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L'INCLUSIONE EDUCATIVA -Pavone, Schemi e mappe concettuali di Pedagogia

RIASSUNTO COMPLETO TESTO Materia: pedagogia dell'inclusione

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 14/06/2022

giorgia_mottadelli
giorgia_mottadelli 🇮🇹

4.3

(147)

42 documenti

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Scarica L'INCLUSIONE EDUCATIVA -Pavone e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Pedagogia solo su Docsity! PARTE PRIMA. EVOLUZIONE DEL QUADRO. CAPITOLO 1. Lo stato dell’arte della Pedagogia Speciale. 1.1 Un sapere in divenire. Il nostro millennio si caratterizza per l’attenzione crescente alla diversità e alla disabilità. Il campo della Pedagogia Speciale si allarga e si approfondisce costantemente, in parallelo allo sviluppo della ricerca. Ferdinando Montuschi è uno dei protagonisti di questa disciplina. L’attenzione alle potenzialità dei soggetti apre a considerarli attori – autori del proprio percorso di sviluppo e apprendimento e, protagonisti attivi nel sociale. Questa attenzione suggerisce: 1) volontà di accostarsi ai bisogni dei diversi con sempre maggiore conoscenza, sensibilità e rispetto; 2) sforzo nel trovare nuovi approcci e metodi adeguati. Il dinamismo della Pedagogia Speciale è segno della complessità e poliedricità dell’oggetto di studio. Già agli esordi, la Pedagogia Speciale italiana si è rivolta alla generalità dei soggetti “atipici”, coloro che si distaccano dalla norma nel loro rapporto con la famiglia, con una scuola, con la società. All'inizio si occupava dell'educazione e della scolarizzazione dei minori con disabilità. Oggi si occupa della fascia della popolazione con Bisogni Educativi Speciali (soggetti a rischio marginalità per disturbi evolutivi, per problemi di apprendimento o di tipo psicosociale e socioculturale). Di recente (2013), siamo uno dei pochi Paesi dove è stata accettata la sfida dell'integrazione scolastica degli studenti con deficit. Il mutamento del campo visivo su cui volgere lo sguardo non riguarda solo l'ampliamento della popolazione oggetto di cura, ma anche la dimensione temporale: vengono superati i confini della scolarizzazione per comprendere l’intero arco esistenziale: “long life learning” o educazione permanente. Soggetti da prendere in considerazione rientrano: Special Educational Needs che è la macro-categoria adottata in Europa e Nord America alla fine del 1970. L'attenzione pedagogica a garantire uno status di vita dignitoso per il disabile che diventa vecchio, così come la preoccupazione per il mantenimento più prolungato possibile delle abilità personali, sono ambiti di ricerca per la Pedagogia Speciale. Ai giorni nostri è cresciuta la consapevolezza che occorre aderire a nuove forme di partecipazione che coinvolgano le minoranze nella costruzione di una società globale più giusta, più equa, più coesa e solidale. Secondo Canevaro, un altro testimone scientifico del nostro tempo, la Pedagogia Speciale non può che aderire alla prospettiva inclusiva. Il paradigma inclusivo, infatti, va oltre l'integrazione: da un “dato” (contesto già istituito) in cui inserirsi a un “divenire” al quale partecipare. Per questo parliamo di “prospettiva inclusiva”: è una dinamica costruttiva. La realtà presenta uno scenario denso di contraddizioni: rimane ancora troppo ampia la forbice tra i principi di uguaglianza delle differenze e la loro conquista effettiva da parte di chi vive una condizione di alterità. Per quanto concerne i soggetti con disabilità, nei paesi d'Occidente, vi è stata una progressiva crescita nella capacità di accoglienza all’interno della comunità e nella conquista dei diritti di cittadinanza. 2006 → la Convenzione internazionale promuove la partecipazione alla sfera civili, politica, economica, sociale e culturale delle persone con disabilità. 1.2 Dalla “pedagogia emendativa” alla Pedagogia Speciale contemporanea. Le radici remote della Pedagogia Speciale vengono riconosciute in Francia, tra la fine del Pedagogia Speciale L’inclusione educativa: Indicazioni pedagogiche per la disabilità Marisa Pavone Settecento e la prima metà dell’Ottocento, con le esperienze educative rivolte ai disabili ad opera di Itard e Seguin. Tuttavia, un esame più attento induce ad attribuire già a Pestalozzi e Froebel il merito di una riflessione sull’educazione intenzionalmente aperta anche ai problemi dell'educazione speciale. A cavallo tra Ottocento e Novecento, incontriamo Sante de Sanctis, Maria Montessori e Giuseppe Ferruccio Montesano. Questi sono quegli studiosi che hanno identificato la strada maestra da perseguire: quella di accompagnare la cura educativa alle cure mediche nel trattamento dei minori insufficienti mentali. Il termine “Pedagogia Speciale” si afferma in Italia nella seconda metà del secolo scorso, quando nel 1964, la materia viene introdotta per la prima volta in un corso di laurea universitario di Roma e affidata allo psicologo e pedagogista Roberto Zavalloni. La sua origine come cattedra autonoma è concomitante alla nascita di un'altra disciplina moderna: la Neuropsichiatria infantile. La Pedagogia Speciale viene, così, a sostituire la “Pedagogia emendativa” – dizione utilizzata da de Sanctis per parlare dell’educazione minorata e irregolare – e “Pedagogia curativa”, espressione adottata da Debesse, con la quale intende interventi di riadattamento di fanciulli con disturbi del comportamento di origine fisica e mentale. All’estero, in genere, la disciplina viene denominata “ortopedagogia”, termine a cui oggi si preferisce la dizione “Special Education”. In seguito, la Pedagogia Speciale modifica i suoi orizzonti d’indagine: Zavalloni stesso dice che “La Pedagogia Speciale è la scienza delle difficoltà psichiche, dei ritardi e delle turbe di ogni sorta dello sviluppo bio-psico-sociale del fanciullo e del giovane, considerandoli in prospettiva educativa e didattica. […] Tutti i soggetti che non corrispondono alla norma, entrano nel campo di studio e di azione della Pedagogia Speciale”. Alla fine degli anni ‘60, anche la comunità scientifica internazionale esprime interessamento per l’educazione speciale dei soggetti e un gruppo di esperti viene incaricato dall’Unesco di discutere e proporre il rinnovamento dei programmi a lungo termine nel settore. Per Zavalloni, essa si rivolge a individui di età scolare; per gli esperti Unesco riguarda tutti indistintamente. Lo studioso italiano aggiunge, inoltre, che questo sapere si propone la rieducazione del comportamento asociale o antisociale. Nell’arco di un cinquantennio, la Pedagogia Speciale ha rinnovato la sua impostazione teorica e le sue indicazioni operative: il suo ruolo è quello di sollecitare e favorire la formazione globale della personalità dei soggetti con necessità educative particolari, valorizzandone le capacità. La Pedagogia speciale è innanzitutto Pedagogia: essa, infatti, ha lo stesso oggetto di quest’ultima: attenzione verso il soggetto nella sua INTEREZZA e non verso la sua disabilità. La dinamica in cui si muove attualmente è quella di offrire risposte specifiche e speciali a problemi personali. L'oggetto della pedagogia speciale è la risposta ai bisogni. Risposte che vengono date in contesti normali e non in ambienti separati. Il processo di accoglienza delle persone con disabilità nel sistema scolastico normale ci contraddistingue rispetto alle scelte operate negli altri Paesi europei. 1.3 Al centro l’educabilità. Nonostante i propositi ideali e quelli dichiarati, anche in ambienti che praticano da tempo l’integrazione scolastica e sociale – l’Italia non fa eccezione – sopravvive nel sentire comune, così come in molto professionisti, la tentazione alla “formattazione” degli individui con bisogni educativi speciale, attribuendo alla classificazione dei sintomi piuttosto che alle categorie dell’educazione, perché i criteri della medicina offrono il vantaggio di spianare la complessità dell’identità personale, difficile da interpretare e accettare. La mentalità “etichettatrice” induce a credere che si renda visibile qualcosa che appartiene all’essenza della persona, la quale si trasforma in un'essenza visibile, irrigidita e assorbita nella diagnosi. La tentazione di etichettare gli individui con BES, dando più importanza a classificare i sintomi e dare una diagnosi piuttosto che alle categorie di educazione. Si pensa che etichettando si possa sapere tutto sull'altro e si possa dare un ordine nella vita di chi porta l'etichetta. diritto delle persone con esigenze speciali di auto determinare la propria vita. Secondo i sostenitori dell’area di ricerca denominata “Disability Studies”, di fatto la disabilità è in buona parte un costrutto socialmente indotto. In questa prospettiva, il movimento si auto dichiara compatibile con l'approccio alla disabilità basato sui diritti, adottato ufficialmente nel mondo della convenzione ONU. Entrambi rivendicano il rispetto per la differenza e l'accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana (art3). Si richiama, inoltre, il paradigma interpretativo conosciuto come “Capability Approach”: l'idea alla base è che gli assetti sociali dovrebbero tendere ad espandere le capacità delle persone. Un forte impulso ai principi di uguaglianza delle opportunità, di cittadinanza attiva e di inclusione scolastica e sociale per i minori e per gli adulti portatori di diversità proviene dallo sviluppo esponenziale dell’universo della tecnologia. Don Milani parla di mente collettiva → modello di interrelazione delle azioni, gli attori costruiscono le azioni e i sistemi sono formati da azioni connesse a sé e agli altri e allo stesso sistema. CAPITOLO 2. Dall’antichità al secolo XIX: progressiva conquista di visibilità sociale. 2.1. Microstorie nella grande Storia. La curiosità di conoscere i modi in cui l’umanità, nelle varie epoche, ha incontrato l’universo dei disabili ha per noi più di un significato: ci aiuta a capire come la loro storia sia intimamente intrecciata ai modelli e alle architetture culturali via via socialmente prevalenti; inoltre ci permette di comprendere come il cammino verso la loro integrazione sociale sia stato e sia tuttora difficile, lento, scandito da una molteplicità di percorsi non sempre lineari; infine ci può consentire di penetrare meglio le radici di vissuti e di atteggiamenti che sopravvivono ancora ai giorni nostri, nonostante l’affermarsi e il diffondersi, in molti paesi del mondo, di una indiscutibile maggiore sensibilità attorno al riconoscimento dei loro diritti di persone e di cittadini, alla pari di tutti. Molti studiosi si sono cimentati nel ripercorrere il disegno della disabilità nella Storia, ma gli <<handicappati>> sono stati per molto tempo ignorati, la loro storia è stata disconosciuta e vista con diffidenza e paura. Secondo Stiker non esiste storia del pensiero al di fuori della storia dei sistemi di pensiero, così non esistono disabilità e disabili al di fuori di precise strutturazioni sociali e culturali, e “non esistono atteggiamenti nei confronti della disabilità al di fuori di una serie di riferimenti e strutture della società”. Foucault, punto di riferimento indiscusso nei confronti della disabilità al di fuori di un “episteme”, ossia al di fuori di norme, valori, significati e organizzazioni specifiche delle varie epoche. 2.2 L’esclusione dal consorzio umano. L’antichità ha escluso la categoria dei disabili, negandone l’identità umana, con il conseguente allontanamento dalla vita sociale. In assenza delle conoscenze scientifiche, l’immaginario collettivo fa ricorso a spiegazioni religiose: la posizione delle persone diverse per cause naturali è interdetta dagli umani in quanto tutelata direttamente dal dettato divino; quindi, non spetta a loro occuparsene. La nascita del monstrum può essere segnale della collera divina in conseguenza alle colpe proprie o di chi lo ha generato o degli antenati, oppure l’annuncio di future catastrofi; la ragione del suo venire al mondo si esaurisce nell’essere messaggero della divinità: una volta assolto il compito la sua vita non ha più valore e può essere soppresso, soprattutto durante la prima infanzia. L’infanticidio è una pratica normale nel mondo greco come in quello romano; ci sono numerose testimonianze in letteratura. Altra pratica è “l’esposizione pubblica”, da considerarsi un disconoscimento del non conforme e un rinvio della sua sopravvivenza alla divinità. Un'altra modalità di relazione con certe categorie di disabili è la loro collocazione in una dimensione magico-religiosa, in virtù della quale vengono considerati dotati di poteri divinatori e pertanto fuori dalla dimensione umana. Responsabili dei figli minorati non è la famiglia, ma sono gli dei, lo Stato e i sapienti. Platone raccomanda una certa forma di segregazione e consiglia l’infanticidio, per “preservare la razza pura dei guardiani”. Aristotele auspica una “legge che imponga che non siano allevati bimbi deformi”. Con il Nuovo Testamento si rompe la logica dell’eliminazione fisica e del rifiuto di conoscere. Ma nonostante il messaggio e il modello cristiano indirizzato a privilegiare i marginali e gli infermi, proponendo una soluzione positiva della questione, per molti secoli nel tessuto sociale prevale l’atteggiamento del rifiuto anche violento. Non possiamo dimenticare, tuttavia, che l’età contemporanea non è estranea all’esperienza dell’eliminazione, anche di massa, dei disabili. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, fra il 1934 e il 1939, nella Germania nazista vengono introdotte leggi che, facendo riferimento ai principi dell’eugenetica giustificano misure di sterilizzazione di soggetti con menomazioni varie. La cancelleria di Hitler tra il 1939 e il 1941 avvia l’operazione di sterminio di bambini e adulti considerati anormali. Nel nostro millennio è ancora molto diffuso il legame esperienziale “disabilità- povertà-discriminazione”: le persone con disabilità rappresentano infatti quasi la metà dei poveri del mondo in quanto 4/5 di loro vive in paesi economicamente svantaggiati. 2.3 Il sistema della carità: compassione ed elemosina. Nel Medioevo si ritiene che Dio rivolga ai disabili una particolare sollecitudine: analogamente il corpo sociale deve occuparsi della loro sopravvivenza, venendo in soccorso. L’attenzione agli infermi è voluta dal dio della misericordia, in vista del giudizio finale individuale, diversamente dall'antichità in cui dovevano essere presentati al dio dell'espiazione, per evitare un destino di malasorte. È finito il tempo in cui erano visti come pericolosi per la società dal punto di vista biologico o metafisico; ora vengono inclusi all’interno della categoria della diversità a cui occorre trovare una specifica collocazione. Il sistema storico trova giustificazione perchè la congerie dei diversi viene spontaneamente concepita come facente parte della società, intesa come contesto eterogeneo: apparentemente fuori dalla razionalità al cospetto degli umani, ma razionale nel disegno divino; questi diseredati continuano a far parte di un mondo altro, che tuttavia viene accolto, seppur in modi ancora brutali. Sant’Agostino dà l’impronta all’atteggiamento verso i deboli. Il disabile fa parte della creazione; la miseria che egli esprime deve essere amata, soccorsa, assistita. Il messaggio è nella direzione di integrare la differenza nell’ordine delle cose, tuttavia non possiamo pensare che la sua venga automaticamente e generalmente ascoltata all’interno del mondo cristiano. Fino alla fine del XII secolo non vi è differenziazione all’interno della categoria dei marginali, appartengono indistintamente all’universo della povertà; costituiscono l’indicatore di un mondo alieno da tenere sotto tutela e a cui rivolgere uno sguardo caritatevole, sul registro della spiritualità e della morale. Con Francesco d’Assisi si fa strada una mentalità nuova: il povero diventa un “fratello” portatore della più alta dignità, in quanto immagine di Dio, sacramente vivente. Il marginale viene esaltato e glorificato. Neppure Francesco, però, cambia il corso della Storia. Stiker spiega che, secondo l’impostazione cristiana medievale, la disabilità e la malattia vengono mandate da Dio, sia come “prova” di fede, sia come occasione per esercitare la virtù suprema della carità, infine come segno della sua presenza, eppure l'infermità continua a essere considerata come un aspetto della miseria e della sofferenza: una sorta di integrazione indifferenziata. L’atteggiamento caritatevole si concretizza nell’elemosina sia nella forma individuale che come allestimento degli istituti di ricovero. Nel Medioevo, gli ospedali sono semplici luoghi di accoglienza adibiti all’ospitalità, al mantenimento e alla cura dei diseredati, i quali durante il giorno sono liberi di uscire e mendicare nelle vie del villaggio; dal XIV acquisiscono il carattere di case di internamento e di correzione. Dal 1300 al 1500 si succedono epidemie, guerre, vagabondaggio e accattonaggio che rendono la società meno disponibile e caritatevoli nei confronti dei marginali. Gli infermi vengono associati alla fascia della popolazione inutile, potenzialmente criminale e pericolosa, quindi da rinchiudere e rieducare, al fine di tutelare la sicurezza sociale. Gli invalidi confermano la loro utilità sociale in quanto offrono ai ceti più elevati l’occasione di praticare sentimento della carità compassionevole, così da guadagnarsi la salvezza. Il fenomeno della paura verso i devianti rimane fondamentale alla fine del Medioevo e ancora nel Rinascimento, trovando il suo epilogo nel “grande internamento” ad opera di Luigi XIV. Vengono internati nell’Hospital Général in nome di una società ordinata, gloriosa e civilizzata, guidata dall’idea che tutti in qualche modo devono essere produttivi. 2.4 Interesse scientifico e primi tentativi di rieducazione. La disabilità non rappresenta il problema principale dell’Alto Medioevo, in quanto la selezione naturale e le epidemie provvedono a ridurre drasticamente la presenza di soggetti invalidi. Unica voce che rivolge uno sguardo educativo alla categoria dei minorati è quella del teologo, filosofo e padre della pedagogia moderna Jan Amos Komensky, egli esprime la convinzione che solo attraverso l’educazione qualunque uomo può dispiegare le sue potenzialità e condurre una vita armoniosa. I primi esperimenti di istruzione dei sordomuti risalgono al XVI secolo. Cardano, grazie a delle intuizioni, giunge alla convinzione che, sostituendo la scrittura alla parola, i sordomuti possano intendere leggendo e parlare scrivendo; escludere questi soggetti dall’istruzione è un crimine. Il primo che si cimenta direttamente ad educarli è Pedro Ponce: sostituzione dello stimolo uditivo con quello visivo, la scrittura viene pensata come un disegno dei suoni alfabetici e la produzione della parola viene stimolata attraverso la lettura labiale. In Italia nei primi deò Seicento troviamo Girolamo d’Acquapendente che scrive due trattati sul problema dell’istruzione del sordomuto. Pablo Bonet, partendo dal metodo orale di Pedro Ponce, riduce ogni singolo fonema a una precisa posizione articolata dell’apparato fonatorio, integrando questa tecnica con l’utilizzo dell’alfabeto manuale. Per quanto riguarda l’istruzione dei ciechi occorre attendere la seconda metà del Settecento. Nel secolo dei Lumi (1700) comincia a farsi strada una nuova sensibilità verso la deformità. È ancora forte la motivazione allo studio del diverso come oggetto che la ragione deve comprendere, anche se poco a poco si fanno strada le componenti dell’istruzione e della rieducazione. Il mutamento di visuale lascia alle spalle un immaginario collettivo fondato su pregiudizi religiosi ed etici, per transitare verso una visione più razionale e scientifica. Vi è la convinzione che è possibile elevare gli infermi al livello del resto dell’umanità. Grazie al sensismo di Condillac di cui è portavoce Diderot in Europa si avvia un grande interesse verso la deformità, da avvicinare a una semplice diminuzione della facoltà umana, come condizione che è possibile conoscere e comprendere dal di dentro attraverso categorie biologiche, scientifiche. L’occasione per dimostrare la validità delle teorie si presenta all’inizio dell’Ottocento quando Itard viene incaricato dal ministero degli Interni di occuparsi dell’educazione un ragazzo sauvage. Dalla seconda metà del Settecento c’è una progressiva affermazione dei medici, depositari della norma sociale, della regolamentazione della salute. Si comincia a fare spazio l’interesse dell’autorità statale verso il mondo dei malati, quasi una sorta di “evoluzione dell’autocoscienza”. In Italia tra il 1765 e il 1805, vengono eretti nelle periferie delle città ospedali concepiti come “città dei malati”, autosufficienti, dotati di tutti i servizi. La medicina per la prima volta si rivolge a studiare la malattia in modo scientifico. Itard sviluppa un metodo analitico di osservazione da cui prende corpo una prima sistematizzazione nosografica delle diverse forme di alienazione. I folli cominciano ad essere considerati soggetti malati e così vengono formulate le prime diagnosi. Il XIX secolo vede il fervore per l’ordinamento delle idee e la razionalizzazione dell’azione. Il destino degli infermi e degli alienati comincia a diversificarsi: sorveglianza ed esclusione sono le parole d’ordine per gli alienati, recupero e assistenza per gli infermi. L’impegno alla riabilitazione è caratterizzato dall’invenzione e dall’impiego di manufatti tecnici: la prospettiva è rieducare e correggere. 2.5 I pionieri dell’istruzione e dell’educazione degli anormali. Il primo tentativo di riabilitazione e di istruzione dei ciechi risale a Valentin Hauy che, cieco lui stesso, comincia a istruire un giovane privo della vista incontrato per caso, utilizzando il principio della vicarianza tattile. Su questo aspetto si concentra Luis Braille, anche egli cieco, cognitiva (“mente assorbente”) evolve attraverso periodi psicosensitivi, che devono essere opportunamente sollecitati; da qui l’importanza del materiale didattico strutturato, da impiegare in modo rigoroso. Il principio dell’individualizzazione dell’azione educativa è uno dei capisaldi metodologici offerti dalla Montessori, particolarmente attuale nell'educazione e nell'istruzione dei minori disabili in età evolutiva. 3.3Obbligo scolastico per i sensoriali. La supremazia della medicina rispetto all’azione pedagogica e didattica, così come la sopravvivenza delle istituzioni speciali si protrae ben oltre del Novecento italiano. Fino agli anni Venti, a fronte di una pressoché totale assenza dello Stato nel settore dell’educazione dell’infanzia disabile, le prime classi differenziali e le scuole speciali sorgono grazie all’iniziativa dei Comuni e dei privati. Prende il via così un “doppio sistema scolastico- educativo” normale per alunni normodotati e speciale per gli ipodotati e i minorati. Nel 1923 la Riforma Gentile segna l’intervento indiretto e diretto dello Stato nel settore dell’educazione speciale, con lo scopo di razionalizzare la moltitudine di soluzioni istituzionali esistenti. Tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta c’è stata una legge in favore della scolarizzazione obbligatoria di alcune categorie di disabili (ciechi e sordi). Dal 1934 passano definitivamente allo Stato le scuole speciali istituite dai Comuni e dagli enti, mentre continua l'intervento statale indiretto volto al finanziamento degli istituti. La scelta restrittiva in merito al concetto di educabilità dei disabili comporta che vengono escluse dal dovere/diritto dell’obbligo scolastico talune categorie, in particolare i minori con problemi intellettivi e psichici, denominati “anormali psichici”. Per costoro sono previste tre possibili soluzioni: classi differenziali, classi annesse e l’asilo-scuola. Se l'inserimento in una classe differenziale non rivela risultati positivi, l'alunno, su richiesta degli insegnanti e dopo visita del medico specialista, deve essere collocato nell'asilo scuola; in tal caso deve essere considerato “anormale psichico vero”. Prove equipollenti definizione pp. 40. 3.4Proliferano le istituzioni “speciali”. Il lento ma progressivo processo di transizione dal sistema degli istituti alle classi differenziali e alle scuole speciali (fine anni ’50) porta con sé significati e ricadute notevoli per lo Stato e per la fascia di popolazione interessata. L’intervento sempre più diretto dal potere centrale nell’ambito dell’educazione speciale esprime la volontà statale di avocare a sé, sottraendolo al controllo dei privati, un settore educativo che va assumendo sempre maggiore peso. Dalla parte dei disabili, la presenza delle classi differenziali e scuole speciali, per i tempi, risulta un notevole miglioramento della qualità della vita. Gli istituti sono presenti solo in alcune città del paese, perciò comporta lo sradicamento del minore dalla famiglia e dall’ambiente quotidiano e il suo internamento prolungato. Le classi differenziali e le scuole speciali, invece, si instaurano capillarmente dei territori comunali, sono vicine ai luoghi di vita della famiglia e non necessariamente richiamano il ricovero: possono essere frequentate giornalmente. In questo secolo ci si concentra sui bisogni del soggetto, medici o educativi. A partire dagli anni 50, l'educazione speciale è un aspetto del vasto fenomeno di “esplosione scolastica”, resa possibile sia dal diffondersi degli ideali democratici, fra cui i diritti di uguaglianza e di accettazione nella società di tutti i cittadini indistintamente, comprese le categorie di persone disabili tradizionalmente emarginate; sia dal miglioramento delle condizioni di vita in una società industriale in rapida evoluzione, rinnovata da ricerche sempre più approfondite nel campo delle scienze umane, mediche e tecnologiche. Vengono aperti centri medico-psico-pedagogico con lo scopo di formalizzare descrizioni diagnostiche preliminari a interventi specialistici di recupero. Con la loro opera, tali presidi contribuiscono a incrementare il sistema delle scuole speciali e delle classi differenziali, che proliferano nel dopoguerra e durante gli anni Sessanta, in occasione dell’istituzione della scuola media unica (Legge n. 1859/1962) e della scuola materna (legge n. 444/1968). Nella Costituzione del 1948 si afferma il principio di pari dignità sociale e dell’uguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione di condizioni sociali e personali (art.3) e proclama in modo specifico che “gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avvenimento professionale” (art. 38). La scuola stessa viene stigmatizzata come fonte di selezione sociale, in quanto non solo non è in grado di recuperare gli allievi più deboli, ma li classifica e li confina in strutture separate; emergono in modo pressante richieste di ripensamento e rinnovamento dei modelli organizzati e dei metodi didattici di tutto il sistema scolastico. La legge 30 marzo 1971, n. 118, che introduce nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili, entra nella storia della scuola italiana dell’obbligo scolastico per disabili nelle classi normali della scuola pubblica. Restano esclusi i sensoriali, per il quale di deve attende con la Legge n. 360/76 per i ciechi e la Legge n. 517/77 per i sordi. 3.5Dall’inserimento verso l’integrazione scolastica. Il primo periodo di frequenza delle classi comuni da parte degli alunni con disabilità trova un sistema scolastico non adeguatamente preparato e attrezzato a riceverli, tanto da suscitare tensioni critiche presso alcuni commentatori, che parlano di integrazione “selvaggia”. Il ministero dell’Istruzione si preoccupa di conoscere più da vicino il fenomeno in tutti i suoi risvolti, insediando una commissione tecnica di esperti. La Legge 517/77 è considerata una fra le azioni legislative più significative a favore dell’infanzia disabile, in quanto concretizza in norme la complessità del tema della loro scolarizzazione, garantendo continuamente all’iter formativo, precisando il rapporto tra le varie figure di sostegno e richiamando la necessaria collaborazione interistituzionale fra la scuola e gli enti territoriali (sanità ed enti locali). In particolare, essa prevede: l’estensione del diritto alla frequenza delle scuole comuni anche per i sordi (art. 10); l’introduzione della figura dell’insegnate specializzato nelle scuole comuni; la riduzione del numero di alunni nelle classi che ospitano alunni disabili; l’integrazione specialistica da parte del servizio sanitario; la coordinazione degli interventi pluristituzionali e pluriprofessionali. Ma il provvedimento va ad incidere in direzione innovativa sull’intero sistema. Provvede, oltre a dispositivi orientati a rendere la scuola più accogliente verso gli studenti in difficoltà, a riqualificare l’assetto a favore di tutti. In questo periodo si sono maturati cambiamenti istituzionali sul versante del decentramento scolastico (pp. 45 def), con la riforma che introduce gli organi collegiali di partecipazione alla gestione della scuola (DPR n. 416/74); sul versante amministrativo, con il decentramento dallo stato alle Regioni delle funzioni di assistenza scolastica (DPR n. 616/77): attribuzioni alle Unità Sanitarie Locali di funzioni di prevenzione, recupero, terapia e riabilitazione nei riguardi dei disabili, offrendo anche alla scuola interventi di consulenza tecnica. L’approccio all’handicap ha suscitato interessanti stimoli a innovare la prassi educativo- didattica per tutti e a diffondere il modello della “coeducazione”. 3.6La neuropsichiatria infantile per l’educazione e la scolarizzazione dei disabili: posizioni esemplari nel secondo Novecento. La scelta etica e culturale “radicale” dell’integrazione degli allievi disabili nella scuola comune, che caratterizza “la via italiana”, sostenuta da una costituente produce scientifica, stabilisce un nesso sistemico tra socializzazione, riabilitazione e apprendimento: non riabilitare in ambienti separati e speciali prima, poi socializzare, poi fare apprendere, ma far scaturire dall’immediato confronto con la comunità sociale e scolastica la motivazione della riabilitazione funzionale e dell’apprendimento, organizzando un contesto arricchito, che centri l’attenzione su quello che il soggetto può fare con opportuni sostegni piuttosto che sui punti di debolezza immodificabili. Giovanni Bollea è uno fra i primi docenti incaricati dell’insegnamento universitario della disciplina, che diventa ufficialmente cattedra accademica a partire dal 1963 all’Università di Messina e nel 1965 a Roma. Fin dal 1959 si esprime con decisione a favore dell’educabilità dei minori con ritardo intellettivo, affermando che l’insufficienza mentale non è una malattia, ma una disabilità di apprendimento e di adattamento che, comunque determinata, nel rapporto con il mondo esterno plasma un modo di sentire e di reagire e di essere, una personalità “tipica”. All’impegno clinico accompagna un grande investimento sul piano pedagogico: l’educazione speciale fisica e psichica del minorato è per lui tanto più valida quanto più precoce- l’ideale è realizzarla entro il primo anno di vita-, pertanto è necessaria una diagnosi tempestiva. L’80% delle azioni di una buona PS deve essere condotta dai genitori. Adriano Milani Comparetti è un medico ed è il primo promotore dell’autonomia del piccolo con disabilità fin dal periodo prenatale, individuando nelle sue concrete possibilità di azione il nodo strategico dell’incontro tra minorazione e società. Privilegia la presa in cura a partire dalla vita quotidiana e dai bisogni primari del bambino, ma anche dalla sua voglia di vivere e da una creatività capace di far superare in tutto o in parte la realtà patologica. L’obiettivo nei confronti del piccolo in situazione di handicap, non è quello di effettuare un trattamento, ma è soltanto quello della “educazione” in senso ampio. Si dedica, oltre all’aspetto medico, anche educativo e sociale dell’infanzia colpita da problemi neurologici e motori. Nel 1960 apre la prima scuola speciale per bambini con paralisi cerebrale interna al centro Torrigiani di Firenze. Egli pratica la convinzione che l’intervento riabilitativo è più efficace se rispetta le esigenze di vita ed educative dei piccoli utenti, i loro rapporti con i coetanei, nonché la loro famiglia. La lettura innovatrice di Milani Comparetti lo avvicina al neuropsichiatra infantile Giorgio Moretti, esperto di minorazione neuropsichiatrica anche grave. Per il primo la riabilitazione è “un fine, piuttosto che un metodo”, mentre per Moretti è un processo di natura non solo medica, ma anche educativa. Medicina ed educazioni sono due dimensioni inscindibili, in reciproca continuità, e isomorfe rispetto al progetto di vita. Per riequilibrare l’approccio diagnostico introduce un parametro nuovo: quello del rilevamento dei bisogni, che permette sia un giudizio sulle capacità residue individuali, sia sulle possibilità e le esigenze dell’ambiente in cui vive il soggetto. A maggior ragione in età evolutiva il significato e il valore dell’intervento riabilitativo si misurano con il grado di risposta al bisogno soggettivo del bambino. Occorre valutare non solo le disabilità in sé ma la loro configurazione nel bilancio complessivo dello sviluppo, affinchè l'evoluzione proceda nel migliore modo possibile. Di conseguenza, l’intervento di cura deve struttura come una prassi pluriprofessionale. La presa in atto ha tempi prolungati visto che deve seguire il processo di crescita stimolando e facilitando. Si occupa anche dell’integrazione scolastica dei minori con disabilità gravi. Vanno considerate un mix di variabili intrecciate: la storia evolutiva naturale del comportamento e dei disturbi, la dinamica antropologica, le influenze socioculturali. Enrico Montobbio è un neuropsichiatra esperto di integrazione sociale e lavorativa di adolescenti con deficit intellettivo. L’unica vera riabilitazione per handicappati mentali adolescenti ed adulti è l’assegnazione di un ruolo di lavoro. Fa una riflessione sul tema dell’identità come costruzione della memoria, osserva che gli interventi di educazione individualizzata e di riabilitazione rischiano di rimandargli permanenti rappresentazioni di sé svalorizzati, sul versante dell’infantilismo e del bisogno assistenziale. L’integrazione nel mondo del lavoro normale rappresenta una grande opportunità di rispondere ad aspettative di ruolo, in quanto consente al giovane disabile di confrontarsi con una rappresentazione mentale, quella dei colleghi, connotata da fiducia e da realistiche aperture di credito. Il tema della maturazione relazionale è la vera sfida non solo per l'adolescente ma anche per i genitori e gli operatori che lo affiancano. CAPITOLO 4. LA SCUOLA COME VOLANO AL PROGETTO DI VITA. 4.1 Una svolta legislativa che si rivolge a tutto l’arco della vita. Nei primi anni Novanta viene approvata la “Legge quadro sull’handicap” (Legge n. 104/92) che organizza complessivamente la questione della disabilità. Si tratta di un traguardo legislativo importante e all’epoca innovativo perché incentrato sulla persona e sulle sue difficoltà. Per la prima volta si prende in considerazione l’individuo disabile lungo tutto l’arco dell’esistenza e dei molteplici aspetti che la riguardano, dalla nascita alla presenza in famiglia, nella scuola, lavoro e tempo libero, indipendentemente dal livello e dal tipo di menomazione. La sezione più interessante ed elaborata del provvedimento è quella relativa all’integrazione 4.4Scenari ambigui nella contemporaneità. La disabilità provoca ancora nel terzo millennio, uno status particolare, che è insieme effetto e causa di povertà, per mancanza di risorse e per ridotto riconoscimento sociale. Le persone interessate sono considerate “cittadini invisibili” e fatte oggetto di trattamenti differenziati, esclusivamente in virtù della loro disabilità. Dobbiamo renderci conto che l’inclusione è lontana perché i dispositivi adottati sono ancora insufficienti e soprattutto non fanno sistema. Gardou riconosce “radici antropologiche” nei fenomeni di emarginazione, disumanizzazione, categorizzazione, internamento, normalizzazione indotta, cui sono stati sottoposti gli individui con minorazione. Il mondo del diverso (dal latino disvertere, “volgere altrove”) ha generato e continua a generare diffidenza e pregiudizio, tali da giustificare come leciti la presa di distanza, la conoscenza superficiale, per stereotipi negativi e la sottovalutazione. Nei paesi occidentali è attuale il riferimento al macro-concetto di persone con “bisogni educativi speciali”. Paul Hunt, negli anni Sessanta, ha un’iniziativa sui Disability Studies, i cui sostenitori affermano che la riduzione della disabilità ad una tragedia personale in realtà ne occulta la vera natura di costruttore sociale. A partire dalla centralità del corpo fallato si innesca un processo di esclusione progressiva, che si espande a interessare via via tutti gli aspetti del vivere sociale. Siamo oggi migliori della nostra storia? Osiamo prendere una posizione positiva, consapevoli che non è ugualmente valida in tutti gli angoli del mondo, né riassume la situazione ancora precaria di non pochi paesi cosiddetti avanzati. La molteplicità degli atteggiamenti che le varie epoche hanno espresso verso le persone disabili co-esistono ai giorni nostri, nei comportamenti di individui singoli e di intere comunità. Canevaro sostiene che per risolvere questo gap possono essere messe in atto diverse strategie: la diversità può essere banalizzata e svalorizzata; o studiata con distacco; o studiata alla ricerca di comunicazione, incontro e accompagnamento, nell’ottica di avvicinare le reciproche identità complesse degli attori, al di là degli aspetti immediatamente appariscenti, che indicono a semplificazioni riduzionistiche. Nussbaum sostiene che nel mondo ci sono ancora disuguaglianze morali allarmanti e che fra i problemi di giustizia sociale particolarmente ardui e dunque ancora irrisolti, vi è la questione dell’inclusione delle persone con disabilità fisica e mentale nei contesti comunitari. Muovendosi all’interno di questo approccio “dei diritti” e della giustizia sociale, il modello Capability Approach, sviluppato dal premio Nobel per l’economia Sen, oltre a proporre la disabilità come aspetto della diversità umana ne offre una visione relazionale, nei termini di rapporto tra la persona e i contesti sociali e circostanziali in cui vive. Il giusto diritto degli individui con disabilità va interpretato e valutato con riferimento alla loro libertà effettiva. Una società che aspiri alla giustizia e al ben-essere anche per le persone più fragili deve sostenere le loro capabilities individuali, ossia favorire i gradi di libertà di azione di questi soggetti, nel trasformare le proprie aspirazioni in realizzazione: traguardi che per tutti gli individui senza distinzione rappresentano un valore. PARTE SECONDA. ALLA RICERCA DI UNA VITA DI QUALITÀ. CAPITOLO 5. CONOSCERE L'INDIVIDUO CON DISABILITÀ. 5.1 Questioni nuove per la popolazione con disabilità nel mondo occidentale. A partire dagli ultimi decenni del Novecento, nel mondo occidentale, ci sono stati progressi sia nell’ambito delle scienze mediche e psicopedagogiche sia in quello tecnologico. Ci sono stati progressi nel campo della psicologia e della neuroscienza che hanno identificato e rilevato disturbi evoluti sempre più presenti nella popolazione scolastica, all’origine di difficoltà di apprendimento e di comportamento (dislessia, disgrafia, discalculia, disturbi di attenzione, iperattività, scarsa autostima). Il progresso e i miglioramenti scientifici hanno portato al prolungamento delle aspettative di vita delle persone con deficit, in analogia con l’evoluzione generale della popolazione. Dall’ISTAT risulta che nella fascia di popolazione con deficit gli anziani rappresentano il 77%. A livello macro-sociale, da un trentennio a questa parte il pianeta della tecnologia ha aperto orizzonti ampiamenti innovavi nella direzione della progettazione e realizzazione di ambienti di per sé accessibili a ogni categoria di persone, quindi universalmente inclusivi. Universal Design (pp. 77) è una filosofia che ha avuto le sue prime applicazioni nell’ambito dell’urbanistica e dell’edilizia e adesso lancia la sua sfida all’istruzione, attraverso il progetto Universal Design for Learning (UDL): un frame basato sulle scienze dell’apprendimento. Si allarga il focus di attenzione dalla possibilità di minorazione per cause personali, a quelle per cause ambientali, favorendo l’accentuazione del modello sociale della disabilità. C'è chi nella contemporaneità vede profilarsi il “regime degli effetti collaterali della società del rischio” come potenziale causa di disabilità per tutti. 5.2Mutamenti di parole e sguardi. Una delle condizioni per essere se stessi e per avere la parola all’interno della comunità è in relazione alle rappresentazione che la società veicola. La ricerca attraverso le parole impiegate nel corso del tempo per identificare le persone con disabilità è relatrice di sguardi e di modelli culturali diversi, più o meno impliciti. Il filosofo Agamben sostiene che la terminologia rappresenta il “momento poetico del pensiero”. L’analisi terminologica può indurci a un’altra riflessione: la quantità e la diversità del lessico che ha scandito la storia della disabilità rivela la ricerca continua, sempre in evoluzione, sulla rappresentazione degli individui interessati. L’antichità privilegia i valori umani della prestanza fisica, della perfezione delle linee del corpo e della gloria atletica; di conseguenza esclude a priori la categoria degli infermi. Nell'antica Roma per rivolgersi a loro vengono utilizzati ottuso, sciocco, pazzo, inferiore o imbecille. Nell’Ottocento vengono definiti imbecilli, cretini, idioti (termine usato nel caso in cui nei soggetti non si riscontra traccia di potenzialità educative). Nella prima metà del Novecento si ricorre spesso ad espressione come minorati, subnormali, e anormali fisici e psichici. Si ricorre pure a una nomenclatura altamente tecnica, di impostazione medica: oligofrenia, frenastenia, deficienza mentale (Montesano e Montessori nel 1900 fondano la prima Scuola Magistrale ortofrenica per la formazione specializzata degli insegnanti come già visto). Non dimentichiamo che la Costituzione italiana, all’art. 38, si riferisce alle persone con disabilità indicandole con minorati e inabili (cioè non abili rispetto all'educazione e all'avviamento professionale); la Legge n. 118/71, la prima che apre le porte della scuola normale ai minori con disabilità, li indica come mutilati, invalidi civili, minorati, irregolari, insufficienti mentali. Coerentemente alla rappresentazione dei disabili come persone al di sotto della normalità, fin dall’età infantile ci si muove nell’ottica della loro riabilitazione medica e rieducazione scolastica, mirando alla normalizzazione per quanto possibile. Il sapere che si occupa di questi bambini è una pedagogia emendativa che intende “rimediare” al male della natura e della società, la pedagogia curativa, la pedagogia correttiva, la pedagogia differenziale, l’ortopedagogia. Il processo di riadattamento si attua nella direzione dall’individuo verso la società, la quale si adopera a sostenerlo con interventi sanitari ed educativi di carattere speciale. 5.3Il modello medico. L’approccio medico tende a evidenziare nella persona la patologia di cui è portatrice: la disabilità è considerata una caratteristica strettamente individuale, per cause naturali o accidentali. I modelli di classificazione diagnostica più diffusi nel mondo occidentale sono due: l’International Classification of Diseases, Injuries and cause of Death (ICD), proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), elaborato e adattato dall’American Psychiatric Association. Per cogliere e riflettere al meglio l’evoluzione dei progressi emergenti nelle scienze che si occupano della salute e nella pratica medica e per tenere conto delle innovazioni tecnologiche, questi manuali descritti sono sottoposti a frequenti revisioni. Questi sistemi di categorizzazione rischiano di rimanere imprigionati in un’ottica deterministica e povera di prospettiva e di trascurare la dimensione fenomenologica-personologica del soggetto. L’approccio clinico, poi, non considera il contesto ambientale nei processi di disabilitazione e di abilitazione. 5.4Dal deficit all’handicap: verso il modello sociale. Rispetto all'approccio marcatamente medico, utilizzato fino alla metà degli anni 70 nei confronti dei soggetti con deficit, il modello veicolato dal concetto di handicap allarga l’orizzonte di riferimento causale della difficoltà, tenendo conto delle dimensioni personali (danno strutturale e funzionale) e di quelle sociali. Handicap fa riferimento alle gare ippiche (venivano dati carichi di peso diverso per compensare gli svantaggi e dare a ciascuno pari opportunità di vincere); collegandolo alla disabilità si può riferire al fatto che la difficoltà venga introdotta dall’esterno e non sia una qualità interna del soggetto. L’OMS offre una definizione completa del concetto nel 1980: “nel contesto delle conoscenze e delle opere sanitarie si intende per handicap una condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona (in base all’età, al sesso, ai fattori culturali e sociali)”. Si distinguono tre tipi di esperienza compromissoria: la menomazione (danno anomali), la disabilità (aspetto funzionale) e l’handicap (momento di socializzazione di una menomazione o di una disabilità che pertanto riflette le conseguenze culturali, economiche e ambientali). Si chiama in causa il contesto a differenza della visione medica; vi è una presa d’atto che il deficit non ha origini solo naturali ma anche sociali. Vi è infatti, oltre alla maturazione della consapevolezza dei doveri di responsabilità da parte della società, una azione propulsiva delle persone con disabilità e dei loro familiari che, in virtù del principio di non discriminazione si pongono sempre più alla ribalta nel rivendicare l’accesso ai beni, servizi e spazi sociali allo stesso titolo che la restante parte della popolazione. Nella realtà, la disabilitazione va intesa piuttosto come esito di una interazione dinamica, pluridirezionale e complessa tra le condizioni di salute personale e i fattori contestuali. La prima forma di conoscenza nei loro confronti non li propone come persone alla pari, ma come individui portatori di menomazione. Il termine handicappato continua ad alimentare l’immagine di un soggetto fragile, con potenzialità diminuite. Per questo si riattiva la ricerca terminologica, con l’approdo a nuove formulazioni, come per esempio “persona con handicap”, volendo dimostrare che l’handicap non designa l’essere, ma una caratteristica fra le altre; dimenticando però che l’handicap è lo svantaggio derivante dall’interazione tra il soggetto e il contesto sociale, non una dimensione soggettiva. Di qui la variante “persona in situazione di handicap”, che mette in luce sia la singolarità personale, sia la situazione ambientale. Su ispirazione inglese si fa strada l’espressione “soggetti con bisogni educativi speciali” che indica tutti quegli allievi in particolari condizioni personali e/o sociali che determinano esigenze di educazione e di apprendimento personalizzate. Dal 2000 si comincia ad usare l’espressione “disabilità o persone con disabilità”. Il 2003 viene proclamato Anno dei disabili. Alcuni vogliono sottolineare che la persona con disabilità può essere considerata non tanto e non solo dis-abile, ma soprattutto abile diversamente, si invita quindi ad utilizzare un linguaggio che metta in luce le potenzialità piuttosto che le incapacità del soggetto. Claudio Imprudente propone di adottare il termine diversamente abile o diversabile, serve per aderire a un’istanza culturale tesa a sottolineare la suscettibilità educativo- trasformativo dell’individuo, pur in presenza del deficit. 5.5L’ICF: un paradigma descrittivo complesso e interattivo. Nel XXI si stabilisce un nuovo sistema di classificazione licenziato dall’OMS (2001), ovvero International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF). Lo scopo è di fornire un linguaggio unificato e standardizzato per descrivere la salute e gli stati a essa correlati di ogni persona, codificando un’ampia gamma di osservazioni relative. Il paradigma si rivolge a tutti, ponendo al centro dell’attenzione la condizione di salute; non si trovano più termini con una connotazione negativa: handicap viene sostituito da partecipazione sociale e al concetto di disabilità viene preferito quello di attività. Si privilegia l’attenzione a mettere in luce le abilità del soggetto in rapporto ai diversi ambienti in cui vive. La molteplicità e complessità della situazione richiama l'esigenza di una pluralità di osservatori, infatti al fine di rendere conto degli aspetti di vita personali, ambientali e sociali, occorre il concorso di diversi punti di vista: sanitario, della famiglia e del soggetto stesso, come quello degli altri professionisti e figure coinvolte (insegnanti, educatori, volontari ecc). È indispensabile che questi si rendano disponibili a mettere in comune gli esiti delle osservazioni, nell'ottica di ricostruire un profilo di funzionamento globale ed evolutivo dell'individuo. Ci troviamo ad avere a che fare con un paradigma bio-psico-sociale che induce a uno sguardo dinamico e sistemico valevole per ogni essere umano, senza incorrere nel rischio della stigmatizzazione. L’Oms ha sviluppato un processo di adattamento del sistema di classificazione alla condizione evolutiva infantile e giovanile (ICF-CY), sviluppando la versione per bambini e adolescenti, nel dell’esperienza, rivestono un ruolo strategico ai fini fello sviluppo della personalità globale anche nei soggetti con ritardo mentale. 5.6.5La paralisi cerebrale infantile (PCI). Questo tipo di disabilità non si riferisce esclusivamente all’infanzia, ma significa che interviene precocemente e le conseguenze si protraggono per tutta l’esistenza. Ci sono diverse modalità di classificazione. Se si considera la localizzazione del danno si evidenziano possibili compromissioni nell’uso di tutti e i quattro gli arti (tetraplegia), o solo di quelli inferiori (diplegia), o solo in una parte del corpo (emiplegia). Molte persone presentano compromissioni miste, la disabilità conseguente può essere lieve, media, grave, in base alla limitazione delle attività quotidiane. L’approccio multidisciplinare e multiprofessionale va concordato con la famiglia e va sempre motivato. L’intervento sanitario deve sempre coniugarsi con quello educativo ed entrambi vanno inseriti in una progettazione più ampia e globale del percorso di sviluppo personale. Se è vero che la riabilitazione tende a concentrarsi sul corpo, tuttavia gli esiti di questi interventi hanno rilevanti ripercussioni sull’autonomia e di conseguenza sulla crescita complessiva. CAPITOLO 6. DALLA NASCITA ALL'ETÀ ANZIANA: PER LA “VITA INDIPENDENTE”. 6.1Ri-conoscere la persona con disabilità. Nel capitolo precedente abbiamo spiegato che l’ICF è un accurato strumento diagnostico per comprendere l’individuo e la sua interazione dinamica con l’ambiente di vita: finalmente il deficit non viene considerato isolatamente, ma ricondotto all’interno della più ampia relazione tra fattori fisici, sociali e contestuali, che può aiutare a spiegare le evoluzioni nel lungo periodo. Vi è una distinzione tra individuo e persona. L’individuale che ci distingue dagli altri e ci rivela al mondo può anche presentarsi con il peso di un danno fisico, psichico o intellettivo; la persona però è sempre oltre, trascende il dato, la compromissione e, pur senza negarne la realtà fattuale, ne consente l’assunzione in una dimensione etica. Il disabile accentua l’aspetto della diversità, in quanto il deficit biopsicologico lo espone a presentarsi come chi si discosta dai canoni della normalità statica, funzionale o ideale; ma questa diversità non intacca la sua dignità originaria e originale, che coniuga la presenza della minorazione con la tensione, altrettanto presente, alla relazionalità e al cambiamento evolutivo. Prima di essere sorda, o autistica, o spastica, la persona partecipa dell’attributo di umanità che la rende comune agli altri. L’apparato di scienze che presiede all’ICF permette la conoscenza del profilo di funzionamento dell’individuo, ma non è in grado di rivelarne l’umanità con le sue peculiarità. La persona umana è infatti ben più che ciascuna delle dimensioni -prese isolatamente o nella loro interazione- con cui ci si forza di definirla: è un mix originale di essere corporale, affettivo e spirituale proiettato nel divenire. Il processo di riconoscimento della persona disabile prende le mosse dell’identificazione della situazione in cui il soggetto vive ed opera ma deve ampliarsi ad orizzonti educativi ed etici, per garantirsi di proseguire nelle prospettive dell’accoglienza, della progettualità e della reciprocità. Per garantire il riconoscimento della dignità di persona a chi vive l’esperienza di disabilità si ricorre all’“etica anteriore” di Ricoeur; occorre l’accesso al livello morale, che sollecita l’accettazione e la valorizzazione dell’altro in quanto portatore di umanità in senso assoluto, senza condizioni, qualunque siano le caratteristiche con cui si manifesta la sua identità. Dentro l’individuo compromesso c’è sempre una persona, con tutte le esigenze emotive, affettive, esperienziali proprie di tutte le persone normali. Ricoeur chiama in causa anche l’“etica posteriore”, ovvero interventi tecnici connotati dall’accoglienza e dalla pro- mozione del progetto di umanità iscritto nel soggetto di cura. L’approdo al riconoscimento non basta, se non si chiama in causa la reciprocità, né l'individuo abile né il disabile bastano a se stessi; senza correre i rischi di una fusione, la persona abile e quella dis-abile si rendono disponibili, nel dialogo di reciprocità, a riconoscersi vicendevolmente somiglianti e differenti e a scoprire le “identità plurali” di cui sono portatrici. Secondo il sociologo tedesco Honneth, la formazione di un’identità personale autonoma e compiuta dipende strettamente dalle relazioni di mutuo riconoscimento che gli esseri umani pervengono a stabilire tra loro. Distingue tre sfere di riconoscimento, al quale corrispondono tre modi della considerazione di sé: - le relazioni primarie riguardano i rapporti familiari e di amicizia, i riconoscimenti affettivi all’interno delle relazioni di cura e di amore, che collegano la persona ad un gruppo restretto e le conferiscono fiducia in sè; - le relazioni giuridiche sono basate sul diritto, per cui il singolo diventa soggetto portatore di diritti e può considerare i propri atti come una manifestazione accettata e rispettata da tutti, guadagnando rispetto di sé; - la comunità etica riguarda il riconoscimento connesso all’esercizio delle proprie capacità e a quanto di più prezioso gli altri vi scorgono; il soggetto viene considerato per il suo valore sociale, ossia per il suo apporto alla società, guadagnando autostima. L’accesso al piano etico, della responsabilità, della scelta non è automatico, ma richiede intenzionalità e continuità. Comporta il superamento di pregiudizi e stereotipi, richiede impegni di ricerca interdisciplinari e implica la rivendicazione da parte degli interessati del riconoscimento dei diritti negati e per contribuire al mutamento sociale e al progresso morale. 6.2Il concetto di “Vita Indipendente”. La “Vita Indipendente” è un movimento e una filosofia nati negli USA, nei primi anni Settanta, grazie alla volontà e all’impegno di un gruppo di studenti con disabilità. Fatto proprio dall’organizzazione Disabled People’s International, con forte determinazione ha esteso la sua azione a livello mondiale, al fine di rivendicare e conquistare i diritti inalienabili delle persone con esperienze di deficit: sostanzialmente il diritto alla vita, i diritti sociali e civili e sullo sfondo il diritto all’autodeterminazione. Al centro di questo principio ci sono concetti di non discriminazione e di empowerment (presa in carico del soggetto di tutto ciò che lo riguarda- autonomia, autoconsapevolezza e autodinamismo). La condizione di disabilità ci induce a inusuali accostamenti tra concetti. Cominciamo dall’abituale assimilazione semantica tra autonomia e autosufficienza. Se identificati, si porta a sostenere che il disabile, in troppi casi, non potendo essere autosufficiente non può nemmeno essere autonomo. In realtà non sono sinonimi: autosufficienza va intesa come patrimonio di coloro che posseggono competenze tali da bastare a se stessi, indipendentemente da quali deficit, menomazioni o minorazioni presentano; autonomia è l’obiettivo al quale orientare ogni cammino educativo considerando ovviamente le risorse del soggetto e le sue potenzialità. Poiché essere autonomi non è solo una questione di capacità o competenze acquisite, ma anche un modo di essere, sentirsi, di essere percepiti dagli altri, il concetto di autonomia si accosta a quello di identità personale. La riflessione sulla disabilità ci permette di capire che si può essere autonomi pur se dipendenti. La tradizione culturale occidentale associa il traguardo dell’autonomia all’età adulta. Un altro polo nodale è l’autodeterminazione, ovvero la capacità di essere agente causale del proprio modo di esistere. Costituisce un bisogno presente nell’intero sviluppo maturativo della persona, fin dall’infanzia, diventando esplosivo in adolescenza. L’autonomia e l’autodeterminazione non possono dirsi traguardi acquisiti con l’adultità. Il sistema formativo dovrebbe pensare in primo luogo all’autonomia personale, di movimento e comportamentale. Le programmazioni didattiche non dovrebbero esaurirsi nei contenuti culturali che il corso di studi prevede, ma dovrebbe situarsi su una prospettiva che elevi l’attenzione a considerare fortemente anche il ruolo lavorativo. Il traguardo della “Vita Indipendente” richiede una risposta-proposta di riadattamento altrettanto sollecita da parte dei contesti interni ai singoli servizi territoriali, perché si assumano la responsabilità di formulare progetti generali e di servizio che si coordinano con i progetti individuali dei singoli utenti. 6.3 L’avventura del progetto di vita comincia con la nascita. Il diritto allo sviluppo continuo di un'identità riconosciuta e valorizzata pone interrogativi e implica impegni circa la possibilità di accrescere il più precocemente possibile le esperienze della persona con deficit: familiari, scolastiche, lavorative, socio- relazionali. Per favorire il graduale concretarsi sia di equilibri realistici tra competenze e limiti, sia di spazi di vita degni all’interno degli ambienti di normalità, vanno considerati due aspetti: il soggetto è il più possibile protagonista del proprio viaggio esistenziale, nell’uso delle sue capacità autoprogettuali ; l’integrazione sociale del fenomeno della disabilità può contribuire a migliorare sia il tipo di rappresentazione sociale ri-conosciuta della disabilità stessa, sia la qualità degli interventi professionali. Entrambe le istanze sono inserite in una trama di rapporti di reciprocità che riguardano non solo l'individuo e il suo immediato ambiente di vita, ma anche gli interventi e le dinamiche operanti in contesti che lo interessano indirettamente. Ai fini del progetto inclusivo occorre sempre agire su più fronti: da una parte promuovere e sostenere l'autoprogettualità, dall'altra qualificare le dimensioni politiche, sociali e organizzative del contesto. Si diventa adulti cominciando da piccoli: il progetto per una “Vita Indipendente” da grandi prende le mosse e si costruisce per gradi a partire dall’infanzia o meglio dalla prima infanzia, molto prima dell’inserimento nella scuola. L'aiuto che i servizi sanitari, sociali, educativi e la comunità locale possono offrire, per sostenere le potenzialità progettuali del nucleo familiare, va posto in essere e sviluppato molto precocemente. La comunicazione della diagnosi è cruciale per la costruzione di un possibile futuro. Quando la famiglia scopre il deficit di un figlio sperimenta in sé possibilità di sviluppo diminuite. Dopo la consapevolezza della minorazione, l’identità dei genitori tende a strutturarsi intorno al disturbo. La prima comunicazione è importante perché può creare i presupposti per un’azione sociale oppure isolare la famiglia, spesso facendo pesare l’educazione del bambino quasi unicamente sulla madre. In oltre le modalità del trattamento da parte del personale medico-infermieristico rappresentano esperienze delicate, cruciali: la scelta del momento e la forma della comunicazione, l'ambiente ospedaliero, l'organizzazione delle cure riabilitative possono risultare uno spartiacque nella vita del nucleo familiare. Un obiettivo primario per gli specialisti è dedicare attenzione e cura alla percezione che la coppia genitoriale ha del neonato, sia esplicite sia a livello di emotività implicita. L’ambiente potrebbe non essere favorevole, per questo i responsabili ospedalieri e i professionisti della sanità devono sforzarsi di favorire accanto agli inevitabili interventi tecnico-abilitativi, tempi e spazi di umanizzazione. È fondamentale una convergenza di atteggiamenti e azioni da parte di tutti coloro che hanno responsabilità verso la crescita del bambino, al fine di promuovere il suo sviluppo globale e, di riflesso, una qualità di vita sufficientemente buona per il nucleo familiare. La scelta di campo a favore di una progettualità di sintesi (educativa-sociale-riabilitativa) anticipata rispetto al tempo della scuola aiuterebbe a considerare il neonato con disabilità non solo un corpo sofferente da riparare, ma una persona nella sua globalità, inserita in una dimensione temporale di sviluppo, con bisogni comuni a quelli di tutti i bambini, oltre a qualche necessità specifica. 6.3Il “viaggio imperfetto” dell’adolescente disabile verso l’adultità. La frequentazione di un ambiente scuola connotato da una cultura inclusiva, seppur localmente più o meno qualificata, senza dubbio apre ad altre domande, sollecita nuovi bisogni e desideri verso un senso de sé adulto riconosciuto e valorizzato. Un percorso scolastico e riabilitativo che voglia stimolare le capacità cognitive e di apprendimento, per essere autentico, deve proporre fin dall’inizio un progetto di vita che conduca “di ruolo in ruolo” alla conquista di un’identità sociale sostenibile. Tra le varie fasi della vita, l’adolescenza è vista come “età della crisi” sia per il figlio sia per la famiglia: periodo di cambiamento, di transizione evolutiva verso l’età adulta. Questa apertura di credito verso l’adultità deve funzionare anche l’adolescente con disabilità. Muttiti spiega che il corpo vissuto dall’adolescente come danneggiato può essere un ostacolo all’integrazione delle competenze adulte. Un’esperienza esistenziale ineludibile nella vita degli adolescenti è il gruppo dei pari, dove ogni ragazzo cerca modelli di identificazione e di sostegno. L’accesso al lavoro cosrtituisce l’altro grande cardine dell’età adulta. A questo porposito, Montobbio parla di “viaggio imperfetto” dell’adolescente con ritardo mentale verso il mondo adulto: una sorta di ingresso senza passaggio, carente se non privo della partecipazione agli stili di consumo e ai codici di comportamento, di abbigliamento e di linguaggio tipici dei coetanei. La famiglia, la scuola e i professionisti sanitari e sociali che seguono il giovane hanno ben più che il compito di lasciarlo andare avanti verso l'adultità; condividono piuttosto la responsabilità educativa-sociale riabilitativa di promuovere, sollecitare, sostenere, accompagnare lo sviluppo, ponendo le condizioni affinchè egli incrementi qualitativamente la sua esperienza di vita e acquisisca i prerequisiti per l'inserimento sociale e lavorativo. Il - alla informazione e alla collaborazione nella scelta dei servizi sanitari e sociali; - al coinvolgimento diretto e alla collaborazione in progetti sanitari, riabilitativi, sociali, scolastici, lavorativi riguardanti il figlio; - al concorso nella stesura e verifica del profilo di funzionamento e del piano educativo individualizzato; - al sostegno economico, assistenziale, psicologico e psicopedagogico e a servizi di aiuto familiare; - a permessi lavorativi per i familiari di un congiunto con disabilità complessa. Oggi si avverte l’esigenza di una svolta emancipatrice orientata a sviluppare strategie che pongono l’accento sugli obiettivi di rafforzamento preventivo e in itinere delle capacità di autonomia del nucleo familiare. Si tende a valorizzare il protagonismo della famiglia come partner di progetto e di azione a lungo arco esistenziale della persona con disabilità, il quale va chiamato in causa in prima persona. Le iniziative di parent training (def. pp124) hanno lo scopo di stimolare cambiamenti nella funzione educativa della famiglia tramite quali l’attività informativa e l’attività formativa. Gli interventi di respite care (def. pp124) sono invece modalità di tipo assistenziale finalizzate a rendere possibile per la famiglia periodi di tregua dal compito di cura, assistenza ed educazione del congiunto con disabilità. 7.4L’associazionismo familiare e la “Pedagogia dei genitori”. La nascita dell’associazionismo risalente al primo ventennio del secolo scorso, è caratterizzata da una cultura di categoria, cioè della presa in carico della propria condizione: a partire dagli anni Cinquanta si registra lo sviluppo di associazioni a tutela di forme di disabilità che non siano esito di guerra o di lavoro. Si configurano come gruppo di auto- mutuo aiuto, intenzionati a confrontarsi sui problemi educativi e scolastici dei figli e a rivendicare che gli stessi vengano accolti nelle scuole comuni di quartiere, anche assumendosi il carico di gestire in proprio servizi di sostegno alla scuola. Si basano su tre livelli di prevenzione: - prevenzione primaria, promozione di migliori condizioni di vita individuali e collettive; - prevenzione secondaria, potenziamento delle abilità di adattamento attivo di persone che si preparano ad affrontare condizioni o eventi potenzialmente stressanti; - prevenzione terziaria, recupero di un livello soddisfacente di qualità di vita di coloro che vivono o hanno vissuto condizioni di crisi. L'associazionismo familiare da il via, in forma sperimentale, all'inserimento dei bambini con disabilità nella scuola pubblica portando soprattutto alla Legge 517/77 che trasforma il traguardo dell'inserimento nel processo di integrazione scolastica. Negli anni 70 si sviluppano anche leggi sul collocamento obbligatorio, leggi di rinnovamento del sistema sanitario e socioassistenziale e la legge di riforma degli organi collegiali scolastici; tali dispositivi introducono il modello di welfare istituzionale e attraverso i concetti di prevenzione, cura, riabilitazione, educazione e assistenza a livello territoriale e la disponibilità di personale qualificato, danno il via al decentramento di servizi tendenzialmente in grado di rispondere in loco ai bisogni di sicurezza sociale di tutti i cittadini. Si pongono così le basi per l'integrazione delle politiche sanitarie, educative e sociali e si valorizza la partecipazione dei singoli individui e dei gruppi associativi alla realizzazione dei servizi gestiti dall'autorità centrale, dalle regioni e dagli enti locali. Dalla seconda metà degli anni Ottanta vi è un processo di municipalizzazione del welfare e di sussidarietà (def. pp.127) diffusa; la finalità è sempre quella di salvaguardare il massimo sviluppo delle potenzialità di ogni persona, anche di quella più fragile, attraverso l'attivazione di un ecosistema di servizi di supporto. Negli anni Novanta il web consente nuove modalità di comunicazione e di organizzazione. Si sviluppa l’idea che i genitori posseggono un “scienza” e delle competenze, la Pedagogia genitoriale, che devono essere riconosciute dalle altre agenzie. I genitori sono i migliori conoscitori dei propri figli. 7.5Nuove emergenze e sfide educative. I cambiamenti della società sul piano antropologico-culturale, dovuto anche alle ondate migratorie e le migliori attenzioni all’infanzia in difficoltà propongono nuove sfide alle famiglie che hanno a che fare con la disabilità. Le statistiche informano che ci sono 4 milioni di immigranti stranieri nel nostro territorio e 570.000 sono minori che frequentano la scuola. È evidente che vi siano anche persone con deficit, con relative problematiche di accoglienza e di integrazione. In questi casi si può parlare di soggetti “due volte diversi”: per il deficit e per l’appartenenza. È ancora lungo il processo di vera integrazione di disabili inseriti in nuclei familiari e in comunità etnoculturali diversi. Bisogna tenere conto che il migrante porta con sé modelli peculiari, includenti la relazione tra salute e malattia, la concezione dell’accoglienza e della cura, la rappresentazione del deficit ecc. Le problematiche linguistiche, poi non sono confinate al livello tecnico, ma coinvolgono i significati culturali. Secondo gli esperti, i professionisti dei servizi devono disporsi a imparare dalle esperienze transculturali dei migranti, ponendosi in atteggiamento di ascolto, per conoscere l’ampiezza della storia culturale e migratoria della famiglia. Per Moro, il rischio è di medicalizzare dei comportamenti culturali e culturalizzare dei disturbi che il professionista non vede. CAPITOLO 8. I SOSTEGNI ALLA PERSONA CON DISABILITÀ. 8.1La relazione di aiuto e di cura. 8.1.1Coniugare la competenza tecnica con quella educativa. Che cosa significa aiutare la persona con disabilità? Chi è il protagonista dell’azione di aiuto: colui che da il sostegno o il soggetto che segnala il bisogno? La risposta si configura come prestazione professionale o come interazione prevalentemente affettiva? Che tipo di preparazione esperta deve possedere chi interviene in aiuto? Quando il soggetto da aiutare presenta una disabilità la rappresentazione sociale prevalente lo considera come un malato da curare, portatore di un’identità costantemente “in riparazione”, un paziente anziché protagonista. Di conseguenza, la relazione di aiuto più significativa è di tipo assistenziale e compensatorio: interventi tecnici e molto specialistici; comportamenti prevedibili e routinari; lo scopo della relazione si concentra sul presente, mancando un orientamento condiviso; lo spazio è dedicato, separato dai contesti di normalità. La relazione educativa non sarebbe un’azione accanto alle altre, alla quale è possibile dedicare qualche momento di attenzione, ma la costituzione fondamentale dell’uomo. Di conseguenza, il mestiere dell'operatore coinvolto non dovrebbe essere definito professione, piuttosto una semi-professione, a significare il vitale collegamento tra l'agire professionale e l'agire umano. Avere chiari sia il punto di contatto sia la distinzione tra cura e relazione, tra la sfera professionale e la sfera personale dell'operatore - tra ciò che fa e ciò che è, tra ciò che fa per gli altri e come si rapporta a loro- è fondamentale per chi lavora in quelle che vengono definite “professioni di relazione e cura”: educazione, terapia, riabilitazione, insegnamento ecc… L’operatore deve saper coniugare la competenza tecnica con quella educativa. La relazione professionale di cura non può che sviluppare attraverso la comprensione e il dialogo, che implicano partecipazione emotiva, coinvolgimento prossimità discreta, delicatezza, senza i quali dominerebbe la freddezza delle dimensioni metodiche e tecniche, pur ovviamente necessarie. In presenza della minorazione, la relazione di aiuto e di cura deve aumentare la sua densità e proporsi come intervento rivolto all’uomo nella disabilità, alla ricerca del suo particolare, originali modi di esserci nel mondo e del suo progetto di vita. Stiker insiste su quanto sia difficile, pressoché impossibile, garantire una relazione di accompagnamento che sappia tenere nel tempo la “buona distanza” educativa. 8.1.2 Caratteristiche della relazione di aiuto. Diversi ricercatori di PS nell'ultimo decennio propongono riflessioni sull'importanza strategica e sulle caratteristiche della relazione di aiuto nelle professioni educative. Sintetizziamo il pensiero di Caldin, che ne enuclea alcune peculiarità imprescindibili: - chi aiuta non può approfittare del bisogno di aiuto dell’altro, neppure per violare l’intimità che l’altro può essere pronto a disvelare, in virtù della sua fragilità; - chi aiuta è tenuto a sospendere il giudizio sull’altro; - la relazione di aiuto chiede che nessuno sia sconfitto, ossia che ciascuno abbia la sua parte di ragione; - chi viene aiutato può/deve misurarsi anche nel ruolo di aiutante, perché così si evita il rischio di dipendenza; - un aiuto offerto non può diventare esclusivo: la relazione d’aiuto è plurale; - chi aiuta deve provare a intravedere nell’altro un’identità in cambiamento, al di là delle stereotipie e dell’immobilità: occorre mettere in luce le molteplici identità dell’altro; - la relazione di aiuto non si muove con dinamiche di assolutezza, ma di complementarità e deve tendere a ridurre progressivamente l’asimmetria. La relazione di aiuto e di cura presuppone l’apertura al tempo futuro; è progettualità che sollecita il protagonismo di chi aiuta. L’incontro tra il professionista e il soggetto promuove la conoscenza reciproca, inserita nelle storie rispettive e nelle tradizioni pregresse. La dialettica fra passato, presente e futuro si pone come tensione positiva tra familiarità ed estraneità, tra situazioni di atto e possibilità di trasformazione e di cambiamento. La domanda educativa speciale invita l'operatore a esplorare senza sosta gli ostacoli, nel cercare nuovi modelli e nuovi dispostivi e moltiplicare le riformulazioni inventive e stimola l'allievo a coinvolgersi attivamente nel compito di educazione/cura. 8.1.3 Pluralità nella relazione di aiuto. Bronfenbrenner amplia l’orizzonte del rapporto duale che la relazione progettuale di aiuti e di cura si sostanzia nel tempo e nello spazio attraverso la qualità delle molteplici esperienze e interazioni a valenza educativa progressivamente vissute dagli attori. Le relazioni persona disabile-famiglia, persona disabile- scuola, persona disabile-servizi, famiglia-scuola, famiglia- servizi, servizi-territorio rappresentano una struttura reticolare che coinvolge trasversalmente sia gli aspetti interni alla singola situazione, sia i contesti più lontani, che comunque hanno delle ricadute importanti sull’esperienza soggettiva. Considerare i singoli attori come parte attiva. Si tratta di un modello ecosistemico incentrato sull’ascolto e sulla comunicazione. Il piano complessivo di aiuto e di sostegno allo svolgersi del progetto esistenziale della persona con disabilità si deve rispecchiare nel piano di ogni singolo servizio. Vygotskij e il movimento della “Pedagogia istituzionale” hanno insegnato che la relazione di aiuto e di cura si serve di mediatori, che permettono agli operatori di sostituire la propria azione diretta con un sistema di tecniche, di attività, di strumenti concettuali e materiali, utili a favorire la crescita, la motivazione, gli scambi affettivi e verbali nelle situazioni terapeutiche ed educative. Canevaro, per illustrare la funzione dei mediatori, usa la metafora delle pietre che affiorano dall’acqua. Ogni singolo dispositivo deve poter rinviare alla pluralità di altri mediatori, sia per sostituire, sia per far evolvere il mediatore utilizzato in un certo periodo della vita. Un'altra peculiarità della professione educativa è saper stare dentro le reti. L’educatore va concepito anche come figura in grado di mediare l’attivazione di legami sociali, di costruire saperi comunitari, di lavorare sulle connessioni. Dovrebbe sapersi proporre come facilitatore, come attivatore di potenzialità anche nei luoghi e nelle circostanze in cui è difficile pensare e stare insieme. 8.2Le tecnologie assistive per l’autonomia possibile. 8.2.1Un dominio amplissimo, ad alto e basso contenuto tecnologico. L’impiego delle risorse tecnologiche costituisce per tutti un pilastro fondamentale per favorire la realizzazione di sé e la partecipazione alla vita sociale, per condurre una vita degna; nel caso delle persone con disabilità questo apporto si rivela indispensabile e spesso risolutivo. Un esempio è la casa domotica; oppure le apparecchiature che consentono la mobilità universale per chi non ha uso delle gambe; oppure i software che facilitano l’apprendimento per chi ha disturbi cognitivi. Tra gli ausili –detti “tecnologie assistive” (TA) – troviamo una gamma di prodotti a basso o alto contenuto tecnologico, che intervengono a facilitare vari aspetti della vita di ogni persona; le “tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (TIC) stanno acquisendo sempre più rilievo, divenute parte integrante del processo educativo, in particolare nell’ottica di una pedagogia inclusiva. Il settore della TA si sta sempre più rivolgendo alla progettazione di ambienti globalmente più inclusivi: su questi dovrebbero poi innestarsi i supporti di cui ciascuno dovrebbe avere bisogno. Il concetto di e-Inclusion fa riferimento sia allo sviluppo delle tecnologie inclusive, sia all’impiego delle tecnologie per raggiungere obiettivi di più efficace inclusione. Inoltre ci sono disposizioni per favorire l'accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici come la Legge 4/2004 che si propone di prevenire ciascuno diviene la condizione normale di scuola e d’aula. In inglese Inclusion significa “essere parte di qualcosa”. L’essere inclusi è un modo di vivere insieme, basato sulla convinzione che ogni individuo ha valore e appartiene alla comunità. L'inclusione non avviene solo nella scuola ma in diversi ambiti e fra molteplici categorie di persone. All'interno della scuola è il sistema che si deve adattare alla diversità degli allievi. Il modello sollecita il superamento dell’impostazione tradizionale, promuovendo il passaggio a un contesto centrato sullo studente, sulle teorie del costruttivismo e della cognizione situata e distribuita, sulla community of learns e sul bisogno di appartenenza e di comunità, sull’eterogeneità. 9.3Dalla disabilità ai Bisogni Educativi Speciali. Abbiamo sottolineato che nel nostro paese il processo di integrazione scolastica dei minori con disabilità ha catalizzato gli interessi di ricerca degli esperti e dei professionisti. Tuttavia, in questo scorcio di secolo registriamo un cambiamento nella direzione di un ampliamento della popolazione degli studenti soggetti di attenzione: accanto ai deficit trovano sempre maggiore considerazione i bisogni educativi speciali. La pratica quotidiana di uno sguardo più selettivo agli studenti problematici ha maturato la consapevolezza che la classe è un vivaio di diversità, fra le quali figurano altre fragilità oltre a quelle dei cosiddetti handicappati. I BES possono contare su una solida tradizione di elaborazione sul piano concettuale e operativo, rappresentando un settore maturo, potenzialmente in sviluppo sia in ambito psicologico, sia pedagogico e didattico. Di recente, l’autorità scolastica del nostro paese è intervenuta sulla questione, scegliendo di dare visibilità a una popolazione scolastica con difficoltà di apprendimento e a rischio di insuccesso formativo, per lungo tempo rimasta sommersa: un contingente non esiguo, una realtà altra rispetto agli studenti con disabilità. Si era già cominciato a imboccare questa strada fornendo agli insegnanti indicazione a tutela degli allievi con DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento), poi si è completato il percorso intrapreso con l’obiettivo di centrare più obiettivi contemporaneamente: - identificare un’unica macrocategoria di minori con problemi di studio e/o di scolarizzazione; - ricomprendere nel novero anche gli studenti con disabilità; - individuare le microisole di specificità all’interno del grande gruppo eterogeneo; - prevedere il diritto a progetti didattici individualizzati e personalizzati e a strumenti compensativi; - garantire pratiche più inclusive nelle classi e nelle scuole. Finalmente il mondo della scuola ammette che una schiera ampia di studenti manifesta problemi di apprendimento più o meno severi per ragioni personali e/o sociali. 9.4Modelli di scolarizzazione degli studenti con bisogni educativi speciali in Europa. Sebbene sul piano dei principi l’inclusione sia considerata la “via del futuro”, il traguardo condiviso da tutti i paesi europei e del mondo, nelle scelte operative i percorsi e i modelli di intervento si discostano anche di molto dalla scelta di accoglienza “radicale” tipicamente italiana. Nel contesto dell’Unione Europea il pedagogista Goussot identifica tre diverse concezioni del processo: - la proposta dell’opzione unica: la frequenza della scuola comune (Italia, Svezia) - un approccio molteplice, con una gamma di servizi più o meno integrati all’insegnamento ordinario (Francia, Regno Unito, Spagna, Germania, Finlandia) - la proposta di due opzioni parallele, cioè di due insegnamenti distinti e separati: ordinario e speciale (Belgio, Paesi bassi). Nel “sistema duale dissociato” sono praticati percorsi di educazione speciale separati dalla normalità, come risposta specifica a situazioni differenziali ugualmente specifiche. Nel condividere inserimento e impiego di risorse, il processo integrativo rende necessario il superamento del modello precedente, secondo la prospettiva “curricolare” e delle “competenze”: si tratta di offrire programmi di sviluppo individualizzati e una didattica differenziata nel contesto di normalità, a partire dall’adattamento del curricolo comune e dalla collaborazione tra insegnanti e tra compagni. Solo accompagnando l’integrazione con la revisione dell’esperienza educativo-didattica- organizzativa la si può dotare di maggior vigore; nel “sistema duale unificato” si corre il rischio di favorire la riproposizione della sostanza dell’educazione speciale, sostituendo l’idea di educazione intrinsecamente differenziata con quella di un’educazione adeguata in metodi, mezzi e servizi alle caratteristiche e alle eventuali difficoltà di apprendimento proprie di ciascun allievo. Il concetto di BES richiede che il polo della responsabilità educativa sia trasferita all’istituzione e allontanata dall’individuo. Nel “sistema unico” le categorie dell’integrazione e dei bisogni educativi speciali vengono superati, sfumate nell'idea di una scuola unica, comprensiva e inclusiva che, nel senso più innovativo, prospetti come uno dei suoi principi fondanti l’attenzione alle molteplici diversità degli studenti. Ciascuna necessità educativa speciale viene a occupare in questo contesto lo spazio di una questione ordinaria, di una condizione all’interno del gruppo che merita il trattamento differenziale migliore. 9.5Integrazione scolastica in Italia: un processo in divenire. Nella tradizione accumulata di quasi un quarantennio, il processo di integrazione dei soggetti con disabilità nel sistema formativo si è arricchito di una molteplicità di significati, fra i quali riconosciamo quello “pratico”, “prassico” e “pragmatico”. Il piano pratico-valoriale concerne la dimensione morale, orientata a promuovere la persona a essere se stessa, a trovare un equilibrio originale in presenza del deficit; questa accezione costituisce un presupposto degli altri significati. La scommessa è di guardare alla differenza e alla difficoltà in termini di risorsa, di apertura alle possibilità di conoscere nuovi percorsi esperienziali, di sperimentare nuove metodologie e modi di rapportarsi. Ciò favorisce un rafforzamento delle forme di convivenza, tenuto conto che l'impegno per l'integrazione scolastica di tutti rappresenta la condizione fondamentale per la successiva inclusione sociale e se possibile lavorativa. Il carattere prassico rimanda alle dimensioni giuridiche del processo di accoglienza nella scuola. Gli esperti ritengono che, nella transizione agli anni Novanta, le politiche di integrazione degli allievi disabili abbiano rappresentato una “variabile indipendente” rispetto a quelle scolastiche generali: la normativa si è cioè orientata a fare breccia nel rigido tessuto del sistema, per aprirlo all’accoglienza dei disabili; un esempio emblematico è la Legge quadro sull’Handicap. Una volta resa normale la presenza degli allievi con deficit, le politiche scolastiche si sono indirizzate a considerare l'integrazione una “variabile dipendente” del sistema; si sono quindi avute sempre meno norme apposite per i disabili nella scuola e sempre più gli aspetti dell'integrazione sono stati affrontati nell'ambito delle disposizioni generali. Il carattere pragmatico del processo integrativo/inclusivo si riferisce all’operatività attraverso cui il modello si traduce in concrete pratiche organizzative, didattiche e relazionali, cioè in componenti professionali individuali e collegiali. Un fondamentale strumento di raccordo è il Piano dell’Offerta Formativa (POF) il manifesto che racconta l’identità della scuola, rendendola pubblica. Il documento dovrebbe esprimere pienamente la sensibilità della comunità verso l’accoglienza degli studenti con difficoltà in quanto scelta innervata su una multidimensionalità progettuale e metodologica e sull’interazione tra professioni, famiglie, allievi. Nel 2013 il legislatore ha previsto che in ogni POF trovi chiara esplicitazione l'effettivo impegno programmatico della scuola per l'inclusione, anche attraverso l'elaborazione di un apposito “Piano Annuale per l'Inclusività”. Quanto alla formazione iniziale universitaria degli insegnati specializzati per il sostegno all’integrazione, secondo le indicazioni della “Legge Quadro” la preparazione specialistica si è aggiunta rispetto al normale curriculo formativo del futuro docente: si opta dunque per un profilo professionale eminentemente educativo. CAPITOLO 10. PROMUOVERE LA SCUOLA COME COMUNITÀ INCLUSIVA. 10.1 Modelli di scuola e disabilità. La scuola è ambiente di educazione e istruzione, contesto naturale della relazione didattica di insegnamento-apprendimento. Ma secondo quale modello funzione? Gli esperti individuano due grandi modelli in grado di rispondere alle sfide del cambiamento, reciprocamente alternative: quello funzionalista e quello antropocentrico. Secondo la logica funzionalistica/scuola-azienda il compito della scuola è implementare negli studenti saperi e competenze utili alla domanda sociale e produttiva. La ricerca di serietà, nei termini di efficienza ed efficacia, è il principale indicatore di qualità; viene dedicata una forte attenzione alla misurazione del profitto degli allievi e alla produttività degli insegnanti; si cerca una chiara definizione delle competenze in uscita. Si tende a valorizzare gli studenti più capaci. Il modello antropologico/scuola-comunità rifiuta di sostituire la logica pedagogica con quella economicistica. Pur accentando l‘idea che il sistema scolastico debba abilitare i giovani ai saperi professionali, come richiesto dalla società, non vuole misurarsi esclusivamente con l’indicatore della produttività. Vuole invece coniugare le conoscenze e le competenze funzionali con la formazione globale della persona di tutti gli studenti, ciascuno considerato nella sua originalità esistenziale. Ritiene che solo all'interno di un contesto comunitario le singole individualità possano essere pienamente accolte, riconosciute e sostenute nel percorso di crescita, abilitate a divenire autonome e responsabili. Indipendentemente dal modello utilizzato bisogna ricordarsi che la scuola è “organizzazione che apprende” (learning organization), nel senso che il paradigma adottato ufficialmente o di fatto praticato si fa modello di apprendimento e di cultura nei confronti di tutte le componenti interne così come degli interlocutori sul territorio. Sul tema della disabilità, all’interno della stessa scuola, possono convivere prassi molto differenti. È ipotizzabile che un'istituzione improntata al modello funzionalista rivolga agli studenti disabili o con necessità educative speciali dei riguardi differenziati, anche efficienti sul piano tecnico, ma riservati, perchè la loro presenza in classe comporta perdita di tempo per tutti. Le soluzioni pratiche non mancano: aule laboratorio attrezzate, aule di sostegno, concentrazione di allievi disabili, classi differenziali. Al contrario, nella logica del modello comunitario, l'istituzione si sforza di offrire risposte specifiche (speciali) a problemi personali particolari in contesti di normalità e non in ambienti separati: la “scuola di speciale normalità” prevede l'arricchimento dell'offerta formativa, l'adattamento della programmazione di classe, la collaborazione solidaristica tra docenti e tra allievi, l'eventuale riduzione di allievi nelle classi frequentate da studenti con disabilità. In una scuola dell'autonomia che voglia assumere l'inclusione come valore trasversale di riferimento è necessario che l'iniziativa di produrre finalità, obiettivi, regole, procedure e risorse orientati al rispetto e alla valorizzazione delle diversità individuali, si traduca in coerenti atteggiamenti professionali, in cultura organizzativa, riti e abitudini. Il “Piano per l’inclusione” vuole rappresentare uno strumento strategico nelle mani degli insegnanti con un duplice scopo: da un lato far emergere l’insieme delle difficoltà e dei disturbi riscontrati, dando consapevolezza di quanto è consistente e variegato lo spettro delle diversità all’interno della scuola; dall’altro sollecitare la creazione di uno sfondo di trame condivisi, su cui sviluppare una didattica attenta ai bisogni di ciascuno nel conseguire gli obiettivi comuni. 10.2 Le categorie di una scuola accogliente. Il Piano dell’Offerta Formativa è il documento istituzionale, curricolare, didattico e organizzativo attraverso il quale la scuola dichiara la propria identità formativa e determina le modalità di rapporto con il territorio. È anche lo strumento storicizzato e contestualizzato con il quale realizzare la composizione dei bisogni di formazione differenziati nei minori e delle loro famiglie in un progetto di educazione attraverso l’istruzione. Una scuola dell’autonomia che voglia essere accogliente verso la disabilità deve favorire al massimo la comunicazione reciproca, il coinvolgimento e il senso di responsabilizzazione al compito fra le persone e i gruppi che la animano. Convivialità è il termine che esprime al meglio la natura delle relazioni profondamente umane che dovrebbero investire gli ambienti educativi. Reciprocità e integrazione richiamano necessariamente la categoria della flessibilità a livello curricolare, didattico, metodologico, organizzativo, linguistico, relazionale. La dimensione dell’autonomia, che costituisce l’identità delle istituzioni formative, va coniugata anche in relazione al fine del processo educativo: cioè lo sviluppo della persona responsabilizza ciascun allievo durante il suo viaggio evolutivo. Il processo di conoscenza deve osservare alcune cautele: - rispettare lo svelarsi reciproco tra adulto-allievo; - non indentificare l’allievo con il suo deficit; - non cercare di fermare il fluire di situazioni personali e relazionali. Per il compagno con disabilità è opportuno allestire una situazione ideale; l’individualizzazione didattica e la personalizzazione educativa rappresentano i modelli progettuali per rispondere a questa intenzionalità. Questo ci porta anche a chiarire che il PEI non è solo un prodotto artificiale da costruire in senso tecnico, che rischia di imprigionare il soggetto nel determinismo di qualsivoglia necessità, ma un cammino frutto di scelte che si rinnovano nel tempo, grado scolare dopo grado scolare. L’art 12 della Legge quadro puntualizza che il progetto formativo va condiviso con l’allievo e con la sua famiglia, anche nel rispetto delle sue scelte culturali, per sostenere lo sviluppo della personalità anche ai fini dell’inserimento sociale/lavorativo, facendo da supporto al più ampio progetto di vita indipendente. La valutazione formativa deve curare sicuramente il profitto (conoscenze, competenze, padronanza di procedimenti e strumenti) ma anche lo sviluppo cognitivo e metacognitivo e la motivazione all’apprendimento continuo, affinché l’allievo acquisisca una sempre maggiore governance dei suoi progressi culturali e sociali. Si prevede una valutazione individualizzata legittimando, per tutto l'arco della scolarità, il ricorso a giudizi che si riferiscono alla situazione di partenza, nonché agli insegnamenti previsti nel PEI ed effettivamente impartiti. L’offerta scolastica è impegnata a realizzare per ciascun soggetto, anche in difficoltà, un armonico rapporto tra lo “spazio di esperienza” e l’”orizzonte di attesa”: il primo è la dimensione nella quale l'educatore offre stimoli alla crescita, fungendo nello stesso tempo da “contenitore” rispetto alle esperienze dell'educando e alle possibilità di sconfinamento psicologiche, spaziali, temporali; il secondo richiama la persona come “idea direttiva”, è il futuro reso intenzionalmente presente come fine da attingere. Nei confronti dell’adultità, la scuola e la famiglia si trovano affette dalla “sindrome da carenza di progettualità pedagogica” che induce a declinare ogni azione e ogni progetto sull’unica dimensione temporale del presente. Vi è la necessità, perciò, di aprirsi a elaborare un progetto scolastico che diventi sempre più un progetto per la vita adulta. 11.2 La documentazione che accompagna l’integrazione scolastica. Il processo di integrazione del minore con disabilità coinvolge tutto l’ambiente scolastico nelle sue varie dimensioni, come si è cercato di argomentare. L’originalità di cui è espressione lo studente “diverso” delinea inoltre un percorso mai definibile a priori, che va costruito sulla base di esigenze particolari (educative, didattiche, sanitarie, sociali) le quali richiedono di volta in volta soluzioni differenti, fuori dalla logica della tradizione o di metodologie ad hoc, per quanto affermate e innovative. Il processo integrativo stimola, o dovrebbe stimolare, la scuola a divenire soggetto di ricerca, per individuare e attivare soluzioni adeguate ai bisogni personali. In questa prospettiva assume un'importanza strategica la documentazione dell'iter per il quale la legislazione prevede strumenti specifici: la diagnosi funzionale e il PEI. 11.2.1Diagnosi/profilo funzionale all’intervento educativo. Diagnosi funzionale: descrizione analitica della compromissione dello stato psicofisico dell’alunno al momento in cui accede alla struttura sanitaria. Questa prima concezione si è rilevata di impostazione prevalentemente clinico-medica, pertanto scarsamente in grado di fornire aiuti concreti agli insegnanti per la definizione del progetto individualizzato. Ha trovato perciò adesione il nuovo modello di considerazione della disabilità introdotto dall’ICF, dove la diagnosi funzionale è l’atto di valutazione dinamica di ingresso e presa in carico, per la piena integrazione scolastica e sociale e si articola nelle seguenti parti: - approfondimento anamnestico e clinico; - descrizione del quadro di funzionalità nei vari contesti; - definizione degli obiettivi in relazione ai possibili interventi clinici sociali ed educativi e delle idonee strategie integrate di intervento; - individuazione delle tipologie di competenze professionali e delle risorse strutturali necessarie per l’integrazione scolastica e sociale. La descrizione diagnostica richiama conoscenza, sollecita la reciprocità dello scambio di informazioni tra operatori e attori che animano ambienti diversi. Il progetto di benessere personale si costruisce e si alimenta con la sinergia di ottiche differenziate. Bisogna tenere conto dei bisogni essenziali e che la diagnosi è evolutiva. 11.2.2 Il “Piano Educativo Individualizzato”, dispositivo strategico del processo. Il PEI è il cuore vitale della progettazione scolastica in prospettiva integrativa. Comprende i progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione, integrati ed equilibrati fra di loro, correlati alla disabilità, alle difficoltà e alle potenzialità dello studente; comprende anche integrazione tra attività scolastiche ed extrascolastiche. Il PEI si propone come documento e come pratica che riassume le fasi fondamentali della comprensione delle capacità per prevedere, sulla base di esse: - individuazione degli obiettivi plausibili; - l’orientamento rispetto alle attività, alla scelta delle risorse professionali e materiali e ai metodi più adeguati; - la valutazione dei traguardi raggiunti dallo studente così come della qualità dei processi attivati, in vista di una revisione. Al di là delle declinazioni sulla carta, il PEI nel concreto può venire declinato come veicolo che incrementa la partecipazione dell'allievo alla vita del gruppo classe di appartenenza, in termini di apprendimenti e socializzazione, qualora vi sia sinergia tra i docenti a livello programmatico, organizzativo, metodologico, operativo. Oppure, al contrario, può divenire uno strumento sofisticato di isolamento, qualora sia espressione di una costruzione solitaria e di un utilizzo disfunzionale da parte del solo docente specializzato. Quando si lavora alla costruzione di un buon PEI ci si rende conto che l'orizzonte di riferimento progettuale non può essere confinato nella scuola, ma la progettazione dell'attività scolastica deve essere strettamente connessa con l'esperienza extrascolastica: con il modello di vita e le attività familiari, con i vissuti riguardo agli interventi terapeutico- riabilitativi, con la qualità e la ricchezza delle occasioni culturali, ricreative, di tempo libero, di stage per l'impiego ecc… In questo senso il PEI è un tassello dinamicamente innestato nel progetto di vita dell'allievo, nella misura in cui il progetto scolastico tiene in considerazione la centralità e la globalità della persona. 11.3 Pensare adulto lo studente con disabilità. Una buona qualità della vita adulta dovrebbe essere l'orizzonte per orientare l'insegnamento scolastico a una integrazione sociale più ampia, al massimo di autonomia possibile e a un lavoro dignitoso per l'allievo in difficoltà. Il PEI è un progetto di vita che immagina di costruire nell’oggi la dimensione del futuro. L’arco della età evolutiva è particolarmente importante e delicato per sostenere il minore con disabilità nella costruzione di un’identità il più possibile aperta, plurale, non appiattita su una diagnosi che rischi di diventare un destino vincolante. La scuola, al fianco della famiglia, ha un ruolo fondamentale nell’accompagnamento verso l’autodeterminazione. L’attività di orientamento rappresenta uno snodo delicato ed essenziale per creare un saldo collegamento tra il PEI scolastico e il progetto di vita. Una scuola orientativa stimola gli apprendimenti e nello stesso tempo pone l’accento sulle capacità del soggetto, in quanto sono queste che possono permettergli, tramite le scelte e l’operatività, di funzionare. Questo comporta di considerare l’alunno potenzialmente ricco di un’azione che va sollecitata a concretizzarsi in virtù della situazione proposta in classe, nella scuola, nell’extra scuola. CAPITOLO 12. UN “CORO” DI PROFESSIONALITA' PER L'INTEGRAZIONE SCOLASTICA. Nella “via italiana” alla scolarizzazione degli allievi con disabilità l’insegnante specializzato per il sostegno è una figura cardine del processo di scolarizzazione degli allevi con disabilità. Per favorire una buona accoglienza occorre che anche gli insegnanti curricolari si occupino del PEI, curando che sia in collegamento con l’attività svolta per tutti i compagni. Vi sono altre figure professionali come l’educatore professionale, l’assistente educativo, l’interprete della lingua dei segni o Braille (deficit sensoriale), l’eventuale personale paramedico, il collaboratore scolastico che si occupa dei bisogni primari dello studente. 12.1 L’insegnamento specializzato, da sempre figura essenziale per gli studenti con disabilità. Una sintetica rassegna sulla storia dei percorsi formativi dell’insegnante specializzato nel nostro paese, dal primo Novecento ai giorni nostri, ci può essere utile per comprendere l’evoluzione nel tempo e l’odierna connotazione di questo profilo, che ci contraddistingue rispetto agli altri paesi europei. Abbiamo già ricordato che la prima Scuola magistrale ortofrenica viene aperta a Roma agli inizi del secolo scorso, con la finalità di qualificare in modo specifico i maestri impegnati nelle istituzioni dedicate agli “anormali psichici”. È solo con il Regio Decreto del 1928 che la formazione specializzata trova una prima sistematizzazione, con l’istituzione di scuole diversificate per le differenti minorazioni: le Scuole di metodo per insegnanti dei soggetti ciechi e sordomuti, i Corsi sulla fisiopatologia dello sviluppo fisico e psichico per gli insegnanti elementari, la conferma delle Scuole magistrali ortofreniche. A partire da metà degli anni Settanta, il progressivo inserimento dei minori con disabilità nelle scuole comuni rende acuto il problema di garantire un’adeguata qualificazione specialistica del corpo insegnante. Il rapporto alla Commissione Falcucci segnala un quadro di inadeguatezza e negatività per quanto riguarda la formazione dei maestri di scuola materna e di scuola elementare e l’assoluta mancanza specialistica nelle scuole medie. Con il DPR n 970/75 la materia viene radicalmente rinnovata, prevedendo che i dirigenti e i docenti di tutti gli ordini di scuola debbano essere forniti di titolo di specializzazione “polivalente” (valido per tutte le tipologie di minorazione). Due anni dopo vengono approvati i Programmi dei corsi di specializzazione per il personale direttivo, docenti ed educativo da proporre alle scuole e agli istituti che perseguono particolari finalità i quali prevedono contenuti comuni per tutte le tipologie di minorazione: anche gli studenti ciechi e sordi sono ormai entrati nelle classi comuni. Tuttavia, il profilo di insegnante specializzato risente di una qualificazione ancora marcatamente sanitaria. Il consolidamento dell’esperienza di integrazione, maturata nell’arco di un decennio e le nuove esigenze emergenti in seguito alle riforme nel sistema scolastico (organismi collegiali, Legge n. 517/77) e in quello sociale e sanitario rendono evidente l0urgenza di rinnovare l’impostazione dei programmi del 1977. Essi vengono sostituiti nel 1986 con i Corsi biennali di specializzazione per il personale direttivo, docente ed educativo operante in attivitò di sostegno agli alunni handicappati frequentanti la scuola comune materna e dell’obbligo o iscritti alle scuole aventi particolari finalità (poi modificati nel 1988). Mentre si confermano il carattere polivalente della formazione e l’importanza dell’area formativa si riducono fortemente i contenuti di area sanitaria, volendo accentuare la dimensione pedagogica in senso osservativo, progettuale e metodologico. La legge di riforma sanitaria, infatti, orientata alla distinzione e alla separazione delle competenze educative da quelle terapeutico-riabilitative, restituisce all'insegnante specializzato il suo ruolo educativo-didattico. Il piano formativo dei programmi non vuole avere un carattere accademico, ma si propone di costituire un progetto impiantato su tre poli: - l’area disciplinare (contenuti pedagogici, psicologici e clinici); - la dimensione operativa (finalizzata alla prassi); - la didattica curricolare (impegnata ad adattare la didattica generale alle specifiche esigenze delle minorazioni). Il docente specializzato è colui che in classe e nella scuola rappresenta il “riferimento al progetto di aiuto all’alunno handicappato”. Un nuovo impulso al rinnovamento del modello formativo giunge in seguito all’entrata in vigore della Legge quadro sull’handicap, che considera l’insegnante di sostegno “contitolare” di classe alla pari con i docenti curricolari e prevede che la formazione specialistica venga allocata in ambito universitario. Si chiarisce che la cura dell'allievo disabile non va delegata in maniera esclusiva all'insegnante specializzato ma tutto il personale deve impegnarsi ad attivare strategie e tecniche adeguate. Alla fine degli anni Novanta vi è la decisione di qualificare la formazione di tutti gli insegnanti collocandola a livello accademico. 12.2 Un profilo tra specializzazione e “ sostegno”. “Insegnante specializzato/ insegnante per il sostegno” sono le espressioni più frequentemente adottate, a volte separatamente, a volte in modo associato, per indicare le “vocazioni” professionali di questa figura di docente. Il primo tende a evidenziare le conoscenze e le competenze tecniche (di ordine psicosocio-medico-pedagogico) che l’insegnante deve mettere a disposizione per favorire lo sviluppo delle potenzialità dell’alunno, mentre l’insegnante di sostegno evidenzia la funzione di supporto all’inclusione: sostenere lo sviluppo del minore e la sua piena accoglienza nel contesto della scuola sottolineando la funzione di contenimento, guida, aiuto che il docente svolge nei confronti In realtà le cose non stanno così né per la pedagogia né per la medicina. Ed infatti molto più spesso di quanto non si creda, la pedagogia si riduce ad essere una sorta di definizione, tanto più apprezzata quanto più possibile particolareggiata e congruente al proprio interno, delle modalità attraverso le quali trasmettere alle nuove generazioni dei contenuti pre-dati, secondo una prospettiva di massima integrazione sociale. Analogamente, la medicina, molto più spesso di quanto non si creda, si riduce ad essere un insieme di tecniche o di indicazioni, tanto più apprezzate quanto più oggettive ed inequivocabili possibile, attraverso cui aggiustare quelle parti del corpo umano che risultassero non più funzionanti a dovere o non congruenti con un modello di esso considerato come una vera e propria norma generalizzata. Con ciò non voglio certo negare che tali modalità di realizzare non siano o non debbano essere presenti nella pedagogia e nella medicina. Ciò che intendo sostenere è che ove queste due scienze ritenessero di poter limitare o di poter caratterizzare tutto il loro sapere ed il loro operare secondo quelle modalità, esse perderebbero la loro connotazione di scienze dell’uomo e per l’uomo. Reciproco riconoscimento della Pedagogia e della Medicina. Possiamo affermare che non esiste un rapporto di collaborazione e reciproca considerazione tra le due scienze; tuttavia, occorre sottolineare il possibile apporto che l’una può dare all’altra scienza per quel che riguarda il riconoscimento delle proprie competenze per il destino dell’uomo. Continuità tra Medicina e Pedagogia. Le due scienze presentano notevoli differenze, specie per quel che riguarda la dimensione temporale: sebbene entrambe si rivolgano al soggetto, la pedagogia volge il suo impegno alla costruzione della globalità della persona orientandola verso il futuro, con obiettivi a lungo termine; la medicina invece volge il suo impegno al raggiungimento di obiettivi vicini nel tempo, legati all’alleviamento dei sintomi o alla guarigione. Un elemento di continuità tra le due scienze sta quindi nel partire dal presente per capire l’individuo, il suo passato, rendendo la dimensione del loro operare volto al futuro. In quanto scienze dell’uomo, fanno ricorso a metodologie individualizzate. In quanto scienze dell’uomo, entrambe usano delle metodologie individualizzate finalizzate al riconoscimento e al rispetto della dimensione soggettiva del disabile. Questa dimensione non è un limite ma una ricchezza da sfruttare in quanto chiama in causa la stessa soggettività della figura del medico e dell’operatore, divenendo anche loro protagonisti attivi e non esecutori di interventi. Sia medico che educatore intervengono nell’evento, ognuno con le rispettive competenze, trasformando l’incontro con l’educando in commercio spirituale e non in un freddo scambio di domande e risposte. Jean Itard, Memorie sui primi progressi di Victor de l’Aveyron. -> pp223-227 Gli obiettivi educativi. Il “selvaggio di Aveyron” aveva circa 4 anni quando fu abbandonato nei boschi per poi essere ritrovato a circa 12 anni. Sebbene il selvaggio fosse stato etichettato come “idiota”, in realtà Itard sosteneva che questo suo stato dipendesse da un’assenza di educazione dovuta al lungo periodo di isolamento che aveva vissuto nei boschi. Itard così si affidò alla medicina morale nel perseguire 5 obiettivi per l’educazione del selvaggio: 1) legarlo alla vita sociale rendendogli la vita più dolce di quella vissuta nei boschi; 2) usare degli stimolanti energetici per risvegliare l’animo; 3) moltiplicare i suoi rapporti col mondo circostante per stimolargli nuovi bisogni; 4) insegnarli a parlare; 5) trasferire sugli oggetti i suoi bisogni fisici per poi applicarli su oggetti che possono istruirlo. I progressi nello spazio di 9 mesi. Il selvaggio in 9 mesi diede prova di attenzione, di giudizio, di applicare le facoltà dell’intelletto ad oggetti relativi alla sua istruzione. Itard, pertanto, si rese conto che la sua educazione era assolutamente possibile. Sviluppo delle funzioni dei sensi. Fu così che si operò il perfezionamento dei sensi. Tutti, ad eccezione di quello dell’udito, usciti dalla loro lunga abitudine, si aprirono a nuove percezioni e portarono nell’animo del giovane selvaggio una serie di idee fino allora ignote. Dopo che Victor cominciò a sviluppare le funzioni sensoriali riuscendo a distinguere i colori, il gusto, il tatto di determinati oggetti, Itard si rese conto della necessità di ricorrere alle facoltà dello spirito, cioè portarlo a comunicare le idee che i sensi gli avevano fornito. Sviluppo delle funzioni intellettuali. Mentre Itard preparava il terreno per sollecitare le funzioni intellettuali di Victor, questi cominciò a comprendere che se esistevano delle somiglianze tra gli oggetti dovevano avere anche funzioni simili. Un giorno Itard chiese per iscritto a Victor un coltello e questi gli portò un rasoio. Finita la lezione Itard gli porse del pane come premio esigendo che Victor lo dividesse col coltello e non con le mani. Victor prese il coltello ma la lama non tagliava così Itard prese il rasoio e si rase mostrandogli la vera funzione del rasoio: da quel momento Victor non identificò più il coltello col rasoio. Sviluppo delle capacità affettive. L’aumento delle funzioni di Victor e il conseguente aumento dei bisogni unite alle reti di rapporti istaurati con chi si prendeva cura di lui, lo portò a sviluppare delle capacità affettive che si palesarono in un episodio: l’ultima volta che Victor fuggì dall’istituto cadde nelle mani della gendarmeria che lo arrestò e lo tenne prigioniero; una volta riconosciuto fu riportato alla sorvegliante che si occupava di lui e quando Victor la vide si rianimò manifestando la sua gioia con grida e con un volto raggiante, tipico di un figlio che torna tra le braccia della madre. Edouard Seguin, L’educazione degli idioti. -> pp. 228-231 La questione dell’educazione degli idioti . Secondo il metodo di Seguin gli idioti possono essere educati regolando l’uso dei sensi, moltiplicando le nozioni, alimentando le idee, le passioni. Il suo metodo si basa sull’unità funzionale tra il sistema nervoso e muscolare, tra il moto e il senso e tra il senso e l’intelletto. Questo metodo innovativo di Seguin rappresenta il primo sguardo teorico di tutti i tempi rivolto all’educazione degli idioti; è pertanto un apparato da perfezionare che Seguin espone come “arte” più che come metodo (“arte di istruire gli idioti”). Il metodo speciale . L’educazione secondo Seguin deve abbracciare: 1) attività; 2) intelligenza; 3) volontà. Queste corrispondono alle 3 dimensioni dell’essere umano: sentimento, spirito e moralità. L’attività è il sentimento tradotto in atto, l’intelligenza è la funzione dello spirito, la volontà è la spontaneità moralizzata. L’educazione all’attività abbraccia 2 aspetti legati all’esistenza: la motilità che lega l’individuo all’ambiente, e la sensibilità che permette ai sensi di capire gli agenti esterni che li modificano. La motilità agisce dall’interno all’esterno e negli idioti è la sede delle anomalie; la sensibilità agisce dall’esterno all’interno ed esercitandola possiamo riordinare tutto ciò che ci circonda. L’educazione intellettuale permetterà all’idiota di diventare sempre più simile ai soggetti normali stimolando le attitudini al lavoro, la manualità. Tutto questo chiaramente non sarebbe possibile senza la volontà dell’interessato, l’educazione morale deve infatti dominare il processo educativo correggendo gli istinti cattivi. Lev Semenovic Vygotskij, La legge di compensazione. Secondo Vygotskij la compensazione trasforma il deficit in abilità. Il principio di “compensazione” è strettamente connesso ad un approccio nuovo al soggetto con disabilità, sia in medicina sia in pedagogia, orientato a non dedurre aprioristicamente dall’accertamento di un deficit l’anomalia del portatore. Seguendo la legge della diga di Lipps notiamo che se un avvenimento psichico viene frenato o interrotto nel suo corso naturale, si verifica un’inondazione proprio laddove è presente l’interruzione; se l’energia si concentra in quel punto, l’ostacolo può essere superato. Secondo Vygotskij, quindi, le possibilità compensatorie di superare il deficit devono essere la forza motrice del processo educativo. La considerazione del deficit solo come difetto e non come forza positiva è come dire che si stia iniettando una malattia attraverso il vaccino ad un bambino sano; in realtà lo si sta immunizzando contro la malattia. La compensazione è un estremo dei due sblocchi del processo, l’altro estremo è rappresentato dall’insuccesso della compensazione, dall’isolamento, dalla fuga della malattia. Vygotskij chiarisce che la teoria della compensazione del deficit va distinta dalla teoria biologica della compensazione degli organi, secondo quest’ultima la soppressione della funzione porta allo sviluppo di altre funzioni che quindi la sostituiscono. Le ricerche a tal proposito, hanno dimostrato che nel bambino cieco non aumenta automaticamente il senso del tatto per compensare il difetto visivo. Maria Montessori, I cardini dell’educazione: il materiale di sviluppo e la maestra. Il materiale di sviluppo. Il materiale di sviluppo usato da Maria Montessori per lo sviluppo dei sensi è costituito da un sistema di oggetti raggruppati in base ad una determinata qualità fisica: colore, forma, dimensione. Ogni gruppo rappresenta la stessa qualità, ma in gradi diversi. Grazie a questa gradazione, ogni oggetto ha agli estremi un massimo e un minimo della serie che ne determinano i limiti che sono fissati dall’uso che ne fa il bambino. Questi estremi se vengono avvicinati stabiliscono il contrasto del materiale a cui il bambino s’interessa prima ancora di cominciare ad esercitarsi. Qualità fondamentali comuni a tutto ciò che nell’ambiente educativo circonda il fanciullo. Tra i caratteri presentati in precedenza se ne aggiungono degli altri: 1. Il controllo dell’errore conduce il bambino ad usare il ragionamento e la critica nei suoi esercizi: attraverso l’esercizio con gli oggetti il bambino riesce a constatare l’errore, così come in una bottoniera l’ordine sbagliato si rivela con un’asola vuota. 2. L’estetica con cui il materiale si presenta (colore, lucentezza) è preparato per far in modo che possa attirare il bambino. 3. L’attività, l’oggetto deve prestarsi all’attività del bambino stimolando il suo interesse; è necessario che ci siano oggetti da spostare, da riordinare poiché se il bambino deve solo vedere o toccare un oggetto immutabile perderà interesse passando ad altri oggetti. 4. I limiti, l’oggetto deve essere limitato in quantità perché il bambino normale non ha bisogno di stimoli ma necessita di ordinare il caos formato dalle varie sensazioni provate. Crediamo erroneamente che il bambino che ha più giocattoli è più sviluppato. La maestra . Nel metodo Montessori la maestra non deve dare cognizioni, né deve indurre il bambino ad usare bene gli oggetti; l’attenzione viene spostata interamente sul bambino che è il protagonista dell’attività. Gli oggetti non devono essere visti come un aiuto per la maestra, cioè dei mezzi didattici, sono un aiuto esclusivamente per il bambino divenendo quindi dei mezzi di sviluppo. Il ruolo della maestra è quello di osservare discretamente e sapientemente, deve ritirarsi all’occorrenza; è un collegamento tra bambino e materiale, in quanto deve semplicemente spiegarne l’uso. Giovanni Bollea, La scuola integrata può favorire il recupero dell’insufficiente mentale. Tu sei capace solo di parlare. Hull racconta dei comportamenti del figlio intento a determinare esattamente le implicazioni che la cecità ha nel rapporto col padre e davanti alla domanda “papà tu sei capace solo di parlare” Hull risponde che è capace sì di parlare, ma anche di ascoltare, di gridare e di fare il solletico. Il lutto è terminato? Hull racconta che una sera, tornando a casa, aspettando ad un incrocio che il semaforo emettesse il segnale sonoro di attraversamento, percepì il contrasto tra quel che sentiva dentro di sé e quel che appariva al mondo esterno. Egli si rese conto che un ambiente per lui normale, ricco di informazioni che gli comunicassero il necessario per attraversare la strada, potesse apparire sotto una luce diversa al guidatore di un’auto. Secondo Hull un guidatore vede l’incapacità e la mancanza di informazioni tali da fargli pensare che Hull possa commettere qualche errore per sé stesso e per gli altri; ma in realtà probabilmente Hull ha la sicurezza di un qualsiasi pedone fermo ad un incrocio. Christy Brown, La fiducia di mia madre mi aiutò a non arrendermi. -> pp260-263 Christy Brown è un tetraplegico che riesce ad ottenere una vita quasi normale grazie alla tenacia della madre e all’uso del piede sinistro. Egli racconta che da un punto di vista medico la sua situazione era incurabile ma la madre si rifiutava di crederlo, fin quando un giorno scelse di fare di testa sua e decise di educare Christy come aveva educato gli altri figli. Fino ai 5 anni Christy non diede alcun segno di intelligenza, quando improvvisamente tutto cambiò grazie ad un evento: i fratelli di Christy stavano effettuando delle addizioni sopra una vecchia lavagna con un gessetto giallo, ciò che attirò l’attenzione di Christy fu proprio il gessetto giallo; improvvisamente Christy fu preso da un folle desiderio di imitare la sorella così gli strappò il gesso di mano e lo tenne stretto col piede sinistro tracciando sulla lavagna un disegno informe. Visto il gesto, la madre stimolò Christy a tentare e ritentare di scrivere qualche lettera finché non ci riuscì; da quel momento la madre si impegnò a insegnare a Christy tutto l’alfabeto, a mettere insieme le parole e a leggere. Quel piede sinistro fu per Christy l’unica chiave per la libertà mentale. Oliver Sacks, La lingua dei segni, un codice di pari dignità rispetto al parlato. -> pp263-266 Nella lingua dei segni il volto assume delle funzioni linguistiche, i comportamenti facciali possono esprimere una determinata costruzione sintattica o avere la funzione di avverbi. La differenza con le altre lingue sta nel fatto che nella lingua dei segni è importante l’uso dello spazio; lo spazio risulta complesso a un occhio normale che non capisce le varie configurazioni spaziali. Tutto ciò che nel parlato è lineare, nei segni diventa simultaneo. Gli studiosi vedono nel segnare una dinamica di movimenti paragonabili alla musica. La lingua dei segni è l’unica a possedere 4 dimensioni: le 3 dimensioni accessibili al corpo del segnante e la dimensione temporale. In conseguenza di ciò la struttura linguistica dei segni non è narrativa, ma è strutturata come quella di un film, in cui la posizione di ciascun segnante ricorda la cinepresa. Alla lingua dei segni viene riconosciuta pari dignità rispetto al parlato. Si conferma, a livello neurologico, che quello dei segni è un linguaggio e come tale è trattato dal cervello, anche se è visivo e non uditivo, organizzato spazialmente anziché sequenzialmente nel tempo. In quanto linguaggio, è elaborato nell’emisfero sinistro del cervello che è biologicamente specializzato in tale funzione. Charles Gardou, Accompagnare senza perdersi. -> pp267-271 I professionisti occupano ruoli paragonabili ai pezzi di un mosaico. Gli interventi si sviluppano seguendo 3 assi: asse della materia poiché richiedono conoscenze e abilità specifiche in relazione alla persona; asse dello stile poiché nella professione viene coinvolta la persona nella sua globalità; asse del senso poiché ci si riferisce a convinzioni, valori. Difendersi dallo scientismo. Tra i professionisti si possono incontrare 2 rischi: 1) la sacralizzazione del sapere che alimenta le pretese scientiste; 2) la loro sottovalutazione o rifiuto che porta alla privazione dei benefici dei progressi tecnologici e non. Per cui il rischio di attuare interventi superspecialistici separati tra loro, a scapito di un approccio integrale verso il disabile. Il processo scientifico può esporre alla rigidità e alla disumanizzazione portando il professionista a dimenticare la propria influenza sul disabile, tanto da produrre accanimenti terapeutici talvolta dannosi. Ammettere il dubbio . I professionisti sono chiamati ad accompagnare il disabile nel corso degli anni diventando firmatari di un contratto di non abbandono che porta fino al fondo della disabilità. L’attitudine a dubitare, la capacità di lasciarsi mettere in discussione e la volontà di lasciare le difese permettono al professionista di svolgere egregiamente il proprio lavoro, evitando il rischio di ritualizzare le pratiche e cadere nello schematismo. Rifiutare il rapporto “asettico”. Alcuni professionisti per paura o pudore si mantengono distanti, evitando di esprimere empatia, per poter lavorare in qualità di tecnici. Il rapporto “asettico” pone il piacere, la reciprocità e la sofferenza in secondo piano. La predisposizione alla commozione, alla simpatia e alla condivisione di sentimenti non indicano una carenza professionale, al contrario, chiarisce le pratiche del professionista, organizzandole. Ammettere la propria vulnerabilità. I professionisti devono situarsi tra l’azione e il sogno, la tecnica e l’ascolto, poiché il loro percorso si trova a metà strada tra il sapere scientifico e la comprensione empatica dell’altro. L’esperienza quotidiana dei professionisti porta a ricondurre il senso delle esperienze al rapporto etico tra gli uomini, questo senso non può essere acquisito con alcun sapere. Andrea Canevaro, Formare le competenze tecniche e sociali dell’insegnante specializzato. -> pp271-274 Secondo Canevaro è necessario formare un profilo professionale specializzato. Anzitutto occorre eliminare alcuni equivoci come: la credenza che l’integrazione non ha bisogno della pedagogia speciale o di professioni specialistiche e che basti la pedagogia generale; la credenza che basti una figura che contenga il disabile permettendo al resto della classe di svolgere la propria attività; la credenza di poter fruire di insegnanti che svolgono le attività separate dalla classe. Questi equivoci portano determinati rischi: il ghetto affettivo che lascia gli handicappati privi di un progetto di integrazione; il ghetto tecnico che porta ad isolare il disabile giustificando la propria azione come risposta al bisogno della classe e non del singolo; la separazione spazio-tempo, cioè la separazione di spazio e tempo di tutti e di chi ha particolari bisogni. L’insegnante specializzato non deve avere un ruolo di transizione in attesa di diventare un insegnante curriculare, deve avere un ruolo permanente e in continua formazione. È importante inserire all’università un percorso formativo che corra su due binari: le competenze tecniche e le competenze sociali. Dario Ianes, Bisogni Educativi normalmente Speciali. -> pp274-279 I BES come difficoltà evolutiva di funzionamento educativo e/o apprenditivo. Il BES è definito da alcuni criteri:  sensibilità: cogliere precocemente le difficoltà del bambino;  reversibilità e temporaneità: molte situazioni con BES cambiano nel tempo, vanno incontro a miglioramenti e, quindi, sono reversibili;  minor impatto stigmatizzante che questa definizione ha rispetto ad altre come disabilità, dislessia. Possiamo quindi giungere ad una definizione unanime di BES: difficoltà evolutiva in ambito apprenditivo e/o educativo che consiste in un funzionamento problematico per il soggetto. Nei BES va riconosciuto il confine tra: 1) una deviazione di funzionamento per gli insegnanti e per la famiglia, ma non per il soggetto, oppure 2) una deviazione di funzionamento problematica per il soggetto e per il contesto, oppure ancora 3) una deviazione problematica per il soggetto ma non per il contesto. Nella situazione 1) il funzionamento non dovrebbe essere corretto ma tutelato e rispettato in quanto diversità da valorizzare; nella situazione 2) occorre prendersi cura del bambino in quanto può danneggiare sé stesso e gli altri. La soglia tra funzionamento normale e problematico. Occorre adesso porre la soglia tra funzionamento normale e funzionamento problematico. L’insegnante e il genitore attenti colgono in tempo le difficoltà del bambino, per poter passare ad una valutazione oggettiva del disagio occorre usare alcuni criteri: - il danno: il funzionamento problematico del bambino danneggia sé stesso o gli altri (autolesionismo, aggressività). In questi casi si deve intervenire in nome del benessere del bambino. - l’ostacolo: un funzionamento è realmente problematico se ostacola lo sviluppo futuro del bambino, comportando uno svantaggio evolutivo. - stigma sociale: un funzionamento problematico può influire negativamente sull’immagine sociale portando ad ulteriori ostacoli nello sviluppo. Attraverso questi 3 criteri possiamo stabilire se la preoccupazione verso i nostri figli o alunni è realmente fondata per poi, in caso di presenza di BES, intervenire opportunamente. European Agency for Development in Special Needs Education, Il profilo dei docenti inclusivi. -> pp279-284 Il progetto “la formazione dei docenti per l’inclusione” ha esplorato come la formazione prepara i docenti ad essere “inclusivi”. Il progetto triennale è stato realizzato per individuare quali sono le competenze essenziali, il bagaglio formativo e culturale, i comportamenti e i valori necessari a tutti coloro che intraprendono la professione di docente, a prescindere dalla materia di insegnamento, dalla specializzazione, dall’età degli alunni o dal tipo di scuola in cui si andrà ad insegnare. Il Profilo dei Docenti Inclusivi è uno dei risultati principali del progetto (un’esplicitazione di competenze e conoscenze necessarie per lavorare in ambienti inclusivi). Per l’insegnamento sono stati individuati 4 valori fondamentali che sono associati alle aree di competenza: comportamento, conoscenza, competenza. Il Profilo adotta questo quadro di valori fondamentali e aree di competenza: 1) Valorizzare la diversità dell’alunno . Le aree di competenza riportano a: opinioni personali sull’integrazione scolastica e sull’inclusione; opinioni personali sulla differenza che esiste nel gruppo-classe. 2) Sostenere gli alunni coltivando il loro successo scolastico . Le aree di competenza sono: promuovere l’apprendimento accademico, sociale ed emotivo dell’alunno; usare approcci didattici efficaci in classi eterogenee. 3) Lavorare con gli altri in collaborazione, dando importanza al lavoro di gruppo . Le aree di competenza sono: saper lavorare con genitori e famiglie; saper lavorare con più professionisti dell’educazione. 4) Aggiornamento professionale . Le aree di competenza riportano a: capacità del docente di riflettere sul proprio ruolo e sul proprio operato; considerare il percorso formativo iniziale come la base per uno sviluppo professionale continuo. Le principali norme sull’integrazione. -> pp285-294 Ricordiamo alcuni provvedimenti di importanza nazionale e internazionale sull’integrazione sociale e scolastica delle persone con disabilità. Provvedimento per tutto il mondo stabilito dall’ONU. Ricordiamo alcuni articoli della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità: Articolo 1 riguarda lo SCOPO. Promuovere e proteggere diritti umani e dignità dei disabili. Articolo 2 riguarda i PRINCIPI GENERALI. Parità tra uomini e donne, non discriminazione, piena inclusione nella società, rispetto e accettazione dei disabili. Articolo 7 riguarda i MINORI CON DISABILITA’. Si stabilisce il diritto dei minori disabili ad esprimere la propria opinione garantendone la libertà e l’uguaglianza con gli altri minori.
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