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L'idea della storia, volume 3 - Riassunto capitoli 1-2-3, Appunti di Storia

L'idea della storia, volume 3 - Riassunto capitoli 1-2-3

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 28/09/2022

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Scarica L'idea della storia, volume 3 - Riassunto capitoli 1-2-3 e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! Capitolo 1 - La nascita della società di massa Le caratteristiche e i presupposti della società di massa Tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del 900, negli Stati Uniti e nei paesi economicamente più avanzati dell’Europa si delinearono i caratteri della società di massa, così definita perché le grandi masse popolari fecero loro ingresso sulla scena sociale (politica, consumo, cultura divennero accessibile a un numero sempre maggiore di persone). I processi che caratterizzano la società di massa possono essere così sintetizzati: ● si ampliò il sistema economico di produzione e consumo; ● vennero introdotte tecniche produttive improntate alla massima razionalità ed efficienza; ● si costituirono e si svilupparono grandi agglomerati urbani (In risposta all’aumento demografico e all’esodo massiccio di lavoratori agricoli delle campagne delle città); ● aumentò l’informazione mediante i primi mezzi di comunicazione di massa; ● si assistette a un allargamento della partecipazione politica; ● si conobbe un’espansione dell’azione operaia organizzata attraverso sindacati e partiti. L’avvento della società di massa si inserì in un contesto di trasformazione culturale e scientifica che rispecchiava un mondo sempre più sfaccettato e complesso. Entrarono in crisi grandi sistemi filosofici moderni e la loro pretesa di essere “onnicomprensivi”, poter spiegare ogni aspetto della realtà. La scienza raggiunse livelli di estensione, di articolazione e di applicazioni tecnologiche che non aveva mai conosciuto in passato. Si trattò di cambiamenti profondi, connotati da contraddizioni e inquietudini sociali e culturali che vennero colte già dalla fine del XIX secolo da alcuni intellettuali. Essi iniziarono a usare l’espressione società di massa anche con una connotazione negativa, per indicare la tendenza al conformismo sociale (diffusione di gusti e mentalità “omologati” ai quali il cittadino medio poteva difficilmente sottrarsi) e l’indebolimento dei legami familiari e comunitari (rendeva rapporti tra gli individui anonimi e impersonali). Per la nascita della società di massa fu decisiva la trasformazione economica dell’Occidente euroamericano prodotta dalla seconda rivoluzione industriale: essa modificò profondamente il processo produttivo, avvalendosi dei progressi della scienza e della tecnica, le quali per la prima volta si misero al servizio dell’industria. Tra i risultati più significativi vi fu sicuramente l’invenzione (dovuta all’ingegnere e imprenditore inglese Henry Bessemer) di un convertitore che permetteva di produrre l’acciaio in un’unica fase di lavorazione, contenendo i costi e migliorandone la qualità. L’acciaio iniziò così a sostituire il ferro in diversi ambiti di applicazione (costruzione macchinari per l’industria, ferrovie, mezzi di trasporto, ponti, realizzazione di opere architettoniche). Anche la fisica la chimica conobbero importanti innovazioni tra le quali la scoperta di due nuove rivoluzionarie fonti di energia: il petrolio e l’elettricità. Il primo, fu alla base del funzionamento del motore a scoppio, fondamentale per la nascita dell’industria automobilistica e aeronautica; la seconda iniziò ad essere usata come forza motrice nelle fabbriche, oltre ad alimentare in alcune grandi città americane ed europee e nuovi mezzi di trasporto quali tram e metropolitane, fornire l’energia per l’illuminazione privata e pubblica. La produzione di elettricità permise a molte economie di avere energia bassi costi e di non dipendere più dall’importazione il campo del carbone all’estero. Aumentati in numero e dimensioni grazie le innovazioni tecniche, le industrie conobbero una profonda ristrutturazione organizzativa, che portò alla nascita di forme di collaborazione integrazione tra imprese, le cosiddette concentrazioni industriali. Un esempio furono le acciaierie tedesche Krupp che nell’arco di qualche decennio assorbirono le varie industrie coinvolte nel ciclo produttivo dell’acciaio, con il risultato di aumentare l’efficienza produttiva, attraverso una riduzione dei costi. Decisivo per la crescita delle imprese si rilevò anche il sostegno delle politiche economiche statali: ora lo Stato si impegnava a proteggere (con politiche doganali) e a promuovere (difendendone gli interessi) i grandi gruppi finanziari industriali nazionali. Lo sviluppo industriale segnò l’inizio di un ciclo di espansione economica che ebbe il suo centro negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa occidentale (Gran Bretagna Germania), per poi estendersi su scala mondiale. Questo processo consentì a milioni di persone di partecipare alla vita pubblica. Economia e società nell’epoca delle masse Le opportunità offerte dal lavoro industriale in espansione favorirono un vero e proprio esodo della popolazione contadina dalle campagne europee verso la città (gli uomini venivano assunti nelle fabbriche come operai; le donne trovavano occupazione come collaboratrici domestiche presso agiate famiglie borghesi, come commesse nei negozi impiegati negli uffici). Fu così che all’inizio del nuovo secolo la popolazione urbana nei paesi più avanzati dell’Europa occidentale superò quella rurale. Ciò determinò un considerevole aumento del proletariato urbano e una straordinaria crescita dei grandi agglomerati. Tale incremento rese urgente una riorganizzazione dell’impianto urbanistico che tenesse conto delle nuove esigenze abitative: fu migliorato il complesso di acquedotti fognature e venne ripensato il sistema viario per facilitare la circolazione di merci e di persone, attraverso la creazione di infrastrutture complesse come la metropolitana. Contemporaneamente, iniziarono i lavori per l’abbellimento delle città. Un esempio significativo è rappresentato dalla costruzione a Parigi dalla torre progettata dall’ingegnere Eiffel, ultimati in occasione dell’Esposizione universale del 1889. Insieme con l’emigrazione contadina verso le città, a concorrere allo sviluppo urbano fu un generale aumento della popolazione dovuta alla diminuzione della mortalità e all’allungamento della durata media della vita (45-55 anni nel 1914). Tra le cause principali furono un significativo miglioramento delle condizioni igieniche, reso possibile dai lavori sul sistema di canalizzazione delle acque di rifiuto promossi dalle nelle maggiori città; i progressi della medicina che grazie ai risultati la ricerca scientifica portarono alla scoperta dell’aspirina, dei primi antibiotici dei vaccini contro colera e tifo; la migliore qualità dell’alimentazione. Il quadro demografico si modificò per la contrazione del tasso di natalità legato alla diffusione dei metodi contraccettivi che furono adottati prima presso le classi borghesi e successivamente dal proletariato urbano (nel mondo contadino avere molti figli significava garantirsi una fonte supplementare di reddito, in quello urbano- industriale, invece, il numero dei figli venne sempre più messo in relazione con le prospettive professionali di ascesa sociale che si potevano garantire loro). Lo sviluppo urbano determinò la crescita del settore terziario dei servizi e della burocrazia degli uffici. Il numero dei lavoratori nelle attività tecniche e commerciali e degli impiegati funzionari nelle missioni statali e privati aumentò, andando a ingrossare le file del ceto medio. Il ceto medio era caratterizzato da una cultura sostanzialmente omogenea, in cui prevalevano l’individualismo, il valore attribuito al merito, la difesa della proprietà privata e il desiderio di distinguere il proprio stile di vita da quello del proletariato urbano. Nelle grandi città il proletariato il ceto medio non solo aumentarono numericamente, ma videro anche l’innalzamento dei salari e degli stipendi grazie alla generale situazione di crescita economica, fatto che provocò un ampliamento del mercato. Per la prima volta nella storia ampie fasce sociali ebbero la possibilità di destinare una quantità del proprio reddito all’acquisto di beni e servizi non strettamente collegati alla sopravvivenza. Le industrie produttrici si trovarono a dover soddisfare una domanda che assumeva sempre più dimensioni di massa (vennero aperti nuovi negozi e grandi magazzini, come il Selfridges a Londra e Saks Fifth Avenue a New York). Due settori industriali di grande sviluppo di impatto sul costume di massa furono quelli dell’abbigliamento e dell’alimentazione. Vestiti e calzature divennero oggetto di produzione industriale contribuirono a modificare l’aspetto esteriore delle persone. Un altro cambiamento riguardo alla dieta: aumentarono la circolazione e il consumo di zucchero, caffè e vino; inoltre, grazie all’introduzione di tecniche di refrigerazione e all’uso di navi frigorifere, fu possibile importare molta carne dall’Argentina, rendendolo per la prima volta disponibile anche le classi popolari europee. L’incremento dei consumi non sarebbe stato possibile senza l’aumento di profitti economici e dei salari e la diminuzione del costo dei beni ottenuti attraverso la razionalizzazione dei processi produttivi. Migliorare l’efficienza del lavoro di fabbrica fu l’obiettivo perseguito dall’ingegnere statunitense Frederick W. Taylor che espose i risultati delle sue riflessioni nel libro I principi dell’organizzazione scientifica del lavoro. Alla base del pensiero di Taylor vi era l’assunto che esistesse un unico modo ottimale, one best way, per compiere ogni singola operazione del processo produttivo. Per questo egli tentò di studiare in modo sistematico il lavoro in fabbrica e di calcolare “scientificamente” i tempi necessari al lavoratore per ogni singola operazione, indicando come indispensabili l’individuazione di specifiche competenze, la divisione dei compiti all’interno della fabbrica e le regole per perseguire per conseguire la massima produttività. La pianificazione della produzione e il suo funzionamento complessivo sarebbero spettati ai dirigenti: Taylor teorizzava in tal modo le funzioni del “manager”. Henry Ford uno dei primi imprenditori a mettere in pratica i principi del taylorismo applicandoli alla standardizzazione delle mansioni ottenuta grazie la catena di montaggio. Essa consisteva in un nastro che scorreva davanti agli operai trasportando i singoli elementi da assemblare per ottenere un prodotto finito; ogni lavoratore era affidata una sola mansione, semplice e ripetitiva, da eseguire in tempi prefissati. Il risultato fu eccezionale in termini di aumento della produzione abbassamento dei costi, tanto che Ford nel 1914 decise di raddoppiare il salario della sua manodopera di ridurre la giornata lavorativa, che passò dalle nove alle otto ore. Egli pensava che i dipendenti, pagati meglio, non solo sarebbero stati più produttivi ma, ma avrebbero anche potuto diventare consumatori in grado di acquistare sempre più beni, tra cui la Ford Model T, la prima automobile prodotta in serie nelle officine di Detroit. lavorare all’interno del sistema democratico in collaborazione con i partiti liberali. Le posizioni ebbero inizialmente scarso seguito, ma suscitarono all’interno dell’organizzazione un intenso dibattito e determinarono molte contrapposizioni. Un altro tema fu il pacifismo. Durante il congresso di Basilea nel 1912 si arrivò a condannare in modo assoluto ogni forma di conflitto, in quanto espressione della rapacità del sistema capitalistico e facendone ricadere sul popolo tutti i costi umani ed economici. Nell’ambito dell’ideologia socialista europea, una posizione di spicco fu sostenuta dal sociologo francese Georges Sorel che nel 1906 espose le idee alla base del sindacalismo rivoluzionario nel saggio Considerazioni sulla violenza. Secondo Sorel, per realizzare la rivoluzione era necessario in primo luogo che il movimento operaio si rendesse indipendente dalle organizzazioni politiche socialiste. Infatti, soltanto attraverso un’azione autonoma e spontanea gli operai avrebbero acquisito consapevolezza dei propri obiettivi si sarebbero mobilitati per realizzarli. L’azione rivoluzionaria doveva avvenire attraverso l’uso della violenza, mobilitando i lavoratori e a tal modo fare attraverso a tal fine attraverso la chiamata allo sciopero generale. Quest’ultimo avrebbe assunto la funzione di mito, un’immagine di battaglia in grado di fornire l’impeto emotivo necessario alla rivoluzione. Oltre a diffondersi in Francia, il sindacalismo rivoluzionario trovò sostenitori soprattutto in Italia e in Spagna. Il nazionalismo A contrapporsi al socialismo vi fu il nazionalismo che pur essendo in grado di mobilitare grandi masse in nome della difesa degli interessi dell’intera nazione, in realtà si fece perlopiù portavoce delle aspirazioni della borghesia conservatrice e reazionaria. Il concetto di nazione era però profondamente diverso dal sentimento nazionale che si è sviluppato in Europa e che si era diffuso soprattutto tra i popoli che aspiravano all’indipendenza. Mentre quest’ultimo aveva avuto un carattere inclusivo tale per cui l’amore per la propria patria implicava il rispetto e l’apertura verso gli altri popoli, l’idea di nazione coltivata era di tipo esclusivo, ossia comportava la chiusura verso l’altro, considerato diverso e “inferiore”. Il nazionalismo divenne pertanto il fondamento ideologico dell’imperialismo. Esso si proponeva come obiettivo la conquista di nuovi mercati in cui collocare i beni eccedenti rispetto alle possibilità di consumo del mercato interno in cui investire gli ingenti capitali finanziari che non trovavano Impiego nei paesi di origine. Per ottenere simili risultati, imperialismo si servì della politica militarista degli Stati, che individuava nel mantenimento e nello sviluppo di un adeguato apparato militare il presupposto fondamentale per garantire la sicurezza interna della nazione e per accrescerne il prestigio attraverso una politica estera espansionistica. Poiché comportava ingenti investimenti pubblici nell’acquisto di armamenti, il militarismo stimolò la crescita dell’industria pesante. L’ideologia nazionalistica diede al militarismo imperialistico una legittimazione “di massa”, definendolo necessario per promuovere la gloria e l’affermazione dell’intero paese. Il nazionalismo si servì anche delle teorie razziste (per legittimare la volontà di una nazione di predominare sulle altre) che, stabilendo una gerarchia tra “razze superiori” e “razze inferiori”, sosteneva la necessità che le prime prevalessero sulle seconde. Su questi presupposti si svilupparono movimenti nazionalisti come il pangermanesimo (aveva l’obiettivo di unificare politicamente tutte le popolazioni di stirpe e lingua tedesca all’interno di una grande area dell’Europa centrale dominata dalla Germania) e il panslavismo (aspirava creare un unico Stato comprendente al suo interno tutti i popoli slavi). Tra le teorie razziste fatte proprie dal nazionalismo si consolidò l’antisemitismo: gli ebrei vennero considerati per la prima volta appartenenti a una razza biologicamente definita e con caratteristiche comportamentali ereditarie, (l’avidità e la disonestà). Secondo l’antisemitismo, gli ebrei non si erano mai assimilati all’interno delle nazioni che li ospitavano e pertanto rappresentavano un nemico pericoloso da allontanare. L’antisemitismo si diffuse presto in Europa, diventando parte integrante dell’ideologia nazionalista di alcune formazioni politiche, come ad esempio in Francia dell’Action Française. Come reazione all’antisemitismo nacque il movimento sionista (il nome rimanda alla collina di Sion su cui sorge Gerusalemme) che fu fondato nel 1897 dal giornalista austriaco di famiglia ebraica Theodor Herzl. Egli proponeva di restituire un’identità nazionale agli ebrei sparsi nel mondo attraverso la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Tale ideologia trovò molti sostenitori soprattutto negli Stati Uniti dove numerosi ebrei si trasferirono. La chiesa cattolica di fronte alla società di massa La capacità dimostrata dal socialismo di organizzare politicamente le masse lavoratrici e di fornire loro una visione laica del mondo preoccupò la Chiesa, stimolandola a riconsiderare il giudizio di condanna espressa nei confronti della società moderna a partire dalla promulgazione della legge delle guarentigie che nel 1871 aveva decretato la fine del potere temporale del papato. La necessità di esprimersi di fronte le questioni più urgenti portò la Chiesa a pubblicare nel 1891 l’enciclica Rerum Novarum (“Delle novità”) con cui papa Leone XIII prese posizione in merito ai conflitti sociali presenti nel mondo del lavoro. L’enciclica criticava sia la ricerca egoistica del profitto da parte dei capitalisti, sia i principi socialisti dell’abolizione della proprietà privata e della lotta di classe, e individuava nel rispetto dei doveri reciproci di lavoratori e dei datori di lavoro il modo per realizzare la concordia tra le classi. La posizione ufficiale della Chiesa rimaneva improntata alla prudenza, volendo mantenere il proprio intervento circoscritto al solo livello teorico. All’interno del mondo cattolico vi furono tuttavia correnti più radicali e che confluirono all’interno del modernismo, un movimento che si diffuse soprattutto in Francia e in Italia, dove ebbe nel sacerdote Romolo Murri il suo più importante rappresentante. Morrei diede vita alla corrente definita “democratico-cristiana”, secondo cui la Chiesa avrebbe dovuto comprendere l’importanza assunta dal proletariato nella società moderna e combattere attivamente le ingiustizie di cui esso era vittima, al fine di realizzare una società democratica in cui prevalessero gli ideali cristiani di solidarietà e di uguaglianza. Per fare questo Murri organizzò sezioni di sindacati cattolici, le cosiddette “leghe bianche dal lavoro” alle quali erano iscritti soprattutto i lavoratori delle campagne. Il movimento democratico-cristiano fu guardato con sospetto quando iniziò a schierarsi a favore delle lotte sociali ed appoggiare alcune battaglie del socialismo. Nel 1909 Murri fu scomunicato da papa Pio X con l’enciclica Pascendi Dominici gregis (“Nutrire il gregge del signore”) che aveva condannato il modernismo, dimostrando di voler tornare una visione più tradizionale conservatrice dei compiti della Chiesa e del laicato cattolico. Dopo la scomunica, il movimento democratico-cristiano fu posto sotto il controllo della gerarchia ecclesiastica. La critica della società di massa Alcuni studiosi cercarono di analizzare i cambiamenti sociali politici che si accompagnavano alla società di massa. Una notevole fortuna ebbe l’indagine dello psicologo francese Gustave Le Bon che con la sua opera Psicologia delle folle (1895) esaminò il comportamento delle masse, intese come un grande e indistinto insieme di soggetti dotati di una “personalità collettiva” profondamente irrazionale che annullava quella individuale dei suoi componenti. Secondo Le Bon all’interno delle folle i singoli perdevano la propria capacità critica e diventavano impulsivi, irritabili e suggestionabili. Poiché a convincere le masse erano le prospettive di un futuro migliore, esse seguivano leader politici capaci di stimolare la loro immaginazione attraverso discorsi carichi di promesse. Un’altra importante riflessione fu offerta dal filosofo spagnolo José Ortega y Gasset nel libro La ribellione delle masse (1930). Gasset si soffermò sulle sue caratteristiche intellettuali e morali, che erano espressione dei valori di una società molto diversa da quella tradizionale. L’arroganza, la modalità, l’esclusiva ricerca del benessere materiale e la mancanza di propensione al dialogo e al confronto erano secondo Gasset le prerogative della cultura di massa, che si sarebbero riprodotte anche nella leadership politica. Al posto delle élite tradizionali proprie delle società liberali erano infatti prevalse le figure di “semplificatori”, ossia dittatori che promettevano facili soluzioni ogni tipo di problema attraverso un intervento capillare dello Stato in ogni settore della società civile. Altri studiosi divenuti celebri come teorici dell’élite analizzarono criticamente i cambiamenti politici intervenuti a modificare in senso di demografico e parlamentare le società di cui le stesse “masse” erano protagoniste. Il siciliano Gaetano Mosca nel volume del 1884 Teoretica dei governi e governo parlamentare delineò l’idea centrale degli elitisti secondo cui nelle società di ogni tempo era inevitabile che il potere politico fosse detenuto da una minoranza organizzata, definita classe politica, la quale trionfava sempre su una maggioranza disorganizzata. Secondo Mosca la democrazia, ossia il “governo del popolo”, era pertanto un’illusione, poiché l’azione di governo erano infatti esercitata da una classe politica al potere. A conclusione analoga aggiunse un altro studioso italiano, Vilfredo Pareto che nell’opera I sistemi socialisti (1902) introdusse il termine élite per riferirsi alla minoranza al potere di cui parlava Mosca. Poiché gli interessi di una società cambiavano nel corso del tempo, era necessario che le élite fossero formate dagli individui di volta in volta più adatti a governare in funzione del benessere collettivo. Il ricambio e la “circolazione” delle élite erano dunque fondamentali per garantire regimi politici stabili ed efficienti. Il contesto culturale della società di massa (no) Nella seconda metà dell’Ottocento la corrente di pensiero prevalente era stata il positivismo, i cui principi fondamentali erano il razionalismo deterministico (la realtà era studiabile in modo rigoroso attraverso il metodo scientifico e assicurava una conoscenza certa e prevedibile e di ogni fenomeno); e la fiducia di un continuo progresso economico e sociale (che l’applicazione di tale metodo ogni attività umana avrebbe garantito). Alcuni studi filosofici e importanti scoperte scientifiche misero in crisi tali presupposti, proponendo un’interpretazione della realtà molto più complessa di quanto fosse avvenuto in precedenza. Sul piano filosofico la critica al positivismo provenne in particolare dal tedesco Friedrich Nietzsche secondo il quale la ragione non poteva giungere a una conoscenza oggettiva della realtà, poiché essa non aveva un ordine preciso né una struttura stabile e duratura. Egli esaltava una condizione umana libera dai legami della morale tradizionale e imbevuta di “gioia di vivere”, proponendo di “dire sì alla vita”. Ciò significava appropriarsi di tutti quegli aspetti dell’esistenza che la civiltà occidentale aveva tentato di rimuovere. Nietzsche introdusse a questo proposito l’idea del “superuomo”, un individuo che fosse in grado di rifiutare le false verità costruite dall’uomo per preferire una ragione alla condizione umana e vivesse e agisse in una continua affermazione della propria volontà. Gli aspetti non razionali dell’animo umano diventeranno soggetto di studio della psicoanalisi, fondata dallo psichiatra austriaco Sigmund Freud che pubblicò nel 1899 L’interpretazione dei sogni. Freud propose una descrizione della psiche in cui la parte più moderanti era costituita dall’inconscio, una zona non accessibile alla coscienza dove la persona, attivando una sorta di difesa inconsapevole, confinava contenuti inaccettabili dal punto di vista morale. Tali contenuti, pur essendo rimossi, continuavano a essere “operativi” nella psiche dell’individuo, tanto da riemergere nei sintomi patologici e soprattutto nei sogni. L’interpretazione la vita risultava pertanto determinante per comprendere le dinamiche inconsapevoli sottese al comportamento. Anche nella letteratura e nell’arte vi furono approcci orientati a privilegiare la sfera emozionale dell’uomo. Il romanziere francese Marcel Proust rivolse la propria attività intellettuale a quegli stessi oggetti indicati da Freud con la psicoanalisi. Nel suo capolavoro, Alla ricerca del tempo perduto dimostrò che l’arte era fatta di sensazioni profonde, di ispirazione improvvise e di interiorità; la verità si trovava all’interno delle cose, per cui ogni tentativo di scriverla in modo realistico era fallimentare. Nel campo delle arti figurative furono i pittori astrattisti come lo svizzero-tedesco Paul Klee, e gli impressionisti, come il gruppo di artisti tedeschi denominato di “Die Brücke” (il nome rinviava all’obiettivo stesso del movimento: costruire un ponte simbolico che traghettasse la pittura dalle vuote regole convenzionali del tempo verso forme espressive e nuove spontanee, capaci di rappresentare l’assenza interiore nascosta della mail della realtà; da qui derivano le scelte tecniche di utilizzare colori vivaci, contrasti cromatici violenti e di formare le figure), a porre per primi l’attenzione sul mondo dell’interiorità dell’individuo contemporaneo, cercando un modo per raffigurarne l’inconscio. A mettere in crisi il positivismo intervennero anche alcuni importanti studi scientifici, che minarono la validità dei fondamenti della fisica classica su cui poggiavano le certezze positiviste. Furono in particolare la teoria quantistica della materia di Max Planck e la teoria della relatività di Albert Einstein a rivoluzionare i presupposti della scienza. Dalla prima derivò che l’energia veniva emessa in modo discontinuo e discreto, ossia in quantità tra loro separate e distinte chiamate quanti. Ciò significava che i fenomeni naturali non procedevano in maniera uniforme e non erano tra loro in un rapporto di causa effetto costante e necessario, bensì probabilistico. La spiegazione probabilistica rovesciò il determinismo precedente, offrendo un’immagine della realtà molto più complessa. La teoria della relatività di Einstein approfondì tale complessità, dimostrando che le dimensioni di spazio e tempo erano profondamente connesse e la loro misurazione reale relativa, perché dipendeva dallo stato di moto dell’osservatore. Altri studi scientifici evidenziarono che la materia aveva un carattere molto più composito e multiforme di quanto la fisica classica avesse teorizzato. Partendo da questa convinzione, vennero compiute ricerche sulla radioattività per le quali furono fondamentali i contributi offerti dai fisici francesi, i coniugi Marie e Pierre Curie. Essi approfondendo le indagini del fisico Henri Becquerel sulla caratteristica propria dell’atomo di uranio di emettere energia, capirono che la stessa capacità, era insita in altri due materiali: il polonio e il radio. L’importanza delle applicazioni della radioattività, per la quale i coniugi vennero insigniti del premio Nobel per la fisica nel 1903, sarebbe stata sperimentata per la prima volta in campo medico durante la Prima guerra mondiale, quando la stessa Marie Curie avrebbe insegnato a dottori e infermieri ad individuare con i raggi X le pallottole nei corpi dei soldati feriti. Parlamento). Esso fu sostenuto dalle Trade Unions, si battevano per il miglioramento delle condizioni del proletariato britannico e diventarono i principali antagonisti dei conservatori. Le figure politiche di maggior rilievo del governo liberale furono quelle di Lord Herbert Asquith, che divenne primo ministro, e di David Lloyd George, ministro delle Finanze. Essi proposero riforme che sfidavano la visione dei conservatori: presentarono una legislazione fiscale che prevedeva di tassare in modo incisivo la proprietà terriera e affermarono il principio della progressività del pagamento delle imposte. In questo modo sia il costo delle riforme sociali, sia le spese militari necessarie per contrastare la crescente potenza tedesca, avrebbero dovuto pesare in misura meno gravosa sugli Stati sociali più poveri. Le misure proposte del governo sono respinte dalla Camera dei Lord che esercitò il diritto di veto entrando in opposizione con la Camera dei Comuni, e causando un grave conflitto istituzionale. Alla sua risoluzione contribuì il re Giorgio V che nel 1911 si adoperò per l’approvazione del Parliament Act, con il quale veniva stabilita la preminenza della Camera dei Comuni. Si trattava di una decisione di straordinaria importanza: la Camera dei Lord e non avrebbe più avuto la possibilità di esprimersi sulle leggi di bilancio, mentre sulle altre normative avrebbe potuto dare soltanto in voto “sospensivo”, che vincolava i Comuni a un nuovo esame del testo legislativo, ma che non ostacolava la sua approvazione. I liberali si trovarono ad affrontare l’irrisolta questione irlandese. Nel 1886 è stata presentata in Parlamento una proposta di Home Rule, attraverso cui si prospettava una forma di autogoverno per l’Irlanda, nel tentativo di accogliere le richieste autonomistiche. Tale situazione aveva incontrato la netta opposizione della Camera dei Lord, i con membri non intendevano rinunciare agli interessi inglesi sull’isola. Nel 1913 il governo presentò un nuovo progetto di legge che riprendeva le linee dell’Home Rule, innescando un opposizione su più fronti: da parte dei conservatori e dei nazionalisti rappresentati dalla Camera dei Lord, i quali consideravano un affronto all’impero britannico l’ipotesi di una separazione dell’Irlanda; da parte dei protestanti dell’Irlanda del Nord (l’Ulster), una minoranza di origine inglese socialmente privilegiata che non voleva separarsi dalla Corona britannica ed era disposto a ricorrere alla forza per scongiurare tale eventualità; da parte dell’ala più estrema dei nazionalisti cattolici irlandesi, i quali si è organizzati nel partito del Sinn Fein (“Noi da soli”) che voleva ottenere la piena autonomia. Nel 1914 il governo riuscì a far approvare la Home Rule alla Camera dei Comuni, ma lo scoppio della Prima guerra mondiale determinò la sospensione dell’applicazione della legge. LA FRANCIA A fine Ottocento, la Francia visse un momento interno travagliato, segnato da tensioni sociali e contrasti politici. Nella Terza repubblica si era acuito il conflitto che aveva attraversato la società francese: quella tra i repubblicani (in difesa dei valori laici e egualitari), e i monarchici (su posizioni autoritarie e nazionaliste). Questi ultimi erano appoggiati dall’opinione pubblica, in particolare quella vicina agli ambienti conservatori cattolici e militari, presso i quali era radicato anche un forte sentimento antisemita. In questo contesto, nel 1894, esplose l’affaire Dreyfus, destinato a sconvolgere la vita politica del paese. Il capitano di artiglieria Alfred Dreyfus era un ufficiale modello, dalla condotta pubblica e privata irreprensibile. In seguito al ritrovamento di un documento contenente informazioni sui piani di mobilitazione dei francesi, egli fu accusato di spionaggio. durante il processo a suo carico, il pubblico ministero dovete ammettere che in realtà mancavano prove schiaccianti che attestassero la sua responsabilità dell’accaduto; tuttavia, l’origine ebrea del capitano ostacolò la revisione del caso. La condanna di Dreyfus fu proclamata unanimemente dalla corte marziale il 5 gennaio 1895 quando il capitano fu degradato. Pochi mesi dopo la sua condanna, presero avvio nuove indagini, nelle quali emerse la responsabilità del maggiore Ferdinand Esterhazy, il quale risultava implicato: sembrava che avesse passato ai tedeschi le informazioni sull’esercito francese in cambio di un compenso. Egli venne assolto e questo fatto suscitò ampia risonanza contribuendo a dividere la Francia. Da un lato si schierarono gli antidreyfusardi (numerosi e autorevoli esponenti politici e intellettuali nazionalisti, monarchici e conservatori) che approfittarono della circostanza per attaccare gli ebrei, considerati come nemici in patria, e per denigrare la Terza repubblica, colpevole di essere un governo decadente, corrotto, troppo debole al suo interno e nei confronti delle istanze dei cittadini. Sul versante opposto si collocarono i dreyfusardi, che crearono una Lega per i diritti dell’uomo e del cittadino e che annoveravano nelle loro file la stampa democratica, lo schieramento politico dei “radicali”, i socialisti e molti importanti intellettuali, tra cui Émile Zola. Quest’ultimo prese posizione con una lettera pubblica, dal titolo J’accuse…!: un attacco contro gli apparati militari che Zola pagò personalmente nel 1898 con un processo e una condanna per l’informazione. L’intervento di Zola ha innescato la fase di maggior tensione dell’affaire Dreyfus: anche i dibattiti parlamentari si infiammarono e la Camera dei deputati finì per trasformarsi in una sorta di tribunale con continue arringhe a favore o contro l’ex capitano. Il caso Dreyfus giunse infine davanti alla Corte di cassazione che, dopo varie sentenze, nel 1906 riabilitò il capitano. La conclusione dell'affare Dreyfus determinò il successo dei radicali. Essi avevano assunto un ruolo centrale nella vita politica del paese, giungendo al governo di una coalizione di sinistra nel 1899. I radicali promossero l’insegnamento elementare laico e fecero varare una legge contro le congregazioni religiose, che fino ad allora avevano esercitato il proprio controllo sull’istruzione. Ottennero così un forte sostegno da parte dei maestri di scuola che conquistarono l’appoggio dei contadini, allontanandoli dal clericalismo a cui in gran parte aderivano. Confermati al governo dalle elezioni del 1902<, i radicali procedettero sulla strada del laicismo, arrivando la rottura dei rapporti con la Santa Sede e all’abolizione del Concordato napoleonico che aveva assicurato fino ad allora la Chiesa cattolica un ruolo centrale nel contesto politico, sociale e culturale francese. La politica anticlericale e la difesa delle istituzioni repubblicane consentirono alla sinistra francese di mantenersi compatta, garantendo al governo il sostegno di parte delle forze politiche socialiste, come quelle confluite nel partito di Jean Jaurès. Quest’ultimo riteneva essenziale l’unificazione delle numerose correnti e formazioni politiche di sinistra e si impegnò in tale direzione contribuendo alla nascita nel 1905 della Sezione francese dell’Internazionale operaia (SFIO). I radicali risultavano nuovamente vincitori nelle elezioni e sarebbero rimasti al potere fino al 1940. Il loro leader Georges Clemenceau, si impegnò per promuovere una legislazione sociale la quale comportava provvedimenti come l’introduzione della delle pensioni per la vecchiaia, assistenza dei lavoratori in caso di malattia, riduzione dell’orario di lavoro. Tuttavia, la riforma francese non fu associata a una redistribuzione del peso fiscale, motivo per cui la conflittualità tra le classi rimase accesa: molti operai aderirono al sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel che si fece promotore di numerosi scioperi. Clemenceau, di fronte a tali manifestazioni, preferì scegliere una linea di opposizione al sindacato e accreditarsi quale difensore dell’ordine pubblico, reprimendo le contestazioni senza però riuscire ad attenuare le tensioni sociali. In questo contesto problematico, riuscirono a riconquistare un ruolo significativo le forze della destra conservatrice. La ripresa dei conservatori venne favorita da due fattori: lo scontento della piccola e media borghesia per i frequenti scioperi operai e il rafforzamento del sentimento nazionalista rivolto contro la Germania, fondato sull’aspirazione alla “rivincita” (revanche) dopo l’umiliazione subita nella Guerra franco-prussiana del 1870 e mai realmente sopita. L’Europa dell’autoritarismo: Germania, Austria, Russia L’IMPERO TEDESCO In Europa l’unico paese in grado di contrastare l’egemonia economica della Gran Bretagna era l’Impero tedesco, che presentava caratteri politici, sociali e culturali assai diversi da quelli inglesi e francesi. Unificato dal 1871, l’impero era diventato l’inizio del 900 la maggiore potenza dell’Europa continentale, grazie ai suoi 42 milioni di abitanti, allo sviluppo dell’organizzazione militare, dell’industria dell’università. Tuttavia, la modernizzazione tedesca non aveva condotto un’analoga trasformazione in senso liberale, pluralistico e democratico. Il regime tedesco era costituzionale ma non parlamentare: il cancelliere (capo del governo) rispondeva direttamente al sovrano, mentre il Parlamento aveva funzione prevalentemente consultiva. La Germania non garantiva ancora la pienezza dei diritti civili e politici a tutti i suoi cittadini: n’erano in parte esclusi i cattolici (negli Stati tedeschi meridionali); i socialisti (semi-clandestinità); gli ebrei e i polacchi (considerati cittadini di secondo rango). Le classi sociali dominanti erano l’aristocrazia e l’alta borghesia, che solitamente occupava anche i vertici della burocrazia ed era costituita dalle famiglie dei grandi industriali, fra le quali spiccavano in Krupp e i Thyssen, leader assoluti nel settore dell’acciaio. Questi soggetti avevano valori di riferimento di tipo militarista e nazionalista. Dal 1888 sedeva il trono tedesco il figlio di Federico III, Guglielmo II fautore di una bellicosa Weltpolitik. Egli sosteneva la necessità di un crescente impegno nell’espansione coloniale e di un rafforzamento militare, fattori che condussero il paese verso una competizione internazionale soprattutto con la Gran Bretagna. Quest’ultima entrò in allarme per il programma di ampliamento e ammodernamento della flotta militare tedesca inaugurata nel 1897 con il “piano Tirpitz” e per l’allargamento dell’influenza tedesca sulla Turchia con la quale il Kaiser aveva stabilito accordi economici. Mentre il cancelliere Bismarck aveva coltivato una visione della politica incentrata sull’equilibrio diplomatico e sul rafforzamento della burocrazia statale, il nuovo orientamento della politica tedesca nella cosiddetta età guglielmina fu caratterizzato da un atteggiamento aggressivo a livello internazionale e improntato all’autoritarismo; fatto che, oltre ad alimentare le tensioni con le potenze europee, deluse quanti all’interno della nazione speravano nell’avvio di un indirizzo liberale riformista. L’orientamento politico del Kaiser raccoglieva ampi consensi nella società tedesca, in cui le istanze nazionaliste si erano rafforzate, trovando espressione in diverse organizzazioni politiche, come la Lega pangermanica (fondava i suoi propositi di unificazione delle nazioni germaniche sul presupposto della superiorità della razza ariana) o la Lega navale (sosteneva la necessità del riarmo e del rafforzamento militare). Si erano molto diffuse anche grazie all’influenza esercitata da giornali e opuscoli propagandistici che andavano ad alimentare il mito di una “Grande Germania” il nome della quale bisognava combattere. L’IMPERO AUSTRO-UNGARICO Mentre l’impero tedesco consolidava la propria potenza, quello asburgico, sul cui trono sedeva dal 1848 l’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo, presentava l’inizio del novecento alcuni problemi strutturali. I più pressanti derivavano dalle rivendicazioni autonomistiche delle numerose minoranze etniche. Croati, serbi, rumeni, slovacchi e italiani presenti all’interno dell’impero volevano ottenere un adeguato riconoscimento, simile a quello dato gli ungheresi con il Compromesso del 1867 che aveva istituito la doppia corona austro-ungarica. A ciò si aggiungeva la debolezza economica dell’impero, dovuta al modesto sviluppo industriale, alle limitate capacità produttive, alle profonde sperequazioni nella distribuzione dei redditi e l’egemonia sociale esercitata dall’aristocrazia terriera che occupava i posti di rilievo della burocrazia e dell’esercito ed era contraria a qualsiasi riforma che concedesse forme di emancipazione politica, economica e sociale alle diverse nazionalità soggette all’impero. Tra i gruppi etnici politicamente più attivi dell’impero asburgico si segnalavano i boemi, fautori del cosiddetto “trialismo”: volevano ottenere uno status istituzionale politico pari a quello delle due nazionalità dominanti diventando il terzo polo dell’impero. Una componente etnica di rilievo era rappresentata da 2 milioni di ebrei, nei confronti dei quali si sviluppò un’intensa campagna antisemita: nacque il sionismo grazie all’intellettuale ebreo austriaco Theodor Herzl. La situazione più delicata era quella dei Balcani, in cui i popoli slavi, sottomessi dalla corona austroungarica e dall’impero ottomano erano animati da forti sentimenti indipendentisti. Tali istanze erano incoraggiate dalla Serbia a cui era stata riconosciuta l’indipendenza nel 1878 e ambiva a ricomprendere in un regno unitario gli slavi meridionali conquistando anche così uno sbocco sull’Adriatico. Al fianco della Serbia era schierata la Russia, tradizionale sostenitrice del panslavismo (movimento culturale che auspicava l’unione di tutti i popoli slavi), ma che in realtà era interessata a estendere il proprio dominio nelle regioni balcaniche. Alla questione delle rivendicazioni nazionaliste si dimostrò sensibile il Partito socialdemocratico austriaco. Nei suoi primi anni fu oggetto di restrizioni e persecuzioni da parte del governo centrale: con le elezioni del 1897, però, i primi deputati socialisti austriaci riuscirono ad accedere al parlamento di Vienna. Essi segnalarono il problema dei rapporti tra l’impero e le diverse etnie che lo costituivano e proposero la creazione di una struttura politica federale che avrebbe potuto dare il giusto spazio a tutte le nazionalità. La loro linea politica non riuscì a prevalere => le forze conservatrici mantennero il potere politico e sociale, sostenendo l’orientamento imperialista della corona asburgica che decretò l’annessione della Bosnia Erzegovina nel 1908 (regione già amministrata dall’impero ungarico fin dal 1878). Tale decisione contribuì ad acuire le tensioni con la Serbia e la Russia, contrarie all’annessione e di fatto determinò quella che si definisce “Crisi bosniaca”. L’IMPERO RUSSO In Russia le strategie per la modernizzazione negli ultimi decenni nel XIX secolo si erano dimostrate fallimentari. I tentativi di sviluppo industriale erano passati quasi esclusivamente attraverso l’iniziativa dello Stato, senza essere accompagnati dalla maturazione di un autentico spirito imprenditoriale nella società civile. Il paese continuava ad essere prevalentemente basato su un arretrata economia di tipo rurale. Le masse popolari vivono una condizione di estrema miseria: i contadini morivano di fame e gli operai ricevevano salari tali da garantire la mera sopravvivenza. Non vi erano spazi per la protesta sociale: erano proibite sia le organizzazioni sindacali sia gli scioperi => tutto il potere era sotto il controllo degli zar, della Chiesa ortodossa russa (influenza culturale e politica) e della grande aristocrazia terriera. Tali condizioni alimentavano un profondo malcontento nella popolazione, di cui erano interpretii due formazioni politiche: il Partito socialista rivoluzionario e il Partito operaio socialdemocratico russo. Il primo puntava sul sostegno delle classi rurali, mentre secondo mirava ad intercettare il sentimento di protesta che stava emergendo tra gli operai delle fabbriche. Sorto nel 1898 e sopravvissuto in condizioni di semiclandestinità, il Partito socialdemocratico si rifaceva ai principi della seconda Internazionale e all’ideologia marxista. Esso auspicava ad una modernizzazione del paese in senso capitalistico e all’avvio di una politica riformista, nella convinzione che soltanto il pieno sviluppo della fase liberali e la maturazione dei sistemi industriali avrebbe reso possibile il successivo rovesciamento rivoluzionario delle istituzioni borghesi a opera del proletariato. Questa linea politica era sostenuta da Georgij Plechanov (uno dei maggiori responsabili della diffusione delle idee marxiste in Russia e tra i fondatori del POSDR). All’interno di quest’ultima era emersa un’altra corrente di pensiero, guidata dall’intellettuale Vladimir Ul’janov, detto Lenin, il quale sosteneva che si potesse giungere subito la rivoluzione grazie all’azione del partito e dei suoi intellettuali, preparati culturalmente e sottoposti a una disciplina rigorosa, i quali avrebbero dovuto assumere un ruolo di guida e avanguardia della classe operaia (inutile attendere un’azione => il “triangolo industriale italiano”. Soprattutto al Nord anche l’agricoltura (base produttiva dell’economia italiana e impiegava la maggior parte dei lavoratori) intraprese un percorso di modernizzazione, grazie l’introduzione dei concimi chimici e importanti opere di bonifica dei terreni. All’inizio del processo di espansione industriale e di modernizzazione agricola sia gli operai sia gli addetti al settore agricolo si trovarono in una condizione difficoltosa: i primi erano costretti da bassissimi salari a vivere ai limiti della decenza, mentre i braccianti pativano condizioni di sfruttamento. Ne scaturì una grande ondata di scioperi che tra il 1901 al 1902 interessò tutti settori industriali e coinvolse anche il mondo contadino. Per la prima volta il governo li affrontò senza ricorrere alla repressione (grazie a Giolitti). Lo statista piemontese diede prova di un’apertura nei confronti del movimento operaio. Egli riteneva che la repressione governativa non solo non sarebbe stata efficace, ma avrebbe anche esacerbato la protesta, facendole assumere i caratteri rivoluzionari. Soltanto un miglioramento delle condizioni di vita delle classi più disagiate avrebbe risolto i conflitti e pacificato le parti sociali. Secondo Giolitti, le organizzazioni del movimento operaio dovevano essere viste come il risultato del progresso della moderna società di massa. Giolitti mise in pratica il suo pensiero impartendo ai prefetti la direttiva di garantire l’ordine pubblico, senza tuttavia soffocare con la forza. Così accadde durante gli scioperi del 1901-1902: il governo non soltanto non rispose con la forza, ma anzi in vari casi assicurò un miglioramento delle condizioni salariali. Inoltre Giolitti promosse una legge a tutela del lavoro minorile (vietato ai minori di 12 anni) e delle donne. Giolitti e le forze politiche del paese Nel 1903 Giolitti, con la nascita del suo primo governo novecentesco diede inizio a un lungo periodo della politica italiana che lo avrebbe visto protagonista quasi ininterrottamente fino al 1914. L’articolazione del quadro politico in cui si attuò la soluzione di governo rispecchiava la trasformazione di una società che stava diventando di massa: i socialisti e i cattolici conquistavano grandi consensi. Giolitti capii che era importante coinvolgere entrambe le formazioni nel governo del paese. GIOLITTI E I SINDACALISTI All’inizio del 900 il mondo socialista e operaio si trovava in una fase di fermento, di cui era sintomo lo sviluppo delle organizzazioni sindacali: le Camere del lavoro (associazioni operaie su base locale nate a fine Ottocento) crebbero in modo esponenziale. Dallo schieramento riformista venne poi promossa la fondazione della Confederazione generale del lavoro la quale riuniva e coordinava diverse associazioni sindacali precedentemente esistenti data l’impronta moderata di questa nuova organizzazione nazionale, la corrente estremista uscì dalla CGDL e diede vita all’Unione sindacale italiana (USI). Il Partito socialista, fu diviso da una profonda frattura tra moderati e massimalisti: la corrente riformista che aveva come guida Filippo Turati, convinto che fosse necessaria la collaborazione con altre forze politiche, aperte al progresso sociale, pur di consentire il consolidamento e l’affermazione delle istanze del movimento operaio; invece, lo schieramento dei socialisti rivoluzionari era risoluto nel mantenere una linea di rigida intransigenza di fronte a tutti i partiti borghesi e nell’elevare qualsiasi forma di compromesso con loro. Il presidente del consiglio fu attento alle trasformazioni nel paese e all’ascesa delle grandi organizzazioni del movimento operaio come il Partito socialista e i sindacati. Sebbene fosse osteggiato dell'ala rivoluzionaria del socialismo, Giolitti riuscì a dialogare con gli esponenti del socialismo moderato. Nel 1903 lo statista arrivò a proporre a Turati di entrare a far parte del suo primo governo, ricevendo un rifiuto motivato dal timore del leader socialista di produrre un insanabile lacerazione all’interno del suo partito, dominato dalla corrente rivoluzionaria. Per l’iniziativa di quest’ultima, nel 1904, veniva detto il primo sciopero generale della storia italiana come reazione all’uccisione di alcuni lavoratori durante uno scontro con le forze dell’ordine. In quell’occasione, la politica di Giolitti risultò vincente: evitando l’arma della repressione, la manifestazione proseguì senza degenerare in episodi di violenza e lo sciopero dopo alcuni giorni si esaurì spontaneamente. L’efficacia dell’operato dello statista liberale venne confermata nelle elezioni che si tennero nello stesso anno durante le quali egli poté contare per la prima volta sull’appoggio politico dei cattolici. L’ala moderata dei socialisti prevalse allora su quella rivoluzionaria, inaugurando una collaborazione con il governo. GIOLITTI E I CATTOLICI Nel corso dell’età giolittiana, anche i cattolici italiani iniziarono ad avere un ruolo politico sempre più importante, sebbene fossero divisi al loro interno dei diversi culti correnti. Da una parte vi era il cattolicesimo intransigente che prevaleva nell’Opera dei congressi (associazione nata nel 1874 con lo scopo di organizzare e coordinare le attività di assistenza, sostegno morale, spirituale di economico). Secondo tali correnti, la Chiesa avrebbe dovuto disinteressarsi delle questioni politiche del paese. Di idee del tutto differenti era il movimento democratico-cristiano fondato nel 1905 da Romolo Murri, che auspicava l’intervento della Chiesa a favore dei lavoratori e una maggiore democratizzazione delle istituzioni esistenti (esempi: introdusse il suffragio universale il decentramento amministrativo). In una posizione intermedia vi erano i cattolici moderati, di cui si faceva portavoce Filippo Meda che riteneva necessario che i cattolici si inserissero all’interno delle istituzioni dello Stato liberale al fine di riformarlo. Nel 1903 morì Leone XIII e gli succedette Pio X. Il nuovo Papa fece confluire il movimento democratico-cristiano all’interno dell’Opera dei congressi. Tuttavia, rendendosi conto che l’isolamento politico della Chiesa avrebbe favorito i socialisti, procedette alla sospensione del Non expedit, autorizzando candidature cattoliche moderate in appoggio ai liberali giolittiani in quei collegi dove vi fosse il rischio di una vittoria dell’estrema sinistra. Nel 1904 Pio X sciolse l’Opera dei congressi, dove la contrapposizione tra gli intransigenti democratico cristiani era diventata insanabili, e permise alla corrente clerico-moderata di presentarsi alle elezioni. Per la prima volta dopo l’Unità d’Italia, due deputati cattolici entrarono in Parlamento. L’alleanza tra Giolitti e la Chiesa avvenne sulla base della comune opposizione al socialismo rivoluzionario e fu confermata in occasione delle elezioni del 1909, che proclamarono alla Camera dei deputati 16 rappresentanti del cattolicesimo moderato. GIOLITTI E I NAZIONALISTI Erano anche in corso negli stessi anni profonde trasformazioni nello schieramento dei liberali. infatti, a fronte dell’ala progressista del liberismo italiano, rappresentata da Giolitti, stava emergendo una destra liberale di orientamento conservatore, contraria a ogni apertura nei confronti di socialisti e sindacati e incline a fare proprio ideali del nazionalismo; essa pretendeva dal governo un atteggiamento più aggressivo e militarista in politica estera e una linea dura contro gli scioperi sul piano interno. I nazionalisti davano voce all’insoddisfazione di parte della piccola e media borghesia italiana nei confronti dei governi liberali. Quest’ultimi erano accusati di essersi dimostrati deboli arrendevoli nei confronti dell’organizzazione degli operai e dei contadini, di perseguire una politica estera poco incisiva e di agire in base a logiche utilitaristiche. Inizialmente rappresentati da alcuni intellettuali, come Enrico Corradini, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini (raccolti intorno alla rivista “Il Regno”), i nazionalisti nel 1910 si organizzarono politicamente, dando vita all’Associazione nazionalista italiana che ottenne progressivamente un esito sempre più significativo. Il programma di tale movimento da un lato prevedeva la repressione della lotta operaia e contadina e dall’altro individuava una soluzione ai problemi della società italiana nell’espansionismo territoriale e nella conquista di colonie, viste sia come territori nei quali indirizzare il grande flusso dell’immigrazione sia come mercati da sfruttare da parte dell’industria italiana. Alla lotta di classe andava quindi sostituita la lotta tra le nazioni “proletarie” e le vecchie e corrotte nazioni “plutocratiche”. I nazionalisti criticavano Giolitti accusandolo di condurre un’azione politica vile. Luci e ombre del governo di Giolitti Giolitti tentò di accogliere le istanze dei socialisti riformisti e dei cattolici e anche le rivendicazioni provenienti dai nazionalisti. Ne scaturì una politica che risultò ambivalente, causata da una propensione più liberale nell’ambito della politica interna e più nazionalista in quello della politica estera: da un lato fece approvare importanti leggi a tutela dei lavoratori, per la diffusione dell’istruzione e per dare impulso all’economia; dall’altro la sua azione fu volta a trovare anche i consensi a destra pur di ottenere il risultato elettorale che gli consentisse ampi margini di manovra in Parlamento. L’impegno di Giolitti a favore della legislazione sociale proseguì negli anni successivi. Nell’ambito della normativa sul lavoro si affiancarono norme che regolamentavano il lavoro notturno e altre che prevedevano un congedo per le donne durante la gravidanza e l’istituzione di una Cassa maternità per offrire sussidi alle lavoratrici dopo il parto. Fu inoltre ampliata la legislazione contro gli infortuni e quella relativa alla tutela pensionistica in caso di invalidità e vecchiaia. Per garantire una corretta applicazione di queste leggi, nel 1912 venne fondato l’Ispettorato del lavoro (autorità che rese più efficace l’azione di sorveglianza sull’applicazione corretta delle leggi sul lavoro). Un altro settore della società a essere coinvolto dai progetti di riforma giolittiani fu quello dell’istruzione: con la legge Daneo-Credaro del 1911 l’obbligo scolastico venne esteso fino ai 12 anni e la spesa per istituire sul territorio nazionale le scuole elementari fu attribuita allo Stato. Giolitti predispose un articolato programma di statalizzazione di servizi di pubblica utilità, al fine di limitare gli interessi dei grandi gruppi finanziari e industriali. Il primo settore a essere statalizzato nel 1903 fu quello dei telefoni; seguì nel 1905 il progetto di nazionalizzazione delle ferrovie (erano contrari gli ambienti economici più rigidamente liberisti in quanto imponeva il controllo del potere politico in maniera economica). Per evitare un contrasto diretto Giolitti preferì dimettersi, ponendo fine al suo primo mandato di inizio secolo e lasciando per pochi mesi la guida del governo al liberale Alessandro Fortis che fu incaricato di portare a termine la riforma. Il proposito di ottenere una più equa distribuzione del carico fiscale attraverso l’introduzione di un’imposta progressiva sul reddito (tassazione proporzionale al reddito percepito) divenne irrealizzabile a causa dell’opposizione in parlamento dei conservatori, che determinò nel 1909 la caduta del secondo governo Giolitti. Meno travagliata fu la realizzazione del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita con la nascita dell’INA (Istituto nazionale delle assicurazioni) tramite il quale lo Stato si sarebbe fatto carico delle pensioni di invalidità e di vecchiaia dei lavoratori. Le riforme di Giolitti diedero impulso all’economia delle zone più avanzate del paese, tutte concentrate nel Nord. Il Sud Italia rimase invece escluso da questo processo di sviluppo. Oltre a scontare l’assenza di adeguati impianti industriali e di una classe imprenditoriale dinamica, l’agricoltura meridionale venne penalizzata dalla politica protezionistica che privò di sbocchi di mercato all’estero le culture pregiate della vite, dell’ulivo e degli alberi da frutto. La tendenza fu verso un aumento del numero dei braccianti e dei salariati a scapito di coloro che lavoravano la terra in proprio, poiché si stavano diffondendo le grandi aziende agricole che assumevano manodopera; l’agricoltura meridionale rimase quindi legata ai tradizionali sistemi di sfruttamento del terreno, che la condannarono ad una sostanziale stagnazione. La questione meridionale non solo era stata risolta, ma si era perfino aggravata in seguito allo sviluppo industriale del Nord. Le industrie erano quasi esclusivamente concentrate nelle regioni settentrionali, fatto che aveva accentuato il dislivello di ricchezza rispetto al Sud, rimasto agricolo e arretrato. Consapevole della situazione del meridione, Giolitti intervenne con una legislazione “speciale” a sostegno dell’economia locale che prevedeva la realizzazione di opere pubbliche, come strade e ferrovie, e l’istituzione di scuole tecniche e professionali. Nel 1904 fu varata la legge per il “Risorgimento economico” di Napoli al fine di incoraggiare la nascita di un polo di sviluppo industriale attraverso agevolazioni fiscali alle imprese che si fossero stabilite nella città e nel territorio circostante. Nonostante la nascita di realtà industriali significative (come lo stabilimento siderurgico Ilva e l’industria idroelettrica e per lo sfruttamento delle acque del fiume Volturno) gli esiti furono molto inferiori alle aspettative. Si trattava di iniziative che non furono in grado di incidere, se non in maniera superficiale, sulle cause strutturali dell’attrezzatura dell’economia meridionale, finendo per alimentare sprechi e corruzione da parte della classe dirigente locale che si trovò ad amministrare risorse importanti senza avere la formazione adeguata e una struttura economica statale a cui riferirsi concretamente. I contadini meridionali si trovarono abbandonati a se stessi e la loro miseria e non vedendo altre soluzioni, scelsero l’emigrazione. Anche la politica nei confronti delle agitazioni sociali ebbe modalità del tutto difformi tra Nord e Sud. Gli scioperi che ebbero luogo nelle regioni meridionali durante la svolta liberale furono considerati in modo diverso da quello delle regioni settentrionali e quasi sempre furono oggetto di repressione. Nel Sud lo Stato non si sentiva in grado di operare in nessun altro modo per garantire l’ordine pubblico. Il governo era di fatto debole rispetto ai grandi proprietari terrieri e alle forze conservatrici, che chiedevano di stroncare l’iniziativa popolare con una dura repressione perché si opponevano ad ogni riforma che potesse intaccare i loro interessi economici. La classe politica meridionale si dimostrava pronta a tutto pur di conservare le proprie isole di potere => era alla ricerca di favori da parte del governo, garantendo in cambio il proprio appoggio: clientelismo politico, sfruttato da Giolitti per consolidare le proprie maggioranze parlamentari, in una posizione ambigua tra il rafforzamento del suo potere politico attraverso l’appoggio dei grandi poteri economici e l’impegno riformatore nei confronti delle classi meno agiate e più sofferenti. Le elezioni politiche si svolgevano facendo ricorso alla corruzione: mentre al Nord l’opinione pubblica era ormai sostanzialmente autonoma e matura, al Sud, la politica si basava su scambi di favori. Non mancava il ricorso ai brogli e persino alla violenza e all’intimidazione attraverso le forze di polizia e i prefetti. A denunciare con forza le dannose conseguenze prodotte dal sistema politico giolittiano nel Sud del paese furono i meridionalisti (gruppo di intellettuali impegnato a studiare la questione meridionale e proponendo soluzioni per tentare di risolverla). Essi erano tutti d’accordo nel ritenere che Giolitti l’avesse ulteriormente aggravata: per la sua spregiudicatezza politica, Gaetano Salvemini arrivò a definirlo “ministro della malavita”, Napoleone Colajanni lo accusò di rallentare la formazione di una coscienza pubblica e Luigi Sturzo di sfruttare a proprio vantaggio l’arretratezza delle plebi, l’avidità della grande borghesia agraria, gli appetiti della piccola borghesia impiegatizia e l’assenza della lotta politica e di solide organizzazioni dei lavoratori.
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