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L'influenza dei gesuiti nella società del tempo - Storia Culturale, Prove d'esame di Storia Culturale dell'Europa

Analizza la storia della Compagnia di Gesù dalla formazione alla sua influenza nella società

Tipologia: Prove d'esame

2018/2019

Caricato il 07/05/2019

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Scarica L'influenza dei gesuiti nella società del tempo - Storia Culturale e più Prove d'esame in PDF di Storia Culturale dell'Europa solo su Docsity! 1 ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITA' DI BOLOGNA Corso di laurea magistrale in Italianistica e Scienze Linguistiche Elaborato finale Storia Culturale L’influenza dei gesuiti nella società del tempo Viola Pollini Anno Accademico 2018/2019 2 Introduzione I. L’organizzazione e i valori dell’ordine 1 L’organizzazione interna 2 Il reclutamento dei membri 3 I valori del gesuita II. Lo scopo della missione e i metodi 1 Il metodo 2 I ministeri III. Gli ambiti di influenza 1 Le scuole 2 Le confessioni 3 La catechesi 4 Le missioni di carità IV. Il caso dei Monita Privata Conclusione 5 tra membri della stessa Compagnia. L’ordine venne soppresso da Clemente XIV nel 1733, anche se i gesuiti continuarono a sussistere in Prussia e Russia, venne poi restaurato da Pio VII nel 1814. Nonostante polemiche e opinioni contrastanti l’ordine è presente ancora in seno alla Chiesa Cattolica Romana, tanto che nel 2013 venne eletto papa Francesco, il primo papa gesuita nella storia. 6 Capitolo I L’organizzazione e i valori dell’ordine Nel testo definitivo delle Costituzioni, a stampa nel 1558, redatto da Ignazio nel ruolo di superiore dell’ordine, era presente una legislazione completa e venivano ribaditi gli ideali della Compagnia. Il codice offriva indicazioni riguardo alle regole di accesso, al percorso di un membro dell’ordine, agli incarichi assegnati, alle norme per la vita personale e di relazione, alla possibilità di dimissione per chi non si fosse dimostrato all’altezza. Ignazio aveva proposto attraverso le Costituzioni una gerarchia di ruoli all’interno dell’ordine. A capo della gerarchia amministrativa si situava un generale eletto a vita con il compito di redigere le Costituzioni e le Regole, di conferire le cariche e gestire a proprio piacimento la società, quasi fosse un monarca assoluto dal quale dipendevano le cariche di provinciali, rettori dei collegi e prepositos locales. All’interno del testo emergono inoltre le competenze della Congregazione generale, che affiancava il preposito occupandosi di questioni amministrative e dell’elezione del generale in caso di morte. I territori erano divisi in province, le prime risalenti al 1550 furono in Spagna, Portogallo e India, mentre gli altri territori venivano governati direttamente dal generale. Le province costituivano la struttura amministrativa di base, con l’aumentare delle missioni a lungo raggio fu necessaria la nomina di un responsabile, il padre provinciale, presente in ogni territorio che rispondeva direttamente a Ignazio nel ruolo di generale. I gesuiti alle posizioni di comando dovevano consultarsi con pari e superiori prima di prendere decisioni, utilizzavano la pratica della lettera circolare più volte all’anno in modo da riassumere nella corrispondenza diretta a Roma tutte le attività compiute in missione nei territori lontani. L’idea da perseguire era di una comunicazione frequente, settimanale o mensile, tra rettori, provinciali e generale. Nei contenuti di questi scambi era possibile ritrovare gli ideali e le teorie presenti nei documenti ufficiali adattati alla vita quotidiana e al caso particolare. Anche le Costituzioni sottolineavano l’importanza della corrispondenza come unico mezzo per garantire la vicinanza a causa dell’espansione e della mancanza di un corpus letterario riguardo gli scopi e le attività della Compagnia. I gesuiti facevano circolare quelle lettere per far tacere i nemici, guadagnare amici, attrarre reclute ed esaltare il proprio stesso entusiasmo per la vocazione.4 La comunicazione, secondo Ignazio, era importante non solo per mantenersi aggiornati sugli avvenimenti lontani, ma soprattutto per veicolare questioni di ordine morale e gestire problematiche personali entrando in contatto con un numero elevato di persone diverse. Lo stesso Ignazio intratteneva spesso una fitta corrispondenza, soprattutto con donne appartenenti ad alti strati sociali, alle quali venivano offerti consigli in cambio di sostegno economico e di protezione per le proprie iniziative e opere, come nel caso della nobile vedova Ines Pascual5 che faceva parte del gruppo “Sorelle mie benefattrici”. 4 Claudio Ferlan, I gesuiti, Il Mulino, Bologna, 2015 p.53 5 Ignazio di Loyola, Gli scritti, Apostolato della preghiera, Roma, 2007, p.922 7 1. L’organizzazione interna L’obbedienza al superiore, tratto peculiare dell’organizzazione, doveva avvenire sul modello della sottomissione a un’autorità divina. Questo aspetto è testimoniato anche dal motto che venne tramandato dalla Compagnia nei secoli: «perinde ac cadaver», lasciarsi condurre quasi come un corpo morto. Ciascuno persuada se stesso, che coloro che vivono sotto la ubbidienza, sono condotti e diretti dalla divina provvidenza; e che perciò debbono lasciare che i superiori lo trattino come se fosse un cadavere, che si lascia far tutto senza lagnarsi; ovvero come il bastone di un vecchio, il quale colui che lo tiene in mano se ne serve quando, dove, ed in qualunque cosa egli vuole.6 Il gesuita riteneva il superiore infallibile e disubbidirgli significava disubbidire a Dio. A causa di questa credenza, il superiore aveva il pieno potere sui subordinati senza poter essere contraddetto. Non guardate nella persona del superiore l’uomo soggetto ad errare, e sottoposto alle umane miserie; ma riguardate in lui la stessa persona di Cristo, che è somma sapienza, immensa bontà, e carità infinita, il quale né può essere ingannato, né può volere ingannare voi. E siate certi che seguendo la volontà del superiore, voi seguite con tutta certezza la divina volontà. Voi dovete fermamente credere che tutto quello che il superiore comanda è precetto e volere di Dio.7 All’interno della Compagnia gli individui, in base al proprio percorso di formazione, potevano rivestire vari ruoli: ▪ Candidati: coloro che desideravano entrare nella Societas; ▪ Novizi: i giovani al biennio della seconda probazione durante la quale veniva esaminata la loro attitudine all’ingresso; ▪ Sacerdoti: coloro che pronunciavano i primi voti; ▪ Scolastici: i giovani allievi formati attraverso le scuole del sapere. Alla fine dei loro studi venivano ordinati preti e in base ai loro progressi diventavano professi o coadiutori spirituali; ▪ Coadiutori spirituali: preti semplici, pronunciavano i voti di povertà, castità e obbedienza, erano obbligati in perpetuo a seguire l’ordine, ma potevano anche venirne esclusi; ▪ Coadiutori temporali: definiti anche fratelli laici, non diventavano mai preti, ma pronunciavano i tre voti, adempivano a compiti di sostegno e a lavori manuali; ▪ Preti professi: coloro che avevano effettuato i voti di obbedienza, povertà, castità, fedeltà al papa e sostenuto lunghi studi di stampo teologico. Il quarto voto era proprio solo di coloro che intraprendevano l’intero percorso di formazione. Solo gli appartenenti a questa categoria potevano accedere alla carica di generale e alle cariche immediatamente inferiori. Il lungo percorso formativo di noviziato durava due anni e permetteva alla Compagnia di mantenere un gruppo selezionato, costante e scelto di adepti, sottoponendoli a una dura disciplina che mirava a ridurre la propria individualità in favore dell’obbedienza nei confronti del superiore. A differenza degli altri ordini, nella Compagnia anche ai novizi era concesso svolgere i ministeri. Chi superava il noviziato prendeva tre voti semplici, alcuni diventavano fratelli laici mentre altri proseguivano come 6 Ignazio di Loyola, Regulae societatis Jesu, Institutum Historicum Societatis Jesu, Roma, 1948, legge n.36 7 Ivi, legge n.16 e 18 10 Capitolo II Lo scopo della missione e i metodi L’ordine da un lato mirava al progresso della vita degli uomini tramite la dottrina cristiana, dall’altro alla conversione dei miscredenti, basata sul concetto di eresia come peccato morale. I gesuiti si vedevano come insegnanti di cristianità, cioè delle credenze e delle pratiche fondamentali della religione. La Compagnia venne fondata infatti per difendere e propagare la fede, per far progredire le anime nella vita e nella dottrina cristiana: «il loro sistema di pensiero li portava a pensare che, una volta che il cuore fosse stato cambiato, il velo della cecità sarebbe caduto dagli occhi della mente e la verità sarebbe stata abbracciata»14. I gesuiti non avevano una clientela già stabilita, dovevano conquistarla. Quelli che si avvicinavano volontariamente erano individui concentrati sulla propria vita spirituale o che dopo aver condotto un’esistenza empia cercavano la salvezza. Queste erano le categorie di persone che loro stessi ricercavano. Il compito principale dei gesuiti era quello di «aiutare le anime», facendo rientrare all’interno del termine “anima” l’intera persona, mente e corpo. Aiutarle significava, per i membri della Compagnia, avvicinarle a Dio attraverso un percorso di studio dei dogmi della religione cristiana per mezzo della catechesi. 1. Il metodo Gli Esercizi spirituali, stampati per la prima volta nel 1548 e destinati a un uso interno, non erano pensati come un libro indirizzato a coloro che li dovevano svolgere, costituivano una sorta di manuale diretto a coloro che li dovevano insegnare. Il testo presentava attività non solo per chi volesse intraprendere un cammino di preghiera, ma per chiunque intendesse compiere un’importante scelta nella propria vita, poiché questo percorso permetteva di acquisire maggiore obiettività e l’ispirazione diretta da Dio. Attraverso la pratica degli Esercizi Spirituali, i gesuiti dovevano indurre nei fedeli la devozione, quel movimento del cuore che veniva da Dio e doveva portare più vicino a lui. Gli Esercizi permettevano, tramite la riflessione, di prendere consapevolezza della propria condizione di vita. Per i novizi era obbligatorio eseguire gli Esercizi spirituali per trovare la giusta motivazione per portare avanti l’impegno che si stavano assumendo. Un percorso che innanzi tutto implicava la conversione a Dio in un modo nuovo e più profondo, che comportava un processo di crescita spirituale e consapevolezza crescente dell’attività di Dio in tutte le cose del mondo.15 Il percorso doveva durare quattro settimane, ma poteva adeguarsi alle esigenze specifiche. Le attività proposte, come l’esame di coscienza quotidiano, permettevano di formare le basi per la lode e il servizio a Dio, richiamando anche episodi di vita di Gesù, modello di riferimento. Durante la prima settimana avveniva la confessione sacramentale dei peccati: attraverso la revisione della propria vita passata e l’acquisizione della consapevolezza della misericordia di Dio, l’individuo subiva un vero e proprio cambiamento interno, come avviene per la conversione, dal proprio passato alla vita consapevole. Come affermava Polanco: «l’attenzione ai propri sentimenti è cruciale per la conversione del cuore – conversione che è al centro degli Esercizi: la persona che completa gli 14 John O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1993, p.80 15 Ivi, p.99 11 Esercizi ha il “cuore cambiato”»16. Per entrare nell’ordine il gesuita doveva sottoporsi all’esame di coscienza durante il quale confessava con purezza e umiltà tutto quello che aveva compiuto nella sua vita che potesse aver offeso Dio, confessione che per un membro della Compagnia doveva avvenire ogni sei mesi. Durante la seconda, la terza e la quarta settimana veniva posta l’attenzione sullo studio della vita di Gesù fino all’episodio della sua resurrezione. Gli Esercizi si fondavano sui dogmi della religione cristiana permettendo al singolo di introiettarli e di applicarli personalmente nella propria quotidianità. Durante il percorso il novizio doveva arrivare a saper riconoscere se a guidarlo erano le forze del bene o quelle del male, per poter compiere la propria scelta. La premessa sulla quale queste attività si fondavano era l’azione diretta di Dio sull’individuo: «lasciare a Dio l’intero compito di chiamare chi sta facendo l’elezione a questo o a quello stato di vita, perché solo Dio può sostenere l’individuo e fargli l’aiuto necessario lungo la strada»17. Il gesuita non poteva esprimersi riguardo la predestinazione, ma attraverso gli Esercizi guidava l’individuo verso la grazia di Dio, il che attribuiva una dose di partecipazione umana all’esito di salvezza finale. La novità degli Esercizi non riguardava tanto i contenuti, quanto il fatto di aver redatto un metodo scritto per attuare la meditazione in contemplazione solitaria. Questa pratica era infatti ampiamente diffusa anche prima di quel momento, la novità era rappresentata dalla redazione di vere e proprie regole per l’istituzione del “ritiro”. Divenne importante anche la pratica della direzione spirituale che, lontana dal compiersi attraverso formule astratte, mirava a insegnare a pregare alla comunità del tempo attraverso metodi diversi per persone diverse, ma con uno stesso fine. 2. I ministeri Nella pratica dei loro ministeri i gesuiti volevano imitare il modello apostolico: la ricerca dei bisognosi sotto incarico del superiore, che nel caso della Compagnia coincideva con il papa, l’impegno nei vari ministeri della Parola di Dio, l’importanza della confessione per guarire il peccato alleviando l’anima e le sofferenze fisiche con opere corporali e spirituali, infine l’agire senza compenso seguendo il voto di povertà. Il ministero era ciò che permetteva al confratello di diventare strumento della grazia divina nelle mani di Dio, in un’unione diretta che trascendeva gli studi. Come affermava Nadal: «possa Cristo parlare in voi, possa la sua parola essere efficace in voi e per mezzo di voi, perché infinita com’è contiene tutta la maestà divina, dolcezza, potenza e consolazione»18. Ereditarono diversi aspetti anche dalle istituzioni medievali, come la catechesi e l’importanza dei sacramenti, tra i quali la confessione era posta in primo piano, oltre alla centralità delle opere di misericordia, della pratica degli Esercizi come forma di ritiro spirituale e dell’importanza attribuita alle scuole. Il ministero viene diviso nel testo della Formula in: ▪ Ministeri nel mondo ▪ Amministrazione di sacramenti (come l’eucarestia e la confessione) ▪ Opere di misericordia ▪ Scuole 16 John O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1993, p.48 17 Ivi, p.51 18 Ivi, pp. 113-114 12 I gesuiti si comportavano come veri e propri ministri della parola, il primo tra i loro ministeri è infatti la predicazione, fortemente legata al compito apostolico. La predicazione avveniva in chiesa durante la messa, ma poteva essere anche itinerante tramite i sermoni in strada destinati ai bisognosi o su invito da una chiesa all’altra, seguendo l’esempio di Gesù e degli apostoli. In seguito al permesso di papa Paolo III, tutti potevano predicare con l’approvazione dei superiori, sia preti che scolastici. La loro influenza medievale era palese nella credenza di Ignazio che i sermoni dovessero riguardare i vizi e le virtù, i rimedi per sconfiggere il peccato. Per lui era importante non predicare cose dubbie o fraintendibili e che «qualunque cosa si insegnasse fosse solida, semplice e incontrovertibile, basata sulla chiara testimonianza della Bibbia o su tradizioni certe della Chiesa»19. I fini della predicazione erano tre: insegnare, muovere gli affetti e consolare. La reazione emotiva degli spettatori era lo scopo che ritenevano più importante, essi consideravano prioritario il cambiamento che inducevano tramite le proprie predicazioni. Questo costituì anche un appiglio per l’accusa mossa dai detrattori dell’ordine di manipolare il popolo attraverso questo strumento. La chiamavano ars predicandi perché non veniva praticata in modo scolastico, ma tentando di conformarsi allo stile umanistico. La predicazione veniva considerata un atto religioso efficace perché era Dio stesso a operare attraverso essa: consisteva nella retorica al servizio della dottrina e per poterla praticare erano necessari studi teologici, che per i gesuiti consistevano nello studio della Bibbia, la Parola di Dio espressa attraverso l’Antico e il Nuovo Testamento. Era possibile iniziare a condurre questo ministero anche durante gli anni di studio, nonostante Ignazio consigliasse di intraprenderlo in un secondo momento, viste la delicatezza e la difficoltà della pratica sia a livello psicologico che fisico, infatti la predicazione poteva durare fino a quattro ore e risultare estenuante ai meno esperti. Questo ministero ricoprì una parte preponderante del loro mandato e rimase attivo anche con lo sviluppo e la diffusione delle scuole. La predicazione si differenziava della lezione perché la prima avveniva dal pulpito, con abiti liturgici, mentre la seconda era tenuta sedendo allo stesso livello dell’uditorio, che spesso era composto dal pubblico laico di una chiesa. Le lezioni dei gesuiti orientavano verso la vita devota, verso «ciò che è buono»20. Esse consistevano in risposte alle esigenze della gente comune, non in una mera esposizione di contenuti nozionistici. Con il sermone (oratio) invece il fine primario, oltre che l’istruzione, era di provocare emozioni nello spettatore, per questo motivo i due ministeri rimasero distinti. Le lezioni potevano non riguardare le letture liturgiche, di solito venivano suddivise in serie e riguardavano un libro della Bibbia o la Dottrina Cristiana, temi di catechismo e casi di coscienza. Le lezioni erano una concatenazione piuttosto libera di informazione filologica, commenti patristici, insegnamenti spirituali medievali, suddivisioni scolastiche dei materiali, digressioni, riflessioni in cui si inserivano applicazioni specifiche e pratiche per diversi tipi di ascoltatori.21 Le conversazioni devote, che divennero ministero con Nadal, permettevano di entrare in stretto contatto con un particolare individuo. Potevano essere spontanee, senza sottostare a particolari regole o trasmettere contenuti complessi, costituivano un incoraggiamento a seguire Dio. I gesuiti potevano recarsi inoltre in prigioni, piazze, luoghi pubblici per avvicinare individui appartenenti agli strati sociali più bassi. Questa attività veniva definita dall’ordine «andare a pescare» e non prevedeva la sola conversazione devota, ma anche l’attirare il pubblico per condurlo ad ascoltare un sermone in chiesa. Veniva interpretata quasi come una missione contro il vizio. Infine, un importante ministero della Parola di Dio era costituito dall’esempio che era possibile cogliere dagli stessi comportamenti dei gesuiti, non solo modello di vita per i novizi, ma anche per i laici, che potevano aspirare alle stesse virtù. 19 John O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1993, p.122 20 Ivi, p.116 21 Ivi, p.121 15 i maggiori talenti della Compagnia. Alle scuole si rivolgevano solitamente giovani di classi sociali medie e alte, ciò portava a formare futuri gesuiti provenienti da quegli strati sociali, a scapito dell’attenzione nei confronti dei poveri, ai quali il gruppo si sarebbe votato alle origini. La formazione di gesuiti da parte di altri membri dello stesso ordine consentiva di forgiare un senso di identità all’interno della Compagnia. Alla base del successo del ministero contribuì la fondazione di scuole in zone dove non erano presenti o di istituti migliori rispetto a quelli esistenti. Le principali caratteristiche che contribuirono alla diffusione di un nuovo stile di educazione furono: la gratuità del servizio, l’accettazione di studenti provenienti da ogni strato sociale, la formazione umanistica, la filosofia e la teologia. L’organizzazione era molto chiara, divisa in classi con obiettivi predeterminati che consentivano il passaggio da una a quella successiva. Importante fu l’insistenza nei confronti del ruolo attivo dello studente che doveva appropriarsi dei contenuti appresi tramite l’exercitium. L’introduzione alle pratiche religiose era adatta a tutte le età e mirava alla formazione di una personale etica e religiosità nello studente. Gli insegnanti gesuiti erano spesso più colti, preparati e motivati rispetto a quelli delle altre scuole, cercavano di portare il buon esempio ai loro studenti che tentavano di conoscere anche come individui. Polanco presenta un elenco di quindici benefici derivanti dalle scuole, diviso in tre parti: benefici per la Compagnia, per gli studenti e per la comunità locale. Nella prima sezione annovera la reciprocità di apprendimento derivante dall’insegnamento, l’acquisizione di disciplina e diligenza da parte del maestro, la possibilità di miglioramento della predicazione e degli altri ministeri attraverso l’esercizio e il buon esempio che può indurre gli studenti a voler seguire le sue orme. Per i benefici nei confronti degli studenti viene riportato in primis l’apprendimento, la gratuità dell’istruzione che sarebbe altrimenti negata ai più poveri, l’aiuto nelle questioni spirituali partendo dalla dottrina cristiana, i progressi personali della propria coscienza dovuti alla pratica della confessione, il profitto ottenibile orientando i propri studi al servizio di Dio. Infine, tra i benefici nei confronti dell’intera comunità, troviamo lo sgravio finanziario e morale dovuto all’avere garantito un’istruzione ai propri figli, l’aiuto alla comunità del luogo grazie alla predicazione e all’amministrazione dei gesuiti, l’influenza dei figli sui genitori conducendoli verso una vita cristiana, il contributo dei gesuiti per la fondazione di opere di misericordia e il beneficio per l’intera comunità derivante dalla formazione degli individui che andranno a ricoprire alte cariche. Le scuole ben presto arrivarono a essere considerate un peso: la critica che veniva mossa derivava dal fatto che molti gesuiti venissero mandati a fare gli insegnanti a scapito della loro formazione personale e che addirittura per avere abbastanza insegnanti fossero accettati all’interno della Compagnia anche membri inadeguati, perdendo lo spirito originario dell’ordine. Uno dei rimproveri più comuni era l’eccessiva frequenza con la quale i gesuiti cambiavano insegnanti, scegliendo spesso anche stranieri con limitate competenze nella lingua locale. Questa mancanza di personale era dovuta alla necessità di garantire insegnanti in località lontane, fattore che innescava così una sorta di circolo vizioso. I gesuiti più anziani davano la colpa dei disordini insorti nelle scuole agli scolastici, abituati alle raffinatezze e che, materialisti, miravano soltanto agli onori derivanti dalla cattedra pur non essendo all’altezza del compito. Nel 1553 si assistette a una crisi del sistema scolastico e Ignazio stabilì le norme riguardo il numero e le competenze dei gesuiti necessarie per poter aprire una scuola. Molte scuole cominciarono a chiudere e contemporaneamente si verificò una drastica diminuzione delle aperture. L’unica fonte di sicurezza per le scuole ancora attive furono i commissari, rappresentanti del generale con pieni poteri che si dovevano occupare di ristabilire un ordine e un metodo. Di pari passo con le scuole, si sviluppò un cambio di atteggiamento nei confronti della pubblicazione tramite stampa, precedentemente considerata come una distrazione rispetto alle opere fondamentali. 16 Venne fondata una stamperia al Collegio Romano che diffuse subito il timore di un’attività svolta per denaro. Ignazio stabilì che i gesuiti scrivessero libri sui ministeri al fine di confutare gli eretici, tuttavia, molti dei libri prodotti furono testi impiegati per l’insegnamento. 2. Le confessioni Nei primi anni i gesuiti incontrarono alcuni contrasti dovuti alla loro promozione della confessione, una pratica così assidua di questo sacramento non era consuetudine in molte località. L’ordine ereditò la concezione della confessione dai teologi medievali secondo i quali un peccato grave andrebbe confessato a un prete, chiunque non l’avesse fatto pur essendone consapevole sarebbe stato dannato in eterno. La confessione non si riduceva solo a questo. La Compagnia redasse degli elenchi di peccati per loro e per i penitenti al fine di testimoniare cosa fosse giusto o sbagliato e far sì che tutti i peccati gravi venissero confessati per rendere il sacramento «integrale». In una visione più generale, nel peccato si concentrerebbe la distruzione della Chiesa e la confessione sarebbe il mezzo per riportarla al suo splendore. La definizione «confessione generale» utilizzata dai gesuiti tendeva a comprendere molteplici significati. Erano previsti tre diversi tipi di pratiche: la confessione liturgica dei propri peccati all’inizio della messa; la confessione di un individuo al prete nel sacramento della penitenza, presupponendo che egli avesse tenuti nascosti segreti precedenti, già di per sé un peccato; la confessione prevista dagli Esercizi, che consisteva nella revisione della propria vita con l’aiuto di un confessore, non a causa di peccati nascosti, ma per arrivare a una maggiore conoscenza e consapevolezza di se stessi, rivolgendosi con maggior fede a Dio dopo essersi allontanati dai propri peccati. Quest’ultima pratica venne promossa come attività da compiere non una sola volta nella vita, ma da ripetere periodicamente al fine di chiarirsi la strada in momenti importanti per la propria crescita spirituale. La confessione non costituiva dunque un obbligo, ma un desiderio di progresso spirituale: si allontanava dalla concezione medievale di tribunale per assumere un significato innovativo di consolazione. La novità presentata dall’ordine si registra nel considerare il momento della confessione un’occasione per cominciare un nuovo modo di vita. Per i gesuiti era previsto dalle Costituzioni che avvenisse ogni sei mesi, elaborando ciò che di significativo era accaduto nel periodo precedente. La confessione generale si sviluppò e propagò a partire da Ignazio fino a entrare nella corrente principale del cattolicesimo e diventare pratica comune. Il confessore, che veniva anche definito «medico dell’anima», doveva essere comprensivo, non incutere timore, far commuovere e incoraggiare i penitenti; il suo ruolo era quello di dispensatore di consigli personalizzati e per questo motivo poteva anche non essere un parroco. Sin dal tardo Medioevo si era posto l’accento sugli aspetti terapeutici della confessione, ma la parte innovativa introdotta dai gesuiti consisteva nell’attenzione nei confronti del consiglio, del conforto e dell’incoraggiamento per completare il percorso verso il cambiamento e l’assunzione di una nuova anima. Loarte28 riteneva che, se si fosse scelto correttamente un confessore, si poteva sperare di ottenere «istruzione se si era nel dubbio, forza se deboli, incoraggiamento se esitanti, consolazione se aridi, calma nella tentazione, guida nel pericolo e, in generale, indicazione della strada giusta»29. Dal compito complesso di confessore nacque 28 Gaspar de Loarte (1498-1578), gesuita dottore in teologia, rettore del collegio di Genova (1555-1568) scrisse durante la sua permanenza in Corsica, mosso probabilmente dall’incompetenza dei sacerdoti corsi, Avisi di sacerdoti et confessori, un trattato rivolto ai sacerdoti e a coloro che si volessero rivolgere alla vita religiosa. Scrisse diversi trattati tra cui Essercitio della vita cristiana. 29 John O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1993, p.154 17 l’esigenza per i confratelli di studiare i casi di coscienza, ovvero le circostanze chiamate in campo da ogni singolo caso al fine di facilitare l’applicazione delle norme in maniera coerente. Spesso però l’utilizzo della casistica portò a risposte preconfezionate e prescrittive, proprio ciò che l’applicazione di questa pratica tentava di evitare. Iniziarono presto a tenere lezioni sui casi, fino a far diventare la teologia morale una disciplina autonoma del curriculum teologico. I numerosi abusi nei confronti di questo sacramento vennero fortemente criticati all’epoca. Le cause principali erano dovute al fatto che non sempre all’interno della Compagnia questo ministero veniva esercitato da persone qualificate e adatte al compito. Polanco scrisse a proposito il Directorium30 nel quale elencava le caratteristiche del buon confessore: umiltà, conoscenza, prudenza e umanità. I confessori venivano infatti riconosciuti come vicari di Cristo, dovevano indicare i rimedi possibili al peccato e insegnare il modo giusto di pregare. La legislazione riguardo la confessione si formò durante il Medioevo. La natura pubblica dei peccati contribuì alla tendenza di riservarli solo ai vescovi, in modo che un prete comune non potesse assolvere dal peccato se non in casi particolari. Il controllo sociale finì per essere regolato dalla confessione. Spesso veniva aggirata la legislazione anche grazie a privilegi che vennero spesso elargiti dai papi agli ordini mendicanti. Paolo III conferì nel 1545 ampi privilegi alla Compagnia di Gesù, confermati poi dal suo successore. Nel 1552 Giulio III concesse ai preti dell’ordine di assolvere dal peccato di eresia, arrivando a scavalcare l’Inquisizione e a proibire ai vescovi di interferire con questo potere. Questi eventi rafforzarono il legame tra gesuiti e papato inasprendo quello tra l’ordine e i vescovi o gli ordini più antichi. La confessione poteva sfociare facilmente in meccanismo di manipolazione e controllo. I gesuiti vennero ricercati come confessori dalle specie più varie di persone, anche da coloro che potevano avere facilmente accesso a un’altra tipologia di confessori. La forte varietà di individui richiedenti il servizio dei confessori gesuiti poteva essere dovuta al rifiuto di qualsiasi compenso o dono, fu proprio questo probabilmente che consentì una vera e propria riforma della confessione. Pur comprendendo l’importanza del loro mandato nei confronti di poveri e bisognosi, le Costituzioni insegnavano che si poteva ottenere un risultato maggiore influenzando chi aveva un forte ascendente su altri. Ottennero spesso l’appoggio dei potenti che incuriositi dall’ordine vi si avvicinavano chiedendo consigli in cambio di protezione. Le Costituzioni vietavano però ai gesuiti di accettare benefici, soprattutto le parrocchie che prevedevano un incarico a vita che andava inevitabilmente a contrastare con la necessità delle loro missioni itineranti, inoltre si trattava di un ministero rivolto a individui che avevano già qualcuno che si occupava di loro, il pastore. Per il primo quarto di secolo anche le donne si andarono a confessare presso membri dell’ordine. Inizialmente numerosi gesuiti contestarono i tentativi di porre delle restrizioni nei confronti delle donne, compreso lo stesso Ignazio, nonostante fosse stato ragguagliato sulle possibili calunnie legate a questa pratica. Negli anni furono costretti a essere più cauti, prima con restrizioni sul contatto visivo tra il confessore e la penitente poi con l’abbandono della pratica di questo tipo di confessioni da parte di alcuni membri che preferirono riservarle ai parroci, nel desiderio di evitare dicerie e di mantenere il buon nome della Compagnia. Ai gesuiti era proibito essere confessori di re o principi se questa attività prevedeva il risiedere a corte. Ignazio ordinò tuttavia, nel 1553, a due confratelli di accettare la richiesta del re di Portogallo 30 Pubblicato nel 1554, assunse uno status quasi ufficiale per la Compagnia. Diviso in una prima parte nella quale si esponeva ciò che era richiesto a un confessore e a un penitente per poter mettere in atto in modo corretto una confessione integrale, nella seconda parte si presentava come una somma di appendici che elencavano i diversi tipi di peccati riferiti a persone in diversi momenti della vita e con diversi luoghi (ad esempio un capitolo riguarda anche i vescovi e i preti). 20 Il ruolo di Santa Marta fu assunto dalla Casa Pia, che permetteva l’assunzione di queste donne come domestiche. Un altro fondamentale problema di cui si occupò la Compagnia furono gli orfani, i bambini di strada che avevano perso i genitori per innumerevoli ragioni, dalla guerra alle malattie fino alla generale povertà. Ignazio fu uno tra i promotori di una Compagnia degli orfani per l’assistenza dei bambini e delle bambine in due differenti strutture. Si hanno poche informazioni a riguardo, ma si sa per certo che fu investito un particolare interesse nei confronti delle giovani figlie delle prostitute con il Conservatorio delle Vergini Miserabili, istituito a Roma nel 1546 presso la chiesa di Santa Caterina dei Funari. In questa struttura venivano raccolte ragazze dai dieci ai dodici anni alle quali veniva garantita un’educazione e una dote per permettere loro di potersi sposare o di entrare in convento, l’istituto puntava a offrire un’alternativa di vita e la salvezza per l’anima. La compagnia deve prendersi cura di quelle anime delle quali o non c’è nessuno che si curi o se qualcuno c’è lo fa con negligenza. Questa è la ragione per cui la Compagnia è stata fondata. Questa è la sua forza. Questa è la sua dignità di Chiesa.35 35 John O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1993, p.82 21 Capitolo IV Il caso dei Monita Privata Intorno al 1615 iniziarono a diffondersi voci riguardo alla pubblicazione di un testo: i Monita privata Societatis Jesu, un codice anonimo pubblicato nel luogo fittizio di Notimberga, dietro il quale probabilmente si nascondeva la città di Cracovia, nel 1612, considerata una data fittizia visto che il clamore e la puntuale dichiarazione di falso da parte del vescovo avvennero solo nel 1615. Il codice venne attribuito a Zahorowski, ex gesuita espulso dall’ordine, il che sembrava spiegare da un lato la conoscenza delle dinamiche interne al gruppo e dall’altro l’interesse, ricorrente nel testo, nei confronti degli espulsi dall’ordine. Zahorowski non superò l’esame di studi teologici, circostanza che gli impedì di accedere al quarto voto, divenne così un coadiutore. Venne espulso a causa del suo carattere subdolo, si rese perfino protagonista della richiesta di restituzione dei propri beni inscenando un finto rapimento di due gesuiti ma, visto lo stretto rapporto che lo legava all’ordine, successivamente chiese che gli venisse concesso il perdono. Il codice era costituito da sedici capitoli che incorporavano le regole segrete della Compagnia, presentandosi come un testo sottratto agli archivi spagnoli dell’ordine, tradotto poi in latino e arrivato infine in Polonia. Tramite questo codice era possibile avere conferma dei maggiori stereotipi attribuiti alla Compagnia, come i caratteri di doppiezza e opportunismo smascherati dall’interno. L’umiltà era una caratteristica solo di facciata nel tentativo di dissimulare i loro reali intenti. Con questo testo emersero le maggiori paure di coloro che ritenevano che la Compagnia stesse tramando per controllare l’intera società. Ad esempio, la corrispondenza non veniva sempre resa pubblica e ci si chiedeva quanto nelle loro lettere interne ragionassero in termini di missione religiosa piuttosto che di conquista politica ed economica. Il testo costituiva la conferma dell’importanza del tornaconto in ogni azione compiuta dai gesuiti, innanzitutto sul versante economico e infine nei confronti della conquista del potere, con consigli espliciti su come facilitare questo obiettivo. Il piano non era di rivoluzionare i vertici dello Stato, ma di attribuire i ruoli di maggiore rilevanza ai membri della Compagnia. Il carattere gerarchico e centralizzato dell’ordine testimoniava il legame del singolo nei confronti dell’intera comunità. In questo quadro, la disciplina costituiva un fondamentale strumento per permettere agli stessi membri di accusare chi non si stesse comportando in modo favorevole agli interessi della Compagnia. La disciplina veniva usata anche come pretesto per liberarsi dei pesi morti che non portavano vantaggi all’ordine. Quest’ultimo era descritto come una sorta di società segreta in cui chi trasgrediva veniva punito con l’espulsione, che non consisteva soltanto nella dimissione del membro e nell’esclusione dall’ordine e da ogni ufficio scolastico, ma nella svalutazione dell’espulso fino a intaccare la sua reputazione, per evitare che potesse rivelare segreti o avere comportamenti avversi all’ordine. La Compagnia arrivava ad affermare che per raggiungere i propri obiettivi erano leciti tutti i mezzi: la menzogna, l’astuzia e la frode erano consentite, il peccato diventava irriconoscibile e introvabile all’interno dei loro libri. I clichés più comuni erano quello di direzione dei principi, circonvenzione delle vedove per impossessarsi delle loro eredità, artifici per convincere i giovani a diventare membri. Per accedere all’ordine infatti si era favoriti se provenienti da una famiglia benestante che potesse garantire protezione. Venivano descritte vere e proprie attività di spionaggio che coinvolgevano alleanze matrimoniali, con il ruolo chiave della servitù e delle donne; il confessore era colui che si doveva avvicinare ai membri che la Compagnia intendeva controllare fino a circuire i devoti, ad esempio convincendo le vedove per ottenere donazioni. La maggiore accusa confermata nell’opera 22 era quella di mondanità e machiavellismo: servirsi del ruolo di confessori per condizionare la politica del sovrano. Il Portogallo fu il primo stato in cui un gesuita assunse la funzione di confessore del re36 che andava spesso a sovrapporsi a quella di direttore spirituale, colui che aveva ufficialmente il ruolo di confidente e consigliere del re. Il comportamento da tenere in ogni occasione era quello di camuffare gli intenti affermando di agire per il bene della società e dei fedeli. L’importanza assunta dai Monita è testimoniata dall’esigenza di replicarvi, motivata dalla vicinanza dei temi trattati con gli effettivi problemi della Compagnia rilevati dalla società del tempo: l’obbedienza nei confronti dei superiori come principio divino, la divisione dei ruoli dipendente dai voti e lo spirito di competitività. Quello che ha reso quest’opera credibile per diversi secoli è stato infatti il mescolamento del vero con il falso. Per prima cosa, la conferma della natura segreta della società: il nome originario dell’opera, “privata”, venne successivamente modificato in “secreta” forse per attirare l’attenzione di coloro che vedevano nella Compagnia una società segreta con fini ostili a quelli dello stato. Inoltre, negli stessi testi dei gesuiti si parlava di predicazione contro gli abusi della Chiesa come obbligo morale, ma le critiche dovevano essere fatte a porte chiuse. Il gesuita non poteva riferire a esterni faccende riguardanti l’ordine: Nessuno riferisca a quei di fuori quello che si fa o si pensa fare fra noi. Nessuno, senza espressa licenza del superiore, comunichi le nostre costituzioni, i nostri libri, ovvero scritti nei quali si contengono le nostre ordinazioni o privilegi. Nessuno dia o mandi fuori le istruzioni spirituali, le meditazioni, o gli esercizi della società.37 Questo carattere di segretezza indusse a pensare che potessero esserci altri ambiti riservati ai membri dell’ordine. In quegli anni si era verificata diverse volte la ricerca di costituzioni segrete, questo falso potrebbe essere stato redatto per appagarne la richiesta, consapevole della volontà da parte della popolazione di prendere per vera ogni notizia conforme alle proprie aspettative. Queste costituzioni erano utili non solo per colpire la Compagnia, ma anche per attaccare l’ideologia controriformista che subordinava il potere laico a quello ecclesiastico. Un altro elemento che rese il testo credibile fu l’attualità delle questioni trattate, tra le principali il problema della proprietà ecclesiastica, che impose di conciliare il voto di povertà con la possibilità di avere proprie rendite, risolto con un regolamento secondo cui era concesso avere dei beni solo ai collegi, a causa delle spese di gestione. Le istruzioni sembrano provenire dall’interno dell’ordine per il formato di Regole, utilizzato più volte da parte della Compagnia, che ha permesso di ritenerle uno statuto normativo credibile. Inoltre, la storia dei gesuiti è sempre stata considerata ricca di incoerenze e compromessi in linea con i paradossi della stessa religione cristiana. Le incomprensioni si dispiegarono ben presto anche tra le fila dei confratelli, ad esempio nella diatriba tra coadiutori e professi, mentre l’intenzione di obbedire al papa riguardo alle missioni divenne sempre più distante da quella originaria. Appoggiavano la riforma della Chiesa, ma al tempo stesso si definivano «portatori di aiuto alle anime nella vigna del Signore»38. Si ritenevano lontani da episcopato e parrocchie, ma strettamente legati al papa, non credendo allo stesso tempo in un’autorità assoluta impunita. Credevano nella necessità di adattarsi a luoghi, tempi e circostanze, ma lasciarono le istituzioni così com’erano. Coltivarono la fedeltà all’ispirazione divina anche quando stavano difendendo istituzioni e usanze della Chiesa. Essi si sentivano come un punto di equilibrio tra due poli, mentre coloro che li criticavano ritenevano tradissero una delle due parti: problema all’origine della nota accusa di doppiezza e opportunismo. 36 Re Giovanni III, al quale furono concessi da Ignazio nel 1553 due confessori gesuiti. 37 Ignazio di Loyola, Regulae societatis Jesu, Institutum Historicum Societatis Jesu, Roma, 1948, leggi n.38 e 39 38 John O’Malley, I primi gesuiti, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1993, p.408 25 Venne attribuita ai gesuiti la massima «il fine giustifica i mezzi», vennero messi in cattiva luce coloro che si insediarono alle corti dei principi e dei re come predicatori e confessori, o coloro che riuscirono a ottenere il permesso di aprire collegi e altre istituzioni eliminando quelle che giudicavano eretiche, come nel caso dei protestanti. Vennero accusati di diverse congiure nei confronti di re che appoggiavano il protestantesimo sfavorendo la Compagnia39. Essendo posti in posizioni eminenti, quali quelle di consiglieri di monarchi, furono spesso accusati di aver preso parte attiva nelle lotte politiche, nonostante il loro espresso comandamento di tenersi distanti dalle questioni temporali. Coloro che li osteggiavano criticavano la loro teologia morale, ritenuta incongruente con i tentativi di approfittarsi anche delle fasce più deboli della popolazione, che apertamente si proponevano di salvare. Furono identificati nell’idea che si potesse accantonare il codice morale quando gli interessi cattolici erano in pericolo. L’accusa più comune fu quella di avidità di guadagni, visto il ripensamento dell’iniziale proposito di non accettare denaro o donazioni, che fu necessario ritrattare in vista del mantenimento dei collegi, ma soprattutto riguardo la loro frequentazione delle corti di re e principi, inizialmente vietata dalle Regole. In una società lacerata da fazioni contrastanti in ogni suo ambito, si richiedeva la presenza di un capro espiatorio sul quale potesse convergere il malumore del popolo. Questo venne facilmente identificato nella Compagnia di Gesù, accusata di essere la principale responsabile dei maggiori disordini del tempo: faide, guerre e sommosse. Un ordine definito “segreto” che, diffusosi a partire da premesse di umiltà, sembrava sempre più allontanarsi dai precetti originari per cavalcare l’onda dell’interesse materiale, economico e politico, rimanendo ancorato, grazie alle sue missioni caritatevoli e alle confessioni ispiratrici di conforto, alla fiducia del popolo. La Compagnia di Gesù, originariamente coesa, consacrata al ministero e unita dal senso d’identità rintracciabile negli Esercizi spirituali del suo fondatore Ignazio, nei secoli si è presentata come un ordine religioso complesso e multiforme. Proprio in questa pluralità di prospettive e obiettivi è da rintracciare la chiave del suo seguito e della sua persistenza nonostante il modificarsi di tempi e circostanze. Una delle massime di Ignazio riguardava proprio l’adattabilità: «tutto a tutti». Fu grazie a questo tratto, insieme all’influenza che ebbero nei confronti dei potenti e alle scuole, che diffusero i loro ideali e vinsero la lotta contro il protestantesimo. A questo punto sarebbe doveroso chiedersi quanto dei loro successi fu un risultato dell’amore verso il prossimo e quanto degli intrighi politici nei quali finirono per immischiarsi, entrando a far parte di quella mondanità che essi stessi rifuggivano. Tutte le critiche mosse e gli interrogativi rimasti irrisolti non possono che testimoniare il peso che la Compagnia di Gesù ebbe per la società contemporanea, che consente di trovare una traccia dell’operato dell’ordine non solo in ambito religioso e spirituale, ma soprattutto sociale, grazie al loro importante intervento culturale. 39 Come nel caso della famosa Congiura delle polveri, il tentativo di far saltare in aria il Parlamento di Londra con re Giacomo e la corte, avvenuto nel 1605. La storia ufficiale racconta che l’attacco venne elaborato da tredici fanatici cattolici ispirati probabilmente dai gesuiti. 26 Bibliografia Ferlan C., I gesuiti, Il Mulino, Bologna, 2015 Genovesi G., Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi, Editori Laterza, Bari, 2007 Ignazio di Loyola, Gli scritti, Apostolato della preghiera, Roma, 2007 Ignazio di Loyola, Regulae societatis Jesu, Institutum Historicum Societatis Jesu, Roma, 1948 O’Malley J., I primi gesuiti, Vita e Pensiero Editrice, Milano, 1993 Pavone S., Le astuzie dei gesuiti, Salerno Editrice, Roma, 2000 Vissière I. e Vissière J. (a cura di), Lettere edificanti e curiose di missionari gesuiti dalla Cina (1702-1776), Guanda, Parma, 2008
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