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L'importanza dell'entertainment nella società moderna, Sintesi del corso di Storia Dei Media

Il ruolo dell'entertainment nella società moderna, evidenziando come sia spesso sottovalutato nonostante la sua presenza diffusa in molti campi dell'economia, della politica e della comunicazione. L'entertainment è visto come qualcosa di emotivo e contrapposto alla razionalità, ma in realtà è molto più connesso al lavoro, all'economia e alla politica di quanto si possa pensare superficialmente. Il documento esplora i rapporti tra entertainment e mercato, entertainment e politica, e l'integrazione tra ambiti sociali che prima avevano dimensioni e traiettorie separate.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 10/02/2023

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Scarica L'importanza dell'entertainment nella società moderna e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dei Media solo su Docsity! Entertainment 1. Una parola poco amata Entertainment, scansafatiche e bamboccioni «Entertainment» è la parola che oggi comunemente usiamo per definire l’intrattenimento nei suoi spettacoli, riti e mode culturali e anche nella sua dimensione industriale e produttiva. Cose che non godono di buona reputazione. L’entertainment è ritenuto un parente stretto dell’ozio, e quindi appannaggio di scansafatiche, fannulloni bamboccioni: categorie considerate dissipatrici di tempo e denaro. L’entertainment è visto come qualcosa di emotivo, contrapposto alla razionalità. Inoltre, l’entertainment non è sempre sufficientemente lontano dal sesso, e dunque moralmente discutibile o pericoloso. Quanto alla cultura, l’entertainment è considerato il suo contrario, o piuttosto ne rappresenterebbe una forma «bassa», commerciale, non rispettosa delle tradizioni, povera di senso culturale, traditrice della storia. Le idee che ho enunciato qui sopra sono largamente diffuse, e quindi non ci si può stupire se anche negli studi scientifici l’entertainment è un soggetto sottovalutato, rispetto al ruolo che si è conquistato nella vita moderna: fa capolino in molti campi dell’economia, dai media studies, dalla sociologia, è essenziale per la pubblicità e per il marketing, ma difficilmente viene tematizzato e trattato come tale. In realtà, l’entertainment è molto più connesso al lavoro, all’economia, alla politica di quanto superficialmente potrebbe apparire. Alcune buone ragioni per parlare di entertainment Nella seconda metà del ‘900 l’entertainment non soltanto è divenuto una forma di consumo di beni e servizi rilevante nella società occidentali, ma ha messo in comune i suoi valori di leggerezza e piacevolezza con altri ambiti della vita sociale modificando sensibilmente la loro configurazione. Con il tramite della pubblicità, esso ha permeato di questi suoi valori il mercato e le merci in quanto tali: quelle legato all’entertainment e anche le merci tour court. Ciò non avviene solo nella comunicazione, ma anche nella stessa funzione delle merci. Gli oggetti sono marcatori di un’esperienza personale e di una condizione sociale, più che oggetti d’uso, inseriti all’origine in una narrazione (i marchi, la confezione, la pubblicità, il mondo emotivo legato al brand) e disponibili ad essere integrati nelle auto-rappresentazioni dei clienti che li comprano, o semplicemente li desiderano. Sempre nello stesso periodo, la comunicazione politica si avvicina sempre più alle movenze, e spesso ai contenuti, della comunicazione pubblicitaria e alla loro trasmissione al grande pubblico attraverso i media, che permettono un’estensione e una simultaneità dei messaggi altrimenti sconosciute. Ciò è avvenuto prima nei paesi contraddistinti da una fitta presenza dei media e della debolezza dei partiti politici comunque lontani dalle ideologie solidaristiche e mobilitanti dell’Europa. Gradualmente queste tendenze si sono estese al vecchio continente. Il messaggio politico è stato sempre più intrecciato con l’entertainment, in particolare quando la personalizzazione della politica ha fatto emergere nuove figure di leader, caratterizzate per i loro tratti umani piuttosto che per le loro capacità politiche e i programmi, e per un ricorso sempre più urgente alle immagini. Le stesse decisioni politiche hanno risentito dell’ambiente prevalentemente di entertainment e sono state costruite con un proprio storytelling, una narrativa raccontabile da altri e comprensibile da tutti, con un lieto fine promesso anche se non sempre mantenuto. Tra politica e media I rapporti tra entertainment e mercato e tra entertainment e politica si sono, dunque, infittiti nel tempo. L’area in cui questi rapporti si sono stabiliti è quella dei media audiovisivi. È l’audiovisivo ad assicurare la messa in scena (anche in senso letterale) dei modelli culturali a favore del grande pubblico, nell’ambito di un complessivo prevalere delle immagini sui testi alfabetici che caratterizza la seconda metà del XX sec. i media audiovisivi hanno consentito la circolazione di questi valori all’interno delle società occidentali e anche delle altre. Sono le narrative a trasformare in esperienza ciò che si è vissuto: per raccontarlo ad altri, ma prima di tutto per raccontarlo a se stessi, permettendoci di tematizzarlo nella nostra mente e tra le nostre emozioni. Nell’era della comunicazione per immagini, esiste ormai una grande varietà di narrazioni audiovisive proposte sugli schermi, disseminati ovunque. La scelta dello spettatore appare rivolta a generi, contenuti e cicli narrativi orientati all’entertainment, rifiutando o confinando in una nicchia di consumo saltuario quelli nei quali è troppo marcato un intento pedagogico o persuasivo. Paradossalmente, le comunicazioni esclusivamente persuasive (la pubblicità) sono quelle meglio ammantate di (o nascoste in) un variopinto velo di leggerezza. La risposta dello spettatore  determinante per il successo di un’opera e la sua stessa sopravvivenza in un ambiente di darwiniana spietatezza. Per questo, gran parte della produzione mediale si curva verso l’entertainment sia per avvicinare i potenziali utilizzatori, sia per entrare in contatto con altri media che potrebbero moltiplicare l’attenzione attorno a quel prodotto o convocare un particolare pubblico di appassionati. L’esistenza di una «fascia alta» che rifiuta con sdegno la contaminazione con l’entertainment ne è la conferma. La finestra temporale in cui un prodotto ha possibilità di dimostrare le proprie qualità è molto ristretta: tv = ore. I prevedibili minori introiti pubblicitari li sopravanzano così tanto che non si esita a buttare la scenografia e a liquidare autori e conduttori, per sostituire il programma con qualunque altra cosa. Per abbattere il rischio del fallimento  l’imitazione di prodotti di successo, pudicamente definita benchmarking. Acquistare e adattare prodotti già sperimentati altrove. Il successo internazionale dei format è questo: si comprano idee di programmi, collaudate in altri paesi, opportunamente adattate (domestication). La piacevolezza necessaria e l’abbattimento del rischio d’insuccesso richiedono una circolazione internazionale dei contenuti, che tenga conto dei valori prevalenti in tutti i mercati nei quali si pensa di collocare il prodotto. Un’operazione che troppo spesso produce un effetto di omologazione e di semplificazione, soprattutto se si tratta di una circolazione a senso unico, dai paesi forti e dalle agenzie internazionali verso quelli più deboli. Oltre i media: on air, on site All’insegna dell’entertainment si è gradualmente realizzata una piena integrazione tra ambiti sociali che prima avevano dimensioni e traiettorie diverse e più limitate. I media si avvalgono quasi esclusivamente di collegamenti immateriali e simultanei, ma gradualmente hanno richiesto forti iniezioni di materialità. Si sono creati crescenti collegamenti tra i media della riproducibilità tecnica simultanea ed eventi come concerti rock, assemblee politiche roventi; nei casting la preparazione dello spettacolo diventa spettacolo essa stessa. Lo sport, la moda, la ristorazione il turismo, dopo il mercato e la politica, sono entrati progressivamente in un sistema a vasi comunicanti con i media audiovisivi, generando eventi on site, live, che rimbalzano nei media ricevendo in cambio notorietà e notiziabilità. elettronica; il possesso di un nuovo bene si allontana dall’esborso del controvalore, confinato nell’estratto conto mensile di una carta di credito. Il click di conferma dell’acquisto è psicologicamente facilitato dal ritardo con cui sarà nota la contabilizzazione della nostra spesa: solo allora ce ne assumeremo una piena responsabilità. Si può affermare, dunque, che con Internet l’entertainment si è annesso nuove funzioni e mondi vitali da cementare in un medesimo, solido e cangiante amalgama. Questo libro Nel ‘900 si è costituita un’area di produzione e diffusione di contenuti, prevalentemente audiovisivi, che ha stretto un’alleanza con la cultura del consumo attraverso la pubblicità. I linguaggi popolari che ne sono scaturiti non potevano non coinvolgere la politica. Si è parlato per questo di «Stato spettacolo», di «politica pop», di «post-democrazia». Tuttavia non si tratta soltanto di un trionfo dell’immagine e dunque di una spettacolarizzazione ma di assumere i linguaggi discorsivi, l’aspetto ludico, il ritmo conversazionale, misto di intimità privata e di esibizione pubblica, che è proprio dell’entertainment. Entertainment e politica partecipano entrambi a una sfera pubblica allargata. L’entertainment ha costituito così il principale laboratorio creativo di linguaggi popolari mainstream. Questa sua capacità di genare esperienze piacevoli ha suscitato l’interesse di sempre più numerosi mondi vitali: il turismo, la moda, lo spettacolo, e molti altri. Essi mettono a disposizione servizi in cui l’offerta è amplissima e supera largamente la domanda. Per il cittadino si tratta di esplorare tante proposte la cui utilità e desiderabilità è varia. Ciò che fa la differenza sono le sensazioni, le esperienze, lo stile di vita che l’offerta ci comunica. Certo la qualità del servizio è fuori discussione, ma poi è il racconto che ci convince e ci rende partecipi. Questo storytelling assume sempre più le movenze e i linguaggi dell’entertainment e del gioco. 2. Dentro l’entertainment Descrizioni di parole Possiamo definire l’entertainment come un insieme di attività piacevoli svolte da soli o in compagnia, che comprende un’ampia gamma di usi del tempo diversi per luoghi, generazioni, gruppi sociali, gusti personali, ma nella quale sono generalmente presenti tre costanti. 1. La libera scelta di quest’attività; 2. La diversa finalità di questi usi del tempo rispetto al lavoro, ai tempi della cura (lavarsi, vestirsi) e al sonno; 3. Le attività dell’entertainment sono viste, infine, come un complemento, o un risarcimento, del tempo e dell’attività mentale che siamo costretti a dedicare ad altri impieghi sociali che ci consentono di vivere. Il termine «entertainment» è usato anche per comprendere le istituzioni e le industrie che si occupano di qualche aspetto delle sue attività. C’è una parola che l’entertainment ha sconfitto: «ricreazione». È rimasta confinata in un uso istituzionale, scolastico o carcerario. Un’altra parola sconfitta è «ozio». Il significato di entertainment è più ampio di «divertimento», perché include forme di uso del tempo faticose, rischiose, patemiche. Si cercano esperienze emozionanti, capaci di lasciare una traccia dentro di noi. Entertainment è parola usata sempre più spesso in italiano, anche per motivi eufemistici. È il genere televisivo prevalente, anzi un macro-genere di cui fanno parte anche l’edutainment, l’infotainment, lo sportainment e così via. Entertainment Industry è sempre più frequentemente, negli USA, il modo per definire il complesso delle attività di entertainment. Il tempo libero «Tempo libero» e «cultura di massa» sono espressioni che si usano sempre meno e che rappresentano un grandioso relitto del Novecento. Il tema del tempo libero, ossia la tutela di una certa porzione di tempo dalle pretese del lavoro, si fa strada con la rivoluzione industriale. Dalla seconda metà dell’Ottocento le organizzazioni operarie di tutto il mondo sviluppato si battono per le «otto ore», intese come durata massima della giornata lavorativa. Le «otto ore» diventano simbolo dell’azione per migliori condizioni di lavoro. La battaglia ha dietro di sé una visione del tempo del lavoratore espressa in uno slogan: «Otto ore per lavorare, otto ore per il riposo». Le altre otto sono il tempo libero. Ma cosa è destinato il tempo libro? Talvolta questo ore sono occupate dallo svago, in altri cadi dedicate all’istruzione. Per amministrare il tempo, si mobilitano molte organizzazioni religiose, aziendali, di categoria, sindacali, politicamente orientate. Si costituiscono società di mutuo soccorso, circoli aziendali, gruppi sportivi, cooperative di consumo, generalmente riservati ai soli soci. In molti sono interessati al tempo libero dei lavoratori: le loro aziende, perché lavorino meglio, le chiese, perché rispettino il precetto domenicale, la politica e il sindacato per aumentare i momenti di contatto con i loro referenti, il mondo del commercio, per reclutare nuovi clienti. Tutti insieme esercitano forme di controllo su questo tempo libero organizzato. Anche al di fuori dell’ambito aziendale nascono per i ceti popolari associazioni ricreative, sportive, culturali. Si afferma così anche la «sociologia del tempo libero» che studia le modalità con cui esso viene utilizzato, soprattutto dagli operai. Il tempo libero appare come una forma di integrazione sociale, di «elevazione culturale», di pratica sportiva e di controllo entertainment. La cultura di massa «Cultura di massa» = definizione ombrello delle attività nel tempo libero, con l’implicita loro attribuzione di un marchio di qualità culturale, ma indica talvolta una cultura alleggerita, light, che semplifica i temi culturali rendendoli compatibili con un livello di istruzione basso. Presupposto comune  che il tempo libero si sarebbe espanso grazie all’automazione nell’industria che avrebbe ulteriormente ridotto gli orari di lavoro. Si pensava, inoltre, che i ceti popolari avrebbero continuato a chiedere un’organizzazione del tempo libero grazie alle loro tradizioni collettivistiche; in realtà il loro obiettivo era quello di una gestione personalizzata del proprio tempo. La convenienza e gli obblighi sociali di rivolgersi alle organizzazioni del tempo libero sarebbero progressivamente scomparsi. Le cose in realtà sono andate diversamente da come aveva previsto la sociologia del lavoro nel suo periodo d’oro, tra le due guerre e negli anni Cinquanta. Queste teorie e queste pratiche sociali permangono, ma non sono più in grado di spiegare i processi più generali in atto nella società. La cultura del consumo preferisce attrarre le classi lavoratrici in un’indeterminata classe media cui si rivolge la grande distribuzione. Un complessivo aumento del tempo libero per la riduzione degli orari di lavoro è coinciso con una contrazione della «cultura di massa». Più in generale, i tempi si sovrappongono; entertainment e lavoro, mobilità e obblighi sociali s’intrecciano in un mondo multitasking in cui tutti tendiamo a fare più cose in una volta. L’entertainment che è sempre esistito L’entertainment nasce molto prima della contemporaneità e dei suoi riti. La religione e la politica hanno organizzato da sempre forme di entertainment: stabilendo periodi feriali dedicati al culto di particolari divinità e ricorrenze, ciascuna delle quali era connessa a qualche particolare rito. Forme di spostamento per raggiungere qualche meta sono esistite anche in tempi di precaria mobilità: i pellegrinaggi verso i santuari, la partecipazione alle fiere. Come quelli dei venditori ambulanti, altrettanto antichi sono gli spostamenti degli artisti, saltimbanchi e suonatori: il carro di Tespi antico e moderno che li porta a passare da una città all’altra, per attrarre nuovo pubblico e magari per far dimenticare qualche imbroglio, vendita di filtri amorosi o altre ruberie. C’erano e ci sono ancora feste in cui i valori correnti sono temporaneamente sospesi e capovolti, in cui si indossano maschere per assumere una nuova e segreta identità, in cui si elegge un re pro tempore. L’ordine sociale è garantito da queste programmate e contenute trasgressioni, presenti in molte culture, e di cui il Carnevale è l’esempio ideale. Prove tecniche di modernità L’800 è il secolo delle città, capitali non solo amministrative ma del lavoro. Il popolo abita sempre meno nei borghi e sempre più si dirige verso i centri urbani. Vi è una sete di rappresentazioni perché è venuto meno un tessuto tradizionale di punti di riferimento. E nulla ci aiuta a riconoscerci come uno specchio che riflette la nostra immagine. La riproducibilità tecnica degli artefatti culturali si arricchisce di colpo. La fotografia La fotografia compare sulla scena europea alla fine degli anni ’30 dell’800 e ha un immediato e durevole successo. Nella fotografia c’è all’origine l’imprinting dell’entertainment e un particolare imposto tra l’esperienza privata (il ritratto) e lo spettacolo pubblico. Nasce allora la figura del fotografo professionista, ma soprattutto, per la prima volta, inizia a muoversi un esercito di dilettanti o, come allora si diceva, amateurs. Appartengono ai ceti medio-alti della società, sono attirati dalla relativa facilità d’uso della macchina fotografica. Il dagherrotipo si configura così come un improvviso aumento della capacità di rappresentazione e di autorappresentazione delle classi medie urbane e forse qualcosa di più: un modo accessibile a molti per autopresentarsi nelle pose e nello stile di quelle classi medio-alte, prima irraggiungibili. La pubblicità Per la prima volta l’immagine diventa un linguaggio universale, in cui si può esprimere qualunque concetto, rapidamente, a prezzi contenuti, in modo seriale. A metà Ottocento nasce in forma moderna la réclame, di cui l’immagine rappresenterà un elemento fondante, perché permette di raffigurare efficacemente il prodotto e la marca e di ricordarli al pubblico urbano. La pubblicità si presenta con manifesti e cartelloni colorati; è presente sugli edifici della città e sui mezzi di trasporto. L’immagine privata e pubblica Per il soggetto rappresentato la foto è un ritratto o un ricordo. Per tutti gli altri è il modo di conoscere ciò che non hanno visto direttamente. L’intero secolo è percorso da una sete di rappresentazioni per immagini, di cui l’introduzione della fotografia è un caposaldo. Questi dispostivi cercano di superare alcuni limiti della fotografia. Le modalità di fruizione sono di tre tipi: - Fruizione privata - Collettiva - Peep show Il nostro secolo ha aggiunto solo l’uso in mobilità. Gradualmente la produzione si rivolge versi beni di largo consumo, destinati a grandi folle di cittadini- consumatori-elettori in tutto l’Occidente. Bisogna distribuire le merci attraverso un’invisibile e rapida rete di trasporto e disporre di adeguati punti vendita. La pubblicità era organizzata per grandi agenzie che acquisivano la commessa dal cliente, proponevano i temi della campagna che avevano ideato al loro interno, pianificavano i mezzi e i supporti su cui far circolare la campagna e ne curavano la realizzazione. Il marketing, una disciplina recente, prende le mosse negli anni Venti in America, sbarcando in Europa nel secondo dopoguerra. Nasce come studio del mercato nelle sue varie forme, capace di assistere la progettazione e la realizzazione di un nuovo prodotto, accompagnando poi la sua immissione nel mercato. Marketing e show biz Il cinema è ormai il centro dello spettacolo, soprattutto per la sua capacità creativa e narrativa. L’entertainment cinematografico diffonde stili di vita e modelli di consumo, legittimando piacevolmente il desiderio di migliorare la propria condizione, insegnando nuove regole della convivenza sociale e spiegando come consumare beni prima riservati alle élite. Per questo diventa il referente primo della pubblicità. La pubblicità nel film si limita soprattutto a forme di product placement, come avviene per il tabacco. La presentazione del primo film parzialmente parlato e cantato, The Jazz Singer, ebbe uno straordinario successo e cambiò la storia del cinema. Il sonoro confermò la supremazia del sistema produttivo hollywoodiano fortemente serializzato su tutte le altre cinematografie nazionali e consentì al cinema di divenire l’arte popolare per eccellenza e il più amato dispositivo narrativo per immagini. L’attore del cinema sonoro deve anche saper recitare, non solo avere un bell’aspetto. Si completa così la trasformazione degli attori in divi. Era l’inizio del divismo cinematografico: lo star system. L’importanza pubblicitaria del divismo non può essere sottovalutata. Il divo diventa un testimonial di sé stesso. Una delle prime campagne pubblicitarie che si relazionano con il divismo cinematografico è quella, nata nel 1923, della saponetta Lux. Una volta stabilita l’associazione tra il prodotto e la testimonial, la diva cede parte della sua celebrità al prodotto, elevandone il potenziale di immaginario e facendone, in qualche modo, un divo esso stesso. Anche al di là delle sponsorizzazioni pubblicitarie, le scelte estetiche e di consumo del divo hanno un immediato riscontro a livello del pubblico di massa. La diva e il divo diventano oggetto d’immedesimazione e di proiezione da parte dello spettatore, confuso con gli altri nel buio della sala. Si può tentare di pensare e agire come loro, ma il processo d’identificazione è sempre interrotto. Il divo entra ed esce dalla nostra sfera economica (gli acquisti) per entrare in quella emotiva (lo amiamo, lo invidiamo), generando una sorta di turbamento continuo che è lo stato d’animo prevalente nel tempo libero dei ceti piccolo-borghesi, il sottofondo emotivo delle loro scelte di consumo. L’avvento della radio Nei primi anni Venti nasce anche il broadcasting radiofonico, la trasmissione circolare di un messaggio sonoro o parlato da una stazione emittente ai ricevitori, sparsi nell’area di ricezione, che non possono comunicare né con l’emittente né tra loro ma soltanto ascoltare. È stata ed è ancora usata egregiamente per le comunicazioni a lunga distanza. Con il broadcasting l’intrattenimento entra nelle case. Alla fine dell’800 comincia a diffondersi il grammofono. Ma con la radio la trasmissione può avvenire in diretta. La cultura della simultaneità fa un altro consistente passo avanti. Il broadcasting radiofonico si è sviluppato in forme molto diverse sulle due rive dell’Atlantico. Negli Stati Uniti ha rappresentato un’attività commerciale gestita quasi esclusivamente da soggetti privati. I cui proventi derivavano dagli inserzionisti pubblicitari. La radio ha costituito così il primo medium totalmente gratuito. In tempi di crisi Gli anni successivi alla Prima guerra mondiale videro una grande crescita dell’economia reale negli Stati Uniti e, gradualmente, della finanza. Per la prima volta gli investimenti in Borsa erano accessibili alla classe media. La ricchezza sembrava a portata di mano; la Borsa saliva e i continui sbalzi erano presentati come oscillazioni fisiologiche. Come andò a finire è noto: nell’ultima settimana di ottobre 1929 la Borsa precipitò. Ciò provocò il fallimento a catena di numerosi istituti di credito e, conseguentemente, la rovina di chi aveva ottenuto mutui e prestiti. Iniziò così la grande depressione. L’avvicinamento alla Borsa da parte delle classi media americane non sarebbe stato possibile senza un ottimismo diffuso. Una condizione emotiva dello spirito pubblico largamente influenzata dall’intrattenimento che aveva legittimato lo stile di vita americano come il più aperto e prospero. Le persone comuni e gli investitori non avevano alcuna informazione reale sull’effettivo andamento dell’economia e i loro comportamenti erano e sono influenzati da un clima generale. Il cinema americano prende atto della crisi. Il consumo di intrattenimento cinematografico non cala con la depressione; esso assume così una natura anticiclica, che rafforza il suo ruolo. Crescono anche altre forme di consumo. Nel 1931 lo Stato del Nevada legalizza il gioco d’azzardo, che troverà la sua consacrazione a Las Vegas. La legalizzazione fu presentata come un modo di attirare risorse e visitatori in tempi di crisi. A Las Vegas s’impose una formula che combinava il gioco d’azzardo con lo spettacolo dal vivo. In Europa In Europa, diversamente dagli USA, la radio ebbe un destino diverso: diventare un monopolio dello Stato. Tuttavia, questa scelta fu ammantata di ragioni ideologiche, particolarmente nel Regno Unito: si sostenne che l’etere era una risorsa scarsa e non c’era posto per un numero infinito di stazioni radio, e dunque soltanto pochi potentati avrebbero potuto disporne. La radio veniva così considerata un servizio offerto dallo Stato ai cittadini. Essa aveva una triplice missione, secondo le parole del primo diretto generale della Bbc, John Reith: «istruire, informare, intrattenere». Il modello inglese di servizio pubblico fu adottato da quasi tutti gli Stati europei e dal Giappone. Ebbe ovunque una funzione pedagogica, di elevazione della «cultura di massa» e di accentuazione dell’identità nazionale. Il tempo libero nei paesi autoritari I paesi autoritari non si lasciarono sfuggire le opportunità propagandistiche proprie del mezzo radiofonico: la radio propagandistica del fascismo e del nazismo rappresenta una torsione a fini autoritari che piega l’ideale pedagogico del servizio pubblico alle esigenze di uno Stato totalitario. Il modello dell’insegnante viene in parte sostituito da quelli dell’organizzatore politico e dell’agitatore. L’uso più pervasivo della radio fu operato tuttavia dal regime nazista, che concentrò subito nelle mani dello Stato tutte le compagnie radiofoniche. Negli anni Trenta era opinione comune che la radio avesse una capacità magnetica nel controllo delle masse da parte dei regimi autoritari moderni; in realtà la radio, più che controllare le masse, moltiplicava tecnicamente quel substrato emozionale comune su cui s’insediava la dittatura. L’uso della radio s’inseriva piuttosto in una politicizzazione dell’entertainment cui i regimi autoritari europei si dedicarono assiduamente, alla ricerca del consenso. Il modello era la figura di Henry Ford: molto esigente con i suoi operai ma anche capace di farne dei privilegiati, quanto a salari e servizi, rispetto alle medie dell’epoca, creando così una sorta di paternalistico welfare di fabbrica. Lavoro, consumo e tempo libero dovevano essere ispirati a una medesima razionalità, rivolti a raggiungere la felicità, che soppiantava la lotta di classe. Negli anni ’30 in Europa fu inaugurata la «variante politica» di questo welfare di fabbrica da parte dei grandi regimi dittatoriali come elemento del consenso. Al controllo dei media si affiancano le organizzazioni dopolavoristiche e sportive, i treni popolari, le colonie estive per bambini. Vi fu anche un merchandising del tempo libero, di cui fanno parte oggetti ormai dimenticati, come l’apparecchio radio Balilla e la Radio Rurale. Anche la costruzione delle autostrade, prima in Italia poi in Germania, va intesa in funzione turistica e di consolidamento del consenso. L’utilizzazione dell’intrattenimento in chiave di consenso non fu limitata ai regimi dittatoriali: il governo del Fronte popolare in Francia (1936-1938) politicizzò e organizzò le ferie pagate e fu il primo a dotarsi di un sottosegretario al loisir, il socialista Léo Lagrange. Sognare malgrado la crisi La radio è il principale vettore della pubblicità americana tra le due guerre, e dà largo spazio alla politica specialmente durante il New Deal. Anche al fotografia offrì un’importante forma di comunicazione politica. La durissima vita dei braccianti agricoli sarà documentata dalle straordinarie foto di Walker Evans. È il cinema, tuttavia, che segna in modo indelebile l’immaginario americano, attraverso una particolare miscela di forme narrative e di esperienze degli spettatori. È l’esperienza umana, la traiettoria di una persona o di una coppia, a costituire il centro e la motivazione della narrazione; attorno ad essa si coagula l’esperienza dello spettatore, la sua partecipazione alla vicenda e la sua identificazione con i personaggi e con la narrazione stessa. Nel rappresentare i desideri sociali e gli stili di vita prevalenti, il cinema classico americano forma e coinvolge il pubblico, svolgendo un’opera di inclusione sociale e di coinvolgimento emotivo, mentre il Paese è sempre nella morsa della crisi. Il grande disegno del cinema americano è sorretto dallo studio system e da un marketing aggressivo, orientato all’esportazione in tutto il mondo a prezzi molto concorrenziali, poiché esso riguarda solo le pellicole di maggiore successo. Da un punto di vista creativo, esso richiama i migliori talenti dell’EU (Ernst Lubitsch, Friedrich W. Murnau). Un ulteriore punto di forza sono i divi, perno di un sistema intermediale di comunicazione fatto di celebrities, che si nutre non solo delle loro apparizioni sullo schermo ma della loro vita costruita come un set permanente. La loro partecipazione a ogni possibile evento, spettacolo, festival, gli amori veri o abilmente combinati sono oggetto di una narrazione seriale intermediale. Un complesso rito premiale, gli Oscar (dal 1929), costituisce l’autocelebrazione del cinema e, al suo interno, della centralità del prodotto americano. Il cinema diventa così la più autorevole legittimazione, in patria e all’estero, del modo di vita americano. Un oceano tra l’entertainment e le nove muse Prima della Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti prende dunque forma un’importante industria dello spettacolo, rilevante per fatturato ma soprattutto per i suoi forti legami popolari. Lo show biz tende a costituire un tutto unico, dal cinema alla radio, dal teatro alla musica, comprendendo anche l’industria pubblicitaria. Esso è rivolto quasi integralmente all’intrattenimento popolare nelle sue varie forme. L’entertainment ha un legame diretto con lo stato d’animo quotidiano delle grandi masse, e dunque può contribuire a formare un clima generale positivo di speranza. In Europa, all’epoca, questo non avviene. Cinema, teatro, musica sono particolarmente attraenti per la loro dimensione artistica e apprezzati per questo; sono considerati un’estensione moderna delle nove muse, le divinità greche preposte alle arti. Nel vecchio continente l’esiguità dei mercati, delimitati da confini domanda e dell’offerta». Solo gli anni ’60 vedranno emergere la novità di questi processi anche nella vecchia Europa. Adorno, la personalità più forte dei due, aveva vissuto il trauma dell’avvento di Hitler al potere in Germania. La «riproducibilità tecnica» studiata da Walter Benjamin, collega di Adorno, era stata piegata al servizio dello Stato totalitario. Esule in Inghilterra, poi nuovamente fuggitivo attraverso l’Atlantico, Adorno aveva trovato negli Stati Uniti una cinematografia, una radio, un’editoria pienamente sviluppate. La sua sensazione fu che la pubblicità di prodotti di consumo avesse sul suolo americano un ruolo paragonabile a quello che in Europa aveva avuto il regime nazista nell’uniformare, livellare, rendere funzionale al modello politico-economico dominante la vita spirituale dei singoli. Certo negli USA ciò avveniva all’interno di garanzie formali di libertà per i cittadini e senza una costrizione fisica, tuttavia, il potere di convinzione e di attrazione della continua proposizione di comportamento orientati al consumo, e di valori culturali livellati, risultava altrettanto efficace. Di qui il suo totale pessimismo. Disney Nel dopoguerra Walt Disney è un affermatissimo artistica e imprenditore del cinema. Ha già vinto 14 Oscar. Nel 1928 crea il personaggio di Topolino e dal 1937 inaugura con Biancaneve e i sette nani una serie ininterrotta di lungometraggi. I suoi film sono diffusi nel mondo e riproposti ogni 6/7 anni per incontrare una nuova generazione di spettatori, mentre Topolino e gli altri personaggi compaiono in strisce a fumetti, albi, oggetti e giocattoli. Dal 1950 sbarca in televisione e dal 1955 lancia una trasmissione settimanale, Disney’s Mickey Club. Dal 1982 il club e tutti i programmi, animati e non, verranno trasferiti su un nuovo canale a pagamento per l’infanzia, il Disney Channel. Nel 1955 apre in California Disneyland, il primo parco a tema per famiglie in cui s’incontrano i personaggi Disney in carne ed ossa, giochi, attrazioni, ristoranti e rinfreschi, e una serie di ambientazioni di film della ditta. L’azzardo di mostrare personaggi di cui è nota la natura di eroi di cartone sarà vincente. Disneyland diventa uno dei nuovi luoghi cui solo la mobilità individuale, garantita dall’automobile, consente di esistere. I parchi si moltiplicheranno. Dai Luna Park al parco a tema Il primo parco dei divertimento è probabilmente il Luna di Coney Island, inaugurato nel 1895. Un incendio lo distruggerà nel 1932, ma molti sono gli epigoni (Prater a Vienna, Tivoli a Copenaghen). Il parco dei divertimenti è qualcosa di molto primitivo rispetto al parco a tema, che non presenta soltanto un assemblaggio casuale di attrazioni ma un contenuto evocativo e narrativo cui s’ispira tutto il parco che permette un soggiorno ben più lungo. Un antecedente  giardino zoologico. Gli zoo aprono al pubblico le collezioni di animali esotici e feroci che erano uno status symbol per i monarchi antichi e moderni. I giardini zoologici subirono la concorrenza prima della loro versione itinerante e spettacolare, i circhi, quindi del cinema e della sua capacità di mostrare gli animali selvaggi nel lor habitat. Sono subentrate, poi, le comprensibili proteste sulla condizione degli animali e sugli abusi che subivano per far divertire i visitatori, negli zoo come nei circhi. Maggiore fortuna hanno avuto gli acquari. Hanno subito molto meno la concorrenza del circo e del cinema e sono stati oggetti di minori contestazioni, se non quando esibivano animali ammaestrati, come i delfini. L’esperienza vincente di Disneyland creò molti epigoni. L’americana Six Flags del 1961 ha creato 19 parchi a tema con i personaggi dei cartoni animati Warner Bros, concorrenti di Disney. Gli Universal Studios di Hollywood possono essere considerati un parco a tema cinematografico: si producono film e serie televisive, e sono mostrati set e attrazioni di grandi film. Altri parchi si sono proposti di mostrare in miniatura un intero paese. A Lucerna è ancora esposto il rilievo delle montagne svizzere a grande scala. In Italia ve ne sono due: Italia in miniatura a Rimini, inaugurato nel 1970, e Leolandia Minitalia a Capriate, vicino a Bergamo, aperto l’anno successivo. Vi sono poi i parchi aziendali. Per un lungo periodo del dopoguerra fu possibile visitare gli stabilimenti Fiat del Lingotto su uno speciale pullman dal tetto vetrato. Un parco realizzato tra gli anni 50 e 70, che risente molto di un’impostazione culturale e pedagogica, è il Parco di Pinocchio a Collodi, in Toscana. Tra statue ed edifici raffinati, borghi antichi e un nobile paesaggio, le attrazioni e i servizi turistici sono assenti, evidentemente per una scelta deliberata. La danese Lego ha inaugurato Legoland a Billund. La tedesca Playmobil è presente con i Playmobil Fun Park a Zirndorf. Ciascuno di questi parchi sfrutta per quanto possibile il marchio che l’ha costituito, ma cerca di spaziare con le attrazioni in modo da attirare un pubblico familiare che si fermi alcuni giorni, compri un pà di giocattoli. Il luogo in cui sorgono è sempre visino alle grande strade e agli aeroporti. La loro fortuna è tale che anche in campo artistico il museo è spesso sopravanzato dal concetti di parco: ad esempio le sculture di un artista esposte in un suggestivo giardino, che magari circonda la sua casa. La forma propria del parco odierno, tuttavia, è quella di un complesso di attrazioni diverse unite tra loro da un tema comune, sistemate in uno spazio recintato, collegate a servizi di accoglienza e di ristorazione, alla vendita di oggetti connessi a quel tema. Come si vede, è possibile fare un parco tematico praticamente su tutto, purché vi sia l’interesse di una nicchia di curiosi. Forze il parco più strano è «Disneyland degli Hezbollah», cioè il Mleet Resistance Landmarck nel sud del Libano. Una ricostruzione delle trincee e dei tunnel della resistenza palestinese, resti di veicoli, armi, tank israeliani preda di una guerra in uno scenario architettonico impressionante, costruito come una città distrutta dai bombardamenti, con biglietto d’ingresso, negozio per i souvenir e vendita di video della guerriglia. Gardaland e i suoi fratelli Gardaland, il più grande parco italiano, sorge vicino al lago di Garda in provincia di Verona, ed è visitato da 3 milioni di persone ogni anno. Gardaland nasce nel ’75 dal colpo di fulmine di un imprenditore locale, Livio Furini. È un parco senza un tema fisso, che fin dall’inizio ha offerto attrazioni e ambientazioni molto diverse tra loro. La sua popolarità crebbe negli anni ’80 perché figurava nella sigla del principale programma per ragazza dell’allora Fininvest, Bim Bum Bam. Nel 2006 passa al gruppo inglese Merlin Entertainments. La nuova proprietà accentua il rinnovamento delle attrazioni tecnologiche mozzafiato, introduce un percorso dell’orrore ma anche un cinematografo 2D, una mascotte del parco (prezzemolo) che accoglie con gli altri personaggi i visitatori. Rispetto all’originale si evolve verso una maggiore capacità di narrazione e di entertainment. Mirabilandia è un parco della riviera romagnola. È il secondo parco italiano, contraddistinto da una componente spettacole più accentuata a da una parte acquatica. Lo sport spettacolo Lo sport professionistico già negli anni ’30 in America subisce un processo di spettacolarizzazione. Le società sportive sono imprese rivolte al profitto. Inoltre, attorno alle competizioni sportive c’è un complesso di eventi collaterali che riempiono di notizie l’intervallo tra una partita e l’altra, mentre i principali giocatori e allenatori diventano sempre più dei divi. Lo sport professionale diventa sempre più una componente dello show biz. In molto paesi d’Europa questi processi si collocano più tardi, quando a metà anni ’50 il ciclismo è superato dal calcio. Il primo era uno sport itinerante, eminentemente radiofonico; il secondo tipicamente televisivo. Grande è la congenialità dello spettacolo sportivo con l’età concorrenziale della televisione. Essa è sempre a caccia di un ascolto certo, capace di raccogliere davanti al teleschermo generazioni, ceti sociali, persone diverse e lo sport puntualmente può assicurare ciò. Inoltre, lo sport non è un evento isolato ma un racconto a puntate. La partita emoziona non solo o non tanto per suoi valori estetici, ma come avvincente «puntata» di un serial denso di sorprese. Infine, nonostante molti sport siano giocato «in esterni», di fatto lo sport è agito su un «seti» televisivo perfettamente illuminato e adatto alla ripresa. Lo sport si configura, quindi, come un evento televisivo seriale a elevata riproducibilità. Non è un caso, dunque, che attorno ai diritti di trasmissione dello sport si generi un nuovo mercato, che vede le varie televisioni in competizione tra loro. Alla fine degli anni ’80 tutte le televisioni europee hanno affrontato un rallentamento della curva di sviluppo degli investimenti pubblicitari, a fronte di una notevole rigidità del loro costi. Si è creata così l’esigenza di introdurre la pubblicità e le sponsorizzazioni, qualche nuova fonte di finanziamento della tv. L’industria dello spettacolo sportino è divenuta principalmente un fornitore di programmi per le televisioni, cercando nel contempo di acquisire la proprietà degli stadi e di gestirli come parchi a tema, con un largo spazio al merchandising. Contemporaneamente si sono moltiplicati i tornei interazionali, così da produrre più partite; la gestione dei diritti e delle rappresentazioni sportive è diventata transnazionale. Lo sport è così diventato a tutti gli effetti un pezzo dell’industria dell’entertainment. La temporanea felicità del villaggio turistico 1949: Gérard Blitz durante un soggiorno sportivo a Calvi gli venne un’idea: fondare un’associazione che organizzi un villaggio spartano, una specie di tendopoli con i servizi in comune, in una bella località di mare. Il primo villaggio nasce nel 1950 sulla spiaggia di Alcudia, sull’isola di Maiorca, ed è un grande successo. I prezzi non sono alti, i frequentatori sono giovani coppie o single cui non dispiacerebbe trovare compagnia. I villaggi si moltiplicano, dal 1955 anche a Tahiti, l’anno successivo sulle nevi della Svizzera. Il primo club sul suolo italiano apre nel 1957 a Cefalù. Nel 1968 il villaggio di Fort Royale appare sul settimanale «Life». I giovani dello stile sportivo che amavano dormire sotto la tende ormai hanno messo su famiglia e hanno fatto dei figli. La formula originale del Club si modifica e il villaggio diventa progressivamente una meta per famiglie. Le figure del Club Med sono tre - Il Go (Gentil Organisateur) è il funzionario del Club; - Il Ge (Gentil Employé) è un collaboratore del Club Med originario del paese in cui si trova il villaggio; - Il Gm (Gentil Membre) il clinete. In ogni Club c’è un capo villaggio, che ne è una specie di sindaco. Non è eletto, è un dipendente di Club Med. Al suo fianco c’è un gruppo di dirigenti (il G5). Il G5 esprime bene la filosofia operativa del Club, che offre in un tutto unico ricettività, ristorazione, benessere, intrattenimento. La vacanza per il Gentile Socio è «tutto compreso». Il denaro, nella sua forma di monete e banconote, non circola nei villaggi; in più questi sono recintati e sicuri. Dal 1989 ci sono anche navi da crociera. I bambini sono accuditi all’interno del villaggio in vari Baby, Petit e Mini Club, a seconda dell’età, da personale specializzato. Il soggiorno è fortemente segnato da casette in muratura o struttura alberghiere. Il Club Méditerranée, ormai società per azioni, è entrato in affanno a metà degli anni ’70. La concorrenza offre ormai dappertutto villaggi turistici di ogni tipo e livello. Varie diversificazioni di Club Med non hanno avuto particolare successo, mentre molti villaggi richiedevano costose ristrutturazioni. Poi, nel 1978, compare nelle sale gioco Space Invaders dalla giapponese Taito, antesignano di tutti i giochi in cui lo scopo fondamentale è distruggere il nemico sparando. Pacman (1980) è il primo videogioco «di ambiente» accetto anche al pubblico femminile. Nasce così un nuovo medium domestico, la console, collegata al televisore e al suo immaginario. Attorno ad essa si scatenerà una guerra commerciale che lascerà sul terreno vittime illustri. Nel 1983 la giapponese Nintendo presenta un protagonista assoluto, l’idraulico Mario (poi Super Mario). Nintendo è leader del segmento, anche attraverso la sua console portatile GameBoy, fino all’arrivo della Sony PlayStation (’94) poi contrastata (2002) da Xbox di Microsoft. Tutti i videogiochi si fondano su grandi capacità di calcolo, computergrafica sempre più accurata ed elevata capacità di generare eventi casuali. I motivi del grande successo popolare dei videogiochi sono molti, e rientrano in un processo di artificializzazione delle esperienze, di sostituzione delle relazioni reali con interazioni simulate ma anche in una generosa offerta di interattività. Il videogioco è una narrazione guidata dall’esperienza del giocatore, non da un testi precostituito. Ogni videogioco genera migliaia di narrazioni, una per ogni giocatore, e produce continue e complesse interazioni tra loro. I giochi attingono a piene mani all’immaginario televisivo e cinematografico, a cui poi restituiscono personaggi sceneggiabili, come Super Mario o Lara Croft, in un itinerario crossmediale in cui il è giocatore, non lo sceneggiatore, a costruire la sua storia. Queste pratiche di interattività saranno poi una preziosa introduzione ad Internet, quando arriverà. Luoghi di transito, motel, autogrill Le autostrade potenziano la tendenza a creare attraverso l’America catene di ristoranti, alberghi, negozi con lo stesso marchio, edifici e servizi standard. Qui nascono gli oggetti che in Italia si chiamano «aree di servizio» e «autogrill». Fred Harvey aveva iniziato alla fine dell’800 a gestire bar, alberghi e vagoni ristorante lungo le grandi linee ferroviarie, la prima catena di ristorazione con un unico brand. Architetture fascinose in stile coloniale e le Harvey Girls. Le ragazze di Harbey sono oneste ambasciatrici della modernità e di servizi standard. Con le autostrade la società Harvey scende dal treno e insieme alla Standard Oil progetta e gestisce le aree di servizio vicino a Chicago. Nel 1947 il cavalier Mario Pavesi aprì uno spaccio di biscotti presso il casello di Novara della Milano-Torino. Nel 1952 lo spaccio diventa un bar-ristorante che il fantasioso industriale battezza Autogrill Pavesi. Una definizione che resterà. Quando arriva l’Autostrada del Sole (1956-64), sorgono decine di autogrill. I santuari del consumo Le prime manifestazioni commerciali del dopoguerra sono gli eleganti showroom che comunicano, prima ancora di vendere, i prodotti dei marchi più importanti. Nel 1960 apre a Roma la Nuova Rinascente progettata da Franco Albini. I supermercati arrivano sul continente europei negli anni ’50. I prodotti sono sempre più confezionati e dotati di un brand; le marche invadono anche il territorio delle merci a peso: la pasta, i legumi, il pane, i salumi. Le cooperative all’inizio vedono nel supermercato la longa manus del capitalismo poi, dagli anni ’60, nascono i Supercoop, il primo, a Reggio Emilia, nel 1963. La legislazione italiana frena la grande distribuzione. Il primo ipermercato aprirà così solo nel 1972: è un Euromercato, a Milano. Nell’era della mobilità automobilistica i luoghi del consumo non presidiano più il centro cittadino. Richiedono ampi parcheggi, dove si possa arrivare con la propria macchina. Si collocano quindi appena la di fuori delle periferie urbane. Sorgono intanto i centri commerciali, i malls, città senza sindaco né abitanti ma con strade coperte affollate di negozi, insieme ai luoghi del divertimenti, ai bar, ai ristoranti. Negli anni ’90 l’antropologo Marc Augé definì «nonluoghi» quegli spazi standardizzati e anonimi prodotti dal mondo sviluppato, senza storia né responsabilità, come supermercati, aeroporti, dove folle frenetiche s’incrociano senza relazioni reciproche e senza memoria. Forse per evitare di somigliare ai temuti nonluoghi, i luoghi del consumo sono oggi contraddistinti da un’espressività barocca. Gli ultimi nati sono gli outlet, originariamente spacci di rimanenze aziendali, e poi centri commerciali dedicati alla moda, fortemente caratterizzati come villaggi. La sfera pubblica nell’era dell’entertainment Il primo periodo della televisione europea era stato contraddistinto da un monopolio gestito da un ente parastatale sostanzialmente controllato dal governo. Esso termina alla fine degli anni ’70 quando, per un intreccio dirompente di fattori economici, sociali e tecnologici vengono meno tutte queste condizioni: si afferma un sistema pubblico/privato, si affacciano nuove tecnologie di trasmissione, gli enti parastatali sono sempre meno governativi e controllati dal Parlamento. Intanto si afferma la televisione a colori. Il forte controllo sociale sull’apparato televisivo ha provvisoriamente amputato o mutilato le caratteristiche più eversive del mezzo e dei suoi linguaggi, che già erano pienamente sviluppate negli USA. La Tv ha la capacità, che è anche un obbligo, di esprimersi per immagini. Una notizie solo letta, senza filmati, è considerata minore. Il ruolo delle immagini tende ad accentuarsi man mano che ci avviciniamo al presente. Il loro carattere è crudo ad esplicito, forte di un’autorizzazione sociale implicita a frugare nell’intimità, e molto aiutata dall’esibizionismo degli «auto-violatori della propria privacy» che fanno di tutto per farci sapere i fatti loro, anche quelli che molti di noi terrebbero nascosti e di cui si vergognerebbero. Un binomio operativo esibizionismo-voyeurismo. Una critica frettolosa si ferma al compito più facile, condannare la trivialità dell’immagine televisiva: l’orribile ripresa delle veline sul bancone, la rissa con insulti, il pianto pubblico. Ma l’immagine tecnicamente riprodotta si vede attribuita una funziona testimoniale, emotiva, affettiva molto larga, che si applica sia alle notizie e ai commenti che allo spettacolo di finzione. Il pubblico popolare spesso fa confusione, interpreta le immagini come una continua narrazione, che ingloba la pubblicità, gli stili di vita descritti nelle trasmissioni, il telegiornale. Si tratta di rappresentazioni dalla dimensione fluviale, la cui fruizione si calcola in «ore del giorno», non in «volte al mese», grazie alla collocazione domiciliare della Tv e alla usa ubiquità nello spazio pubblico. La sfera pubblica è trasferita «ai domiciliari», la partecipazione alla vita politica è sostituita dalla visione domestica. Rimanendo a casa elaboro con l’aiuto della frequentazione televisiva idee che serviranno alla mia partecipazione alla sfera pubblica, ma grazie all’evidenza testimoniale delle immagini ho l’impressione di una partecipazione diretta che in realtà non agisco. Questo illusorio aspetto di partecipazione si deve anche alla diretta, arma testimoniale del «qui e ora», come in una serata futuristica. Tuttavia la diretta è anche una condanna, una trappola situazionista che costringe il personale televisivo a non fare errori, a misurare le parole, a intervenire prontamente per riparare a piccoli o grandi incidenti. È perennemente instabile, al punto che si cerca ove possibile di sostituirla con una breve differita. Ammesso che non lo fosse prima, adesso tutta la Tv diventa una continua comunicazione persuasiva, di natura commerciale o politica. Un processo di commercializzazione intrinseco al sistema televisivo commerciale perché si fonda sulla vendita degli spettatori ai pubblicitari. Ciò vale al 100% per la televisione privata, ma anche per quella pubblica. La persuasione massima consiste nell’esortare in continuazione a mantenersi si un dato canale, contribuendo ad aumentarne le tariffe pubblicitarie. L’entertainment diventa l’elemento dominante della comunicazione televisiva, mandando in soffitta ogni pedagogie, invita a scegliere, tra i molti spettacoli proposti, i frammenti che ci interessano. La Tv rappresenta adesso un’offerta abbondante di opere aperte, un magazzino di immagini e frammenti da cui ciascuno compone il proprio intrattenimento. Il flusso televisivo diventa quindi parte di una «vita a flusso». In questo continuo gioco di rimandi tra condizione umana e rappresentazione sullo schermo sta uno dei principali elementi del suo fascino e del suo solido innesto nella vita privata e nelle interazioni tra le persone all’interno della casa; ma anche la sua capacità nel plasmare gli stili di vita e di consumo nella vita che si svolge al di fuori. Una delle conseguenze più importanti è l’irruzione della gente comune nel talk show, nell’infotainment, nei giochi televisivi. Tuttavia l’esperienza profana, la testimonianza privata, la vita della gente comune confluiscono soprattutto nel reality: uno show costruito intorno alla narrazione dell’intimità, all’esibizione di emozioni e confidenza. È del tutto nuovo l’amalgama di sentimenti ed esibizioni, di spontaneità e costruzione scenica della sorpresa, di immagini volontariamente offerte al pubblico e altri fintamente rubate. Se la realtà non è sufficiente, la tv si ritiene autorizzata a crearla in laboratorio, a generarla in proprio, nel settembre 1999 va in onda in Olanda la prima puntata di Big Brother, che si moltiplicherà in decine di paesi diventando in molti un fenomeno di costume. Il pubblico televisivo ha così l’impressione (non vera) che non vi sia una sceneggiatura precostituita, bensì le spontanee reazioni dei protagonista. Da questa falsa verità trae un piacere voyeuristico. Il reality diventa uno stile. Come il consumo diventa emozione e il marketing si dota dell’aggettivo «esperienziale», così la sfera pubblica è costruita adesso proponendo esperienze suggerendo agli individui i modi per inserirle. Anche la politica cerca di essere pop, di adeguarsi al vissuto del suo pubblico. Un modo autoreferenziale mette in scena una rappresentazione populistica in cui il personale politico visibile ha i modi di agire, gli stili di vita, il lessico della parte più vasta del pubblico generalista, cui tenta di offrire una narrazione colorata. 5. Nell’era di Internet Fate largo a Internet Internet (insieme alle nuove forme di comunicazione cellulare mobile e al Gps) modificherà completamente il paesaggio finora descritto. Tutto comincia nel 1983 quando nasce Arpanet. La rete viene usata prima di tutto per connettere sistemi già esistenti di posta elettronica. In questi anni si diffonde nelle case il personal computer. La microelettronica permette di costruire macchine più piccole, semplici, economiche. Il «personal» discende direttamente dal gioco e dell’intrattenimento, nel momento in cui questi migrano da luoghi specializzati (bar e sale giochi) direttamente nelle abitazioni. Sono gli anni in cui il film inizia a lasciare le sale cinematografiche per spostarsi sullo schermo della Tv. Si afferma una logica consumer: vendere i propri prodotti sempre a più persone qualsiasi. La fase del personal computer si conclude  anni ’80 con la creazione di un mercato relativamente ampio, in cui è Ibm a stabilire gli standard di maggioranza. Molte aziende costruiscono computer «Ibm compatibili». Cloni a basso costo di Ibm invaderanno il mondo. La nicchia alta di utilizzatori si rivolge invece alla Apple che lancia nel 1984 il suo Macintosh 2, con proprio sistema operativo. Il computer desidera fortemente lavorare con i suoni e con le immagini in movimento. Ci riuscirà nel 1991 con Quick Time. Intanto dimostra subito che sa fare molti lavori e può turbare economia consolidate. una o più tipologie di merci. E, infine, cominciano a diffondersi centri commerciali on line, che offrono praticamente di tutto. Siti comparatori confrontano i listini di vari fornitori e offrono al cliente un orientamento. L’Italia vede uno sviluppo del commercio elettronico dal 2005. Il settore turistico è cresciuto rapidamente, fino a stabilizzarsi, mentre l’espansione è garantita soprattutto dal gioco d’azzardo. Infine, una forma particolare di e-commerce è costituita dal trading on line, l’investimento borsistico che è oggi disponibile anche ai comuni cittadini senza rivolgersi come in passato al proprio consulente o alla banca. Videogiocare, ovunque e comunque Internet ha permesso, nella sua fase 2.0, di giocare non da soli ma con altre persone di rete. La strada che il videogioco ha imboccato con più precisione è stata quella del gioco di ruolo. Il gioco propone un’ambientazione, un insieme di regole che rispondono a valori determinati, e offre la possibilità legittima di comprare col denaro non solo il videogioco stesso, ma armi, accessori, ecc. Il nostro alter ego è l’avatar. Talvolta si dimentica che non tutti i personaggi sono avatar: molti sono generati al computer dagli amministratori dei giochi, vere «comparse». Attorno al tema del gioco si forma una comunità operativa di persone con rapporti di cooperazione e competizione. Solo chi è assiduo riesce a trarne un’esperienza emotiva positiva. Talvolta i giocatori organizzano periodici incontri, generalmente in costume, secondo la pratica del cosplay. Nascono così amicizie reali e anche amori, non più sfortunati di altri. Le ambientazioni fantasy convivono con un’impostazione commerciale che gradatamente è andata sostituendo i primi tentativi. Lo sviluppo di un gioco è sempre più complesso ed oneroso e richiede un impegno continuo da parte degli amministratori del gioco. Il passo successivo è il Mmorpg: migliaia di giocatori si affrontano sulla stessa piattaforma contemporaneamente. La Blizzard Entertainment, che ha inventato e prodotto il famosissimo gioco Wolf of Warcraft, ha raggiungo nel 2010 i 12 milioni di giocatori registrati nel mondo. Tra i giocatori si sviluppano insospettate tendenze all’emulazione e all’affermazione ad ogni costo. Migliorare il propri ranking è una delle principali attrazioni. Alcuni giocatori si rivolgono ai gold farmers: lavoratori nei paesi in via di sviluppo che a pagamento scalano i livello del gioco. Oggi i videogiochi sono la principale esperienza popolare di tridimensionalità e di realtà virtuale. Gli scambi con il cinema e la serialità televisiva sono reciproci e fitti. Il loro maggior contributo all’entertainment è tuttavia la creazione di un clima di gioco che sempre più avvolge anche le vicende della quotidianità, dove non agiscono glia vatar ma le personale reali. Sono comparse intanto piattaforme di gioco molto diffuse (Nintendo Wii nel 2008) che possono mimare i rapidi gesti di uno sport o di molte altre attività fisiche tramite un telecomando. La console per videogiochi non è più un’attività per ragazzi ma anche per adulti e anzioni. Inoltre, il gioco è diventato mobile è si è spostato sugli smartphone. Le miniere d’oro del gaming online Il gioco d’azzardo in Internet abbassa le soglie della partecipazione e raggiunge chiunque abbia un computer: la corte di Cassazione ha stabilito che il cosiddetto «poker texano» non è da considerare un gioco d’azzardo ma rientra piuttosto tra i giochi di abilità. Nel 2010 gli Stati Uniti sono stati il mercato più forte ma non lo saranno ancora per molto, superati dalla Cina. L’Europa in questa statistica convive in modo un po' umiliante con il Medio Oriente e l’Africa. In Italia il gioco è stato ampiamente liberalizzato tra il 200 e il 2002. Nel nostro paese la crescita del gioco e delle scommesse è stata determinata insieme dal passaggio a Internet e dalla liberalizzazione. In realtà, fanno parte di un unico processo: le Video Lottery (Vlt), sono in realtà dei terminali di una rete computerizzata, connessa in banda larga, mentre le scommesse sportive possono essere effettuate in sala corse, ma anche per telefono, in Internet o tramite i canali interattivi della Tv digitale. Il gioco on line si consolida come una diffusa abitudine degli italiani. Cresce anche la proporzione di addicted, gente malata di gioco che non riesce a smettere. Dal 2008 troviamo codificata una nuova malattia mentale, l’Internet Addiction Disorder (Iad), con tecniche e centri di cura simili a quelli in uso per altre forme di dipendenza. Mentre è (relativamente) facile accertarsi che nelle sale gioco sia rispettato il divieto d’ingresso ai minori, è impossibile impedire loro di procurarsi l’account e la password di un sito di gioco. Inoltre, anche se il minorenne non è direttamente coinvolto, le possibilità di interazione messaggi che inducono ai gioco sono molteplici. L’ultima frontiera: i social network I social network di Internet diventano popolari tra il 2006 e il 2008. Prima MySpace, LinkedIn e Secondo Life, poi Facebook, seguito da YouTube. Facebook sostituisce MySpace che resta limitato ad alcune nicchie di pubblico. Si tratta di ambienti sociali in cui individui e gruppi presentano a se stessi, mettendo a disposizione di altri contenuti multimediali preferiti, intrecciano relazioni sociali. Coloro che partecipano a questa grande messa in scena sono centinaia di milioni in tutto il mondo, e hanno trasferito nel nuovo ambiente pratiche e riti maturati nella precedente frequentazione di Internet. Tutto ciò era già avvenuto, ma non in queste dimensioni, con tanta facilità d’uso, e dando ai partecipanti la sensazione di avere una propria casa su Internet. Ciò avviene soprattutto in quei network in cui ogni partecipante ha a disposizione una propria pagina che lo caratterizza. I mondi virtuali, come Second Life, sono una variante complessa dei giochi di ruolo. L’avatar può, anzi deve, essere diverso dal suo creatore che dà spazio così alla sua creatività; al contrario su Facebook o sul sito professionale LinkedIn la realtà nei dati inseriti è l’unico modo per non fare brutte figure o peggio. I social network investono l’identità personale e la rete delle relazioni con gli altri; ma incidono anche nella sfera pubblica con molteplici utilizzazione nella comunicazione politica, nel marketing. Sono collocati in quel crocevia tra la privatizzazione della sfera pubblica e la pubblicizzazione di quella privata. Molti studiosi lamentano l’isolamento di chi partecipa ai social network e brucia nella virtualità le relazioni faccia a faccia. I giapponesi usano il termine hikikomori per definire i ragazzi che fanno del computer il loro esclusivo strumento di comunicazione con il mondo. Tuttavia i social network creano e rigenerano continuamente gruppi e comunità attorno a opzioni etiche o interessi pratici, hobby, tendenze culturali. Il fandom, e cioè il gruppo degli appassionati di qualcosa o qualcuno, ha trovato sui social network una sede ideale per proporre e discutere eventi e prodotti in forma emozionale. Purtroppo il fandom è molto permeabile al marketing che ha presto scoperto le potenzialità dei social per la militanza politica, la diffusione di prodotti e servizi di ogni tipo. Contemporaneamente è possibile «profilare» con accuratezza i fan. Le discussioni nel fandom attorno ad un prodotto televisivo seriale sono una preziosa risorsa per gli sceneggiatori. La natura opaca delle pagine dei social network e degli eventi permettono al marketing di creare delle pagine «ufficiose» che appaiono generate da un imprecisato gruppo di fan, ma permettono di raccogliere contatti e profili su cui riversare un mare di informazioni commerciali. «Gamification» e oltre Con i termini «gamification», o «ludicizzazione», si indica un trasferimento di meccanismi psicologici e sociali propri del gioco ad altri aspetti della vita. Fare ricorso al mondo ludico sarebbe un’elevazione al quadrato dell’intrattenimento e delle sue comprovate capacità di rivestire di emotività le scelte. Qualche enfasi di troppo sicuramente c’è: la metafora del «gioco di guerra» è nota da sempre e non c’è squallido brainstorming aziendale in cui non si usino similitudini belliche nei confronto della concorrenza. Sicuramente ludica è l’euforia da tifo calcistico e l’iperbole del combattimento e della conquista, ma la società da tempo si è dotata di una negoziazione sociale complessa nel rapporto tra gioco e realtà. Probabilmente quello che è venuto meno è proprio questo confine. Il gioco «tracima», vengono meno le differenze rispetto alle diverse aree di vissuto, di fronte all’esigenza di tanti ambiti sociali che devono stabilire un legame con l’entertainment e, al suo interno, con il gioco, generando un nuovo sistema discorsivo. Risultato = un clima perennemente semi-ludico che trova nel sociale networking la sua più estesa applicazione. Le principali conseguenze di Internet sono di natura cognitiva. È aumentata la velocità nell’introduzione delle innovazioni ma anche delle mode e delle tendenze. Abbiamo acquisito la capacità di ottenere informazioni in tempo reale, anche se non sempre accurate, e di entrare in contatto con altre persone o gruppi in qualunque parte del mondo. L’entertainment ha costituito attorno agli oggetti, ai beni, ai servizi, alle opzioni culturali e politiche della post-modernità, un tessuto esperienziale che li riveste, che li fa sentire parte del vissuto umano e dell’identità di chi li sceglie. Internet facilita una circolazione più vasta e rapida di questi frammenti di identità e di esperienza, una possibilità di collaborazione alla loro creazione da parte di utenti singoli o di comunità. I dati di rapidità effimera, di transito esperienziale, di rapporto tra memoria e oblio, tra ludico e serio, di trasposizione di esperienza sensoriali a schermo, che sono propri di Internet, si comunicazioni così all’intero mondo dell’intrattenimento. Questo è il brodo di cultura in cui stiamo vivendo in questo secolo.
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