dunque stroncarla con decisione. Il 25 aptile 1945 unità dell’esercito sovietico e di quello americano si incontrarono a Torgau, sull’Elba. L’Armata rossa stava intanto accerchiando la capitale del Reich che capitolò il 2 maggio dopo una disperata difesa alla quale parteciparono anche ragazzi e uomini di età avanzata. Gli atti di resa delle forze amrate tedesche furono firmati il 7 e il 9 maggio. Dopo quasi sei anni di lotta feroce, la Seconda guerra mondiale in Europa era finalmente giunta a termine (il conflitto proseguiva in Oriente, dove il Giappone si sarebbe arreso solo in agosto dopo lo sgancio delle bombe atomiche americane su Hiroshima e Ngasaki). Hitler si era tolto la vita il 30 aprile nel bunker berlinese e Mussolini era stato fucilato due giorni prima dai partigiani che lo avevano catturato mentre tentava di scappare in Svizzera. La morte dei due dittatori sanciva l’uscita di scena dei regimi fascisti che avevano trascinato l’Europa nell’abisso della guerra. 8. L’Europa divisa 8.1 L’eredità della guerra Oltre a lasciar passare una spaventosa scia di violenza, la Seconda guerra mondiale produsse conseguenze profonde da molteplici punti di vista. Determinò la riconfigurazione degli assetti geopolitici a livello continentale e sancì il trasferimento della cabina di regia dell’ordine internazionale dalle ormai ex grandi potenze europee – che uscirono dal conflitto indebolite (Francia e UK) o annichilite (Germania) – alle due “superpotenze” in ascesa, USA e URSS: a esser messa in questione fu la possibilità stessa di un nuovo scontro armato tra le maggiori potenze del pianeta come quello appena conclusosi. La distruzione fisica era impressionante. Moltissime città recevano pesanti segni della guerra, e in alcuni casi apparivano sfigurate. Anche le campagna avevano pagato un tributo salatissimo alla guerra: villaggi, campi e fattorie erano stati saccheggiati, distrutti o abbandonati. La crisi delle attività economiche e dei trasporti aveva pesanti ripercussioni a livello sociale. La disponibilità di viveri era insufficiente. La malnutrizione e le cattive condizioni igieniche contribuirono alla diffusione di malattie come la tubercolosi. Si accompagnava il fiorire del mercato nero, aumento di furti, rapine e prostituzione. Gli Alleati e le autorità locali faticavano a imporre il proprio controllo e a ristabilire l’ordine. L’Europa dell’immediato dopoguerra appariva “inselvatichita”. La guerra, inoltre, aveva lasciato una serie di conti da regolare a partire dalla punizione del collaborazionismo. In Europa occidentale, gruppi di partigiani sfogarono la propria rabbia su quanti si erano schierati a fianco degli occupanti tedeschi: numerosi furono gli episodi di giustizia sommaria. Una specifica forma di violenza fu poi rivolta contro le donne accusate di “collaborazionismo orizzontale”, ovvero di aver avuto rapporti sessuali con i tedeschi. Esse furono sottoposte alla rasatura del capo sulla piazza pubblica dopo essere state denudate e oltraggiate con simboli nazisti dipinti sul corpo. L’Italia settentrionale fu una delle aree dove la violenza risultò particolarmente estesa. Più complessa era la situazione delle regione centro-orientali. Avevano subito diverse occupazioni per mano tedesca e sovietica. A ciò si aggiunsero gli effetti delle modifiche territoriali con lo spostamento verso ovest dei confini tanto dell’URSS che inglobò gli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e assorbì i territori polacchi orientali nelle Repubbliche sovietiche di Ucraina e Bielorussia, quanto della Polonia, incamerando le ex regioni tedesche della Pomerania e della Slesia e parte della Prussia orientale. Il fenome più macroscopico fu l’espulsione in massa dei tedeschi dall’Europa centro-orientale, soprattutto Polonia e Cecoslovacchia. Essi si andavano a sommare ai milioni di civili stranieri che al momento della liberazione si trovarono sul suolo tedesco. Assistiti dalle autorità militari alleate e dalle agenzie internazionali delle Nazioni Unite, questi profughi nei mesi e anni seguenti furono rimpatriati altrove. L’antisemitismo non era certo scomparso, anzi fu ulteriormente alimentato dall’indisponibilità. Tali circostanze indussero molti ebrei ad abbandonare l’Europa per rifarsi una vita oltreoceano o in Palestina, dove nel maggio 1948 fu fondato lo Stato di Israele. Più a ovest, l’Italia di circa 250.000 profughi giuliano-dalmati provenienti dai territori confine passati alla Jugoslavia, nella primavera 1945 gli jugoslavi si erano vendicati per le violenze dell’occupazione e la precendente politica di snazionalizzazione imposta dal fascismo uccidendo alcune migliaia di italiani e gettando nelle profonde cavità dell’altopiano carsico dette “foibe”. Nella Germania occupata una serie di processi furono intentati dagli Alleati contro i nazisti. Il più noto è quello celebrato dal Tribunale militare internazionale insediatosi a Norimberga tra novembre 1945 e ottobre 1946. In Germania gli Alleati lanciarono ambiziose campagne di denazificazione che si dovettero misurare con la vastità dell’adesione che il nazismo aveva raccolto tra la popolazione e presero pieghe diverse in ragione delle differenti strategie. 8.2 La guerra fredda e la divisione del continente Nell’arco di meno di due anni, la cooperazione degli anni di guerra cedette il passo a un antagonismo bipolare fondato sul contrasto tra le due superpotenze: gli Stati Uniti (che avevano conosciuto uno sviluppo industriale e possedevano una chiara superiorità tecnologica e militare) e l’Unione Sovietica (che poteva far affidamento su enormi risorse e sulla forza dell’Armata rossa, che aveva conquistato mezza Europa giungendo fino a Berlino, Praga e Vienna). Walter Lippmann battezzò questo antagonismo “guerra fredda”: per indicare un contrasto geopolitico e ideologico a 360 gradi che avrebbe raggiunto livelli di tensione ed elevatissimi senza mai però sfociare in uno scontro armato diretto tra le due superpotenze rivali. La guerra fredda era un conflitto destinato ad assumere una dimensione globale; nella sua fase iniziale l’Europa vi rivestì un ruolo centrale in quanto “terreno e posta principale” di un antagonismo i cui termini si andarono definendo proprio intorno alle diverse soluzioni che Washington e Mosca prospettavano per la sistemazione del vecchio continente. I futuri equilibri europei furono discussi in due importanti conferenze. In Crimea, a febbraio, si approvò una Dichiarazione sull’Europa liberata che assicurava ai popoli affrancati da Hitler, il diritto di definire il proprio assetto politico mediante libere elezioni; si stabilì che il territorio tedesco sarebbe stato diviso in quattro zone di occupazione, affidate a URSS, USA, UK e Francia e che sarebbe toccata una sorte analoga alla capitale Berlino. Le due superpotenze erano portatrici di interessi, ideologie e visioni contrastanti. Nell’ottica dei sovietici era vitale rafforzare la posizione dell’URSS costituendo una fascia di sicurezza nell’Europa centro-orientale, formata da Stati cuscinetto; in questi paesi, nel giro di un paio d’anni sarebbero stati insediati regimi comunisti ricalcati sul modello sovietico. Gli americani, il cui proposito primario era dari vita a un nuovo ordine capitalistico internazionale a guida statunitense basato su mercati liberi, erano disposti a riconoscere un’egemonia di Mosca sull’Europa centro-orientale, ma non una sovietizzazione. Ai primi di marzo del 1946, la divisione dell’Europa nella guerra fredda. Nello stesso anno, Truman inviò la flotta del Mediterraneo orientale per dissuadere i sovietici che avevano esercitato pressioni sulla Turchia al fine di ottenere una revisione delle frontiere. L’attenzione si spostò poi sulla Grecia. Nel chiedere al Congresso di approvare gli aiuti al governo ellenico e alla Turchia, Truman formulò la dottrina che da lui avrebbe preso il nome, la quale impengnava gli Stati Uniti a “sostenere i popoli liberi che intendono resistere a tentativi di soggiogamento da parte di minoranze armate di pressioni esterne”. Nella primavera del 1947 il governo statunitense elaborò la teoria del containment, ovvero il contenimento della minaccia sovietica. Per scongiurare il duplice rischio che le perduranti difficoltà incrinassero ogni fiducia dell’economia di mercato e spingessero i paesi europei verso chiusure autartiche e che abbracciassero l’ideologica comunista, gli USA vararono un importante programma: European Recovery Program. Il 5 giugno 1947, il Piano Marshall fu respinto dai sovietici che lo videro come per favorire la penetrazione americana e proibirono di aderirvi ai paesi dell’Est. A beneficiare del piano, che tra il 1948 e il 1952 portò aiuti per 13 milioni di dollari, furono i paesi dell’Europa occidentale. I sovietici istituirono l’Ufficio di informazione dei partiti comunisti, detto Cominform, nello spirito della coalizione antifascista. Il fulcro degli equilibri europei restava comunque l’assetto che avrebbe avuto la Germania. Americani e britannici, mossi dall’inento di favorire la ripresa dell’economia tedesca e alleggerire il peso finanziario dell’assistenza alla popolazione, unirono i rispettivi settori nel gennaio 1947 dando vita a una “bizona”. Si accordarono con i francesi per la formazione di uno Stato tedesco nella porzione di Germania controllata dagli occidentali, che si decise di includere nel Piano Marshall. I sovietici cercarono di indurre gli occidentali a desistere dai propri piani bloccando nello stesso mese tutti gli accessi stradali e ferroviari alla parte ovest di Berlino. La prospettiva della rinascita di uno Stato tedesco suscitava grande apprensione, specie nella vicina Francia. Per placare queste ansie, gli americani acconsentirono alle richieste francesi e britanniche di un loro impegno a garanzia della sicurezza comune, in funzione del controllo e contrasto all’Unione Sovietica. Il 4 aprile 1949 nasceva il Patto atlantico: alleanza tra USA, Canada e dieci paesi dell’Europa occidentale, che impegnava i contraenti alla difesa collettiva in caso di aggressione contro uno di essi e prevedeva l’istituzione di un’organizzazione militare integrata, la NATO. Il Patto Atlantico suggellava anche a livello militare il nuovo impegno degli USA nei confronti dell’Europa. La prova di forza tentata dai sovietici con il blocco di Berlino produsse una fortissima tensione, ma si risolse in un fallimento poiché gli anglo-americani riuscirono a rifornire la parte ovest della città di tutto il necessario tramite un ponte aereo. Stalin dovette infine rassegnarsi a togliere il blocco nel maggio 1949. Sui territori tedeschi occupati dagli occidentali nacque la Repubblica federale tedesca (RFD) detta anche Germania Ovest. I sovietici risposero a ottobre con la creazione nella propria zona di uno Stato comunista, la Repubblica democratica tedesca (RDT), detta Germania Est. 8.3 Democrazia rinnovata: l’Europa occidentale La Seconda guerra mondiale lasciò in eredità anche una forte spinta al cambiamento: un profondo cambiamento istituzionale, politico, sociale ed economico. Nei paesi che avevano conosciuto l’occupazione tedesca, la lotta antinazista si era spesso nutrita di profondamente sulla psicologia collettiva e di condizionare le relazioni internazionali. Tra il 1952 e il 1953, entrambe le superpotenze misero a punto la bomba termonucleare e nella seconda metà del decennio si dotarono di missili balistici intercontinentali che consentivano di colpire il territorio nemico in maniera più rapida rispetto ai bombardamenti. Anche UK e Francia, nel tentativo di riaffermare il proprio status di potenze, si dotarono di ordigni atomici. Contro l’incubo della guerra nucleare si mobilitarono i settori più consapevoli: intellettuali e scienziati. Nel 1955, il fisico Albert Einstein e il filosofo Bertrand Russell redassero un manifesto che lanciava un grido di allarme sulla minaccia esiziale che le bombe H ponevano alla sopravvivenza stessa della specie umana. Sul lungo periodo, la stabilità dell’assetto bipolare, comportando di fatto la comparsa della guerra dallo scenario europeo, avrebbe favorito lo sviluppo di un nuovo sistema internazionale e la trasformazione degli Stati. Sul piano degli assetti politici interni, per i paesi dell’Europa occidentale gli anni Cinquanta furono contrassegnati da una stabilizzazione all’insegna dell’egemonia moderata. I conservatori britannici, restarono al governo fino al 1964. In Germania Ovest il leader dei cristiano- democratici fino al 1963. In Italia proseguì la stagione del centrismo, con governi guidati da De Gasperi finoal 1953 e poi da altri esponenti della DC. Formazioni di orientamento democristiano anche in Belgio, Olanda e Austria. La Francia scossa dalle tensioni legate alla colonizzazione vide susseguirsi una lunga serie di governi nella non facile collaborazione tra i partiti di centro e i socialisti. Le forze moderate e conservatrici beneficiarono della spettacolare ripresa economica degli anni Cinquanta e si dimostrarono più in sintonia di quelle di sinistra. Tali forze fecero anche moderato riformismo nell’azione del governo, impegnandosi sul terreno della pianificazione statale, delle politiche sociali, dell’edilizia residenziale pubblica, degli interventi a favore delle aree depresse e dei settori più arretrati. Rientrano nel quadro di questa stabilizzazione anche i paesi della penisola iberica: in Spagna e Portogallo le dittature di Franco e Salazar. I due leader dop il crollo del Terzo Reich e del fascismo italiano, a cui erano stati strettamente legati, optarono per un prudente riorientamento dei loro regimi in senso più moderato. 9. L’Europa e il mondo 9.1 Declino europeo e nuovo ordine internazionale Nel secondo dopoguerra il primato europeo nella gerarchia internazionale del potere era ormai un ricordo del passato. Il conflitto combattuto tra il 1939 e il 1945 aveva determinato un ridimensionamento dei principali paesi del vecchio continente, segnando un processo di declino già iniziato. La Francia aveva perso lo status di grande potenza. L’UK aveva potuto continuare a combattere solo grazie ai cospicui aiuti americani. I paesi europei assoggettati al dominio dell’Asse non erano stati in grado di liberarsi con le sole forze ma avevano dovuto fare affidamento sull’intervento decisivo di una potenza extraeuropea, gli USA, e di un’altra solo parzialmente europea, l’Unione Sovietica. L’ascesa delle due superpotenze costituiva l’altra faccia del declino europeo. La guerra aveva consolidato la propria posizione di maggior potenza economica mondiale. L’URSS aveva conseguito importanti risultati strategici e poteva vantare la propria forza militare. Negli anni di guerra il prodotto nazionale lordo europeo era diminuito del 25%, mentre quello americano era aumentato del 50%. Il declino appariva ancora più evidente sotto il profilo militare: a differenza delle due superpotenze, nessun paese europeo possedeva l’arma atomica. Erano USA E URSS a dare forma al nuovo ordine che si andava affermando in Europa, mentre quest’ultima era ridotta a essere “più oggetto che soggetto della politica mondiale”. Non fu facile accettare un drastico ridimensionamento, non c’erano dubbi sulla “fine dell’era europea” che era durata per oltre tre secoli. Nel quadro dell’incipiente guerra fredda, gli USA proiettarono la propria potenza in aree strategiche del Mediterraneo e del Medio Oriente che erano state d’influenza britannica come Grecia, Turchia e Iran. Non è un caso che per indicare l’ordine internazionale che si instaurò ad Occidente nel dopoguerra si sia parlato di pax americana: formula che riprendeva quella della pax britannica tra la fine delle guerre napoleoniche e lo scoppio del primo conflitto mondiale. Nel giugno 1945 una conferenza a San Francisco, i rappresentanti di 50 stati diedero vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) , il cui statuto riprendeva i punti salienti della Carta atlantica firmata da Churchill e Roosevelt. L’ONU nasceva dalle ceneri della Società delle nazioni per salvare le future generazioni dal flagello della guerra attraverso il dialogo, il negoziato e la cooperazione internazionale; le sue finalità comprendevano la difesa dei diritti umani, l’affermazione dell’uguaglianza dei diritti delle nazioni e la promozione del processo economico e sociale dei popoli. Fu creata una serie di agenzie specializzate come la FAO (fame nel mondo), l’UNESCO (cultura e istruzione), l’UNICEF (infanzia) e l’UNHCR (rifugiati). I principali organi dell’ONU erano l’Assemble generale e il Consiglio di sicurezza. La prima, nella quale avevano rappresentanza tutti gli Stati membri, era un’importante tribuna democratica per la discussione degli affari internazionali. La partecipazione al Consiglio, in caso di minaccia poteva adottare misure coercitive, comportanti anche l’uso della forza, era ristretta a sei membri a rotazione e cinque permanenti. Questi ultimi (USA, URSS, Cina, UK e Francia) erano l’architrave del sistema. Un’altra importante conferenza internazionale a Bretton Woods, nel luglio del 1944. Si decise che il dollaro fosse liberatamente convertibile in oro e che le altre monete fossero agganciate a esso nell’ambito di un sistema di cambi fissi. Si decise di creare il Fondo monetario internazionale (FMI). Sarebbe stata costruita una banca internazionale per finanziare con prestigi a lungo termine i paesi bisognosi. Nell’ottobre del 1947 con la firma del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) si prevedeva la generale riduzione dei dazi doganali per favorire il libero commercio. 9.2 Gli imperi coloniali al tramonto Dissoluzione dei grandi imperi coloniali d’oltremare che i paesi del vecchio continente possedevano in Africa e in Asia. Avevao iniziato a svilupparsi movimenti che rivendicavano maggiori diritti e migliori condizioni di vita per i sudditi coloniali, più ampi margini di autonomia e l’indipendenza dalle potenze imperiali. La seconda guerra mondiale determinò ancora più della Prima, rilevanti cambiamenti nel rapporto tra le potenze europee e i loro possedimenti coloniali. L’esperienza maturata attraverso la partecipazione al conflitto esercitò una profonda influenza sui sudditi coloniali, molti dei quali ne uscirono con maggiore consapevolezza della propria sottomissione con la determinazione a lottare per obiettivi più radicali. Le sconfitte subite dalle potenze europee per mano delle forze dell’Asse nella prima fase della guerra incrinarono la repuazione dei padroni imperiali e sgretolarono il mito della loro invincibilità, contribuendo al rafforzamento dei movimenti anticoloniali. In Estremo Oriente l’occupazione giapponese dei territori a est dell’India agì come importante fattore di destabilizzazione agitando la parola d’ordine dell’”Asia agli asiatici”. Il governo giapponese arrivò a concedere l’indipendenza alla Birmania (britannica) e all’Indocina (francese) e, poco prima di crollare nell’agosto 1945, la promise anche all’Indonesia (olandese). Churchill e De Gaulle non contemplavano la possibilità di rinuciare all’impero. Il laburista britannico Herbert Morrison, ministro degli Esteri nel 1951 dichiarò che concedere l’indipendenza alle colonie africane di Sua maestà sarebbe stato come dare a un bambino di dieci anni le chiavi di casa, un conto in banca e un fucile” (colonie non in grado di autogestirsi). Le potenze coloniali, da un lato riorganizzarono gli imperi facendo alcune concessioni e introducendo nuove architetture costituzionali: la Francia nel 1946 abolì ogni forma di lavoro forzato, estese la cittadinanza a tutti gli abitanti delle colonie e istituì l’Unione francese, libera associazione tra la Francia metropolitana e i territori d’oltremare; dall’altro, repressero le proteste e non esitarono a contrastare le rivolte indipendentiste con misure contrarie al diritto internazionale quali trasferimenti forzati, detenzione senza processo, tortura ed esecuzioni sommarie. Non mancarono differenze nell’atteggiamento tenuto dalle diverse potenze coloniali. In generale conservare il sistema imperiale era diventato troppo dispendioso. Nel corso degli anni, quote ascendenti dell’opinione pubblica nei paesi del vecchio continente e si mostrarono meno interessate alla grandezza imperiale che alle prospettive della ricostruzione e poi ai nuovi scenari aperti dalla corsa al benessere. La decolonizzazione fu un processo articolato. In linea generale, oltre alla mobilitazione indipendentista dei popoli colonizzati, al declino economico delle potenze europee e alla minore importanza da esse attribuita ai possedimenti d’oltremare, incise altresì il nuovo quadro internazionale del dopoguerra. Significativa fu la pressione esercitata dall’ONU e dalle due superpotenze. La carta dell’ONU richiamava il principio di autodeterminazione dei popoli. USA e URSS erano ostili al mantenimemento degli imperi coloniali, sia per ragioni ideologiche (i primi erano nati da una rivoluzione anticoloniale, la seconda era alfiere dell’antimperialismo) sia per motivazioni economiche e geopolitiche. 9.3 La decolonizzazione in Asia Il processo di decolonizzazione prese le mosse dai possedimenti asiatici. A tracciare la strada fu l’India, la più importante tra le colonie britanniche. Si era affermata la leadership di Nehru e di Ghandi, che aveva promosso una serie di campagne di disobbedienza con il regime coloniale. I rapporti anglo-indiani si deteriorarono. Nel 1942, il governo inglese cercò di ottenere l’appoggio di del popolo indiano allo sforzo bellico alleato offrendo in cambio ai leader del Congresso la concessione dell’autogoverno, ma ottenne un netto rifiuto accompagnato dalla perentoria richiesta di lasciare l’India. Dopo la guerra, Attlee volle focalizzare l’attenzione sulle sfide interne e accettò di porre fine al dominio britannico concedendo un’indipendenza che appariva ormai inevitabile. Il subcontinente indiano precipitò nel caos. Scontri sanguinosi tra indù e musulmani scoppiati a Calcutta nell’agosto del 46 furono seguiti da un’esplosione di violenza generalizzata tra i due principali gruppi religiosi del subcontinente. I britannici volevano che l’India indipendente restasse unita, anche per contrastare eventuali pressioni sovietiche nell’area. Il ritiro inglese fu accompagnato così dalla bipartizione dell’ex colonia britannica in due Stati indipendenti: l’India a maggioranza indù (Nehru ne fu primo ministro) e il Pakistan musulmano. Spietate campagne di pulizia etnica condotte da estremisti di entrambe le parti causarono centinaia di migliaia di morti. Lo stesso Ghandi, che si era battuto per uno Stato unitario laico, cadde vittima del fanatismo, venendo assassinato da un estremista indù nel gennaio 1948. Una volta emancipatasi l’India, gli altri possedimenti britannici seguirono a ruota. Più lenta e conflittuale fu la decolonizzazione della Malesia, nel 1957 a seguito di una lunga guerriglia condotta da formazioni comuniste contro il potere imperiale. Nelle Indie orientali i leader del Partito nazionale indonesiano proclamarono l’indipendenza il 17 agosto 1945. Il governo dei Paesi Bassi era però deciso a ristabilire la propria autorità e lanciò una vasta operazione militare per riconquistare l’arcipelago. Pressioni che costrinsero i Paesi Bassi a cedere e riconoscere l’indipendenza dell’Indonesia nel novembre 1949. In Indocina i francesi non riconobbero l’indipendenza dai giapponesi e si mostrarono decisi a ripristinare la loro dominazione. Si incontrarono: la Lega per l’indipendenza del Vietnam, guidata dal Partito comunista indocinese costituita dal leader rivoluzionario Ho Chi Minh. Tra novembrre e dicembre 1946 si aprì un lungo conflitto tra il corpo di spedizione francese e le milizie del Vietmihn. L’orientamento comunista del movimento di liberazione nazionale vietnamita, la vittoria della rivoluzione di Mao Zedong in Cina e lo scoppio della Guerra di Corea trasformarono il conflitto indocinese in un nuovo fronte della guerra fredda: URSS e Repubblica popolare cinese fornirono supporto al Vietminh, mentre USA sostenne i francesi. Il conflitto si concluse nel maggio 1954 con la caduta della piazzaforte di Dien Bien Phu: sconfitta per i francesi che dovettero ritirarsi dalla penisola indocinese. Nel 1946, il governo francese mantenne le promesse di piena indipendenza fatte ai movimenti nazionali libanesi e siriani sin dagli anni Trenta. Nello stesso anno anche il governo britannico riconobe l’indipendenza di Transgiordania (attuale Giorgania). La Palestina costituì un caso a sé. L’aumento dell’immigrazione ebraica e la crescente pressione del movimento sionista per la creazione di uno Stato ebraico alimentarono ulteriormente il conflitto con la popolazione araba della regione, che aspirava anch’essa a dar vita a un proprio Stato nazionale. Fatte oggetto di attacchi terroristici da parte delle organizzazioni sioniste, le forze britanniche operarono ritorsioni. Nel 1947 Attlee riconobbe che la situazione era divenuta insostenibile lasciano all’ONU il difficile compito di trovare una soluzione a un conflitto – quello tra palestinesi e paesi arabi da un lato, e gli ebrei e lo Stato di Israele dall’altro – destinato a rimanere aperto molto a lungo. 9.4 La decolonizzazione in Africa Lo smantellamento degli imperi coloniali nel continente africano avvenn più tardi. Il primo paese europeo a lasciare le colonie fu l’Italia. Il Trattato di pace di Parigi impose poi all’Italia la rinuncia a tutte le colonie, la cui sorte fu rimessa all’ONU. Fu stabilito che alla Libia venisse concessa la piena indipendenza e che l’Eritrea fosse federata con l’Etiopia, mentre il governo italiano riuscì a farsi assegnare l’amministrazione fiduciaria sulla Somalia per dieci anni durante i quali avrebbe dovuto preparare l’ex colonia all’indipendenza. Per la Francia la perdita dell’Algeria la vicenda più traumatica. Il 1° novembre 1954 i militanti del Fronte di liberazione nazionale (FNL) lanciarono una serie di attacchi coordinati che diedero il via all’insurrezione antifrancese. Parigi reagì con durezza, ma la rivolta si estesa a macchia d’olio. Il governo francese inviò allora in Algeria altri contingenti militari per stabilire l’ordine, uso sistematico della tortura ed esecuzioni sommarie, come uno degli episodi cruciali: la battaglia di Algeri (1956-57). Le tensioni algerine avevano raggiunto un livello tale da minare le fondamenta della fragile Quarta repubblica. La crisi era precipitata nel maggio 1958, quando i vertici militari francesi in Algeria e i coloni più oltranazisti avevano invocato il ritorno al potere di De Gaulle: egli stesso comprese presto che una pace negoziata era l’unica soluzione per porre fine al conflitto. Egli firmò dunque con i rappresentanti gli accordi di Evian che prevedevano il riconoscimento dell’indipendenza algerina. Legata alla questione algerina era anche la crisi di Suez. Nel luglio 1956 Nasser, presidente dell’Egitto, decise di nazionalizzare il canale di Suez. Il canale, fondamentale via di comunicazione tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. Il UK la Francia si accordarono allora con Israele per un’iniziativa congiunta mirante a rovesciare il leader giudiziario. L’esercito israeliano attaccò l’Egitto, poi truppe britanniche e francesi presero il controllo del canale di Suez atteggiandosi a mediatori tra i due contendenti. La ferma opposizione delle due superpotenze: gli USA, preoccupati che essa potesse spingere i paesi arabi verso posizioni filosovietiche, intimarono a UK e Franica di sospendere le operazioni. Rappresentò umiliazione per UK e Francia. La strada dell’emancipazione dell’Africa subsahariana venne aperta dalla Costa d’Oro, il possedimento britannico più ricco e della parte occidentale del continente, che conquistò l’indipendenza nel 1957 prendendo il nome di Ghana. Il 1960 passò alla storia come “anno dell’Africa” in virtù del fatto che be diciassette paesi ottennero l’indipendenza. Nel 1961 il Sudafrica recise i propri legami con il UK, abbandonando il Commonwealth e dandosi un ordinamento repubblicano. Nel 1963 giunse all’indipendenza il Kenya. Tra il 1964 e il 196 toccò alla Rhodesia settentrionale, a quella meridionale e infine al Botswana. 9.5 La decolonizzazione: un bilancio Alla fine degli anni Sessanta dei grandi imperi coloniali europei non rimanevano che piccoli e sparsi frammenti. Come visto, il processo che portò alla dissoluzione degli imperi assunse forme diverse a seconda del variare dei fattori locali, dell’atteggiamento delle potenze coloniali e del contesto internazionale. In linea generale, la decolonizzazione risultò più contrastata nelle colonie di insediamento, dove erano presenti ampie counità di coloni di origine europea che non intendevano rinunciare ai priviliegi garantiti dal legame di dipendenza con la madrepatria (Algeria, Kenya, Angola, Mozambico). Al contrario, l’emancipazione dei popoli sottomessi avvenne con modalità sostanzialmente pacifiche e consensuali (Giordania, Cambogia, Laosa, Marocco, Tunisia). Molto si è discusso a livello storiografico sulla linea di condotta adottata dai vari paesi imperialisti, vi è chi ha segnalato una differenza di fondo tra l’approccio britannico, più evolutivo e incline a concedere l’indipendenza, e quello francese più riluttante. In questa prospettiva, la decolonizzazione belga risulterebbe più vicina al modello inglese, mentre la decolonizzazione olandese e quella portoghese ricalcherebbero le modalità di quella francese. Tuttavia, è anche vero che in altre occasioni l’emancipazione delle colonie francesi avvenne in forme assai meno violente e contrastate. Tra gli effetti più diretti ed evidenti della decolonizzazione vi fu il rapido aumento degli Stati indipendenti a livello planetario. Se al momento della sua fondazione l’ONU contava 50 paesi membri nel 1967 raggiunse 122, con ben 49 ex possedimenti coloniali. Gli Stati di nuova indipendenza andorono a costruire il nucleo di quello che fu chiamato “Terzo mondo” che non apparteneva né all’Occidente capitalista né al campo socialista, e la cui condizione, ricordava quello del Terzo stato nella società francese di ancien regime. Adottarono una posizione neutrale nel quadro della guerra fredda, rifiutavano le alleanze militari egemonizzate dalle due superpotenze. Questi principi – insieme all’autodeterminazione dei popoli, all’uguaglianza delle nazioni, al rispetto della sovranità – furono solennemente proclamati dalla conferenza afroasiatica a Bandung, in Indonesia, nell’aprile 1955. La portata rivoluzionaria della decolonizzazione non sfuggì agli osservatori né tanto meno agli studiosi del tempo. Questo cambiamento di posizione dei popoli asiatici e africani nei confronti sviluppo delle attività produttive e del mercato estero, trovare sbocchi all’eccedenza di manodopera attraverso l’emigrazione, colmare il ritardo del Mezzogiorno), giocava la volontà di far riacquistare a un paese uscito sconfitto dalla guerra una posizione di parità con gli altri Stati. Ben diversa era la posizione del UK. La classe dirigente britannica vedeva ancora il proprio paese come una potenza imperiale globale: il governo Attlee era riluttante a cedere a un’autorità sovranazionale il controllo di importanti settori economici e intendeva evitare che le proprie politiche fossero messe in discussione o sottoposte a interferenze esterne. Il 18 aprile 1951, i rappresentanti di Francia, RFT, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo firmarono a Parigi il trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA)_ che prevedeva la creazione di un mercato comune fondato sul libero commercio e l’eguale accesso di tutti i paesi membri della comunità alle risorse e alla produzione del settore carbosiderurgico. La CECA aveva una struttura istituzionale particolare. L’Alta autorità era composta da otto membri designati dai governi, più un nono scelto dagli otto. Si trattava di un organo a carattere sovranazionale, che doveva operare in una logica comunitaria. All’esigenza di questi ultimi di controllare l’operato dell’Alta autorità rispondevano due organi di carattere internazionale; il Consiglio dei ministri e l’Assemblea comune. La struttura internazionale della CECA rivelava quanto gli Stati aderenti fossero gelosi delle proprie prerogative e quanto poco fossero disposti a dare carta bianca ad autorità sovranazionali in grado di operare indipendentemente dai loro governi. Lo sviluppo della CECA non implicava certo un superamento dello Stato-nazione stesso; al contrario, l’integrazione europea rappresentò un tassello significativo della sua riaffermazione, poiché gli consentì di garantire ai propri cittadini livelli di sicurezza e prosperità tali da assicurare la sua sopravvivenza e il suo rilancio dopo gli sconvolgimenti degli anni Trenta-Quaranta. Tale processo prese le mosse grazie all’intreccio tra pragmatismo e idealismo. La CECA costituì la pietra miliare della nuova Europa, che iniziava a prendere forma lungo un asse di sviluppo costituito dalle attività economiche: la nascita della comunità del carbone e dell’acciaio. 10.4 Battute d’arresto sul versante militare e politico L’integrazione europea era legata a doppio filo alla questione tedesca. Intorno alla questione tedesca ruotò anche una seconda importante vicenda che prese le mosse poco dopo quella della CECA e che dal campo dell’integrazione settoriale. Nel giugno 1950 scoppiò la Guerra di Corea. Il leader del Nord comunista, Kim Il Sung, lanciò l’invasione del Sud filoccidentale con l’obiettivo di unificare l’intera penisola sotto il suo controllo. Alla luce dell’analogia tra la divisione della Corea e quella della Germania, alimentò agli occhi degli USA il timore che la demarcazione territoriale potesse essere violata anche in Europa e rafforzò il convincimento dell’amministrazione Truman che fosse giunto il momento di riarmare la RFT contro eventuali iniziative militari sovietiche. Gli americani annunciarono l’intenzione di integrare la Germania Ovesta nella NATO. La prospettiva di un riarmo tedesco suscitava diffuse preoccupazioni soprattutto nella Francia. Monnet escogitò una soluzione analoga a quella della CECA. Il 24 ottobre 1950 il primo ministro francese René Pleven propose di costituire una Comunità europea di difesa (CED). Prevedeva la creazione di un esercito europeo nel quale sarebbero stati integrati anche reparti della RFT che non avrebbe avuto altre forze armate. Le reazioni al piano Pleven furono tutt’altro che entusiastiche. Fu necessario un lungo negoziato. Il costituendo esercito europeo sarebbe stato integrato nella NATO e sottoposto agli ordini del suo Comando supremo. L’art. 38 del Trattato CED prevedeva l’istituzione di una sorta di comunità politica. De Gasperi aveva chiesto con determinazione che si procedesse verso una forma di unione politica dell’Europa. A ispirare il presidente del Consiglio aveva contribuito l’opera di sensibilizzazione di Spinelli. I governi cambiarono atteggiamento, mostrandosi riluttanti ad accettare qualsiasi soluzione che implicasse un eccessivo grado di federalismo o comunque la cessione di rilevanti quote di sovranità nazionale a favore dell’istituenda autorità politica europea. Essi adottarono una tattica dilatoria lasicando arenare il progetto della Comunità europea in una sfibrante sequela di commissioni e conferenze che non produssero esiti significativi. A livello internazionale, l’avvio della distensione dopo la morte di Stalin rendeva meno rigida la minacciosa prospettiva di un’aggressione sovietica all’Europa occidentale, indebolendo così le spinte verso l’unità. Il progetto della CED usciva di scena e insieme a esso tramontava definitivamente anche l’ipotesi di dare vita alla Comunità politica. Riguardo al riarmo tedesco si tornava alla soluzione originariamente prospettata dagli USA: così la Germania Ovest fece il suo ingresso nella NATO (tuttavia, accogliendo le richieste francesi, si stabilirono limitazioni numeriche per l’esercito tedesco e gli si proibì di dotarsi di ordigni atomici e altri armamenti strategici). 10.5 I Trattati di Roma e la CEE Negli anni europeisti si diffuse lo sconcerto. Negli anni seguenti, tuttavia, il percorso dell’integrazione non si arenò definitivamente: si registrò un rilancio della costruzione europea che riprese a svilupparsi sul terreno dell’economia. L’evento che segnò il rilancio dell’Europa fu la conferenza tra i ministri degli Esteri dei sei paesi della CECA che si tenne a Messina nel giugno 1955. Proponeva di rilanciare il processo di integrazione lungo entrambe le direttrici tracciate dai sostenitori della costruzione europea degli anni precedenti. Da un lato, si sarebbe dovuto proseguire sulla strada dell’integrazione “verticale”, estendendo le competenze della CECA alle altre fonti di energia e ai trasporti, e creando una nuova comunità settoriale nel campo dell’energia atomica. Del resto, il carbone non avrebbe potuto sostenere a lungo le esigenze dello sviluppo. L’integrazione “orizzontale” – un’integrazione globale non limitata a specifici settori – dando vita a un mercato comune tra i paesi della CECA da realizzarsi attraverso un’unione doganale che avrebbe comportato l’eliminazione dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative alla circolazione delle merci e una politica commerciale comune verso il resto del mondo. La prospettiva del mercato comune incontrava resistenze. La principale sostenitrice della comunità dell’energia atomica era la Francia, coltivando l’ambizione di dotarsi dell’arma nucleare utile anche a fini militari. L’Italia, infine, espresse il proprio interesse verso entrambe le proposte chiedendo che il mercato comune comportasse la libera circolazione anche della manodopera e dei capitali. La Conferenza di Messina si concluse con la decisione di nominare un comitato di esperti presieduto da Spaak. Il comitato propose di procedere alla creazione sia di una nuova comunità settoriale nel campo dell’energia atomica sia di un mercato comune di prodotti agricoli e industriali. Parigi ottenne poi rilevanti concessioni dagli altri paesi, come la garanzia che la liberalizzazione sarebbe avvenuta gradualmente, l’inclusione dell’agricoltura sul mercato comune e il varo di una politica agricola comunitaria (PAC), che avrebbero offerto alla Francia vantaggiose possibilità di esportazione verso gli altri paesi membri. Indusse Parigi a perseguire il rafforzamento dell’integrazione europea, rinsaldando in particolare l’asse franco- tedesco, con l’obiettivo di bilanciare l’egemonia statunitense. Il 25 marzo 1957 i rappresentanti dei governi dei Sei, dirmarono due trattati che istituivano la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (Euratom). Il Trattato CEE prevedeva la nascita di un mercato comune europeo (MEC) basato sulla libera circolazione delle merci. Sempre in modo graduale sarebbe stata introdotta la libera circolazione delle persone, dei capitali e dei servizi: fu mantenuto il sistema delle quote di immigrazione commisurate al bisogno di forza lavoro di ciascun paese. Vennero istituiti un Fondo sociale europeo, una Banca europea per gli investimenti e un Fondo europeo di sviluppo. Il Trattato Euratom introduceva forme di cooperazione nel campo della ricerca e della produzione di energia atomica a scopi civili. CEE ed Euratom avevano ciascuna la propria Commissione e il proprio Consiglio dei ministri. Per le decisioni da prendere sulle proposte avanzate dalla Commissione era poi richiesta l’unanimità; la mediazione tra i governi costituiva l’architrave del sistema decisionale della comunità. I Trattati di Roma entrarono in vigore il 1° gennaio 1958. L’area di consenso all’integrazione europea si andasse ampliando, in particolare a sinistra. Oltre alle forze politiche che l’avevano sostenuta sin dall’inizio (democristiani, liberali e sinistra democratica), in questa occasione votarono a favore il Partito socialdemocratico tedesco e il PSI, sganciatosi dal PCI. La nascita del MEC (Mercato comune europeo) segnò una tappa fondamentale nel processo di integrazione europea. Era funzionale ad assecondare e e incentivare alcune tendene di fondo dell’economia internazionale. L’espansione del commercio estero andava di pari passo con la crescita dei paesi occidentali. Il MEC produsse effetti significativi per i paesi aderenti. Stimolando gli scambi tra loro, il mercato comune contribuì ad alimentare la crescita dell’età dell’oro. 11. Economia e società nell’”età dell’oro” 11.1 I “trenta gloriosi” Lasciatasi alle spalle un duro dopoguerra, l’Europa si affacciò su scenari completamente diversi e per lo più imprevisti. Dopo un avvio stentato, la ripresa economica procedette spedita: entro il 1951 in tutti i principali paesi della parte occidentale del continente il PIL era tornato ai livelli massimi raggiunti prima della guerra. Quella compresa tra i tardi anni 40 e primi anni 70 fu per le economie capitaliste dell’Occidente una fase di crescita impetuosa e di sensibile miglioramento del tenore di vita. Soprattutto in Francia, i trent’anni che seguirono la fine della guerra sono conosciuti anche come le Trente glorieuses, per celebrare appunto la “rivoluzione invisibile” avvenuta nelle condizioni di vita. Anche per l’Europa orientale gli anni in questione furono caratterizzati da u forte sviluppo produttivo e una modernizzazione accelerata. Tra il 1950 e il 1973 il PIL europeo aumentò di quasi tre volte, con un tasso di crescita medio annuo del 4,8%. Il PIL pro-capite crebbe a un tasso del 4,1% nei paesi dell’Europa occidentale, del 3,8% Europa orientale e del 3,3% in Unione Sovietica. Eccezione fatta per il Giappone che toccò addirittura la vetta dell’8% annuo. Tutti gli altri indicatori che meglio restituiscono la portata del generale miglioramento in campo economico e sociale vi sono quelli relativi al lavoro. La disoccupazione calò, sia pure con ritmi diversi nei vari paesi, fino a una media del 2% a metà degli anni Sessanta. Tra il 1950 e il 1970 le retriuzioni reali aumentarono tra due e tre volte. Si registrò un processo di convergenza dei paesi europei su livelli di sviluppo più omogenei che in passato. Il tasso di crescita dell’UK non andò oltre il 3% medio annuo. Anche il Belgio crebbe relativamente meno di Francia, Olanda, Austria, Italia e Germania Ovest. Questi ultimi due paesi vissero uno sviluppo così straordinario da indurre i contemporanei a parlare di “miracolo economico”. Durante gli anni Sessanta anche la Spagna ancora retta dal regime autoritario di Franco fu investita da un milagro econòmico. Rimasero indietro Grecia e Portogallo. Diversi fattori: tra i principali, il consistente aumento della popolazione dovuto al baby boom del dopoguerra, cui concorsero i movimenti migratori. Un peso non trascurabile ebbero gli aiuti americani del Piano Marshall. L’incremento della produttività. La disponibilità di una fonte energetica come il petrolio a buon mercato. Il processo di integrazione economica europea e infine il ruolo dei governi e delle politiche pubbliche: esse furono inizialmente volte in primo luogo a rilanciare gli investimenti, anche al prezzo di una compressione dei consumi. La trasformazione di maggior rilievo fu il declino del settore primario con la correlata espansione dell’industria e del terziario. 11.2 Migrazioni e urbanesimo I movimenti migratori furono una componente essenziale dell’età dell’oro. Un gran numero di persone si spostò verso l’Europa o sopattutto al suo interno per trovare lavoro. I nuovi arrivati provenivano dal resto d’Europa inclusi i paesi dell’Est, e in parte dagli altri continenti. Si intensificarono notevolmente le migrazioni interne che comportavano uno spostamento tra località diverse nell’ambito di uno stesso paese. I paesi centro-settentrionali che avevano guidato il processo di industrializzazione sin dal XIX secolo, come UK e Belgio, e quelli che stavano vivendo un’impetuoso boom economico come la Francia e la Germania Ovest, atirarono milioni di lavoratori dai paesi mediterranei. I contingenti migratori provenivano dal Mezzogiorno d’Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Un fenome particolare fu l’esodo dei cittadini della RDT verso la RFT (da est a ovest). I paesi di emigrazione e quelli di immigrazione stipularno una serie di accordi bilaterali per regolamentare e controllare gli spostamenti. I lavoratori immigrati risultavano particolarmente concentrati nelle occupazioni più dure e pericolose, il che spiega l’elevato numero di stranieri coinvolti negli infortuni sul lavoro. Gli Stati erano inclini a escludere gli immigrati dai diritti e benefici sociali riservati ai propri cittadini. Con il passar del tempo, però la tendenza dei lavoratori stranieri a stabilizzarsi e il moltiplicarsi dei ricongiugimenti familiari resero evidente che si profilava una migrazione a catena che per molti avrebbe avuto carattere permanente. Dall’Europa centro-settentrionale si sarebbero adoperati per porre un freno all’immigrazione e contenere l’afflusso di stranieri. Proprio l’Italia era il paese da cui provenivano i flussi migratori più cospicui intraeuropei. Sin dall’immediato dopoguerra i governi avevano individuato nell’emigrazione un fattore strategico per affrontare la ricostruzione, favorendo gli espatri al fine di alleviare la disoccupazione e allentare le tensioni sociali. A tal fine, l’Italia, da un lato pose la questione della libera circolazione della modopera a livello di trattative multilatrali nell’ambito dell’ONU e del processo di integrazione europea, dall’latro, siglò accordi bilaterali di emigrazione con i principali paesi dell’Europa centro-settentrionale. Una parte rilevante dei flussi prese la forma dell’emigrazione assistita, ossia un’emigrazione pianificata e controllata dalle autorità italiane in tutte le sue fasi. Gli accordi bilaterali venivano rispettati solo parzialmente, la formazione professionale era precaria e i salari esigui, il vitto era insufficiente e le condizioni abitative lasicavano a desiderare. Questi fattori indussero molti lavoratori a emigrare clandestinamente. Parallelamente alle migrazioni internazionali, si intensificarono i flussi migratori interni, lungo due direttrici fondamentali: dalle aree rurali e dai piccoli centri verso le città e dalle regioni più arretrate verso quelle più sviluppate. Ne risultò una forte spinta all’urbanesimo. In Italia, dove il fenomeno migratorio fu particolarmente accentuato, si sommarono a quelli che muovevano dal Centro-Sud verso Roma e il triangolo industriale Genova-Milano-Torino. Alcune tra le principali aree metropolitane del continente crebbero in maniera altrettanto significativa. All’incremento demografico si accompagnarono ovunque il boom edilizio e l’espansione urbana. Diversa fu la capacità di governare questi processi. Particolarmente acuto fu nelle aree urbane il problema della casa. Alla crisi degli alloggi che aveva segnato il dopoguerra e all’insufficienza quantitativa e al basso livello di comfort del patrimonio abitativo esistente, si andarono a sommare gli effetti della rapida crescita demografica dovuta all’incremento delle nascite e ai movimenti di popolazione. Negli anni Cinquanta sovraffolamento e coabitazioni erano ancora realtà diffuse. L’aspetto più drammatico del problema era rappresentato dagli agglomerati di baracche che sorsero o si ampliarono ai margini e negli spazi interstiziali delle grandi città. Per far fronte alla questione abitativa e migliorare le condizioni di vita dei cittadini, in tutti i paesi furono adottate politiche volte a favorire la costruzione di case, sia tramite agevolazioni all’iniziativa privata e cooperativa, sia attraverso piani di edilizia pubblica rivolta alle classi popolari ma anche ai ceti medi. In Italia per incrementare l’occupazione operaia attraverso la costruzione di case per i lavoratori. In Francia ci furono i grands ensembles: grandi complessi di massicci edifici residenziali ad affitto moderato. A paritre dagli anni Settanta questo modello insediativo fu abbandonato sia in Francia sia in altri paesi. 11.3 Rivoluzione dei consumi e trasformazioni sociali Negli anni Cinquanta/Sessanta si registrarono in Europa una forte crescita dei consumi privati e un rilevante cambiamento nella loro composizione. Cresceva la quota che essi potevano spendere per i consumi secondari, legati ad esempio alla bellezza e alla cura della persona, all’arredamento della casa, alla mobilità o al tempo libero. Questa “rivoluzione dei consumi” fu resa possibile da una serie di fattori, sia dalla crescita del commercio internazionale. La moltiplicazione dei beni di consumo durevoli, a partire dagli elettrodomestici e dai mezzi di trasporto privati, fu l’aspetto più vistoso della rivoluzione dei consumi. La televisione si diffuse con straordinaria rapidità, tanto che all’inizio degli anni Settanta nella parte occidentale del continente si contava ormai in media un apparecchio ricevente ogni quattro persone. Altrettanto impressionante fu l’aumento del numero di automobili. Alimentò il nuovo fenomeno del turismo di massa nei fine settimana e soprattutto durante le vacanze estive. Si parlò di democratizzazione del lusso e del comfort. Prendeva forma in Europa occidentale una moderna società dei consumi di massa. Il vecchio ordinamento seguiva così gli Stati Uniti in un percorso che questi avevano intrapreso già da diversi decenni, configurandosi come una sorta di avamposto della modernità capitalistica e al tempo stesso una sua incarnazione dai caratteri del tutto peculiari. Fu da oltreoceano che provenivano alcune delle novità più significaive: la Coca-Cola, i blue jeans, il jukebox, i vari format televisivi di successo, tecniche di marketing basate sulle indagini di mercato, supermercati self-service. Dagli USA poi proveniva una quota rilevante di film proiettati nelle sale europee che con il cinema hollywoodiano costituiva un potente veicolo di diffusione dell’American way of life. Si verificò con il leader Enver Hoxha una svolta filocinese: Tirana si schierò al fianco di Pechino. Ma l’isolamento in cui venne così a trovarsi quello che rimaneva il paese più povero d’Europa non favorì certamente il miglioramento delle sue condizioni economiche. 12.3 L’Europa occidentale tra stabilità e ricerca di nuovi equilibri Gli anni Sessanta coincisero con l’apertura di una nuova stagione politica, segnata dall’avvento o dal ritorno al potere dei partiti socialisti o socialdemocratici. Questi partiti erano stati all’opposizione nel Regno Unito, nella RFT e in Italia. All’opposizione erano poi stati i maggiori due partiti comunisti d’Occidente, quello italiano e quello francese. Negli anni ’50 i socialdemocratici avevano esercitato il potere con continuità soltanto nei paesi scandinavi e in altri paesi medio-piccoli. Per spiegare questa diffusa egeminia delle forze politiche di centro e di destra, Donald Saason ha chiamato in causa lo spirito del tempo. La seconda metà degli anni ’50 portò per alcuni dei principali socialisti sovietici o socialdemocratici significative novità. Il Labur Party britannico e la SPD si impeganrono in un’opera di revisione ideologica legata alla presa d’atto che la crescita economica, lo sviluppo della società dei consumi e il generale innalzamento del tenore di vita segnalavano un’evidente vitalità del capitalismo. Questi partiti abbandonarono l’obiettivo del supermento del sistema capitalistico. L’evoluzione più significativa fu quella della SPD. Il Congresso di Bad Godesberg sancì l’abbandono del marxismo e l’adozione di una nuova piattaforma di orientamento democratico e riformista, con cui la SPD intendeva liberarsi dei connotati di partito della classe operaia per acquisire il profilo di una forza popolare, capace di estendere il raggio dei propri consensi oltre l’elettorato tradizionale attraendo voti da tutte le categorie sociali. Nuovi scenari si aprirono nella politica italiana. Il PSI cambiò linea in seguito a degli eventi del 1956 che convinsero il segretario Pietro Nenni ad abbandonare le posizioni filosovietiche e a rompere l’alleanza stategica con il PCI. Fu uno dei fattori che contribuirono a (ri)portare la sinistra al governo, insieme ai primi segnali di rallentamento o contrazione del ciclo economico, che spingevano ad affidarsi a forze di nuove per rilanciare la crescita. In Italia, esauritasi la stagione del centrismo, la DC si aprì con estrema prudenza alla collaborazione con il PSI. I socialisti diedero il proprio sostegno esterno al governo formato dal democristiano Fanfani, e nel dicembre dell’anno successivo entrarono a far parte del nuovo esecutivo guidato da Aldo Moro, segretario della DC. Si avviava così la stagione del centro-sinistra. Le realizzazione non furono pari alle attese, nonostante il varo di importanti riforme come la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’introduzione della scuola media unificata con l’innalzamento dell’obbligo a 14 anni. Nella RFT si ruppe l’alleanza tra i cristiano-democratici della CDU e i liberali. La CDU decise di formare una Grosse Koalition con la SPD. Nel Rego Unito, il Labour vinse le elezioni del 1964 e tornò al potere Harold Wilson. Il governo laburista diede la priorità alla stabilità della sterlina per ragioni di prestigio internazionale. Wilson rinunciò così a gran parte delle riforme sociali che aveva promesso, per adottare invece misure di austerità come l’aumento delle tasse e del prezzo della benzina o il contenimento della spesa pubblica. In netta controtendenza si mosse la Francia, vi si registrò una cesura istituzionale. De Gaulle ottenne la oncessione di poteri straordinari e l’avvio di un processo di revisione costituzionale. De Gaulla ne veniva eletto presidente. Si tenne un altro referendum che sancì l’elezione diretta del presidente della Repubblica facendo della Francia un regime semipresidenziale (nel quale cioè il potere esecutivo era condiviso dal presidente della Repubblica e dal governo). De Gaulle si fece promotore di una politica nazionalista volta a rilanciare la grandezza francese con l’obiettivo di porree il proprio paese alla testa dell’Europa svincolata dalla logica dei blocchi. L’Europa meridionale restava contraddistinta dalla presenza di ordinamenti non democratici. Nella penisola iberica i regimi di Franco e Salazar. I paesi scandinavi invece continuavano ad essere governati da partiti socialdemocratici. 12.4 Sistemi di welfare e modello sociale europeo I governi socialdemocratici dotarono i paesi scandinavi di sistemi di welfare al fine di garantire la sicurezza sociale a tutti i cittadini. Grazie a un consenso trasversale di fondo che accumunava i partiti di sinistra e quelli moderati o conservatori, la spesa social crebbe sensibilmente i tutti i principali paesi: nel complesso, i paesi europei si attestavano su livelli nettamente superiori rispetto ai partner d’oltreoceano. Gli anni ’50 fino ai ’70 furono l’originaria “età dell’oro” del welfare state in Europa occidentale. In Svezia, già negli anni Trenta i socialdemocratici avevano introdotto importanti provvedimenti in materia di assegni familiari; tale continuità evidente nei paesi che avevano vissuto l’esperienza dei regimi fascisti. Si andavano consolidando i tratti di quel modello sociale europeo che divenne una cifra distintiva del vecchio continente. Comunque, esisteva una differenza di fondo tra i sistemi di welfare. Da un lato, quelli a carattere universalistico, che prevedevano una copertura di base fornita dallo Stato a tutti i cittadini contro i rischi legati alla vecchiaia, alla discoccupazione, agli infortuni, all’invalidità o alla malattia. Dall’altro, quelli di tipo particolaristico-occupazionale, nei quali invece una pluralità di casse mutue fornivano le prestazioni previdenziali, assistenziali e sanitarie alle diverse categorie di lavoratori che versavano i contributi. Negli anni Sessanta le politiche sociali erano ancora prevalentemente imperniate su un modello standard di famiglia nucleare fondata su un matrimonio stabile e una precisa ripartizione dei ruoli di genere. Questo modello presupponeva che il male breadwinner assicurasse al nucleo familiare il sostentamento con i proventi del proprio lavoro retribuito, mentre alla donna sposata spettassero primariamente i compiti di cura. Riguardo al modello sociale europeo, indicazioni convergenti vengono anche dall’altro versante della cortina di ferro. Gli Stati comunisti dell’Europa orientale, oltre a promuovere la piena occupazione, istituirono estesi sistemi di welfare che prevedevano istruzione e sanità gratuite per tutti i cittadini. Si registrarono diffusi progressi. Gli europei godevano di standard di protezione sociale più elevati rispetto alle generazioni precedenti, nonché alla popolazioni degli altri continenti: l’Europa poteva vantare il primato della minore disuguaglianza sociale a livello planetario. 12.5 L’integrazione europea: sviluppi e contrasti Un leader politico le cui azioni esercitarono un peso rilevante sugli sviluppi del processo di integrazione negli anni Sessanta, è sicurameten De Gaulle. Egli aveva in mente un’Europa delle patrie, ossia una costruzione basata sulla cooperazione tra gli Stati e la centralità dei governi nazionali. Originò il progetto di una nuova costruzione europea, l’Unione di Stati, presentato dal governo di Parigi nell’ottobre del 1960. La proposta prevedeva una cooperazione a vasto raggio estesa anche ad altri ambiti quali la politica, la difesa e la cultura. Aveva un’ispirazione rigorosamente unionista. Gli obiettivi di De Gaulle non erano però condivisi dai partner comunitari, in particolar modo Belgio e Olanda, che temevano un’eccessiva egemonia francese sull’Europa e non vedevano di buon occhio l’allentamento dei rapporti con USA e UK che la linea del generale implicava. Fu avviata la politica agricola comune (PAC). Per il settore primario i Sei adottarono un regime diverso rispetto a quello liberista, incentrato sulla concorrenza e le regole del mercato, che era stato scelto per i prodotti industriali: la strada intrapresa fu quella della regolamentazione. Fulcro del sistema erano i prezzi comunitari generalmente più alti di quelli di mercato internazionale e della media dei prezzi praticati in precedenza nei paesi membri. Un sistema di compensazioni favoriva poi agricoltori e allevatori comunitari. Da un lato, la PAC era funzionale soprattutto all’esigenza della Francia (grande produttore agricolo). Dall’altro, la scelta di privilegiare i produttori rispetto ai consumatori, rispondeva per i governi all’obiettivo politico prioritario di dare sostegno alla famiglia contadina in chiave di stabilizzazione sociale e consolidamento del consenso in un mondo rurale investito da epocali processi di cambiamento che ne mettevano a repentaglio gli assetti tradizionali. La PAC acquisì presto un rilievo cruciale nel processo di integrazione europea. Negli anni Sessanta si pose il tema dell’allargamento della CEE. Il UK presentò domanda di adesione, abbandonando la linea di autoesclusione. Per Londra diventava urgente tutelare i propri interessi commerciali superando le discriminazioni operate dal MEC nei confronti dei paesi terzi. Si associarono Irlanda, Danimarca e Norvegia. Il governo inglese non intendeva però sacrificare gli altri legami commerciali del proprio paese: chiese rilevanti deroghe alle regole del MEC. Queste richieste incontrarono diffuse resistenze. A mostrarsi ostile verso la candidatura britannica fu De Gaulle: in primis, le deroghe pretese da Londra avrebbero svuotato di senso la PAC che per Parigi aveva una rilevanza economica fondamentale; la Francia si sarebbe ritrovata un pericoloso contendente per la leadership in ambito comunitario; in virtù della sua relazione privilegiata con gli USA, il UK appariva inconciliabile con l’assetto che lo stesso De Gaulle intendeva dare ai rapporti tra Europa e America. Il presidente francese dichairò il commercio britannico incompatibile con le regole del MEC. Il UK presentò una seconda di adesione. Un nuovo veto venne infatti opposto da De Gaulle nel novembre dello stesso anno. La Francia di De Gaulle fu protagonista di uno scontro con gli altri paesi della CEE. La CEE non si sarebbe trovata più a difendere finanziariamente dai contributi degli Stati membri. Si prevedeva inoltre di estendere le competenze del Parlamento in materia di controllo sul bilancio. La proposta della Commissione mise in allarma Parigi sia per i suoi contenuti sia per le modalità con cui venne presentata. Una tensione tra i Sei sulla PAC: Germania Ovest e Italia (erano importatori netti di prodotti agricoli), lamentavano che gli oneri della PAC fossero distribuiti in modo iniquo e ne risultasse avantaggiata la Francia stessa, che della protezione accordata al settore agricolo comunitario era la principale beneficiaria. Si parlò di “crisi della sedia vuota”. A entrare in gioco dello scontro era anche il fatto che stavano per scadere gli otto anni al termine dei quali sarebbe stato introdotto nello stesso Consiglio dei ministri il voto a maggioranza qualificata su varie materie. La soluzione fu ritrovata con il compromesso di Lussemburgo. Si stabilì che in Consiglio dei ministri si sarebbe dovuto fare ogni sforzo per raggiungere l’unanimità sulle proposte che toccavano interessi vitali di uno Stato membro. Fu imposto alla Commissione di sottoporre ogni proposta di particolare importanza al vaglio degli esecutivi nazionali. I governi uscivano vittoriosi della contesa. 12.6 Sfide all’ordine costituito, 1968 Nella seconda metà degli anni Sessanta l’ordine costiuito venne messo in disucssione su entrambi i versanti della cortina di ferro. Le sfide più significative furono lanciate nel 1968, anno di moti di rivolta giovanile animati dagli studenti universitari e passati alla storia come “Sessantotto”. Si manifestarono ai quattro angoli del pianeta. L’Europa occidentale fu investita da una ventata di contestazione che agitò le acque sino ad allore piuttosto tranquille di società che nei vent’anni precedenti non avevano conosciuto rivolgimenti politici e avevano vissuto uno straordinario sviluppo economico. Teatri principali furono Francia, Italia e Germania Ovest. Le radici affondavano nelle dinamiche che avevano portato ragazzi e ragazze a sviluppare una propria cultura giovanile e con essa una nuova coscienza generazionale. Decisive furono le tensioni che innvervavano il mondo dell’istruzione superiore nella transizione da un’università d’élite a una di massa. Una popolazione studentesca in rapida crescita si trovava a fare i conti con l’inadeguatezza delle strutture, il carattere antiquato delle norme che regolavano la vita universitaria, il tradizionalismo della didattica e le nuove difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro determinate dalla svalutazione dei titoli accademici. Dal punto di vista ideologico, il movimento studentesco attinse ampiamente al patrimonio di riflessioni e analisi sviluppate negli anni precedenti dalla “nuova sinistra”: un arcipelago di intellettuali, gruppi e riviste di orientamento anticapitalista che si erano impegnati in un ripensamento critico del marxismo volto a delineare nuove forme di un socialismo al passo con le trasformazioni della Golden Age. Il terreni del movimento studentesco erano l’antiauoritarismo e l’antimperialismo. Il rifiuto dell’autoritarismo accademico e la messa in discussione dei meccanismi gerarchici furono estesi a tutte le strutture sociali, dalla famiglia alle “istituzioni totali” come il carcere o il manicomio. Il superamento della divisione gerarchica tra il pubblico e privato apriva la strada all’affermazione di una nuova e più ampia idea di politica. Sul piano internazionale si lottava per l’autodeterminazione del Terzo Mondo e la guerra del Vietnam. Dopo il ritiro dei francesi dell’Indocina, il territorio vietnamita era diviso in Vietnam del Nord (comunista) e Vietnam del Sud (filoccidentale); gli USA inviarono un contingente militare per contrastare i Vietcong che si battevano per rovesciare un governo e riunire le due metà del paese sotto la guida dei comunisti. Gli studenti europei si mossero autonomamente dagli attori politici tradizionali e al di fuori dei canali istituzionali scendendo nelle strade o occupando le facoltà, che vennero trasformate in centri di elaborazione politica e culturale dove sperimentare attività didattiche alternative e nuove dinamiche comunitarie. Il Francia l’epicentro fu Parigi. Il carattere radicale della protesta era espresso da slogano francesi utopici come “Vietato vietare” o “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. La mobilitazione si estese poi al mondo del lavoro. Il 13 magio fu proclamato uno sciopero generale in solidarietà con il movimento studentesco e contro il governo. Nei giorni successivi mentre proseguivano gli scioperi e si moliplicarono le occuapazioni delle fabbriche, alla mobilitazione si unirono altre categorie professionali come gli impiegati pubblici, i giornalsiti. Il 30 maggio De Gaulle annunciò lo scioglimento dell’Assemblea nazionale. Mentre i partiti di sinistra e i sindacati erano divisi, le forze conservatrici si raccolsero attorno a De Gaulle. In Italia, il ’68 fu policentrico, ebbe una maturità più lenta e segnò l’inizio di un decennio di forte mobilitazione sociale. Nelle università occupate si trovavano peculiarità di anime con diversi orientamenti ideologici, strategie e obiettivi. Il 1° marzo la “battaglia di Valle Giulia”, sede della facoltà romana di architettura, gli studenti si scontrarono con la polizia. La volontà di estendere la mobilitazione al di fuori dell’università si esprimeva soprattutto nella ricerca di un collegamento con le lotte operaie. Gli studenti sfruttavano le conoscenze e competenze che andavano per realizzare inchieste sulle condizioni di lavoro, la nocività e le malattie professionali negli stabilimenti industriali del territorio. Le parole d’ordine del movimento studentesco – antiautoritarismo, egualitarismo, rifiuto della delega, assemblarismo – riecheggiavano nelle lotte operaie. Grazie a queste lotte, gli operai ottennero vantaggiosi rinnovi contrattuali. La Germania Ovest ebbe una contestazione marcata dalla connotazione terzomondista ma anche uno stretto ancoraggio alla recente storia tedesca, poiché i giovani imputarono agli adulti di non aver fatto i conti con la pesante eredità del nazismo e denunciarono la comunità del Terzo Reich e la RFT a livello di strutture di potere e classi dirigenti. A guidare la protesta fu Lega socialista tedesca degli studenti (SDS). Questa aveva formato altre associazioni studentesche e alcune organizzazioni un fronte noto come Opposizione extraparlamentare che aveva dato vita a una campagna contro il varo di norme che prevedevano la limitazione dei diritti civili e politici in caso di proclamazione dello stato di emergenza. L’11 aprile 1698 il carismatico leader della SDS, Detschke, fu gravemente ferito da un giovane di destra che gli saprò alla testa. Nei duri scontri con la polizia si registrarono due morti e centinaia di feriti. Ciò determinò una presa di distanza da parte dei sindacati. La mobilitazione studentesca iniziò a declinare. Il Sessantotto ebbe un impatto molto limitato. Non ci fu alcun rovesciamento dell’ordine costituito. Su un piano generale tuttavia, il ’68 innovò le forme della politica e introdusse nelle società europee fermenti di liberazione e democratizzazione che sarebbero maturati negli anni seguenti: germogliò il movimento femminista. Anche sulla scia del Sessantotto avrebbero poi preso piede i fenomeni della lotta armata e del terrorismo che avrebbe scosso la società italiana e quella tedesca. L’Europa orientale gli eventi del ’68 maturarono in regimi autoritari: l’ampliamento dei margini di libertà ne costituì la cifra dominante. In primavera moti di contestazione scoppiarono anche in Jugoslavia. Nell’Europa dell’est la vicenda di maggior rilievo si svlose nella Cecoslovacchia, con la “Primavera di Praga”. Il segretario del partito comunista Antonin Novonty venne sostituito dal riformatore Alexander Dubcek che varò un programma che prevedeva: parziale liberalizzazione economica, introduzione di elementi di pluralismo politico, limitazione del potere dei servizi di sicurezza e una completa libertà di espressione e si stampa con l’abolizione della censura. La leadership sovietica guardava con apprensione a questi sviluppi, preoccupati che Praga potesse scivolare verso una posizione di neutralità internazionale. La Cecoslovacchia fu occupata. La popolazione reagì scendendo nelle strade e mettendo in atto una ferma resistenza passiva con manifestazioni, scioperi e atti di boicottaggio. Dubcek e altri esponenti furono portati a Mosca, e lui fu espulso. Si concretizzò la “dottrina Breznev”: i paesi satelliti potevano determinare il proprio corso politico purchè questo non intaccasse i principi del socialismo. In quel caso l’Unione Sovietica sarebbe intervenuta. La Primavera di Praga trovò solo una limitata soldarietà nei movimenti studenteschi occidentali. Il ’68 può essere considerato come un anno spartiacque che segnò l’inizio della fine per il blocco orientale e la stessa Unione Sovietica. che complottavano alle spalle di autorità repubblicane, a esponenti della criminalità organizzata per sfvorire i propri interessi. A metà degli anni Ottanta altri due attentati: alla stazione di Bologna nel 1980 e sul treno Rapido 904 nel 1984. Non sempre la magistratura è riuscita a fare piena chiarezza, ma è indubbio che in questi anni si svolse un vero e proprio attacco alle istituzioni democratiche. Con caratteristiche differenti, un terrorismo di estrema sinistra, di cui l’obiettivo era innescare un processo rivoluzionario per la costruzione di un regime comunista. Colpivano i “nemici” politici ed esponenti di quello Stato democratico. Dapprima azioni dimostrative come sequestri o ferimenti poi nella seconda metà degli anni Settanta assalti armati e omicidi. Vittime furono magistrati, poliziotti, politici, sindacalisti, giornalisti ecc. Il gruppo più noto e meglio organizzato du quello delle Brigate Rosse, nato nel 1970. Nella primavera del 1978 sequestrarono e uccisero Aldo Moro, leader della DC ed ex presidente del Consiglio. La reazione dei partiti politici e la mobilitazione dell’opinione pubblica contribuirono all’isolamento delle Brigate Rosse. In Germania occidentale la principale organizzazione di estrema sinistra fu la RAF, con l’obiettico di demolire la RFT, ritenuta una creatura dell’imperialismo capitalistico statunitense. Piuttosto contraddittoria fu l’ideologia che associò una vocazione chiaramente nazionalista. La RAF compì rapine, sequestri, omicidi e assalti armati alle basi dell’esercito americano. I terroristi uccisero il ministro della Giustizia Buback, il presidente dell’associazione degli industriali Schleyer, il direttore generale della banca di Dresda Ponto. Come in Italia, la RAF non riuscì a sconvolgere il funzionamento dello Stato. Agli inizi degli anni ’80, con la sconfitta del terrorismo di sinistra in Italia e Germania, tramontò ogni illusione rivoluzionaria in Europa occidentale, ma non sparì la violenza politica. In particolar modo l’Ustler e la Spagna. Nell’Ustler la costituzione della Provisional IRA agli inizi degli anni ’70 rilanciò la lotta armata per eliminare la sovranità britannica sulle province settentrionali dell’isola e unirle al resto dell’Irlanda. Giovani militanti cattolici crearono un’organizzazione terroristica clandestina contro leader protestanti, poliziotti e soldati. La neonata Provisional IRA approfittò della situazione per lanciare la sua offensiva, che aveva lo scopo di rendere ingovernabile l’Ustler. Il 30 gennaio 1972 i soldati britannici uccisero 13 civili per reprimere una manifestazione di protesta a Derry. In Spagna, i terroristi dell’ETA, che si battevano per l’indipendenza della regione basca, a divenire protagonisti di una nuova ondata di violenze negli anni ’70. L’ETA intensificò i proprio rapporti con le organizzazioni terroristiche europee e cominciò a colpire non solo i rappresentanti dello Stato Spagnolo, in primo luogo politici e poliziotti, ma anche quelli che considerava i simboli di una sorta di decadenza culturale, ossia spacciatori, frequentatori di locali notturni, piccoli delinquenti. L’ETA uccise il primo ministro spagnolo Luis Carrero Blanco. Compirono un attentato a Madrid. Dopo la fine del regime franchista, venne riconosciuto uno stato autonomo alla regione basca. Ma l’ETA continuò a rivendicare una piena indipendenza e scatenò una nuova campagna di attentati e omicidi, che prosrguì per tutti gli anni Ottanta. 13.5 Gli intellettuali e il postmodernismo Che negli anni ’70 apparisse esaurito quell’ottimismo che aveva connotato il ventennio precedente, non è certo sorprendente. Oltre alle difficoltà economiche, anche la nuova sensibilità ecologista contrbuì a mettere in discussione l’idea di un inarestabile progresso. Agli inizi degli anni ’70 del Novecento questo assunto risultò sempre meno convincente, mentre aumentavano coloro che consideravano la modernizzazione industriale come un processo ecologicamente insostenibile. Nel 1972 il Club di Roma promosse la pubblicazione di una ricerca del Massachussets Institute of Technology sui “limiti dello sviluppo” che richiavama l’attenzione sull’esaurimento delle risorse naturali e sul rischio di compromettere le condizioni di vita sul pianeta. Tanto più dopo lo shock petrolifero dell’anno seguente, che costrinse milioni di europei a misurarsi ogni giorno con gl effetti di un’improvvisa carenza di energia. Il sociologo americano Daniel Bell, aveva iniziato a parlare dell’avvento di una nuova rivoluzione postindustriale con un passaggio alla “società dell’informazione”. A suo giudizio, l’ascesa del settore terziario tecnologicamente avanzato relegato le tradizionali attività manifatturiere a un ruolo marginale nei paesi occidentali. Si aggiunsero le analisi di coloro che teorizzavano la fine di un ciclo del capitalismo, quello del fordismo, il sistema basato su una grande industria e consumi di massa, economie di scala e produzione standardizzata, Stato sociale e protagonismo delle organizzazioni nel mondo del lavoro. Al suo posto, un nuovo ordine postfordista, caratterizzato da una maggiore flessibilità dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo sovvertendo vecchie gerarchie e favorendo l’ascesa di nuovi protagonisti, ma che avrebbe anche disarticolato i tradizionali equilibri interni alle società europee, segnando il declino della classe operaia e l’ascesa dei ceti medi professionisti. Avvento di un “postmodernismo”. Fu il filosofo francese Lyotard a scrivere nel ’79 La condizione postmoderna, che sucscitò un grande dibattito internazionale, avvalorando l’idea di un passaggio epocale nell’occidente. Avrebbe preso forma una società postmoderna dall’ascesa dell’individualismo, dalla diffusione di un esasperato pluralismo interpretativo, dall’attenzione al ruolo della conoscenza e della comunicazione come strumenti di potere. Era una condizione, quella postmoderna, che implicava inoltre una riformulazione della funzione interpretativa delle categorie del tempo e dello spazio: veniva meno la forza emancipatrice dello storicismo e si imponeva l’idea di un’irriducubulità del presente, pensato in una prospettiva globale. Questa diversa concettualizzazione della dimensione temporale risaltava nella produzione artistica in un repertorio di modelli ed esperienze che alimentavano una cultura della nostalgia. Commistioni di stili, ibridazioni di valori che miravano ad allontanarsi dal dogmatismo del modernismo, del razionalismo. Postulare la fine delle ideologie significò per molti intellettuali ripensare la propria militanza politica. Negli anni ’70 filosofi, artisti, docenti universitari, e parte della classe intellettuale. In Francia, un gruppo di giovani intellettuali definiti nouveaux philosophes avviò una serrata critica contro il marxismo. Quando nel dicembre 1973 fu pubblicata la prima traduzione del libro Aecipelago GULAG si sviluppò in Europa una nuova discussione sul “socialismo reale” considerato un inganno rispetto ai principi ideali del comunismo. La difesa dei “diritti umani” e delle “libertà individuali” divenne un tema centrale nel dibattito politico. Nacque un nuovo spazio di discussione e dialogo tra gli inellettuali dell’Est e quelli dell’Ovest. All’interno del blocco orientale, i dissidenti abbandonarono il vocabolario marxista e, impediti dalla censura, cominciarono a rivendicare il rispetto di quei diritti. Fu una startegia che mise in difficoltà i regimi. Parlare di diritti costituzionali significò evocare la ricostruzione di una società civile che non rappresentava un feticcio del dominio borghese-capitalisico. Dopo la conferenza di Helsinki del 1975, il discroso sui diritti umani divenne ancora più efficace e minaccioso per la stabilità dei regimi comunisti. In molti paesi dell’Europa orientale, nacquero gruppi e associazioni di intellettuali dissidenti. Si rafforzò un vocabolario politico condiviso con l’Europa occidentale, decisivo per la delegittimazione del potere comunista. 14. Tra Est e Ovest 14.1 L’Ostpolitik Alla fine degli anni ’60, la Germania occidentale cominciò a promuovere una politica di distensione verso il blocco sovietico definita Ostpolitik. L’obiettvo era di avviare rapporti con la Germania Est, ma questa nuova stategia aveva l’ambizione anche di rafforzare lo status internazionale della Germania Ovest, che aspirava a svolgere un ruolo più autonomo. Non era certo nuova l’idea di provare a svincolare la politica europea dalle logiche più rigide della contrapposizione tra i due blocchi. L’aveva a lungo coltivata il presidente francese De Gaulle che era pure andato a Mosca, dove aveva pubblicamente manifestato la sua convinzione che la guerra fredda fosse giunta al termine. Nel 1966, era nato il primo governo di “grande coalizione” tra la CDU e la SPD. Accanto al nuovo cancelliere, il cristiano-democratico Kiesinger, si era insediato il leader socialdemocratico Brandt. Questi divenne l’ispiratore dell’Ostpolitik. Già agli inizi degli anni ’60, nel ruolo di sindaco di Berlino Ovest, aveva avvertito tutti i limiti di una politica di rifiuto e isolamento dalla Germania Est. Questa posizione di chiusura era stata legittimata con l’idea che soltanto la RFT rappresentasse la Germania. Divenuto ministro, Brandt promosse l’elaborazione di un nuovo ordinamento per la politica estera, che Brandt sintetizzò nella formula del “cambiamento per mezzo del riavvicinamento”. Si sarebbe potuti giungere alla riunificazione della Germania soltanto dopo una pacificazione tra le due Europe. Brand, tuttavia, non ignorava di questo ribaltamento dell’atteggiamento verso i paesi comunisti rischiasse di non trovare consenso nell’opinione pubblica della Germania Ovest. Moltissimo si dichiaravano contrari a riconoscere il confine orientale alla Polonia. Da qui la consapevolezza della necessità di un’opera di educazione dei cittadini della Germania occidentale che (oltretutto includevano milioni di rifugiati dall’Est). Brandt assunse il ruolo di capo del governo. Riuscì in breve tempo a normalizzare i rapporti con l’UE e avviare i contatti con la Polonia e la Germania. Nell’agosto 1970 si recò a Mosca per stipulare un contratto di collaborazione e non aggressione con i sovietici. Quattro mesi dopo, andò a Varsavia dove firmò un accordo che sancì definitivamente il confine occidentale della Polonia sulla linea dell’Oder-Neisse. Nel dicembre 1972, si concluse un trattato tra le due Germanie che prevedeva relazioni di buon vicinato sulla base dell’uguaglianza dei diritti e un incremento delle relazioni commericiali e culturali. Permise a entrambi gli Stati tedeschi di essere ammessi all’ONU. Egli divenne un politico molto popolare. Fu premiato con il Nobel per la pace e nelle elezioni politiche dell’anno successivo. Quali furono le principali conseguenze di questa politica? Uno straordinario sviluppo delle comunicazioni tra le due Germanie favorì una crescente diffusione della cultura occidentale nella RDT. Quasi tutti i tedeschi dell’Est avevano accesso alla televisione Ovest. Intensificazione delle telefonte e dei viaggi, scambio culturale. Il miglioramento dei prigionieri politici. Per quanto riguarda gli effetti sullo scenario politico europeo, l’Ostpolitik consentì alla Germania Ovest di rafforzare i propri rapporti con l’Unione Sovietica e di divenire un importante partner commerciale. Tuttavia proprio per rafforzare queste relazioni tra i due blocchi, la questione dell’unificazione tedesca venne accantonata. La stessa opinione pubblica non la riteneva più una priorità. La politica di Brandt sembrò dimostrare che il dialogo con il blocco comunista consentisse di accrescere l’autonomia dell’Europa occidentale della tutela americana, di indebolire il controllo sovietico sull’Europa orientale e di giovare al commercio dell’intero continente. 14.2 Leonid Breznev e l’evoluzione del sistema comunista Per il blocco comunista gli anni Settanta rappresentarono un periodo con aspetti molto contraddittori. Da una parte, gli stimoli ai consumi favoriti dai nuovi scambi con l’Occidente. Sembrarono annunciare un’espansione dell’influenza comunista su scala globale. Dall’altra il ritorno a un rigido controllo e la diffusione di un capo pessimissimo, scandì la vita quotidiana delle popolazioni dell’Europa orientale. Il desiderio di un profondo cambiamento fu sostituito da un moderato consumismo. Questo irrigidimento del sistema sembrò corrispondere al profilo psicologico del leader dell’URSS, Leonid Breznev, una personalità grigia e assai poco carismatica. Questa evoluzione fu il risultato di una consapevole strategia politica che puntò ad accantonare i progetti di modernizzazione per favorire piuttosto una sensibilizzazione del potere nel blocco orientale. Si accntuò quel richiamo ai valori della tradizione. Cominciò un periodo connotato dall’assenza di sommovimenti politici da una riscoperta della dimensione privata e familiare. Dopo la repressione di Praga, il leader sovietico quella svolta autoritaria, fondata soprattutto sul controllo del mondo culturale. Questo ritorno alle pratiche più rigide della censura sconvolse la vita di molti intellettuali dell’Europa orientale. Risultò la diffusione di controculture giovanili e di movimenti di ispirazione nazionalistica. Nemmeno l’improvvisa disponibilità d’ingenti risorse finanziare, determinata dalla crisi petrolifera del 1973-74, spinse Mosca a rilanciare una politica di modernizzazione del sistema comunista. L’Unione Sovietica si limitò a sovvenzionare i paesi satelliti garantendo forniture di energia a basso costo. Si sviluppò un cosiddetto sistema “dualistico” dove poche industrie più avanzate cercavano di competere sul mercato internazionale. Mentre il resto delle aziende si limitava a produrre merci scadenti. Non è soprendente che negli anni anni Settanta abbia cominciato ad accentuarsi quel divario economico tra le due Europe che, nel ventennio precedente, si era al contrario constantemente ridotto. Non mancarono anche tentativi di reazione. Alcuni paesi, come la Cecoslovacchia e l’Ungheria, riuscirono a migliorare il tenore di vita, incentivando un aumento dei consumi. Bisogna poi aggiungere le tensioni provocate dalle polizie nazionalistiche di alcuni Stati. Fu evidente un processo di degrado delle società comuniste nel corso degli anni Settanta. Aumentando i segnali di un disagio sociale che svuotava di qualsiasi significato la celebrazione dei successi di un socialismo sviluppato. Crebbe il numero dei crimini. Aumentò il consumo di alcol che peggiorò la mortalità infantile. Era l’aumento delle disuguaglianze interne alla società comunista. 14.3 Gli effetti della “distensione” A favorire un riavvicinamento tra le due Europe decisiva fu la nuova politica di “distensione” tra USA e URSS. Del resto, gli USA risultavano sempre più deboli dal conflitto in Vietnam, mentre l’Unione Europea incontrava crescenti difficoltà a contenere le rivendicazioni autonoistiche di alcuni dei sui paesi satelliti. Così le due superpotenze cominciarono a perseguire una strategia comune che aveva come obiettivo un riconosciemnto definitvo della divisione dell’Europa. A questa idea Whashington si era avvicinata con cautela. Nel dicembre 1967 c’era stato un passo significativo in questa direzione: sotto la guida degli USA i paesi della NATO avevano approvato il cosiddetto “rapporto Harmel” che impegava l’alleanza a intraprendere una politica di “distensione” da affiancare alla tradizionale strategia del “contenimento”. Washington aveva mostrato di accogliere le richieste di alcuni paesi europei in particolare della Germania occidentale, che sostenevano la necessità di un miglioramento delle relazioni con l’Est. Per ridurre i rischi di una guerra atomica, le due superpotenze avrebbero dovuto impegnarsi prima a limitare la corsa agli armamenti in tutto il pianeta. Mosca condivideva preoccupazioni e questi obiettivi. Ulteriori vantaggi che davano la possibilità di ridimensionare i costosi programmi missilistici senza mettere a rischio la sicurezza nazionale, le avrebbe permesso di superare l’isolamento diplomatico e di rafforzare il proprio dominio sull’Europa orientale. Nel maggio 1972 con la firma dell’accordo SALT, che sanciva la parità strategica tra le due pototenze e ne regolava gli armamenti dei missili armati di testate nucleari, dall’altra si concordava una riduzione dei sistemi di difesa antimissilistici. Washington potè rilanciare le sue credenziali pacifiste davanti all’opinione pubblica occidentale, mentre Mosca ottenne il riconoscimento ufficiale di quella parità strategica a lungo agognata. Con questo avvicinamento si sceglie di convocare una Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa e migliorarne le relazioni tra Est e Ovest. Si arrivò nell’agosto 1975 alla firma di una serie di accordi che ratificavano il quadro geopolitico; si impegnarono a rinunciare all’uso della forza e a rispettare reciprocamente la sovranità e l’inviolabilità delle frontiere. Promisero di rispettare i “diritti dell’uomo” e le “libertà fondamentali”. I governi dell’Europa occidentale coltivavano una visione peculizre della “distensione” come un incentivo e una cooperazione internazionale. Se è vero che gli accordi di Helsinki rappresentarono un successo per Mosca, tuttavia accelerarono pure il processo di indebolimento del sistema comunista. Nell’Europa orientale nacquero nuove reti di dissidenti che, richiamandosi, invocavano al rispetto delle libertà fondamentali e denunciavano gli abusi delle autorità rivolgendosi all’opinione pubblica internazionale. A protestare furono intellettuali, scienziati e artisti che sognavano un “ritorno all’Europa”. Questi cambiamenti hanno avuto effetti significativi sui partiti comunisti dell’Europa occidentale. A cominciare da quello italiano dopo l’avvento alla segreteria di Enrico Berlinguer. Berliguer immaginò la possibilità di arrivare a un “compromesso storico” con l’altro grande partito di massa, la DC, che consentisse di accantonare le diversità ideologiche in funzione della formazione di un nuovo governo di unicità nazionale, inteso anche come una premessa per la legittimazione del PCI come forza di governo e per la costruzione di un meccanismo di alternanza democratica al potere. La nascita di un nuovo comunismo europeo, un “eurocomunismo” fondato sull’apertura del marxismo ai principi del liberalismo. Registrò un parziale successo solo l’Italia, dove il PCI ottenne un grande aumento di consensi. In Spagna e in Francia, la proposta di comunismo riformato faticò a consolidarsi. governo di sinistra, la giunta militare si era affidata a economisti neoliberisti. Per i critici del neoliberismo, il caso cileno divenne una prova dell’infondateza dll’esistenza di un nesso inscindibile tra libertà di mercato e democrazia. 15.2 Il Regno Unito di Margaret Thatcher Il neoliberismo acquisì nell’UK la capacità di diventare una dottrina dominante. Nel maggio 1979, divenne capo del governo Margaret Thatcher, all’insegna di un programma di riforma ispirate ai principi del neoliberismo. Libertà di impresa, ridimensionamento dell’intervento economico pubblico, individualismo e nazionalismo divennero le parole chiave di un progetto politico che ambiva a una radicale destrutturazione del modello europeo di Stato sociale. Nonostante la grande popolarità il thatcherismo restò un fenomeno britannico. E’ necessario considerare le difficoltà del UK nei tentativi di fronteggiare la crisi economica degli anni Settanta. I governi si erano dimostrati incapaci di modernizzare un sistema che aveva mostrato ulteriori limiti. La paralisi econimica era accompagnata da una diffusa opposizione al cambiamento. Tra il 1970 e il 1976, avevano provato i governi conservatoria a chiudere alcune miniere di carbone ma avevano trovato una strenua resistenza. Poi tra il 1976 e il 1979, il governo laburista guidato da Callaghan a promuovere un programma di ristrutturazione industriale, anche in questo caso, tra il 1978 e 79, una serie di scioperi che avevano paralizzato il paese. Thatcher si fece promotrice di una svolta culturale persino a postulare l’inesistenza di quella cosa chiamata società, allo scopo di esaltare le virtù dell’autonimia e della responsabilità personale. Alcuni dei suoi critici videro un ritorno a queli “valori vittoriani” imbastiti di competitività sfrenata e puritanismo bigotto. Inconsueto era il suo stile di governo, caratterizzato da un enfatizzato decisionismo, ostile a ogni sua forma di negoziazione e compromesso, che contribuì a costruire un’immagine della premier come leader energica, tenace e con comportamenti e reazioni spontanee, simili a quelle della gente comune. Guadagnarsi l’appellativo di “Lady di ferro”. Il governo Thatcher liberizzò i mercati finanziari, tagliò gli investimenti nell’istruzione e nella sanità, ptivatizzò beni e aziende di proprietà statale. Si impegnò in una battaglia per ridimensionare l’influenza politica dei sindacati. Vanno poi aggiunte alcune importanti iniziative della politica estera. A cominciare dalla guerra vittoriosa contro l’Argentina, che aveva invaso le isole Falklands, un piccolo arcipelago nell’Atlantico sotto la sovranità britannica. Thatcher si mosse sullo scenario internazionale con inconsueta disinvoltura, non rinunciando mai a rivendicare vantaggi per gli interessi nazionali. Nel corso degli anni Ottanta, un notevole miglioramento dell’economia britannica consentì al paese di rilanciare anche le sue ambizioni di espansione sui mercati globali. Lo smantellamento del settore pubblico, sia nell’industria sia nei servizi, non determinò quella riduzione della spesa statale auspicata. Moltissimi, dopo aver perso il lavoro a causa della chiusura di imprese non redditizie furono costretti a vivere con i sussidi di disoccupazione, aggravando il bilancio statale. Thatcher arrecò gravi danni al tesssuto connettivo della vita pubblica britannica. Aumentarono le disparità sociali, ma si modificò la stessa fisionomia della società. Qquesta della privatizzazione fu la politica del thatcherismo di maggiore visibilità e impatto sul resto dell’Europa occidentale. Negli anni ’80 cominciò in molti paesi un’ondata di vendite di aziende e servizi pubblici, che crebbe nel decennio successivo. Può risultare sorprendente invece che lo sviluppo delle privatizzazioni non abbia avuto in principio un impatto sulle dimensioni del pubblico impiego. Anzi, tra il 1974 e 1990, il numero di dipendenti aumentò in Germania Ovest e Danimarca. Non è insignificante che molti di loro lavorassero nei servizi pubblici e non più nell’industria statale. 15.3 Le trasfromazioni della socialdemocrazia La crisi del welfare state e l’ascesa del neoliberismo sollevarono dubbi sul futuro della socialdemocrazia nell’Europa occidentale. Molti osservatori preconizzarono un crescente spostamento di consensi verso le forze politiche di destra. Ma in realtà i partiti socialisti governarono in molti paesi e dopo una fase di difficoltà tornarono a dominare anche in molti paesi scandinavi. E’ vero che è piuttosto difficile cogliere le nuove tendenze generali della politica europea negli anni ’80.Quello che risalta è un crescente malcontento nei confronti di quei partiti che avevano governato durante le fasi più dure della crisi economica, ovvero i laburisti nell’UK e i socialdemocratici in Germania Ovest. Fu l’avvento di un vero e proprio “neorevisionismo” che contribuì a ridisegnare i rapporti tra socialismo e neoliberismo. Molti leader dei partiti socialisti reclamarono l’urgenza di una “modernizzazione” ideologica in un ulteriore allontanamento dal marxismo. Per alcuni fu l’inizio di un processo di involuzione del socialismo europeo. Per altri fu l’adattamento necessario e un contesto storico radicalmente trasformato dall’intensificazione delle relazioni internazionali. In generale, malgrado le difficoltà dei bilanci pubblici e la necessità di intraprendere politiche di contenimento dei costi, i socialisti europei non rinunciarono a difendere le ragioni dello Stato sociale. Già nella seconda metà deglli anni Settanta, in Germania Ovest, Schmidt (succeduto a Willy Brandt) aveva offerto con il suo governo un esempio per un riorientamento della politica socialdemocratica, attraverso l’adozione di misure di austerità economica che ridimensionavano la spesa pubblica a favore dei maggiori incentivi all’iniziativa privata. Schmidt era riuscitò a contrastare l’inflazione favorendo un nuovo slancio economico. Aveva intrapreso una nuova politica di ordine pubblico assai meno tollerante rispetto a quella precedente di Brandt. In Francia l’evoluzione avvennee nel Partito socialista guidato da Mitterrand. Aveva avviato agli inizi degli anni Settanta un processo di rifondazione del partito. Mitterrand aveva infatti cominciato a presentarsi come leader di un nuovo socialismo. Così, alla fine degli anni ’70, era già divenuto evidente come fossero radicalmente cambiati i rapporti tra socialisti e i comunisti. Alle elezioni presidenziali del maggio 1981, Mitterrand superò al ballottaggio il presidente uscente il liberale dEstaing. Si formò un governo di cui fecero parte anche i comunisti, in un ruolo marginale e si avviò un ambizioso programma di riforme: diminuizione degli orari di lavoro, aumento dei salari, abbassamento dell’età di pensionamento e un piano di nazionalizzazione di industrie, società finanziarie e banche. Apparvero inconciliabili con le interconnessioni dell’economia francese con i mercati internazionali e la CEE. Mitterand decise di ribaltare la sua politica. Fu una conversione radicale che significò il definitivo abbandono di ogni riferimneto alla realizzazione di un socialismo francese. Mitterrand si trasformò in un leader “europeista” e cominciò ad indicare nell’integrazione europea uno strumento di coesione per assicurare progresso e maggiore giustizia sociale. Rimosse dal governo i ministri comunisti, elogiò le virtù di un capitalismo temperato, esaltò la necessità di una moderniazzazione. Nella politica estera, promosse un riavvicinamento della Francia sia agli USA sia alla NATO e lavorò per consolidae l’amicizia con la Germania Ovest. Nei suoi ultimi anni al potere, la sua originaria missione del socialismo apparve come una promessa tradita. Fu simile la parabola del Partito socialista spagnolo che conquistò la maggioranza. L’ascesa dei socialisti venne accompagnata dal declino dei comunisti. Inoltre, il leader Felipe Gonzales. Da queste esperienze trassero ispirazione anche i socialisti italiani, sotto la guida di Bettino Craxi, avviarono una revisione ideologica. Già alla fine deggli anni ’70, Craxi aveva sottolineato l’obiettivo di allontanare il socialismo dalla tradizione marxista. Il PSI si era avvicinato alla DC e aveva partecipato alla ricostruzione di una maggioranza di centro-sinistra. Nel ’83, Crazi divenne il primo capo di governo socialista della storia italiana. La parola chiave fu “modernizzazione”. Propose una riforma sul sistema istituzionale, una maggiore apertura del mercato, esaltò il mondo delle professioni e della piccola imprenditorialità, ridimensionò il potere di intervento dei sindacati, stimolò la ripresa di un nuovo nazionalismo. Craxi rivendicò un significativo miglioramento dell’economica italiana, ma non riuscì a celebrare quella “modernizzazione”. 15.4 La rivoluzione delle tecnologie dell’informazione Tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90 l’Europa fu investita da una rivoluzione nelle tecnologie dell’informazione. Non è sorprendente che nel corso degli anni Sessanta sia stata la California il luogo in cui si sviluppò una nuova rivoluzione tecnologica nei settori dell’informatica, delle telecomunicazioni e delle biotecnologie destinata a trasformare in maniera più radicale le abitudini di vita nelle regioni più sviluppate del pianeta. Cominciò a emergere un nuovo paradigma tecnologico che permise all’informazione stessa di divenire il podotto del processo di produzione. Questa rivoluzione tecnologica divenne uno straordinario fattore di accelerazione della traformazione dello stesso sistema capitalistico, all’insegna della liberalizzazione e dell’integrazione dei mercati mondiali. All’origine furono i progressi della microelettronica e dell’industria dei computer. Nel 1971 l’invenzione del microprocessore aprì la strada a una crescente miniaturizzazione e specializzazione dei chip. Questo significò la possibilità di costituire dei minicomputer a costo contenuto, accessibili per le tasche di milioni di consumatori. Fu lanciato sul mercato un modello Apple II. Nel 1984 la Apple produsse il primo computer di facile utilizzo, basato sull’uso di icone. Altrettanto impressionante fu il ritmo delle innovazioni nelle telecomunicazioni. Nel 1956 il primo telefono transatlantico. Già nel 1969 il Dipartimento della Difesa statunitense aveva messo a punto una rete informatica di comunicazioni tra apparati militari, istituzioni di ricerca e università che non impiegava centri di controllo. Il 1980, quando il CERN di Ginevra inventò il world wide web, un sevizio che permetteva di organizzare in modo efficace il contenuto dei siti, cominciò una rapida integrazione di tutte le reti dell’interno di Internet. E’ necessario includere anche i progressi dell’ingegneria genetica. Nel 1973 furono messe a punto le procedure per la clonazione genetica, due anni dopo venne isolato per la prima volta un gene di un mammifero e nel 1977 fu clonato il primo gene umano. I profitti tardarono ad arrivare. Furono avviati i primi progetti di mappatura del genoma umano. L’impatto di queste innovazioni sullo sviluppo europeo. Gran parte dell’economia del continente risultò ancora legato ai settori tradizionali. Nel 1984 si stimava che l’Unione Sovietica avesse dieci anni di ritardo rispetto all’Occidente nell’uso dei computer e dei robot industriali. Tuttavia gli effetti della diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione furono senza dubbio rilevanti sulla struttura economica del paese. Ci fu un’ulteriore riduzione dell’occupazione. Sparirono completamente alcune categorie professionali. La crescente diffusione dei computer trasformò le attività dei mercati finanziari. Ci fu un profondo mutamento della cultura imprenditoriale. Si consolidò l’ideale di una “gerarchia orizzontale”, nella quale l’autorità sarebbe dovuta scaturire dalla competenza tecnica più che dalla posizione ricoperta. L’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione contribuì dunque a una profonda trasformazione della società europea. 15.5 L’allargamento dell’Europa comunitaria Alle trasformazioni della società europe adegli anni ‘70/80, contribuì l’evoluzione della CEE; estendendo i suoi confini, assumendo nuove competenze, modificando le procedure interne di funzionamento. A stimolare queste innovazioni fu soprattutto il mutamento delle strategie politiche della Francia e della Germania occidentale. Dopo l’uscita di scena di de Gaulle, la Francia abbandnò le precedenti resistenze contro il rafforzamento dei vincoli comunitari e l’ingresso del Regno Unito, mentre la Germania occidentale di Brandt, riformulò l’obiettivo della propria partecipazione alla CEE: avvertì la necessità di sostenere il potenziamento della CEE. D’altro canto la Germani Ovest capì gli effetti beneifci della costruzione comunitaria per il rafforzamento delle sue connessioni con l’Europa orientale. Aprire un negoziato con i paesi candidati a divenire membri, stabilirono di finanziare il bilancio comunitario con risorse autonome, si impegnarono a elaborare un piano di unione economica e monetaria. La trattativa per l’ingresso del UK fu complessa. Due furono le principali questioni dibattute. La prima riguardava il finanziamento della PAC, sostenuta dalla Francia a vantaggio della sua cospicua produzione e osteggiata da UK. La seconda intorno allo status privilegiato della sterlina nelle transazioni finanziarie internazionali, giudicato incompatibile dalla Francia in relazione alla partecipazione a un processo di integrazione comunitaria. Così il 1° gennaio 1973, UK, Irlanda e Danimarca entrarono nella CEE. Nel UK una parte dell’opinione pubblica criticò il compromesso raggiunto dal governo. Londra chiese una rinegoziazione, convocò un referendum ma un’ampia maggioranza a favore del trattato di adesione alla CEE. Sul progetto di armonizzazione economica, emersero subito dissensi tra Francia e Germania occidentale. La prima considerava l’integrazione monetaria come uno strumento per riequilibrare i divari tra le diverse economie, la seconda pretendeva dagli Stati con un bilancio passivo un intervento preliminare di risanamento per adeguarsi ai livelli di quelli con le valute più forti. Nel 1975 fu istituito il Fondo europeo di sviluppo regionale, che aveva il compito di intervenire a favore delle aree più arretrate. Vennero estese le competenze del Fondo sociale europeo, che cominciò a finanziare programmi di ingresso o reinserimento nel mercato del lavoro. Alla formazione dello SME, la Francia fu costretta a riconoscere il primato economico della Germania occidentale. Ancora più accidentato il percorso verso una possibile integrazione politica. Così la CEE aveva deciso di avviare una politica commerciale più intraprendente su scala globale stipulando accordi con paesi asiatici e africani. Un primo passo fu mosso nel 1974 durante un vertice a Parigi, si approvò la nascita del Consiglio europeo, un organo composto dai capi di Stato o di governo per decidere gli indirizzi generali della politica comunitaria. Venne approvato il principio dell’elezione del Parlamento europeo. Nel 1979 venne approvato il principio dell’elezione diretta del Parlamento europeo. Nel giugno 1979, si svolse la prima consultazione a suffragio universale. Nella prima metà degli anni Ottanta la CEE allargò ulteriormente i suoi confini. Nel 1981 entrò la Grecia, nel 1986 la Spagna e il Portogallo. Questo aumento delle spese alimentò nuove richieste, il UK di Thatcher avviò un duro contenzioso con gli altri paesi membri per introdurre un criterio di proporzionalità tra i contributi versati e quelli ricevuti. Il consiglio europeo concesse al UK uno scontro su suoi contributi. I leader europei riconobbero la necessità di una riforma del bilancio comunitario. Sol nel 1988 le riforme contribuirono a ridisegnare i rapporti interni della CEE: Francia si trasformò in un contribuente netto, mentre Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna divennero beneficiari. Già nel 1981, i governi italiano e tedesco avevano presentato un piano per avviare un coordinamento della politica estera e di quella di sicurezza. Favorire il riconoscimento di un maggior ruolo per il Parlamento Europeo. Ques’ultimo nel 1984 aveva apprivato un Trattato dell’Unione Europea, elaborato da Altiero Spinelli, che avrebbe trasformato la Comunità in un organismo simile ad uno Stato, con un Parlamento dotato di una parte del potere legislativo. Nel giugno 1985 a Schengen, cinque paesi (Francia, Germania Ovest, Olanda, Belgio e Lussemburgo) firmarono un trattato per abolire i controlli sulle persone alle frontiere condivise. Aderirono altri membri della CEE. Nel febbario 1986, dopo un complesso lavoro preparatorio e un difficile negoziato guidato dalla Commissione presieduta da Delors, si giunse all’approvazione dell’Atto unico europeo. Si stabilì che entro il 1992 sarebbe stato completato il mercato unitario, dove persone, merci, capitali e servizi avrebbero circolato liberamente. Furono introdotti il voto a maggioranza qualificata all’interno e una procedura di cooperazione tra Consiglio e Parlamento, ratificò un’estensione delle competenze della CEE a nuovi ambiti come al ricerca, sviluppo tecnologico, ambiente e politica regionale. Rappresentò un passaggio decisivo per la definizione di una comune identità politica. L’avvio del mercato unico rafforzò la percezione dei cittadini di un’appartenenza a un’Europa comunitaria. 16. La fine del bipolarismo 16.1 La ribellione polacca Agli inizi degli anni ’80 la crisi del sistema comunista nell’Europa orientale divenne molto più visibile e la Polonia si trasformò nel suo epicentro. Mosca era riuscita a tenere il controllo su un paese che, a causa del diffuso nazionalismo antirusso, dell’autonomia della Chiesa e della combattività della classe operaia, costruiva una delle aree più instabili del blocco orientale. Nel dicembre 1970, una serie di scioperi nei cantieri navali di Danzica aveva scatenato una violenta repressione delle forze dell’ordine. Gomulka era stato sostituito alla guida del Partito comunista da Gierek che aveva cercato sia di accelerare la modernizzazione del sistema produttivo sia di sostenere i cosumi privati attraverso il ricorso a prestiti da parte di istituzioni finanziarie occidentali. I risultati erano stati molto deludenti, perché l’economia nazionale continuava ancora a dipendere dall’industria pesante. Nell’estate del 1976 il governo aumenta di nuovo i prezzi dei generi alimentari scatenando un’altra protesta popolare. Favorì un consolidamento dell’opposizione al regime, nacquero un Comitato di difesa degli operai e il Movimento per la difesa dei diritti dell’uomo e del cittadino. Nell’ottobre del 1978, l’elezione dell’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, a pontefice con il nome di Papa Giovanni Riga, uccidendo altre quattro persone. Di questa situazione approfittò Boris El’cin, ex segretario del Comitato cittadino di Mosca. El’cin riuscì comunque a divenire il più autorevole interprete di una sorta di “sciovinismo della Grande Russia”. El’cin si schierò a difesa dei nazionalisti baltici in funzione antisovietica. Il 17 agosto 1991 destituirono Gorbacev. El’cin denunciò l’illegalità del golpe e invitò la folla a circondare il palazzo del Soviet russo per difenderlo dall’attacco dei militari. Alla fine El’cin, rinosciuto leader della resistenza, riuscì a prevalere ed arrestarei golpisti. L’Ucraina, la Bielorussia e la Moldavia dichiararono l’indipendenza. Gorbacev, esautorato, concordò con El’cin le modalità di dissolvimento dell’Unione Sovietica: la Repubblica russa e avrebbe ereditato il posto nella comunità internazionale. Gorbacev lasciò ogni carica e alla mezzanotte del 31 dicembre 1991 l’Unione Sovietica cessò di esistere. Le ragioni: incapacità del sistema produttivo di adeguarsi alle trasformazioni dell’economia mondiale nel corso degli anni Sessanta e Settanta, gli eccessivi costi di un’espansione degli interventi militari e di una corsa agli armamenti legata a una radicalizzazione del confronto con gli USA dopo la fine della “distensione”, l’indebolimento della forza attrattiva dell’ideologia ufficiale del regime davanti alla progressiva penetrazione dei modelli di consumo occidentali, il ridimensionamento dell’autorità del potere centrale e il rafforzamento delle autonomia locali, lo smantellamento della pianificazione senza un’efficiente organizzazione, la delegittimazione del PCUS. 17. L’Europa senza cortina 17.1 Dopo il comunismo Il collasso del blocco comunista sconvolse la mappa politica dell’Europa. Nel corso degli anni Novanta cessarono di esistere quattro Stati e ne nacquero altri quattordici. Costituzione di Stati indipendenti come Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia-Montenegro e Macedonia. La Cecoslovacchia si divise nel 1933 in due entità, Repubblica Ceca e Slovacchia, attraverso un negoziato. Poche frontiere nazionali furono modificate. Cominciò un processo di rinnovamento delle istituzioni statali e delle culture politiche. Molti lo interpretarono come una “transizione” verso la democrazia. Oggi però alcuni studiosi, preferiscono piuttosto definirlo come una sorta di “trasformazione postcomunista”. Un ruolo decisivo fu svolto dalle generazioni più giovani, meno legate al passato comunista. I vecchi partiti liberal-democratici del periodo tra le due guerre mondiali non si ricostituirono o occuparono un ruolo marginale nei sistemi politici postcomunisti, mentre emersero nuovi movimenti che spesso di ispiravano a valori di matrice sia liberale sia nazionalista. Ovunque fu intrapreso un lavoro di revisione degli ordinamenti costituzionali che si risolse in alcuni paesi come l’Ungheria e la Polonia, in un aggiustamento delle nrome comuniste. Solo in Romania e in Bulgaria furono rapidamente approvate costituzioni del tutto nuove. Spesso le nuove costituzioni non contemplavano i diritti delle minoranze etniche. Alla prima tornata elettorale, nel 1990-91, prevalsero i movimenti che si presentavano come forze anticomuniste. Nella seconda tornata elettorale, nel 1993-96, si affermarono partiti postcpmunisti di sinistra in Polonia, Ungheria, Slovacchia. Un caso particolare fu quello dell’Albania, dove ancora nel 1991i comunisti prevalsero alle elezioni, ma nell’anno successivo furono superati dal partito democratico, che mantenne la guida del governo fino al 1997. Si impose la questione dell’epurazione degli apparati statali di chi si era reso disponibile di crimini e abusi nel periodo del regime comunista. Inoltre, i regimi comunisti, avevano costituito reti fittissime di spie e informatori, in cui erano stati coinvolti migliaia di comuni cittadini incaricati di registrare attività e opinioni di familiari e amici. In Cecoslovacchia fu approvata la cosiddetta “legge di lustrazione”. Questi controlli si trasformarono talvolta in strumenti di lotta politica. Diverso fu il caso della Germania. Un cittadino su tre era finito sotto il controllo della rete costituita da quasi 1 milione di informatori. Un passaggio che tutti i governi dei paesi dell’ex blocco orientale ritennero urgente e inevitabile. Allora non esistevano precedenti esperienze storiche s’uscita dal comunismo e soprattutto dal dibattito politico internazionale non comparivano alternative considerate realistiche a un’economia di mercato. In Polonia, il ministro delle finanze Balcerowicz, avviò un programma di riforme al taglio dei sussidi alle imprese pubbliche, l’abolizione al controllo dei prezzi, la riduzione delle importazioni. Gli effetti furono drammatici: il PIL scese del 18% e la produzione industriale di 1/3, la disoccupazione superò il 13%. Qualcosa di simile accadde in Cecoslovacchia. Diverso fu per la Romania e l’Ucraina che perseguirono una transizione graduale. In Ucraina nel 1994 il governo annunciò un programma di riforme economiche. Tutti attraversarono agli inizi degli anni Novanta un periodo di depressione economica. Alcuni paesi come la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria e l’Estonia rivelarono segni di una notevole ripresa, dimostrando una maggiore capacità di adattamento al capitalismo. Enormi le dimensioni di processo di privatizzazione. Ben oltre qualsiasi possibile paragone, sull’onda dell’esempio Thatcheriano. All’Est, sono state privatizzate circa 150.000 grandi e medie imprese e centinaia di migliaia di piccole industrie. Il caso più clamoroso quello della Russia, dove il governo decise di distribuire alle famiglie un voucher teoricamente corrispondenti a una quota del valore della ricchezza pubblica posseduta dallo Stato. In breve tempo questi voucher furono rastrellati da affaristi o divorati dall’inflazione. Poche decine di imprenditori riuscirono a impadronirsi delle aziende più redditizie. Moltissime fabbriche furono chiuse. Milioni di lavoratori furono chiamarti a una difficile conversione a nuovi mestieri e attività. 17.2 Le guerre jugoslave La Jugoslavia fu l’unico Stato dove il collasso del comunismo ebbe come esito una guerra devastante. Tra 1991 e 1999 sei diverse guerre. Le ragioni sono molteplici: la causa principale senza dubbio la crescita di nazionalismi antagonisti all’interno di una federazione che, non era stata segnata da evidenti linee di conflitto etnico nei primi 3 decenni dopo la seconda guerra mondiale. Tito aveva dedicato particolare attenzione alla coesione interna della federazione. Prima della morte del leader jugoslavo nel 1980 questa coesione interna aveva cominciato a sfaldarsi quando davanti alla crisi industriale la constatazione del divario economico e sociale tra un Nord ricco (Slovenia e Croazia) e un Sud più povero (Serbia, Bosnia, Montenegro e Macedonia) aveva innescato nuove proteste soprattutto da parte della classe dirigente slovena e croata. Nella seconda metà degli anni ’80 cominciarono a moltiplicarsi le iniziative di politici e intellettuali impengati nello sforzo di rivendicare identità nazionali fondate sulla ricerca. Ebbe un effetto dirompente l’ascesa di Milosevic in Serbia che fomentò una rinascita del nazionalismo allo scopo di conslidare il suo potere personale e il ruolo guida della Serbia all’interno della federazione. Esplosero violenti scontri etnici. Belgrado arrivò ad appropriarsi della metà dei provenienti fiscali della federazione jugoslava x pagare i compensi dei dipendenti delle istituzioni federali e dei lavoratori statali. Croati e macedoni decisero di uscire dalla federazione. Slovenia, Croazia e Macedonia chiamarono l’indipendenza. Gli USA furono a favore del mantenimento dell’unità della Jugoslavia. Cominciò la sequenza delle guerre Jugoslave che si concluse alla fine del decennio. Il primo conflitto tra Slovenia e l’esercito federale durò qualche settimana. Più violento il successivo in Croazia dove viveva una larga minoranza serba nelle regioni Krajina e della Slavonia. Queste ultime arrivarono a proclamare la propria separazione. Il governo croato reagì con forza e cominciò una guerra anche contro i civili distruggendo intere provincie e provocando migliaia di profughi. Nel dicembre 1991 prima la germanie poi la comunità europea decisero di riconoscere l’indipendenza della Slovenia e della Croazia. Nel 1995 la Croazia riprese la guerra per il controllo della Krajina e Slavonia. Cominciò una nuova guerra di 4 anni con scontri violentissimi. Questa bosniaca fu u na guerra complessa in varie fasi che vide le 3 principali comunità etniche in lotta tra loro. Se è vero che inizialmente si costituì un’alleanza tra musulmani e croati questa si sciolse agli inizi del 93 e cominciò un vero e proprio conflitto triangolare. Furono vittime migliaia di donne musulmane stuprate dai combattenti. A queste strategie ricorsero tutte le parti in conflitto ma furono sorpattutto le milizie serbe a macchiarsi dei crimini più efferati. Sarajevo fu assediata e bombardata per quasi 4 anni. Nel febbraio del ’94 un colpo di mortaio centrò il mercato della città provocando 68 vittime. A Srebrenica nel ’95 si consumò una strare orribile favorita dall’inerzia di un contingente dei caschi blu dell’ONU: le milizie serbe giustiziarono 8.000 civili musulmani e accatastarono i cadaveri in fosse comuni. La comunità internazionale faticò a prendere l’iniziativa i un internevnto che ponesse fine alla guerra. Furono istituiti una conferenza permanente sull’ex Jugoslavia e un gruppo di contatto che eleborarono proposte di pace. Venne istituito un tribunale internazionale per i crimini di guerra. Queste iniziative non rallentarono però i combattimenti. Alla fine la NATO decise di sostenere con azioni aeree l’offensiva croato-musulmana che riuscì a ridimensionare il territorio controllato dei serbi. Tutte le parti accettarono di negoziare una tregua attraverso la mediazione degli USA. Un’iniziativa che confermò il fallimento della diplomazia europea. L’accordo stabilì la restituzione della Krajina e della Slavonia alla Croazia e la costituzione di due entità politiche distinte all’interno della Bosnia-Erzegovina. A ciascuna entità politica vennero riconosciuto un proprio parlamento e un’ampia autonomia ma le due parti rimasero legate da un organismo collegiale di coordinamento composto da un rappresentante serbo, uno croato e uno musulmano che si davano il cambio. Furono inviati nella regione un contingente militare della NATO e un commissario civile. L’accordo di Dayton ignorò la questione del Kosovo che negli anni seguenti divenne l’epicentro delle tensioni balcaniche. Qui il contrasto tra albanesi e serbi si acuì nella primavera del ’68. Protagonista di una nuova formazione militare fu l’esercito di liberazione del Kosovo. La reazione serba fu durissima e contribuì ad alimentare una guerra che oltre a migliaia di vittime provocò la fuga di molti profughi verso l’Albania e Macedonia. Cominciarono intense negoziazioni con Belgrado. Il 24 marzo 1999 le forze aeree nella NATO cominciarono una campagna di bombardamenti contro obiettivi militari e civili che durò oltre due mesi e mezzo, Alla fine Belgrado si arrese. L’azione militare della NATO scatenò un acceso dibattito nell’opinione pubblica internazionale, perché sancì una supremazia del diritto di “intervento umanitario” sul principio del rispetto della sovranità nazionale. Una diatriba che continuò a monopolizzare il discorso politico e diplomatico negli anni successivi. Milosevic, il leader serbo fu chiamato ad affrontare anche le rivendicazioni di indipendenza del Montenegro. Alle elezioni presidenziali del settembre 2000 il candidato liberale, Kostunica, riuscì a sconfiggere Milosevic. Milosevic, accusato di crimini contro l’umanità, fu arrestato ed estradato. Morì in cella nel 2006. 17.3 La nascita dell’Unione Europea All’indomani del 1989, il dissolvimento del blocco comunista e la questione della riunificazione tedesca favorirono un’accelerazione del processo di integrazione europea. Questo impegno si era tradotto in un’intesa franco-tedesca per promuovere l’elaborazione di un trattato su un’unione economica e monetaria, a cui restava contrario solo il Regno Unito. Nonostante l’opposizione britannica tra la fine del 1989 e l’estate 1990, fu deciso l’avvio di due conferenze intergovernative: la prima dedicata all’integrazione economica, con l’obiettivo di arrivare all’introduzione di una moneta unica; la seconda alla riforma della Comunità europea, finalizzata alla costruzione di un nuovo sistema istituzionale. Si arrivò alla stipula del trattato sull’Unione Europea, firmato il 7 febbraio 1992, in Olanda. Si stabilirono le modalità di introduzione della moneta unica (euro) e la costituzione della Banca centrale europea, responsabile della politica monetaria europea. Quest’ultima avrebbe avuto come obiettivo primario la stabilità dei prezzi. Furono decisi i criteri richiesti per poter aderire alla moneta unica: inflazione, tasso di interesse, deficit di bilancio, debito pubblico, stabilità del cambio. Meno articolate le intese sulla politica estera e sulla difesa militare. Più incisive furono alcune decisioni che modificarono il funzionamento del sistema istituzionale. Furono estese le competenze comunitarie, con l’inclusione di nuovi ambiti come industria, infrastrutture, istruzione, cultura, salute. Vennero poi ampliate le funzioni del Parlamento, a cui furono attribuiti diritti di veto sulle decisioni del Consiglio e un voto di approvazione sulla formazione della Commissione. Si stabilì di istituire un fondo di coesione per la realizzazione di infrastrutture e politiche di tutela dell’ambiente. Il governo britannico negoziò una clausola di esclusione, che gli consentì di non partecipare alla fase conclusiva dell’unione monetaria. Infine rifiutò l’inserimento nel testo dell’accordo di un esplicito riferimento a una “vocazione federale”. Se è vero che gli Stati nazionali rinunciarono a parte della propria autonomia, tuttavia non rafforzarono le istituzioni politiche comunitarie, lasciando solo la BCE come autorità effettivamente sovranazionale. Nel giugno 1992 i danesi bocciarono l’accordo. I francesi lo approvarono con una maggioranza appena sufficiente. La costruzione della UE suscitava sugnificative resistenze. Nel maggio 1993 i danesi furono richiamati al voto. Wuesta volta il voto fu favorevole all’UE ma a prezzo di un compromesso che ridimensionava i piani comunitari. Alla crescita di questo antieuropeismo contribuirono pure gli effetti di una crisi finanziaria che aveva colpito lo SME. Alcuni grandi investitori avevano intrapreso operazioni spevulative per indebolire quelle valute nazionali che apparivano meno capaci di rispettare la disciplina imposta dal predominio del marco tedesco. Furono colpite soprattutto la lira italiana e la sterlina britannica che uscirono dallo SME. I paesi europei confermarono il loro impegno per l’unione monetaria. L’euro sarebbe stato introdotto nel 1999 e avrebbe cominciato a circolare come costante nel 2002. In questo contesto tornò la questione dell’allargamento della Comunià europea. Alcuni paesi dell’area mediterranea o membri dell’EFTA avevano chiesto di aderire alla CEE. Bruxelles aveva deciso di privilegiare le richieste preveniente dall’EFTA perché riguardavano Stati in stretto contatto con la CEE e soprattutto nazioni ricche e sviluppate. Austria, Finlandia e Svezia entrarono nella UE. Restava in sospeso la questione piu spinosa, la possibilità di adesione degli ex paesi comunisti del blocco sovietico. Cominciò un percorso di progressivo avvicinamento. Fu riattivata anche la Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea, trasformata nel 1995 in Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Fu deciso di accelerare il processo di adesione dei paesi dell’Est. Venne esclusa la Turchia, accusata di non rispettare adeguatamente i diritti umani, in particolar modo quelli della minoranza curda. Bruxelles provò a cercare soluzioni ad alcune delle questioni accantonate nel Trattato di Maastricht: elaborazione delle politiche sociali e di lotta alla disoccupazione. Nel 1997, ad Amsterdam la firma di un nuovo trattato. Fu istituita la carica di Alto rappresentante della PESC. Si rafforzò il ruolo del Parlamento. Nel maggio 1998 il Consiglio europeo verificò il rispetto dei paramentri per l’adesione all’euro da parte dei diversi Stati membri dell’UE. Anche l’Italia riuscì a mettere parzialmente in ordine il bilancio statale attraverso tagli alla spesa pubblica e l’introduzione di una nuova “tassa per l’Europa”. Nel 2001 si aggiunse la Grecia. 17.4 Destra e sinistra dopo la guerra fredda All’indomani della fine della guerra fredda l’Europa era spossata sul piano ideologico. Dopo un secolo di scontri violenti tra nuovi ordini antagonisti, un diffuso sentimento di disillusione avrebbe caratterizzato lo strano trionfo della democrazia. L’astensionismo alle elezioni parlamentari e nell’inarrestabile declino del numero degli iscritti ai partiti. Questa traformazione dell’atteggiamento verso la politica, che in realtà come abbiamo già visto aveva già avuto inizio negli anni Sessanta, sembrava mettere in crisi l’idea stessa della sopravvivenza di una contraposizione tra “destra” e “sinistra”. Nuove questioni più legate alle identità degli individui. E’ piuttosto una rifefinizione della contrapposizione tra destra e sinistra, più che una sua comparsa. Rimase la possibilità di distinguere una sinistra da una destra. Si registrò in Europa un generale allontanamento della tensione ideologica. Tre le questioni emergenti cominciò a spiccare quella diffusione della corruzione nel mondo politico. Aumentarono le denunce e gli scandali per favoritismi e pagamenti di tangenti, connessi al finanziamento illegale delle attività dei partiti, in parte all’arricchimento personale di leader politici e funzionari amministrativi. Il caso più clamoroso fu quello italiano, esploso nel 1992 con la scoperta dell’esistenza di una fitta rete di relazioni illecite tra politici, amministratori e imprenditori. Questa vicenda nota come “Tangentopoli” travolse soprattutto DC e PSI e favorì l’ascesa di nuove formazioni politiche, la Lega Nord e Forza Italia. Nel 1994 Forza Italia guidata dall’imprenditore Silvio Berlusconi, vinse le elezioni parlamentari e assunse la guida di un governo di coalizione con la Lega Nord e Alleanza nazionale. Il PCI, colpito dal collasso del blocco sovietico, aveva cambiato nome in Partito democratico della sinistra (PDS). In generale, nei paesi della UE, i partiti della sinistra socialdemocratica subirono inizialmente una crisi di consensi innescata dagli effetti del tramonto dell’ideologia marxista ma, nella seconda metà degli anni Novanta, riuscirono a invertire la tendenza a conquistare nuovi ruoli di governo. Accadde in Italia al PDS, un esecutivo di coalizione presieduto da Romano Prodi nel 1996 e poi Massimo D’Alema. Alla fine del Novecento, l’Europa comunitaria sembrava stabilmente orientata a sinistra. Però maturavano altri
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