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L'Inferno: la dannazione 2/2, Appunti di Italiano

Introduzione all'Inferno. Canti analizzati: 5 (V), 6 (VI), 10 (X), 13 (XIII), 15 (XV), 26 (XXVI) e 33 (XXXIII).

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 25/06/2023

nikojovicic
nikojovicic 🇮🇹

9 documenti

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Scarica L'Inferno: la dannazione 2/2 e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! 1 L’Inferno: la dannazione Genesi e morfologia dell’Inferno: Dante concepisce l'Inferno come un'immensa voragine a imbuto, fatta di cerchi concentrici, il cui vertice inferiore coincide con il centro della Terra, dove si trova Lucifero. Proprio a lui è dovuta l'attuale configurazione del nostro pianeta: precipitato giù dal cielo da Dio come punizione per la sua ribellione, Lucifero è caduto sulla Terra nell'emisfero australe perforando la crosta terrestre fino ad arrivare al centro del nostro pianeta, dove è rimasto conficcato. Una grande quantità di terra si è spostata per ritrarsi il più possibile lontano da lui, formando un vuoto, e si è innalzata al centro dell'emisfero australe dando origine alla montagna del Purgatorio. All'Inferno dantesco si accede attraverso una porta, collocata non lontano da Gerusa-i lemme, nell'emisfero boreale. L'interno è un luogo dalla scarsissima visibilità, e sulle sensazioni visive dominano quelle uditive (le urla e le imprecazioni dei dannati), olfattive (l'immondo puzzo che sale dal basso Inferno) e tattili (il calore delle fiamme, il gelo del ghiaccio e la ruvidezza delle rocce). Oltre alla roccia, il paesaggio è segnato da alcuni corsi d'acqua: il fiume Acheronte, che segna l'inizio dell'Inferno vero e proprio; la palude Stigia, che segna il confine tra alto e medio Inferno; il fiume Flegetonte; e il lago Cocito, ghiacciato dal vento gelido creato dalle ali di Lucifero, che emerge dalla crosta di ghiaccio dalla cintola in su, al centro del lago. La struttura: C’è un Antinferno, dove si trovano gli ignavi, indegni di entrare persino tra i dannati a causa della loro pusillanimità; poi, passato l'Acheronte, si arriva al primo cerchio, il Limbo, dove si trovano le anime dei grandi personaggi del mondo classico, eternamente malinconici per non aver conosciuto la fede cristiana. Nei quattro cerchi successivi sono puniti i peccati di incontinenza: lussuria (secondo cerchio), gola (terzo), avarizia e prodigalità (quarto), ira, accidia e superbia (quinto). Questa prima parte è chiamata Alto Inferno. Le maestose mura della città di Dite segnano l'inizio del medio Inferno, dove sono puniti gli eretici (sesto cerchio) e i violenti (settimo cerchio), suddivisi in violenti contro il prossimo, violenti contro se stessi e violenti contro Dio. Un immenso baratro porta al Basso Inferno, dove viene punito il peccato di frode. Dopo la discesa nel pozzo dei Giganti, si arriva nel nono cerchio, dove si punisce il peccato più grave di tutti, la frode contro chi si fida, nel lago ghiacciato Cocito, diviso in quattro zone concentriche intitolate ad altrettanti grandi traditori del mito o della storia. Al centro del Cocito emerge Lucifero. Le pene e il contrappasso: Premesso che i peccati sono via via più gravi man mano che ci si avvicina al fondo, la ripartizione delle pene è basata sull'Etica Nicomachea di Aristotele, secondo il quale si può peccare per incontinenza, per «malizia» o per «matta bestialità». La frode è dunque il peccato più grave, perché comporta un uso perverso della ragione e del libero arbitrio, cioè del bene più grande e prezioso che Dio ha dato all'uomo. L'eresia naturalmente non era presente nel pagano Aristotele, ed è un'aggiunta di Dante. Nell'escogitare una pena adeguata a ogni peccato, Dante mostra una grande fantasia, basandosi sulla legge del «contrappasso». Questa parola deriva dal latino contra e patior, e quindi significa «soffrire in cambio». Dante, da vero poeta, la intende in senso precisamente qualitativo, ovvero fa compiere o subire un'azione ai dannati che ricorda il peccato da loro commesso, o per analogia o per contrasto. I legami con la vita terrena: Dante utilizza il contrappasso per mostrare come la vera dannazione di queste anime sia mantenere in eterno quella stessa mentalità che li ha portati a peccare, prigionieri della loro ossessione. I personaggi: Le anime dell'Inferno sono personaggi isolati, pieni di sé, a loro modo. grandi e tragici. Ma Dante sa che il suo giudizio e i suoi sentimenti umani non possono mettere minimamente in discussione la giustizia del giudizio di Dio, che è infallibile. Il suo turbamento 2 avviene perché egli, in quanto uomo, talvolta si riconosce in loro e sente di essersi macchiato dei loro stessi peccati, e avverte quindi il rischio della dannazione che incombe su di lui. Come tutte le anime che Dante incontra nella Commedia, quelle dell'Inferno appartengono a personaggi celebri, provenienti dal mondo antico (dalla storia, dalla mitologia, dalla letteratura) o contemporaneo, anche se alcuni personaggi, notissimi all'inizio del Trecento, per noi oggi sono solo dei nomi. La scelta è motivata dalla necessità di imprimere meglio nella mente del lettore l'evidenza del peccato da condannare, cosa che sarebbe avvenuta più difficilmente se Dante avesse scelto come rappresentanti di quel peccato uomini comuni. Guardiani mitologici: Tra i personaggi dell'Inferno troviamo numerosi mostri provenienti dal mito classico che non sono anime dannate, ma si trovano all'inizio di alcuni cerchi come custodi o come rappresentanti archetipici del peccato li punito. Caronte, come nel mito antico, è il traghettatore che porta le anime nell'Inferno sul fiume Acheronte. 5 Analisi del canto V La struttura: dall’orrore alla «pietà»: Nella prima sezione del quinto canto domina l'orribile figura di Minosse, che Dante ha reso più mostruoso, che nell'originale virgiliano, e anche grottesco, con quello strano movimento della coda. Minosse viene zittito da Virgilio con le stesse, identiche parole riservate a Caronte nel canto III: indubbiamente un'altra piccola durezza compositiva da parte di Dante in questi primi canti del poema. Poi si passa alla descrizione del secondo cerchio, quello dei lussuriosi. Come nel canto III, una tetra oscurità domina l'ambiente, e prevalgono le sensazioni uditive che colpiscono dolorosamente le orecchie di Dante, fra grida, lamenti e bestemmie. La parola «pietà» segna un punto di svolta fondamentale nel passaggio verso l'episodio di Francesca. Lo stile si addolcisce alla vista di quei due spiriti che sono dolcemente paragonati a due colombe mosse dal desiderio. Le prime parole di Francesca mostrano una donna di squisita educazione e di animo dolce, piene come sono di formule di cortesia non solo formale. Ma ogni leziosità è bandita: le celeberrime terzine dei vv. 100-108, con la definizione cortese dell'amore, mostrano che per Francesca l'amore è stato un sentimento possente, una scelta di vita, e non solo un gioco galante. A quel punto Francesca narra il momento dell'innamoramento con Paolo, che nel frattempo piange: e anche il poeta non può che cedere davanti a questo struggimento, e sviene. Temi motivi: «pietà» per tutti: «Pietà» è dunque la parola che segna la svolta nell'atmosfera del canto, al v. 72: inizialmente rivolta in generale alle «donne antiche e' cavalieri», poi alla fine soprattutto ai due amanti infelici. Dopo il disprezzo senza mezzi termini riservato ai pusillanimi nel canto III ecco dunque comparire un nuovo sentimento verso i dannati: la pietà. Non si tratta né di assoluzione verso una dannata dai nobili sentimenti, né di fredda comprensione razionale del suo operato che però riafferma brutalmente la necessità del castigo. Questa «pietà» è anche compassione umana verso una donna che è fragile e incline al peccato, e può dannarsi in eterno facendo una scelta sbagliata. Non dobbiamo mai dimenticare che la Commedia vuole essere anche un poema religioso basato sull' esemplarità: ciò che è accaduto a Dante può accadere a ogni cristiano; ma anche ciò che è accaduto a Francesca può accadere a tutti. A metà fra la pietà per la singola persona (Francesca) e la pietà per tutti gli uomini (fragili come Francesca) trova posto la pietà che Dante prova per sé stesso, Dante è turbato non solo perché è un essere umano come Francesca e come gli altri, ma anche perché in gioventù ha creduto negli ideali dell'amore cortese proclamati da Francesca, si è espresso con le stesse parole della nobildonna e ha scritto opere che obbedivano a questi ideali, Perciò il ripensamento e la condanna di queste sue posizioni non investono solamente la sfera religiosa, ma anche quella intellettuale e poetica; di qui la maggiore intensità del suo turbamento. Fonti e modelli: classici e romanzi: Non stupisce dunque che Dante dispieghi in questo canto tutte le sue letture giovanili, Naturalmente è presente Virgilio, sia nella ripresa delle figure di Minosse e Didone sia con citazioni più puntuali; e dall'antichità classica derivano le figure mitologiche legate alla guerra di Troia (Achille, Paride, Elena) e quelle storiche (Cleopatra). Poi, al v. 67 è introdotto Tristano, in rappresentanza del genere del romanzo. Naturalmente intendiamo «romanzo» nel senso medievale: opera scritta in lingua volgare in prosa o in poesia, di carattere avventuroso-amoroso. Il filone più celebre era naturalmente quello cavalleresco, ma non mancava il filone «classico» con le sue rielaborazioni molto libere di episodi della mitologia greco-romana. 6 Canto VI Riassunto con macrosequenze (5) (1-33) I golosi e Cerbero: Ripresi i sensi, il poeta si trova nel terzo cerchio, ove una pioggia continua, formata di acqua sudicia, neve e grandine, flagella in eterno i peccatori e forma una puzzolente fanghiglia, in cui essi stanno sdraiati. Cerbero, orribile mostro dalle tre facce, dalle mani d'uomo e dal corpo di animale, latra con le tre gole canine, graffia e scuoia gli spiriti che urlano come cani Virgilio prende a piene mani il fango puzzolente e lo getta a Cerbero, che lo riceve nelle gole avide, come un cane affamato, che si quieta nel mordere il cibo. (34-57) Incontro con Ciacco: I due poeti passano poggiando i piedi sulle vane ombre, che giacciono per terra, tranne una che, al passar di Dante, si leva a sedere e apostrofa il poeta invitandolo a riconoscerlo. Alla risposta negativa di Dante, l'anima si rivela per quella del fiorentino Ciacco, che qui si trova «Der la dannosa colpa de la gola». (58-75) Profezia di Ciacco sulle vicende politiche di Firenze: Dante pone a Ciacco tre domande: a che punto arriveranno le discordie interne della città, se vi sono ancora cittadini non colpevoli e il motivo di tali lotte civili. Ciacco profetizza allora gli avvenimenti della città dopo il 1300: la sorda lotta delle due fazioni che scaturirà in un sanguinoso scontro; il prevalere momentaneo della parte bianca (la «parte selvaggia»), la caduta di questa per opera di Bonifacio VIII; la vittoria e la lunga oppressione di parte nera. Aggiunge inoltre che due sono i «giusti inascoltati» e che le tre «faville» che hanno incendiato i cuori sono l'invidia, la superbia e l'avarizia. (76-93) I fiorentini «ch'a ben far puoser li 'ngegni»: Alla fine del discorso di Ciacco, Dante chiede ancora dove si trovino, se in Inferno o in Paradiso, le anime di quei fiorentini benemeriti appartenenti alla generazione passata: Farinata, Tegghiaio Aldobrandi, Iacopo Rusticucci, Arrigo e Mosca dei Lamberti. Ciacco risponde che essi sono tra i peccatori peggiori: se Dante scenderà ancora li potrà incontrare nel loro luogo di pena. Dopo aver pregato il poeta di ricordarlo sulla Terra, Ciacco pone fine definitivamente al suo parlare. Fissa in Dante gli occhi, storcendoli, piega la testa e a capo all'ingiù ricade fra gli altri compagni di pena. (94-115) Virgilio spiega la condizione dei dannati dopo il Giudizio universale: Caduto Ciacco, Virgilio dice che costui ormai non si desterà più fino al giorno del Giudizio finale, quando tutti i dannati riprenderanno il loro corpo e udranno la sentenza definitiva. Mentre i due poeti riprendono il cammino, Dante pone a Virgilio una questione: se i dannati dopo il Giudizio universale soffriranno di più o di meno o egualmente. Virgilio risponde rinviando Dante alla scienza aristotelica, per la quale l'unione dell'anima con il corpo determina una maggior perfezione, e quindi anche una maggior sensibilità al piacere e al dolore. Camminando lungo il cerchio, i due poeti giungono là dove si scende al girone successivo e si trova il demonio Pluto. 7 Approfondimenti Cerbero: Il mostro infernale dell'antica mitologia pagana. Figlio di Tifeo e di Echidna, era immaginato come un cane con tre teste coperte di serpi e con una coda di serpente. Virgilio e Ovidio, le due principali fonti di Dante, lo collocano a guardia dell'Averno (Eneide VI; Georgiche IV e Metamorfosi IV). Dante lo pone invece come custode del terzo cerchio e ne fa il simbolo dell'ingordigia, dandogli attributi umani e bestiali. Nella rappresentazione dantesca il mostruoso classico si fonde con il fantastico medievale, in cui prevalgono sensi simbolici. Cerbero è anch'esso un demonio, come Caronte e Minosse, per quel processo di trasformazione dei personaggi e dei mostri della mitologia classica in demoni, filtrati attraverso il Cristianesimo. Sovra lor vanità (v. 36): Le ombre del verso 36 sopra le quali poggiano i piedi i due poeti hanno solo la parvenza di corpi e sono evidentemente inconsistenti. Ciacco: Il nome Ciacco vede un soprannome dispregiativo: «Ciacco dicono alquanti che è nome di porco, onde costui era così chiamato per la golosità sua». Non sappiamo molto di questo fiorentino, protagonista di una famosa novella di Boccaccio, nella quale viene definito «uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai... per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti». Giusti son due (v. 73): La tradizione di origine biblica, che sottolinea la corruzione di una città o di una regione escludendo da essa pochissimi, consiglia di rimanere fedeli all'interpretazione tradizionale che ha sempre visto nei due giusti, due persone. Due potrebbe anche valere «pochi, quasi nessuno», e in tale caso sarebbe escluso qualsiasi e riferimento preciso ai fiorentini del tempo. Pluto: Dio della ricchezza, figlio di Iasione e Demetra, secondo la mitologia greca, al verso 115 Pluto è trasformato in demone che sta a guardia del quarto cerchio, ove sono puniti gli avari e i prodighi. Ma potrebbe essere anche Plutone, figlio di Saturno e fratello di Giove, re dell'Averno, che in un passo di Cicerone viene identificato con Dite, per l'identico significato del nome sia in greco, sia in latino. Un'altra fonte potrebbe essere Isidoro da Siviglia. Non sappiamo esattamente a quale fonte Dante attingesse, ma è certo che con Dite egli indicherà Lucifero. Qualunque sia il dio mitologico cui Dante si riferisce, è certo però che il poeta tenne conto dell'etimologia del nome (dal latino «ricchezza») perché la designazione di gran nemico, con cui qui il demonio è definito, ci richiama al concetto dantesco che la cupidigia delle ricchezze è il peggiore nemico dell'umanità. 10 Approfondimenti Farinata degli Uberti: Manente di Iacopo degli Uberti, detto Farinata, nacque a Firenze nei primi anni del secolo XIII e visse la giovinezza in quel clima di lotte cittadine, in cui fin dal 1215 era tormentata la città. Nel 1239 lo troviamo a capo della sua consorteria di parte ghibellina, e la sua azione fu determinante nella sconfitta dei guelfi nel 1248. Alla morte di Federico Il, i guelfi rientrarono a Firenze e si riaccesero i contrasti, finché nel 1258 gran parte delle famiglie ghibelline, tra cui gli Uberti, fu costretta ad andare in esilio. Farinata riparò a Siena dove riorganizzò le forze e, con l'appoggio delle milizie imperiali, fu uno dei principali artefici della vittoria di Montaperti, che sbaragliò i guelfi fiorentini. Riunitisi i capi ghibellini a Empoli, Farinata difese a viso aperto la sua città dalla distruzione che costoro avevano decretato, e rientrò a Firenze, dove poi morì nel 1264. Quando i guelfi rientrarono definitivamente in città, la famiglia degli Uberti fu bandita per sempre. Ma la lotta contro Farinata, personaggio che aveva riempito della sua presenza Firenze per tanti anni, continuò: nel 1283 l'inquisitore francescano Salomone da Lucca pronunciò la condanna postuma per eresia contro Farinata e sua moglie Adaleta, e le sue ossa, che dal 1264 riposavano nella chiesa di Santa Reparata, vennero esumate e i beni di figli e nipoti confiscati. Come si può vedere da queste tarde vendette, Dante visse la sua giovinezza in un clima di odio e di postumo terrore, e si può comprendere perché la figura di Farinata gli rimanesse impressa. La questione dell'eresia di Farinata è invece un problema più complesso. Cavalcante de’ Cavalcanti: Cavalcante de’ Cavalcanti fu un fiorentino di parte guelfa e avversario di Farinata. Dopo il ritorno dei guelfi in Firenze nel 1267, per consolidare la sempre precaria pace della città, si strinsero parentadi fra le famiglie avversarie e il figlio di Cavalcante, Guido, venne fidanzato con la figlia di Farinata, Beatrice. Secondo gli antichi commentatori era seguace delle opinioni di Epicuro, il che significava, in quel tempo, la credenza nella mortalità dell'anima. “Tal orazion fa far nel nostro tempio (v.87)”: La metafora di carattere sacro del verso 87 vuole dire semplicemente che il ricordo di Montaperti fa prendere a Firenze la deliberazione dell'esilio perpetuo degli Uberti. Si era pensato all'uso di riunioni in chiese o addirittura in San Giovanni: ma poiché nessuna testimonianza avvalora tale ipotesi, l'espressione andrà presa in senso metaforico. Pagliaro collegò il sorgere di tale metafora (orazion, tempio), alla parola in rima empio adoperata da Farinata (v. 83), che ha anch'essa carattere religioso. Perciò il senso della terzina, secondo Pagliaro, è che «il ricordo della terribile strage che colorò di sangue le acque dell'Arbia fa fare tali leggi nei nostri consigli, così come il ricordo di una grande calamità fa fare grandi preghiere nei templi» (Ulisse, 224). 11 Analisi del canto X Il contesto: il turbolento duecento fiorentino: L'incontro di Dante con Manente degli Uberti detto Farinata risente della statura morale e politica del personaggio. Dante non poté incontrarlo di persona, essendo Farinata morto l'anno prima della sua nascita. Ma i ricordi della famiglia Alighieri gli tramandarono la memoria di un capo che, da quando si pose a capo dei ghibellini fiorentini, per venticinque anni fu l'indiscusso protagonista di un periodo a dir poco turbolento. Nel 1248 Farinata, grazie alla forza che Federico II di Svevia (anche lui in questo girone) infuse al partito ghibellino in tutta Italia, contribuì in modo decisivo alla cacciata dei guelfi fiorentini. Alla morte del sovrano svevo, i guelfi rialzarono la testa e nel 1251 tornarono a Firenze, rovesciando le sorti del conflitto e cacciando a loro volta dalla città Farinata e i suoi. Ma Farinata, da fuoriuscito, organizzò una coalizione ghibellina con l'appoggio di Manfredi, figlio di Federico II, e inflisse ai guelfi una sanguinosa sconfitta a Montaperti. La rinnovata supremazia ghibellina non durò a lungo. La data del 1266 segna di fatto il declino irreversibile del ghibellinismo italiano. Ma Farinata era destinato a suscitare divisioni anche da morto. Nel 1283, quasi vent'anni dopo la sua morte e quando Dante aveva 18 anni, un tetro processo per eresia fu intentato al cadavere del grande condottiero e a quello di sua moglie, portati in tribunale e condannati, fatto che dovette impressionare non poco il giovane poeta. Temi e motivi: grandezza del dannato: Dante prova rispetto e ammirazione per Farinata, che pure era stato il capo della fazione avversa ai suoi antenati. La sua grandezza è esaltata ulteriormente dal contrasto con Cavalcante. Si drizza e alza la voce solo all'udire il caro nome del figlio. Farinata invece si è alzato all'udire l'accento di Firenze, la sua «nobil patria» Durante il dialogo tra Cavalcante e Dante, Farinata non ha degnato d'uno sguardo il suo compagno di tomba. Nel corso del cammino infernale Dante incontra diversi personaggi per i quali prova rispetto, pur restando ferma l'approvazione della condanna divina. A volte sono eroi della mitologia greca, altre volte sono fiorentini della generazione precedente. Questioni: eretici ed epicurei: Le anime relegate in questo cerchio sono «gli eretici di ogni eresia», ma Dante è interessato soprattutto ai dannati da lui denominati «seguaci» di Epicuro, espressione che naturalmente va presa in senso allargato: la filosofia epicurea si esaurì ben presto già nell'antichità, ma a causa delle frequenti critiche che le rivolgono le auctoritates pagane e cristiane, il termine nel Medioevo passò a indicare chiunque non credesse nell'immortalità dell'anima. Malgrado questo inizio, si direbbe che gli eretici si trovino in questo cerchio per motivi politici. 12 Canto XIII Riassunto con macrosequenze (6) (1-21) La selva dei suicidi: I due poeti si incamminano per un bosco orrido e strano. Gli arbusti contorti e spinosi sembrano gli sterpeti della Maremma; le Arpie nidificano tra i rami ed emettono strani lamenti. Virgilio spiega a Dante che si trovano nel secondo girone e lo invita a guardare attentamente: vedrà cose incredibili. (22-78) Pier della Vigna: Dante si arresta smarrito nell'udire lamenti senza vedere nessuno; Virgilio lo invita a spezzare una «fraschetta» se vuol comprendere la verità. Dalla pianta da cui Dante ha colto un ramicello escono insieme parole e sangue. Sono parole di rimprovero per il dolore causato, perché in ciascuna pianta sta l'anima di un dannato. Virgilio cerca di scusare il discepolo di ciò che ha fatto dietro suo suggerimento. Per ammenda dell'offesa arrecata propone allo spirito di dire chi sia, perché Dante, una volta ritornato nel mondo, potrà restaurarne la fama. Lo spirito dice di essere il ministro di Federico II, Pier della Vigna, che dopo una vita di esemplare fedeltà all'imperatore fu incarcerato per tradimento a causa di invidiosi cortigiani. Incapace di sopportare l'atroce calunnia, si tolse la vita. Ora ribadisce la propria innocenza, pregando il vivo di rivendicare il suo onore in Terra. (79-102) Pier della Vigna spiega come i suicidi si trasformino in piante: Poiché lo spirito tace, Virgilio invita Dante a rivolgergli ancora qualche domanda; ma il poeta è così commosso che non riesce a parlare. Parla quindi Virgilio, chiedendo a Pier della Vigna come l'anima si trasformi in pianta, e se alcuna può liberarsi da questa forma. Piero spiega che quando l'anima si stacca dal corpo volontariamente, col suicidio, viene precipitata nella selva, dove germoglia: le Arpie, cibandosi delle sue foglie, ne accrescono lo strazio. (103-108) Condizione dei suicidi dopo il Giudizio universale: Rispondendo alla seconda domanda di Virgilio, Pier della Vigna spiega come anche i suicidi andranno, il giorno del Giudizio Universale, a prendere i loro corpi, ma non se ne rivestiranno perché da essi si sono separati volontariamente. Li trascineranno nella selva e li appenderanno ciascuno al proprio albero. (109-129) Apparizione degli scialacquatori: Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea: Dante e Virgilio, mentre attendono altre spiegazioni, vengono sorpresi da un rumore. Alla loro sinistra appaiono due spiriti, graffiati da delle spine, che corrono spezzando rami e fronde, inseguiti da una schiera di cagne nere. Quello dinanzi riesce a fuggire; il secondo si getta in un cespuglio, ma le cagne lo afferrano e lo fanno a brandelli. Poi si allontanano. (130-151) Un fiorentino suicida: Virgilio prende per mano Dante ancora commosso e spaventato e lo conduce presso il cespuglio straziato, che con amare e dolorose parole rimproverava Giacomo da Sant’Andrea per il suo inutile gesto. Alla domanda di Virgilio, lo spirito risponde di essere un fiorentino suicida. 15 Canto XV Riassunto con macrosequenze (5) (1-21) Incontro con una schiera di sodomiti: I due poeti proseguono il cammino sull'argine del fiume protetto, grazie all'evaporazione, dalle faville di fuoco che cadono sul sabbione. Due similitudini danno al lettore l'idea precisa dell'argine, da un lato paragonato alle dighe che proteggono dal mare i territori delle Fiandre lungo i confini occidentale e orientale, dall'altro alle protezioni che i padovani predispongono sul fiume Brenta, al confine con la Carinzia, per proteggere il territorio dalle inondazioni dei mesi invernali. Dante scorge una schiera di anime che avanza lungo l'argine aguzzando gli occhi per guardare i due ignoti pellegrini nell'oscurità del luogo. (22-54) Colloquio con Brunetto Latini: Uno degli spiriti riconosce Dante e, presolo per il lembo della veste, grida la sua meraviglia. Dante si china e lo riconosce per l'antico maestro Brunetto Latini; comincia così tra i due un affettuoso colloquio. (55-99) Brunetto profetizza l’esilio di Dante: Brunetto invita Dante a seguire la sua naturale inclinazione per raggiungere la gloria, e gli profetizza anche l'ingratitudine dei concittadini, che ricambieranno il suo ben fare condannandolo all'esilio. Dante ribatte di esser pronto a sopportare i colpi avversi del destino; Virgilio, che ha sempre taciuto, mostra di approvare. (100-114) Brunetto indica a Dante alcuni personaggi famosi: Dante chiede quali siano i più famosi compagni di pena e Brunetto gli indica, tra quelli della sua schiera composta tutta di grandi letterati e di ecclesiastici, Prisciano, Francesco d'Accorso e il cardinale Andrea de' Mozzi. (115-124) Allontanamento di Brunetto: Indicati i più famosi compagni di pena, Brunetto aggiunge che non può più continuare perché sta giungendo una nuova schiera di peccatori, con i quali egli non può stare. Prima di lasciare Dante però gli raccomanda con accorate parole la sua opera, il Tresor: finché durerà la fama del libro, Brunetto resterà, in un certo senso, vivo. Poi l'antico maestro si allontana in fretta sotto la pioggia di fuoco per raggiungere la sua schiera. 16 Approfondimenti Brunetto Latini: Brunetto Latini nacque a Firenze intorno al 1220. Notaio e uomo politico, poeta e retore, intervenne attivamente negli avvenimenti di Firenze e della parte guelfa. Nel 1260 venne inviato ambasciatore ad Alfonso X di Castiglia, per chiedere aiuti contro Manfredi e i ghibellini, e, secondo il suo racconto, mentre tornava in patria incontrò uno studente proveniente da Bologna che gli annunciò la sconfitta dei guelfi a Montaperti; rinunciò allora a tornare in Italia e si recò in Francia. Dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento (1266), Brunetto ritornò a Firenze riprendendo la sua attività notarile e politica. Fu cancelliere di Guido di Montfort, vicario di Toscana per Carlo I d'Angiò, e dal 1273 cancelliere del Comune. Fu tra i mallevadori che giurarono l'effimera pace del Cardinal Latino (1280) e, dal 1282 fino quasi alla morte, partecipò attivamente alla politica di Firenze; fu priore nel 1287 e due anni dopo pubblico oratore del comune. Morì a Firenze nel 1294. Scrisse in francese la sua opera più impegnativa: Li Livres dou Tresor, vasta enciclopedia di gusto medievale, e in italiano il Tesoretto in coppie di settenari, il Favolello e altre opere. Volgarizzò col titolo di Rettorica alcuni capitoli del De Inventione ciceroniano, commentandoli ampiamente, e fu un valente epistolografo. I suoi studi e il suo insegnamento retorico furono sempre svolti in funzione politica. Il peccato di Brunetto Latini: Sono definiti lerci del medesimo peccato i violenti contro natura o sodomiti. Il peccato di Brunetto non ci è noto da nessun'altra fonte. Molti moderni si sono stupiti di questa condanna, unita poi a un atteggiamento reverenziale del poeta. Non si capisce perché il peccato contro natura debba esser più infamante di quello della violenza contro Dio, ad esempio, o di quello di altri dannati, da Dante collocati nei cerchi più bassi dell'Inferno. Il valore poetico di questo canto sta proprio nel contrasto fra l'austerità morale di Brunetto e la miseria del suo peccato, che coesistono, arricchendo la situazione poetica dell'episodio. 17 Analisi del canto XV La struttura: un incontro “purgatoriale”: Quasi tutto il canto è occupato dall'incontro e dal colloquio tra Dante e il suo maestro Brunetto Latini: si tratta dunque di un personaggio al quale il poeta attribuisce una grande importanza. Brunetto è sempre in scena, fino all'ultimo verso; e anche quando parla delle altre anime che condividono la sua stessa pena, si tratta comunque di pochi versi. Per il resto, il personaggio domina e si imprime nella nostra memoria: è lui a riconoscere l'allievo, prendendolo dal basso per il lembo del mantello; è per lui che Dante mostra rispetto tanto da camminare al suo fianco raccontandogli il motivo del suo viaggio ultraterreno e cercando da lui approvazione. In questo canto, dunque, è evidenziata una differenza che sarà centrale nel Purgatorio: quella fra agire terreno ed esito ultraterreno, fra valori mondani e virtù spirituali. Pur restando ferma la condanna del peccato di Brunetto, Dante dipinge in lui un personaggio ormai poco legato al passato. Come Farinata, fa una profezia, ma a differenza del Ghibellino è benevolo verso Dante, sia perché appartenente alla sua stessa fazione (i guelfi) sia perché in vita suo maestro. Temi e motivi: la profezia di Brunetto: Nella profezia Brunetto allude per due volte alla leggenda della fondazione di Firenze da parte dei seguaci di Catilina sconfitti vicino a Fiesole, rimandando così a uno dei più celebri episodi di guerra civile della storia romana e sottintendendo che da un popolo con questa origine non ci si può aspettare altro che contese civili. Tuttavia, se nella profezia di Farinata c'era almeno in parte il gusto della ripicca, quella di Brunetto tempera la critica aspra e ossessiva contro i fiorentini. Essere odiato da gente malvagia è la dimostrazione di essere nel giusto, anzi essere approvato da loro sarebbe un male! Lingua e stile: uno stile composto: Lo stile del canto risente sia della commozione che il ricordo del maestro ancora suscita in Dante, sia della professione di retore che Brunetto aveva esercitato in vita. La prima è visibile nelle frasi brevi e sincere, dettate dalla sorpresa, nella ripetuta apostrofe di Brunetto «O figliuol...» (vv. 31 e 37) a cui risponde l'espressione usata da Dante «la cara e buona imagine paterna» (v. 83), nell'augurio impossibile di Dante, che vorrebbe Brunetto ancora vivo. La seconda porta Brunetto ad adottare sapientemente il registro dell'indignazione nell'invettiva contro i fiorentini, di cui si ricordano le (malvagie) origini antiche classiche (v. 62, v. 75-78) e che vengono definiti prima «quello ingrato popolo maligno», v. 61, poi «orbi», v. 67, e infine «le bestie fiesolane», v. 73), con il tono volutamente ambiguo delle profezie. Tra questi due estremi della sincera, quasi spontanea commozione e dell'indignazione retorica si colloca il registro realistico, che Dante dispiega in espressioni vivacemente icastiche per descrivere la dolorosa pena riservata a quelli che, malgrado l'affetto e il rispetto, sono pur sempre dei dannati. Ma lo stile realistico trova spazio anche nella profezia e nel dialogo, pur così solenni, che non rifuggono da espressioni di sapore proverbiale o idiomatico di ambito naturalistico agricolo. 20 Analisi del canto XXVI La struttura: l’eroe greco per antonomasia: Il canto XXVI è universalmente noto come il canto di Ulisse, ma l'eroe greco entra in scena solo poco prima della metà. L'invettiva iniziale ci riporta al canto precedente, quello dei ladri per cui Dante nutre tanto disprezzo. La vista della bolgia dei consiglieri di frode suscita in Dante dapprima una curiosità misteriosa, ma non inorridita, come prova la bella similitudine naturalistica con le lucciole; poi, quando individua una fiamma diversa dalle altre perché biforcuta, capisce che sta per incontrare un personaggio importante. E quando Virgilio gli conferma la presenza di due eroi del mito, allora il sarcasmo iniziale cede il passo a un tono solenne, come prova anche lo stile, dettato dalla reverenza che Dante prova verso il mondo classico. La celeberrima narrazione di Ulisse occupa quasi metà del canto e non lascia spazio ad alcuna replica da parte di Dante. Il racconto non parla minimamente della colpa che ha portato all'Inferno l'eroe. Ulisse risponde invece a ciò che gli ha chiesto Virgilio (v. 84): "Dove (e come) sei morto?". La vicinanza di Dante al personaggio è dettata soprattutto da due motivazioni: anche Dante è un viaggiatore e anche lui ha posto il desiderio di «virtute e canoscenza» al di sopra degli affetti familiari. Ma Dante, a differenza di Ulisse, è accompagnato dalla Grazia divina, anche se talvolta teme di essere «folle»; quindi sa che è necessario tenere a freno l'ingegno, che pure è un grande dono fatto all'uomo da Dio, per non privarsi della salvezza. Fonti: Virgilio, Ovidio e gli altri: A parlare con i due eroi del mito è Virgilio. Virgilio è «interprete» dell'antichità in un senso profondo: è cioè colui che ha fatto conoscere il mito al Medioevo latino cristiano, che non era a conoscenza delle fonti greche. È insomma la fonte intermedia, il tramite attraverso cui poeti come Dante poterono apprendere qualcosa su un mondo che altrimenti sarebbe rimasto loro precluso del tutto. La fonte primaria per l'immaginazione di Dante su Ulisse, eroe del quale non sapeva nulla, è indubbiamente Ovidio, le cui Metamorfosi furono per il Medioevo un'autentica enciclopedia delle leggende classiche. Partendo da un passo del libro XIV delle Metamorfosi, Dante immagina che, dopo la permanenza presso Circe, Ulisse abbia deciso, spinto da una inestinguibile sete di conoscenza, di ripartire non alla volta di Itaca, ma verso il mare aperto. Dante ignorava certamente l'Odissea, e forse anche le opere che narravano la guerra di Troia; o forse le conobbe ma non le utilizzò. Eppure questa, come ha detto Sapegno, fu una «felice ignoranza»: da pochi accenni raccolti qua e là da Virgilio, Ovidio, Cicerone, Seneca e Orazio, la possente fantasia poetica di Dante creò un mito del tutto nuovo che resta fortemente impresso anche nella fantasia di noi moderni. Infine, non mancano anche le altre fonti consuete in Dante, come la Tebaide di Stazio per la similitudine della fiamma doppia e naturalmente la Bibbia, con la difficile similitudine di Eliseo ed Elia. Lingua e stile: uno stile antico: A un incontro così importante per Dante corrisponde uno stile adeguato. È Virgilio a parlare, e fin dall'inizio si rivolge ai due eroi greci con una captatio benevolentiae di provenienza classica. Il canto è pieno di latinismi: «mi invidi» («mi neghi, me ne privi», v. 24), «audivi» (v. 78; altrove Dante usa normalmente «udi (i)», per esempio in Pd XXVI 46); «concetto» («compreso, concepito» v. 73); «pietà» (v. 94, pietas, affetto sacro per i parenti, non «angoscia» come per esempio in If I 21); «diserto» («abbandonato», v. 102); «ch'è del rimanente» (quae de reliquo est, v. 115); «turbo» («turbine», v. 137). Anche l'uso delle figure retoriche è attento. Particolarmente intrigante è l'uso della parola «lingua», che essendo usata per metafora anche per il fuoco rende più chiara l'immagine della fiamma di Ulisse che comincia a parlare con fatica. 21 Canto XXXIII Riassunto con macrosequenze (5) (1-78) Ugolino racconta la morte dei figli e la sua: Sollevato il capo dal «fiero pasto» e pulitosi la bocca sui capelli della testa che sta rodendo, il dannato dichiara di essere il conte Ugolino. Narra quindi i particolari della prigionia e della morte sua e dei suoi figli, sperando che il racconto, da Dante riferito ai vivi, getti infamia sopra l'arcivescovo Ruggieri, sul cui capo egli riprende ad accanirsi. (79-90) Invettiva contro Pisa: Ugolino ha terminato la narrazione della propria morte e ha ripreso a rodere il capo dell'arcivescovo Ruggieri: Dante prorompe in un'amara e terribile invettiva contro Pisa, augurando che le due isole della Capraia e della Gorgona si muovano e blocchino l'Arno sulla foce, facendolo straripare, per annegare tutti i cittadini della crudele città. Se il conte Ugolino si era macchiato di tradimento, lui solo doveva pagare, non i figli innocenti. (91-108) Passaggio alla terza zona, Tolomea, sede dei traditori degli ospiti: I due poeti passano nella terza zona, Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti. Questi dannati, pure confitti nel ghiaccio come gli altri, stanno però tutti rovesciati col capo supino, cosicché le lacrime uscite dagli occhi ristagnano e, gelate, formano una «visiera di cristallo», costringendo le altre a tornare indietro e ad aumentare il dolore. C'è molto vento e Dante ne chiede la ragione a Virgilio; il maestro gli risponde che tra poco sarà in un luogo dove l'occhio gli darà spiegazione del fatto. (109-150) Colloquio con frate Alberigo: Uno dei dannati, che crede i due poeti peccatori destinati all'ultima zona, li prega di togliergli le lacrime ghiacciate che gli impediscono di piangere. Dante lo promette a patto che costui gli riveli il suo nome. Il dannato dichiara di essere frate Alberigo, e allo stupore di Dante che lo sa ancor vivo, spiega che, in questa zona, l'anima del traditore piomba immediatamente, appena commesso il tradimento, mentre un diavolo entra nel corpo e gli sta dentro finché si compiano gli anni destinati alla vita. A chiarimento di ciò indica lì vicino l'anima di Branca Doria, che appena compiuta l'uccisione a tradimento di Michele Zanche è piombata lì, mentre un demonio continua sulla Terra a occuparne il corpo. Terminato il suo dire il dannato prega Dante di togliergli il velo di lacrime gelate, ma Dante non lo esaudisce, ritenendo «cortesia» essere con lui «villano». (151-157) Invettiva contro i genovesi: Dopo aver rifiutato di aiutare frate Alberigo, Dante pronuncia un' aspra invettiva contro i genovesi, a cui augura, per i loro malvagi costumi, di venire annientati. 22 Approfondimenti Il conte Ugolino: Il peccator del verso 2 è Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico. Di nobile famiglia ghibellina originaria della Lombardia. Ebbe molti figli, tra cui Gaddo e Uguccione, che morirono col padre, chiusi nella torre dei Gualandi insieme coi nipoti Nino e Anselmuccio. Tutti e quattro verranno ricordati da Dante in questo episodio. Pur essendo ghibellino si accordò col genero, Giovanni Visconti, capo della fazione guelfa avversaria, per difendere dalle mire del comune guelfo di Pisa i propri feudi in Sardegna. L'ambigua politica del conte e i contrasti interni delle due fazioni determinarono il suo bando dalla città, ma vi poté rientrare nel 1276 con l'aiuto di Firenze e della stessa lega guelfa. Da questo momento Ugolino cominciò a primeggiare, e forse gli fu dato il comando della flotta nella lotta contro Genova. Dopo il disastro della Meloria ritornò a Pisa, e mentre i comuni di Firenze, Genova e Lucca si coalizzavano contro la città, egli ne tenne la signoria come podestà. Fu allora che, forse per salvare Pisa dalla rovina, cercò di dividere le città coalizzate. Riuscì così a salvare la città e a rafforzare il proprio dominio personale, associando al governo il nipote Nino Visconti, che poco dopo però cominciò a osteggiare. Dopo il ritorno dei prigionieri della Meloria Ruggieri degli Ubaldini, arcivescovo di Pisa, e le famiglie dei Gualandi, dei Lanfranchi e dei Sismondi capeggiarono una rivolta popolare che scacciò, durante l'assenza di Ugolino, Nino Visconti. Sembra che Ugolino, saputo dell'avvenimento, rientrasse subito in città per riprendere il potere, ma una sommossa popolare si rivolse contro di lui, che venne preso e rinchiuso con due figli e due nipoti nella torre dei Gualandi, e dopo nove mesi di prigionia lasciato morire di fame. Il lupo e i lupicini: Nel terribile sogno rievocato dal conte Ugolino ai versi 26-36, la realtà si deforma in una serie di immagini-simbolo come quella del “cacciando il lupo e ' lupicini al monte” in cui si configurano vicende del passato e del presente. Le persecuzioni dei ghibellini diventano una battuta di caccia, di cui è maestro e donno l'arcivescovo Ruggieri, che nella realtà capeggiava la fazione ghibellina, come Ugolino e i suoi diventano il lupo e i lupicini cacciati verso il luogo dove stanno appostati i cacciatori pronti a colpire, cioè le famiglie nemiche dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi. Frate Alberigo: Si presenta a Dante al verso 118 Alberigo dei Manfredi, uno dei capi di parte guelfa di Faenza che era stato frate gaudente. Fu in discordia con alcuni parenti, Manfredo e Alberghetto dei Manfredi. Fingendo di volersi riappacificare con essi, li invitò a pranzo nella villa di Cesate con l'intenzione di trucidarli. Infatti alla fine del pasto ordinò ad alta voce ai servi di portare la frutta. Era il segnale convenuto: quelli vennero fuori e assassinarono Manfredo e Alberghetto. Branca Doria: Appartenente alla famosa famiglia ghibellina di Genova, Branca Doria, ebbe vari incarichi politici in Sardegna, dove lottò contro il dominio aragonese. Nel 1299 chiese a Bonifacio VIlI il riconoscimento dei suoi diritti sul Logudoro. Assassinò a tradimento durante un banchetto, al quale l'aveva invitato, il suocero giudice di Logudoro, a sua volta dannato come barattiere. Pura leggenda quella di una vendetta di Branca Doria e dei suoi contro Dante, quando questi andò a Genova.
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