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L’illuminismo e il secolo delle rivoluzioni, Slide di Storia

L’illuminismo che coincide con il ‘700, rappresenta il secolo delle rivoluzioni, ricco di numerose sfaccettature culturali.

Tipologia: Slide

2022/2023

Caricato il 26/05/2023

ruggieroleone
ruggieroleone 🇮🇹

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Scarica L’illuminismo e il secolo delle rivoluzioni e più Slide in PDF di Storia solo su Docsity! L'Illuminismo Ruggiero Antonio Leone 4^A Il secolo dei lumi Movimento filosofico, spirituale e politico, che improntò l’età della storia d’Europa compresa fra la conclusione delle guerre di religione del sec. 17° (o la rivoluzione inglese del 1688) e la rivoluzione francese del 1789, determinando una evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia, e insieme anche un rinnovamento nelle varie forme letterarie; è caratterizzato dall’affermazione del rigoroso uso della ragione e dell’autosufficienza del metodo empirico nella scienza, da una vivace polemica nei confronti delle autorità, dei valori e delle dottrine tradizionali, da una tendenza verso l’individualismo e da una fede entusiastica nell’universale e inarrestabile progresso dell’umanità. Con accezione più generica, ogni altro movimento culturale e politico (detto anche neo-illuminismo), in cui si ritiene di poter ravvisare alcuni degli aspetti caratteristici dell’illuminismo storicamente considerato. Ancien Régime Espressione che ricorre nella pubblicistica e nella letteratura politica fin dai primi anni della Rivoluzione francese, con riferimento al regime monarchico assoluto fino ad allora dominante in Francia. Nell’età della Restaurazione, quando questa vuol essere un ritorno puro e semplice all’ancien régime., sono appunto additati come suoi ‘uomini’ i rigidi conservatori, i reazionari, gli ultras (in speciale accezione, i codini), in quanto tali considerati avversari anche dal liberalismo della prima metà dell’Ottocento. La locuzione, passata nella storiografia a rappresentare sinteticamente il passato prerivoluzionario, ebbe la sua consacrazione nell’opera di A. Tocqueville, L’ancien régime et la révolution (1856). L'Encyclopédie Dalle premesse appena esposte derivano tutti i precetti e i temi adottati dagli illuministi. L’opera che funge da compendio e quasi da manifesto, secondo alcuni studiosi, dell’Illuminismo è l’Enciclopedia. Il titolo originale di questa grande opera è Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers; il testo è in francese e stampato in Francia in diciassette volumi pubblicati fra il 1751 e il 1772 sotto la direzione di due fra i più grandi illuministi del secolo: Denis Diderot e Jean-Baptiste D’Alembert. L’opera sarà tradotta in tutta Europa diventando il modello di ogni altro tipo di enciclopedia successiva e in questo testo gli illuministi vollero indicare, in ogni voce presente, il risultato delle nuove interpretazioni date ad ogni ambito del sapere secondo l’osservazione diretta e la critica ragionata della realtà e della cultura. Come anticipato, queste idee si diffondono in ogni ambito del sapere ma quello che ci interessa in questa sede è capire come l’Illuminismo abbia influenzato le arti. Donne dell'Illuminismo Maria Teresa d'Austria è stata la prima donna della casata degli Asburgo ad occupare il trono in qualità di Imperatrice. Il suo destino inizialmente era quello di rimanere solo una pedina nello scacchiere delle alleanze attraverso matrimoni combinati ma il padre Carlo VI muore improvvisamente e in funziona della Prammatica Sanzione del 1713 Maria Teresa eredita il trono. Una donna a capo di un impero mette l'Europa è in subbuglio; alcuni stati ne approfittano per estendere i propri domini a danno dell'Austria e da questo nascerà una contesa che durerà 8 anni. La sovrana avrà però la meglio ed il riconoscimento del proprio ruolo da parte delle altre monarchie europee. Maria Teresa d'Austria sarà una sovrana accorta e illuminata che porterà avanti numerose e importanti riforme: introduce l'istruzione obbligatoria e gratuita per i bambini tra i 6 e i 12 anni sottraendola al monopolio ecclesiastico; riforma il sistema burocratico e amministrativo dello Stato; introduce la tassazione per tutti; riforma del catasto; riorganizzazione dei servizi amministrativi; anche Caterina la Grande di Russia è considerata una sovrana che respirò le idee dell'Illuminismo e che realizzò all'interno del suo impero una serie di importanti riforme: secondo i principi di Montesquieu e Beccaria abolì la tortura e la pena di morte; portò avanti riforme nel sistema educativo e sanitario; istituì la compagnia del balletto e dell'opera imperiale; era una appassionata d'arte, di filosofia e matematica e intrattenne corrispondenza e scambi di idee con gli intellettuali francesi dell'epoca; purtroppo rimase molto turbata dalla rivoluzione francese i cui esiti intiepidirono il suo fervore riformatore. Deismo Orientamento di pensiero che riconosce l’esistenza di un Dio come prima causa, creatore e ordinatore del mondo: questa concezione costituisce, insieme all’immortalità dell’anima, il nucleo della religione naturale. Storicamente il deismo assume, lungo il 17° secolo e soprattutto nel 18°, un significato polemico contro le religioni storiche, le chiese, contro l’idea di rivelazione o di mistero, in nome della ragione e della libertà di coscienza. Iniziatore del deismo è considerato E. Herbert of Cherbury, che fa dipendere da un istinto insito in tutti gli uomini la fede nel monoteismo. Particolarmente vivaci furono le correnti deistiche in Inghilterra: da ricordare la polemica di Ch. Blount contro i miracoli e il sacerdozio; la difesa da parte di J. Toland di un cristianesimo senza misteri; l’affermazione da parte di A. Collins del libero esame negli argomenti religiosi; l’indicazione da parte di M. Tindal della coincidenza tra cristianesimo e religione naturale, l’interpretazione allegorica dei miracoli da parte di T. Woolston. Le idee deistiche influenzarono nel 18° sec. anche pensatori del continente, come lo stesso Voltaire e anche D. Diderot. Rappresentanti del deismo in Germania furono H.S. Reimarus, M. Mendelssohn e G.E. Lessing. Il Mito del Buon Selvaggio e le teorie sulla pedagogia La civiltà umana è vista come il risultato di un processo evolutivo in crescita: si parte dal basso, dalle società più semplici e ignoranti, vittime dei pregiudizi religiosi, fino ad arrivare alla società moderna. Questo fa credere ai pensatori settecenteschi che la Storia non può che progredire e migliorare superando i difetti e i limiti del mondo contemporaneo per arrivare ad un futuro ottimale. In questo periodo, attraverso l’imperialismo degli stati europei, gli eruditi hanno avuto modo di entrare in contatto con le società indigene e di conoscere quelli che vengono chiamati i “selvaggi”. Le due idee insieme, quella della civiltà come un progresso, e quella del selvaggio in contatto con la natura incontaminata prima dell’arrivo della società occidentale, permettono agli illuministi di sviluppare due temi: il mito del buon selvaggio, appunto, esposto da Denis Diderot, e le teorie sulla pedagogia espresse da Jean-Jacques Rousseau in una delle sue opere più note, Émile ou De l'éducation. Entrambe le posizioni ruotano intorno all’idea che osservando l’uomo in contatto con la natura primigenia sia possibile superare i difetti della società contemporanea, che viene criticata dagli illuministi che vogliono appunto migliorarla, per progredire verso una civiltà migliore. La storia come prodotto dell'uomo La Storia, come ogni altro campo del sapere, viene indagata alla luce di un metodo scientifico, in questo ambito la più importante innovazione viene dall’italiano Giambattista Vico. Secondo quest’ultimo, nel suo capolavoro composto nel 1725 con il titolo Principi di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, l’unico campo del sapere che può essere veramente indagato razionalmente è appunto la storia, perché è un prodotto dell’uomo, una sua creazione, e solo ciò che viene fatto dall’uomo può essere conosciuto dall’uomo. La storia può essere quindi indagata attraverso la filosofia (che studia il vero) e la filologia (che permette di scoprire basandosi su testimonianze concrete, il certo). Lo spirito delle leggi: la divisione dei poteri secondo Montesquieu Lo spirito delle leggi non è un trattato di giurisprudenza, non descrive le singole e diverse leggi che possono regolare la vita pubblica degli stati. Piuttosto, è un trattato politico- giuridico. L’ambizioso obiettivo di Montesquieu è descrivere i rapporti necessari che intercorrono fra i regimi politico-istituzionali e i sistemi giuridici, fra governo e diritto. Montesquieu definisce le leggi come «i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose». Le leggi, anzitutto, sono naturali, sono date e non istituite dal diritto. Perciò «la legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra». La legge generale si declina poi in modo diverso nei singoli sistemi politico-giuridici. Il diritto non è un elemento isolato della vita sociale. Le sue caratteristiche particolari dipendono da una serie di fattori, che variano a seconda dei luoghi e dei tempi: il clima e le caratteristiche geografiche dei paesi, le usanze e le attività produttive più diffuse, i sistemi di governo, le altre leggi, i commerci, la religione. Nell’opera, Montesquieu si occupa di ciascuno di questi rapporti. Montesquieu prende in considerazione tre diversi modelli di governo, per discuterne le differenze e descrivere in che modo si rapportino alle leggi: le repubbliche, democratiche o aristocratiche; le monarchie, in cui il sovrano governa attraverso le leggi; e il dispotismo, il governo arbitrario e sregolato di un singolo. A differenza di Aristotele e Machiavelli, Montesquieu considera il dispotismo non come una sottospecie della monarchia, ma come una forma di governo a sé stante. Ciascuna forma di governo ha una natura, ciò che la contraddistingue rispetto alle altre, e un principio, o «molla» del governo. L’influenza dell’opera Sviluppando alcune tesi di Locke (1632-1704) e prendendo a modello l’ordinamento britannico, che conosceva bene grazie al suo soggiorno londinese, Montesquieu teorizza la dottrina dei tre poteri, caposaldo del costituzionalismo. In ogni stato, scrive, ci sono tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. Perché sia garantita la libertà dei cittadini i tre poteri devono essere separati, detenuti da soggetti diversi e devono limitarsi a vicenda. La libertà politica, secondo Montesquieu, «non consiste affatto nel fare ciò che si vuole», bensì «è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono». Lo spirito delle leggi ebbe un immediato e ampio successo. Hume, per esempio, scrisse a Montesquieu che con la sua opera «s’è guadagnato la più alta considerazione di tutte le nazioni e otterrà l’ammirazione di tutti i secoli». Montesquieu si attirò, però, anche critiche e accuse. Soprattutto da parte di alcuni gesuiti e di un giornale giansenista che lo accusò di essere spinoziano, cioè ateo, e di avversare il cristianesimo. Montesquieu rispose alle critiche in un breve scritto pubblicato nel 1750, Difesa dello Spirito delle leggi. Lo spirito delle leggi ha avuto enorme successo e risonanza. Nel Commento sullo “Spirito delle leggi” (1777), Voltaire rende omaggio a Montesquieu pur muovendogli diverse critiche. L’opera è stata un punto di riferimento per Kant (1724-1804) e poi per Hegel (1770-1831). Anche Beccaria (1738-1794) riconobbe il proprio debito nei confronti di Montesquieu, la cui opera ha influenzato anche il moderno costituzionalismo americano. Nell’Ottocento, l’esigenza di estendere il metodo sperimentale allo studio della società riporta Lo spirito delle leggi al centro dell’indagine di quella “scuola sociologica” che con Auguste Comte (1798-1857) e con Emile Durkheim (1858-1917) ritrova in Montesquieu un “precursore” delle scienze sociali. Nel Novecento, Raymond Aron (1905-1983), in Le tappe del pensiero sociologico, scriverà che Montesquieu, per la sua volontà di «conoscere scientificamente la realtà sociale in quanto tale», più che un precursore, è a tutti gli effetti uno dei teorici della sociologia. La condizione imperfetta dell’uomo Secondo Voltaire l’uomo apprende e conosce solo ciò che percepisce attraverso i propri sensi. Le nostre idee sono dunque il frutto di una combinazione e unione di ciò che “sentiamo”; non esistono idee innate (cioè presenti sin dalla nascita). Voltaire invita ad accettare serenamente l’imperfetta condizione dell’uomo (che è legato alle cose del mondo, non può conoscere tutto e gode di una libertà limitata in quanto non potrà mai governare e controllare completamente i propri desideri), le sue fragilità e i suoi errori. Tuttavia, nonostante Voltaire neghi l’esistenza di valori innati universali (come l’idea di giustizia o di bene) prova a rintracciare una legge morale valida per tutti gli uomini. Il filosofo arrivò a sostenere che: «La virtù o il vizio, il bene e il male morale sono in ogni paese quel che è utile o nocivo alla società». Dunque il bene o il male non derivavano da presunti canoni validi di per sé, ma erano sempre il risultato dell’azione concreta dell’uomo in rapporto alla società in cui vive. Il filosofo si oppose aspramente anche alla concezione di una superiorità dell’uomo sulla natura e su tutti gli altri esseri viventi. L’animale, secondo Voltaire, non poteva essere considerato una «macchina priva di coscienza e sentimento» e condannò ferocemente la vivisezione o qualsiasi altro genere di tortura fisica, dimostrando simpatie per il vegetarismo. Lo spirito di una nazione Nella grandissima produzione letteraria di Voltaire un posto degno di nota è rivestito dalle opere di carattere storico che segnano un punto di svolta e un nuovo approccio nell’ambito della storiografia. Il filosofo considera infatti inutili e irrilevanti gli aneddoti legati alle biografie dei regnanti, alla cronologia di avvenimenti o ai dettagli delle guerre, preferendo invece concentrarsi sullo «spirito di una nazione, lo spirito del tempo». Con ciò Voltaire intendeva che i fattori davvero importanti nella descrizione di uno Stato risiedono nell’analisi delle sue strutture istituzionali, nei suoi rapporti con l’estero, nelle sue espressioni artistiche, letterarie, religiose. La storia aveva dunque il compito di svelare e superare tutto ciò che c’era di superstizioso, irrazionale nella storia dei popoli in quanto trovava «cerimonie, fatti, monumenti, stabiliti per convalidare menzogne». La missione di Voltaire era quella di evidenziare i progressi dell’uomo che, tramite la sua ragione, superava i pregiudizi, i miti e le false credenze che lo avevano accompagnato e percorreva il suo cammino verso la fondazione di una società più giusta. Difesa del principio di tolleranza Tutta la polemica di Voltaire contro le ingiustizie sociali, la superstizione, il fanatismo è esemplificata nella sua difesa del principio della tolleranza. Nella sua opera più importante, il Trattato sulla tolleranza, infatti, il filosofo parte da un fatto di cronaca (un processo concluso con la condanna a morte di un protestante di Tolosa) per denunciare globalmente le conseguenze dell’intolleranza, ed in particolare si scaglia contro il cristianesimo. «I cristiani sono i più intolleranti degli uomini», o «la nostra è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo» scrive. Ma la sua requisitoria di Voltaire è diretta contro tutte le religioni storiche che hanno tradito il loro comune nucleo razionale, fatto di alcuni principi semplici e universalmente condivisi e, attraverso l’istituzione di dogmi e riti particolari, si sono macchiate di ogni tipo di crimine (dalle guerre alle persecuzioni). Abbandonare dunque il dogmatismo e abbracciare una religione spogliata dei suoi tratti esteriori e deleteri perché: «il deista non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte… egli parla una lingua che tutti i popoli intendono… egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto: obbedire a Dio è la sua dottrina». L’uomo deve accettare la diversità, i diversi punti di vista, in quanto, secondo Voltaire, essere tolleranti significa accettare le comuni fragilità: «Siamo tutti impastati di debolezze e errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura… Chiunque perseguiti un altro suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro». La tolleranza deve animare qualunque tipo di potere politico e Voltaire si scaglia, quindi, anche contro l’uso della tortura e della pena di morte. Allo stesso modo attacca l’uso della religione per giustificare le guerre e rigetta il nazionalismo in nome di una fede cosmopolita. Tematiche e contenuti del Contratto La volontà generale Rousseau, nella sua costruzione di una società ideale, fondata su un patto politico tra gli individui, riconduce ogni diritto politico a un solo principio: quello della volontà generale. Il concetto di volontà generale viene utilizzato da Rousseau per risolvere la contraddizione insita nella società politica tra il soggetto pubblico fautore delle decisioni, ovvero il sovrano, e gli altri membri della società, che delegano a lui, in quanto garante della libertà, i propri diritti. La volontà generale è per Rousseau la volontà dei cittadini costituitisi come corpo comune, all’interno del contratto di associazione; la volontà generale è quindi una forma di decisione collettiva legislativa - ben distinta da una semplice somma di volontà individuali - che deve avere cura delle problematiche generali con il fine ultimo e supremo del bene pubblico. Per Rousseau le leggi devono essere deliberate da tutto il popolo: infatti le decisioni legislative non devono obbligare i cittadini coercitivamente, ma tutti loro devono solamente obbedire esclusivamente a se stessi, e dipendere solo dal corpo politico. Attraverso il concetto di volontà generale, Rousseau separa l’obbligo dalla dipendenza, in quanto l’obbligo finisce per corrispondere all’interesse individuale. Essere soggetti alle leggi è quindi sintomo di libertà, perché il cittadino non obbedisce ad altro che alla sua volontà particolare. La sovranità popolare L’esercizio della volontà generale viene espresso dalla sovranità, che si esprime mediante la promulgazione di leggi. La sovranità per Rousseau è popolare così che - a differenza ancora una volta di Locke ed anche di Montesquieu - siano da rifiutare quei sistemi di governo basati sulla rappresentanza e la delega, poiché la rinuncia alla sovranità implica conseguentemente l'abbandonare la propria qualità di uomo. Se la sovranità è indivisibile allora non è possibile alcuna divisione di poteri (come già teorizzato da Hobbes), se non per quanto riguarda il potere esecutivo. L’unico caso ammesso di rappresentanza è quello dedicato ad emanazioni od atti particolari. Il governo Il governo invece nella costruzione contrattuale di Rousseau non ha poteri legislativi ma è soltanto un corpo intermedio tra suddito e sovrano e ha poteri esecutivi. In base a chi partecipa al governo Rousseau identifica tre forme di governo possibili: democrazia, aristocrazia e monarchia. Nella democrazia la maggior parte del popolo esercita il governo e, pur essendo la forma migliore, è poco praticabile, confondendo attività legislativa e funzione esecutiva; la monarchia, che non ha affatto a cuore l’utile e il bene pubblico ma la soddisfazione degli interessi del sovrano, è condannata senza appello da Rousseau (che su questo punto è decisamente contrario alle ipotesi di assolutismo illuminato, sostenute in certe contingenze da Voltaire e dai philosophes). Così, la forma di governo migliore è quindi quella della aristocrazia elettiva, in cui pochi governanti sono eletti dal resto dei cittadini; in tal modo “i più saggi governano la moltitudine, quando si sia sicuri che la governeranno per suo e non per loro profitto; non bisogna moltiplicare inutilmente le sfere di competenza, né fare con ventimila uomini ciò che cento uomini scelti possono fare anche meglio”. Con “stato di natura” Rousseau intende quello stato ancestrale dell’umanità, che forse mai è stato esistito e che sicuramente non è più recuperabile da parte dell’uomo moderno, in cui l’uomo, prima del progresso e della civilizzazione, vive come un animale in mezzo ad altri animali, senza vita di relazione o condizionamenti di tipo morale. La definizione di “stato di natura” serve a Rousseau per muovere una critica alla corrente del giusnaturalismo. Per Rousseau, l’uomo moderno, frutto delle grandi conquiste e delle grandi ferite del progresso scientifico e culturale, è un “uomo scisso”, che ha risorse e potenzialità enormemente più sviluppate dell’uomo di natura, ma che al tempo stesso è vittima di violenze e soprusi contro la propria libertà. Il Contratto sociale si apre con una frase emblematica: “L’uomo è nato libero e ovunque si trova in catene”. L’amor di sé è da intendere come un sentimento naturale e positivo, che mira alla conservazione della vita, in opposizione all’amor proprio, sentimento negativo che nasce invece dal conflitto con l’altro e dall’impulso alla comparazione con gli altri. Le teorie economiche: il sistema fisiocratico Come è noto, nel XVIII secolo il dibattito sul liberalismo e sul suo sviluppo in ambito economico – il liberismo – trovò espressione in due diverse posizioni, per molti versi riconducibili alle specificità delle due nazioni nelle quali fiorì tale dibattito: se nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale esso si incarnò nella posizione dell’economia politica classica (il cui principale esponente è Adam Smith), in Francia – ove l’agricoltura aveva ancora un ruolo predominante – esso fu portato avanti dai cosiddetti «fisiocrati», il cui programma è ottimamente compendiato nel nome: «fisiocrazia» è infatti un composto che significa, letteralmente, «forza della natura» (dal greco fùsis e kràtos). Questi autori (tra i quali ricordiamo F. Quesnay, P. Mercier de la Rivière, P. Dupont de Nemours, Turgot e Condorcet) erano fermamente convinti che i processi socio-economici quali la produzione, la circolazione e la distribuzione delle merci fossero ritmati dall’ordine della natura, un ordine che non di rado essi assimilavano al ciclo della produzione e della circolazione del sangue nel corpo umano. Il punto cardinale della teoria fisiocratica è la teoria del «prodotto netto», secondo la quale è soltanto dalle attività economiche naturali, vale a dire legate alla terra, che scaturisce il prodotto netto (determinato dalla differenza tra il prodotto lordo e i costi di produzione): l’inaggirabile conseguenza è che soltanto le attività naturali sono effettivamente produttive e dunque degne di essere praticate. In questa infinita e, per molti versi, ingenua fiducia nella natura, con il conseguente auspicio di un ritorno ad essa, non è certo difficile scorgere la lezione di un philosophe di prim’ordine, Jean-Jacques Rousseau. Il marcato orientamento liberista dei fisiocrati ben affiora nella misura in cui essi si dichiarano contrari a ogni interferenza (dello Stato e, in generale, delle leggi) finalizzata a correggere l’ordine della natura: tale avversione al tentativo di controllare e orientare i processi naturali trova espressione nel famoso motto fisiocratico «laissez faire, laissez passer», col quale i nostri autori intendevano mettere in luce come, anche di fronte alle crisi più gravi, la soluzione migliore consistesse nel lasciare che la natura stessa seguisse il suo corso regolare. Poste queste premesse, non è difficile capire perché la fisiocrazia abbia insistito tanto sulla necessità di lasciare ai privati piena libertà per quel che concerne la proprietà, il lavoro e il commercio. Il progetto fisiocratico trovò una sua concreta applicazione grazie a Turgot, il quale operò alla corte di Luigi XVI: di fronte all’imperversare delle grandi carestie, Turgot optò coerentemente per il non-intervento statale, sperando che fosse l’ordine naturale stesso a provvedere: ma la sua fu una vana speranza che, da un lato, costò il licenziamento a Turgot e, dall’altro, rivelò la problematicità e lo scacco della teoria fisiocratica.
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