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L'invenzione del fotografico. Federica Muzzarelli, Dispense di fotografia

Riassunto del libro L'invenzione del fotografico di Federica Muzzarelli. Storia della fotografia.

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 10/03/2022

Alessandrac93
Alessandrac93 🇮🇹

4.2

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Scarica L'invenzione del fotografico. Federica Muzzarelli e più Dispense in PDF di fotografia solo su Docsity! L’INVENZIONE DEL FOTOGRAFICO Il fotografico è un insieme di categorie che rendono specifica un’immagine in quanto immagine fotografica. La fotografia, invece, è un insieme di fenomeni scientifici, sociologici, di costume. CAPITOLO UNO: Camera oscura La parola camera indica ancora oggi un apparecchio di ripresa cine fotografica, ma mantiene ben saldo il ricordo del legame con l’antica camera obscura, dalle cui evoluzioni è nata la fotografia. Già nel IV secolo a.C. Aristotele osservava le eclissi grazie a una camera oscura che gli permetteva di non rimanere accecato dalla luce. Il fenomeno alla base del funzionamento della camera oscura si verifica producendo un foro sulla parete di una stanza buia, in modo che sulla parete opposta al foro si rifletta un’immagine ribaltata della porzione di realtà illuminata che è al di fuori della stanza stessa. La camera oscura nasce come strumento del desiderio dell’uomo di conoscere e capire il mondo e le sue manifestazioni visibili, e ottiene applicazione nel campo delle scienze, ma si diffonde anche in campo artistico, come strumento in grado di realizzare un’immagine della realtà precisa. E’ per questo motivo che col tempo, da strumento situato in una parete, diviene uno strumento mobile. Due fattori accresceranno e renderanno più complesso il fabbisogno di immagini sino a far emergere un sistema atto a soddisfarlo: l’ascesa della borghesia e il progresso delle scienze. Durante il Rinascimento gli interessi e gli studi intorno alla camera oscura si fanno importanti: a metà del ‘500 Cardano propone l’inserimento di una lente convessa all’interno del foro per aumentare la luminosità e Barbaro aggiunge una lente a diaframma. Nel 1685 Johann Zahn mette appunto un modello di camera oscura reflex che aggiunge sulla parete di fondo, su cui si proietta l’immagine della realtà, uno specchio inclinato a 45 gradi, grazie al quale l’immagine viene ribaltata e proiettata in alto (recuperando la corretta visione naturale sinistra-destra), in modo che quella porzione di realtà risulti facilmente ricalcabile. Ma nel XVIII secolo le conoscenze del campo chimico non consentivano di conservare l’immagine formatasi dentro la camera oscura, di renderla permanente e trasformarla in una fotografia. Gli studiosi dovevano ancora definire quali sostanze fotosensibili fossero più adatte a registrare ciò che si riflette sulla parete e in quale modo renderle stabili e non modificabili. Capitolo due: Vista della finestra a Gras (Nicéphore Niépce, 1826-27). La camera oscura aveva fornito per secoli ai pittori e a vedutisti la possibilità di riprendere il vero con massima precisione e dettaglio. La fotografia nasce infatti solo nel XIX secolo, quando le conoscenze chimiche riescono a individuare quali sostanze fotosensibili possono catturare quelle immagini fuggevoli, e quali altre le possono tenere fissate per sempre nello scorrere del tempo. Nicéphore Niépce, nel 1822, sperimenta una speciale resina, Il Bitume di giudea, che gli permette di ottenere immagini con una tecnica di tipo incisorio e continuare a ragionare su come poter applicare certe migliorie alla camera oscura. Ma è almeno 1816 che Niépce lavora a questo obiettivo, ossia quello di ottenere immagini dalla camera oscura, e le lettere col fratello Claude permette di seguire l’evolversi delle sue ricerche. Niépce scrive infatti al fratello di aver ottenuto immagini in negativo (sfruttando la fotosensibilità del cloruro d’argento) che però non lo soddisfano, essendo il suo obiettivo un’immagine diretta e positiva del reale. Cerca una sostanza che, se colpita dalla luce, possa sbiancare e non scurire e, dopo dieci anni di tentativi, realizza Vista dalla finestra a Gras, che si può leggere come il positivo di una ripresa dell’ambiente esterno alla soffitta. Questa è la prima immagine fotografica della storia; un paesaggio con architetture di scarsissima nitidezza, impresso su una lastra di peltro spalmata dal Bitume di Giudea e lasciata nella camera oscura per dieci ore, sotto la luce del sole. Niépce battezza questo come eliografia; mediante l’azione della luce del sole vengono riprodotte spontaneamente le immagini ricevute nella camera oscura. Dicendo che l’eliografia è un’immagine spontanea, Niépce decreta definitivamente la nascita della possibilità che un parecchio meccanico sia in grado di produrre da solo una visione del reale. Nel 1827 a Londra Niépce riesce ad avere un incontro con i rappresentanti della Royal Society, ma non ne sortisce alcun risultato perché non vuole rivelare il suo metodo, ma lascia in dono a Francis Bauer il manoscritto che aveva preparato affinché lo stato francese acquisisca i diritti ed entra a far parte di una commissione che ne studia le caratteristiche. E il 19 agosto 1939 viene fatta dimostrazione del funzionamento del dagherrotipo. Lo stato francese ne entra in possesso e vari dagherrotipi vengono inviati alle corti europee. Il dagherrotipo è costituito da immagini tratte dalla realtà impresse su piccole lastre metalliche che vengono custodisce in astucci di cuoio. L’immagine che si forma nella camera oscura può essere così letta come un positivo diretto: le parti chiare sono date dall’amalgama biancastro di mercurio e argento, le ombre dalle parti non esposte che lasciano scoperta la lastra specchiata. Il dagherrotipo è destinato a scomparire grazie a un’altra scoperta che possedeva la riproducibilità tecnica. 3.1 3.1 Il fascino della copia unca L’unicità del dagherrotipo non permette di essere riprodotto e diffuso in un numero infinito di copie. La fotografia è uno strumento di democratizzazione e interazione di massa. Ma la scelta dell’unicità c’è stata anche nel ‘900. Nel 1947 Edwin Land mette a punto la tecnologia della Polaroid, un aparecchio a sviluppo immediato, brevettandola e immettendola nel mercato. Il nome Polaroid era già stato utilizzato per indicare un materiale polarizzante con cui si realizzavano le lenti polarizzate. Il primo modello di polaroid, il Modello 95, è pieghevole, di discrete dimensioni e produce immagini color seppia. A metà anni ’60 la Polaroid Land Corporation ha già venduto 14 milioni d apparecchi. La tecnologia della Polaroid è estremamente raffinata; la pellicola consiste in Il dagherrotipo: si ottiene utilizzando una lastra di rame su cui è stato applicato uno strato d'argento, La lastra deve, quindi, essere esposta entro un'ora e per un periodo variabile tra i 10 e i 15 minuti. Lo sviluppo avviene mediante vapori di mercurio, che rendono biancastre le zone precedentemente esposte alla luce. Il fissaggio conclusivo si ottiene con una soluzione di tiosolfato di sodio. L'immagine ottenuta non è riproducibile. Inoltre, a causa del rapido annerimento dell'argento e della fragilità della lastra, il dagherrotipo veniva racchiuso sottovetro, all'interno di un cofanetto un’emulsione negativa e carta positiva avvolta su due rulli separate tramite dei gusci contenenti prodotti chimici. Oltre al principio di unicità, ciò che rende la Polaroid la unisce al dagherrotipo è l’aspetto sensoriale. La polaroid ha esercitato un grandissimo fascino sugli artisti; è stata strumento centrale nella poetica delle sessioni porn-soft di Carlo Mollino, degli autoritratti intimi di Mapplethorpe o delle ricognizioni voyeuristiche sulla Tokyo hard degli anni ’90 di Araki. Ricordiamo poi la polaroid di Andy Warhol. Anche il cinema ha tratto ispirazione dalle caratteristiche della polaroid, la quale, ancora oggi esercita un fascino incredibile ai cultori del vintage. Capitolo quattro: Finestra con telaio a griglia (William Henry Fox Talbot, 1835) Contemporaneamente alle scoperte di Daguerre, a Londra il matematico e botanico William Henry Fox Talbot decide che era arrivato il momento di comunicare il punto di arrivo delle sue sperimentazioni chimiche. Talbot prende subito contatti con la Royal Istitution di Londra, dove alcuni esempi dei suoi prototipi vengono analizzati il 25 gennaio 1839 grazie al fisico Faraday. Quindi, il 31 gennaio sarà lo stesso Talbot a leggere presso la Royal society un testo esplicativo del metodo da lui individuato. Egli stesso ha raccontato di aver avuto l’illuminazione durante un viaggio in Italia a Bellagio, intorno al 1833. Talbot utilizzava la camera lucida di Wollaston con la quale poteva eseguire degli schizzi del paesaggio italiano con una buona approssimazione. Riesce a realizzare delle immagini a contatto che chiama disegni fotogenici. Egli sovrappone degli elementi naturali o anche tessuti e pizzi a fogli di carta resi sensibili alla luce (immergendoli prima in una soluzione di sale e poi di nitrato d’argento). Lasciati esposti per un certo lasso di tempo, una volta tolti gli oggetti avranno lasciato impressa su quel foglio la loro impronta in negativo (rimasta chiara) mentre tutto attorto le sostanze fotosensibili si saranno annerite alla luce. Fissate con diverse sostanze e infine col sale, queste immagini off-camera (realizzate senza l’ausilio della camera oscura) saranno per Talbot un passaggio successivo per le sue nuove sperimentazioni. Talbot riporta e applica le scoperte fatte con le carte dei disegni fotogenici alle camere oscure. Nel 1835 Talbot ottiene quello che viene considerato il primo negativo fotografico della storia, chiamato Finestra con telaio a griglia. Il dagherrotipo era una copia unica, leggibile come positivo diretto ma non riproducibile. Però era estremamente preciso nei dettagli e piacevole allo sguardo. Al contrario Talbot ha realizzato il negativo fotografico da cui si possono ottenere un numero teoricamente infino di copie positive, ma le sue immagini sono di qualità inferiore, sgranate e poco definite. Dopo aver conseguito alcune modifiche che ne miglioreranno le prestazioni, il metodo di Talbot si imporrà alla storia, noto come calotipia. Nel 1844 darà alle stampe il primo libro fotografico della storia: The Pencil of Nature, seguito poi nel 1845 da Sun Picture in Scotland ma se ne vendettero poche copie. All’interno dei fascicoli le calotipie erano incollate alle pagine. I soggetti principali dei libri di Talbot sono granai, paesaggi e persone in posa, ma hanno permesso agli uomini di poter viaggiare grazie alle immagini. Capitolo cinque : Autoritratto in figa di annegato . (Hyppolite Bayard, 1840) Un uomo seminudo sta appoggiato a una parete, ha gli occhi chiusi e le braccia conserte. Si chiama Hippolyte Bayard e con questa immagine viene dichiarata pubblicamente la sua morte, suicida, nella Senna. Bayard, a metà Ottocento lavora all’invenzione del fotografico e riprende i suoi studi sulle sostanze fotosensibili; il 5 febbraio 1839 sottopone delle immagini positive dirette, su carta sensibilizzata con ioduro d’argento a un membro dell’Istituto di Francia. Le chiama images photogénés. Camera lucida di Wallaston: 1807. Il dispostitvo è costituito da un prisma di vetro sormontato da un’asta di legno. Quando l’asta col prisma veniva fissata a una tavoletta sulla quale era posto un foglio di carta. Guardando attraverso il prisma s vedevano contemporaneamente l’immagine dal vero che si voleva riprendere e il foglio sul quale questa si imprimeva, che si poteva così ricalcare. Il calotipo: Il negativo si ottiene da un foglio di ordinaria carta da scrivere, resa fotosensibile attraverso successive spennellature e bagni in soluzioni. Una volta asciutto, il supporto così preparato viene posto entro una camera oscura. La carta trattata, esposta alla luce solare per un tempo variabile (di solito tra i 10 e i 60 secondi), rimane impressa, producendo il negativo. anomala per gli standard fotografici del tempo; infatti, si avvicina a quelli della pittura. Rejlander chiama per posare dei veri attori, la “Pose Plastique Troupe”, di Madame Wharton, specializzata in tableaux vivant. La costruzione finale della scena è ispirata ad alcuni quadri storici come Scuola di Atene o I romani della decadenza di Couture. Il soggetto stesso, ossia la lotta tra bene e male tra vizio e virtù, è in linea con il gusto per la retorica e per i temi mitologici a sfondo educativo e per i temi mitologici a sfondo educativo e di ammonimento. In generale, la fotografia viene accolta dai pittori con diffidenza e freddezza nelle sue pretese di poter essere considerata un oggetto artistico. Accettata come strumento ausiliario alla realizzazione di opere d’arte e permetteva di sostituire schizzi e bozzetti di paesaggi. Tanti pittori fanno uso di un uso strumentale della foto come Courbet, Manet, Monet, Delacroix. Ma molti alti la rinnegano come Ingres che accusa lo stato francese di aver danneggiato l’arte. Tendendo conto di questo clima, il fotomontaggio di Rejlander diventa il manifesto di quello che la critica avrebbe chiamato Pittorialismo. The two ways of life ha sia i temi che le misure di un quadro esposto al Salon, i personaggi fotografati sono veri attori e forniscono all’immagine un surplus di retorica e artificio. Ma ciò che colpisce è la manifestazione di sforzo, lavoro e difficoltà che Rejlander si impegna a ottenere: la volontà di innalzare la fotografia al livello della pittura, reintroducendo il ruolo e la capacità di un autore contro la freddezza di una macchina. Quindi, i fotografi hanno un nuovo strumento che cattura la realtà nella sua immediatezza e nella sua verità ma cercano di piegare quelle caratteristiche. Lo fanno accostando un vasto numero di scatti magistralmente combinati in fase di stampa. Il risultato è un complicato mosaico. L’obiettivo è mostrare che il fotomontaggio può far che la fotografia ottenga la dignità dell’arte. Il fotomontaggio è l’emblema del Pittorialismo, di quell’atteggiamento diffuso che porta i fotografi a vivere il loro complesso di inferiorità nei confronti dei pittori imitandone gli stili e le caratteristiche formali. Ci sono stati altri fotografi Pittorialisti; Robert Demachy che usa una sostanza chiamata gomma bicromatata la quale, mescolata all’emulsione fotosensibile, da alle fotografia l’aspetto di un carboncino o di una sanguigna. Peter Henry Emerson realizza immagini molto vicine alla pittura impressionista, le sue “fotografie naturalistiche”, sfocandone i contorni per uguagliare la percezione difettose dell’occhio umano. The two ways of life ha avuto sia accoglienze che critiche. I corpi nudi degli attori offendono perché sono realmente corpi nudi. Il secondo fotomontaggio della storia è Il momento del trapasso di Henry Peach Robinson (1858); anche qui, un momento di vita in teoria normalissimo viene percepito come disturbante. Dopo alcuni fotomontaggi Rejalnder abbandona definitivamente quella pratica e mette la sua tecnica a disposizione della scienza. 7.1 Il modello quadro Baudelaire pubblica uno scritto chiamato Il pubblico moderno e la fotografia, esponendo in modo chiaro il suo pensiero sulla fotografia. Il poeta sostiene che la fotografia ha il diritto di essere usata per sottrarre i monumenti alla decadenza o per salvare le memorie collettiva, ma che mai potrà raggiungere la dimensione del sogno e dell’immaginario. I difetti che impediscono alla fotografia l’accesso all’arte sono la richiesta minima di capacità manuali, il suo essere calco di realtà troppo aderente e il suo essere sporcata dalla compromissione con i meccanismi industriali. La fotografia può valere come aiuto alla memoria, come strumento per indagare la realtà ma non può pretendere altro. La sua accettazione entro i confini dell’arte può avvenire solo se l’immagine può esibire un virtuosismo speciale e uno sforzo fuori dal comune e deve dimostrare che l’artista è un genio del mondo. Nel Pittorialismo la fotografia finge di essere un quadro e così facendo nega la sua stessa identità. La fotografia si emanciperà con l’introduzione dei ready-mades nel 1913. L’arte del 900 è ricca di recuperi del passato e la fotografia è stata protagonista di momenti a forte impatto concettuale nell’arte, ma ha anche accompagnato percorsi e correnti in cui anche la dimensione pittorica e il principio dell’autorialità sono tornati a farsi sentire. Interessante è il fotomontaggio dadaista, usato da Hannah Hoch e Raoul Hausmann contro le spinte nazionalsocialiste di Hitler, anche se non mancano all’interno di questi fotomontaggi dei lavori manuali di taglia e incolla ecc. Capitolo otto: Spettacolo di lanterna magica . (Smeeton Tilly, 1881) Parallelamente alla scienza, anche l’occulto, la magia e l’inganno visivo erano parte dell’universo dei dispositivi ottici che anticipano le invenzioni della fotografia prima e del cinema poi; discendendo dalla camera oscura e dalla lanterna magica, tutti i cosiddetti dispositivi del pre-cinema si collocano in suggestivo bilico tra serietà scientifica e tentazione del magico illusorio: in essi la prospettiva si delinea come uno strumento per forgiare allucinazioni, secondo l’idea di un potenziamento immaginario dell’impressione di realtà che dalla prospettiva rispettata nella camera oscura passa alle sue discendenze tecnologiche, fotografia e cinema anzitutto. Nel caso di questi ultimi, rispetto agli altri strumenti ottici, la dimensione finalmente fissata del segno indicale da loro prodotto consente un incremento notevole di suggestione nel gioco ambiguo e nel fascino oscuro tra scienza e magia. Ma ancora prima della scoperta della fotografia, la “fantasmagoria” di Etienne-Gaspard Robertson va ricordata come uno dei più originali esperimenti del “meraviglioso scientifico” (Max Milner): inaugurata nel 1798 a Parigi nel Pavillon de l’Echiquier, consisteva in uno spettacolo d’immagini in movimento che s’ingrandivano e rimpicciolivano grazie a un apparecchio di nome fantascope, con grande successo. Inutile dire che l’idea che si potessero raddoppiare il mondo, gli oggetti, i volti e la creazione di uno spazio virtuale rese questi spettacoli un’attrazione per le nuove masse urbane, che facevano leva sull’utilizzo di macchine ottiche studiate dalla scienza e dunque ricoperte dal velo della serietà e della verità (si ricorda il romanzo di Adolfo Bioy Casares del 1941 “L’invenzione di Morel” basato proprio sulla suggestione del mondo alla replicabilità offerta dalle macchine e sul non saper più distinguere finzione e realtà). Una curiosa attestazione letteraria dello sconfinamento tra scienza e magia si deve al francese Tiphaigne de la Roche che ne suo romanzo del 1761 “Giphantie”, racconta di incredibili “quadri solari” prodotti dalla fissazione miracolosa d’immagini prese dal vero; sicuramente egli conosceva la camera oscura e i tentavi che molti stavano compiendo, però resta curiosa la sua così anticipata tentazione di legare il vero fotografico al sogno dell’irrealtà. “L’ossessione visiva che percorre tutto l’immaginario ottocentesco trova nell’invenzione del cinema il suo emblema” (Costa, Archeologia del cinema e ottica fantastica) dall’idea, appunto, che dagli apparecchi progettati dagli scienziati sia sempre possibile far scaturire esperienze al limite della realtà si sono alimentati da sempre filoni letterari e cinematografici della fantascienza, il cinema stesso nasce dalla biforcazione del modello realistico documentario dei fratelli Lumière e di quello fantastico-immaginario di Georges Méliès. Il rapporto tra fotografia e memoria trova nell’album di famiglia la sua traduzione più esemplare e un vero inno alla concettualità fotografica; una sorta di compendio delle esperienze di una persona e dei suoi rapporti affettivi. Roland Barthes, nel suo La camera chiara, sottolinea il rapporto generico della fotografia con il tempo, con la memoria e on la morte, andando a definire l’essenza della fotografia. “Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona”. La foto di album di famiglia è l’esemio migliore di una pratica sociale collettiva, una sorta di sdoppiamento virtuale delle vite che li dentro vengono raccontate. Ma le fono degli album erano già decise in precedeza, erano quelle giudicate interessanti. Nel suo saggio sugli usi sociale della fotografia, Pierre Bourdieu afferma che un bisogno di fotografie, si comprende come tutti i fattori che determinano un’intensificazione della vita domestica e un rafforzamento dei legami famigliari favoriscano l’adozione l’intensificazione della pratica della fotografia. Non vengono rappresentate malattie o persone morenti, tranne alcuni artisti. 10.1 Collezionare la memoria Oggi le fotografie vengono raccolte e archiviate in file, ma assolvono la stessa necessità di sopravvivenza alla morte e di costruzione identitaria. La fotografia non è soltanto un oggetto. Tra gli artisti del 900 che hanno recuperato l’idea di raccolta fotografica ricordiamo Andy Warhol. Capitolo undici: Il Colosso di Abu Simbel o il Colosso di Ramses (Maxime du Camp, 1850) L’impulso a mettersi in viaggio e fotografare luoghi lontani risale ai primissimi tempi dell’invenzione del brevetto fotografico. Nel 1839, Horace Vernet e Frederic Goupil-Fesquet si incaricano di fotografare Giza, il Cairo e la Terra Santa. Grazie all’editore Noel-Marie Lerebours che parte la prima spedizione organizzata di fotografi con l’incarico di portare una traccia visiva dei paesaggi di ogni nazione attraversata. Così, tra il 18411 e il 44 escono due volumi di incisioni ricavate dai 1200 dagherrotipi giunti a Parigi con il titolo Excursions Daguerriennes. Dunque, la prima fotografia storica di paesaggio è già fotografia di viaggio. Guardare fotografie di posti lontani diventa come viaggiare mentalmente e un modo per esaltare la forza del fotografico di agire come una seconda realtà. Viaggiare con la fotografia significa vivere un’esperienza virtuale e reale allo stesso tempo. Si deve sottolineare come la pratica fotografica sia già in sé una forma di rapporto con l’ambiente. Ancora oggi fotografare un viaggio è sia il modo per testimoniare l’esperienza fatta, sia la strategia per entrare in contatto con un posto sconosciuto, che può fare paura. Si possono attuare due tendenze principali nelle modalità che i primi fotografi di paesaggio hanno utilizzato: la prima si sforza di evitare cliché ereditati dalla letteratura e dalla pittura, promuovendo un atteggiamento che esalta l’idea dell’archiviazione del reale, obiettiva e fedele perché fotografica. L’altra è più legata alla tradizione del genere pittorico del paesaggio nelle componenti formali dell’immagine. In questi casi l’inquadratura scelta dai fotografi ripropone gli schemi visivi della pittura, le simmetrie e gli equilibri compositivi. Appartiene alla fotografia di viaggio il lavoro di Maxime Du Camp, scrittore e fotografo, che nel 1849 viaggia in Medio Oriente in compagnia di Flaubert; devono riportare in patria immagini delle civiltà del passato, dei bassorilievi antichi, dei geroglifici egizi. Da questa spedizione in due ricavano diversi prodotti editoriali; Flaubert scrive un diario di viaggio il Voyage en Orient, mentre Du camp compone la cronaca letteraria Souvenirs litteraires 1849-1851. Mentre il 1852 viene stampato un libro fotografico dal titolo Egypte, Nubie, Palestine et Syria, realizzato incollando direttamente sulle pagine le 125 immagini stampate e ottenute dagli scatti di quel viaggio. Ricordiamo il Colosso di Abu Simbel o il Colosso di Ramses, inquadrati in modo austero e rigoroso, seguendo il più possibile visioni prospettiche geometriche. Du Camp applica ai luoghi l’atteggiamento freddo e impassibile dell’apparecchio fotografico. Quello che ne ricava è un inventario di immagini che s’impegna il più possibile a essere filologico. Francis Frith tra il 1856 e il 1860 fotografa i luoghi che incontra con un gusto pittorico e un’attenzione alla composizione, un modello quadro. Risalendo a dorso di un dromedario sul Nilo fa delle fotografie che riempiono i dieci volumi di immagini. Capitolo dodici: La Contessa di Castiglione, vestita da suora carmelitana nel romitorio di Passy (Pierre-Louis Pierson, 1863) Una donna che ha incarnato fino alla morte il culto della propria immagine e coltivato con devozione la religione del narcisismo, è Virginia Oldoini: nasce a Firenze nel 1837 da una famiglia nobile e a soli diciassette anni sposa Francesco Verasis di Castiglione. Nel 1856 il cugino Camillo Benso Conte di Cavour le chiede di recarsi a Parigi per entrare nella corte di Napoleone III, con lo scopo di incoraggiare l’intervento delle truppe francesi in senso antiaustriaco. Lei ovviamente ne diventa l’amante favorita e quasi contemporaneamente al suo arrivo nella capitale, la Contessa entra a far parte del giro della mondanità più elitaria diventandone la protagonista indiscussa, e inizia a frequentare l’atelier fotografico di Heribert Mayer e Pierre-Louis Pierson. Diviene maestra nello scatenare pettegolezzi, assumendo il ruolo di simbolo vivente di trasgressione e anticonformismo, vestendo in modi eccentrici e provocanti alle feste, per non passare mai inosservata. In questa foto (sinistra) la vediamo diventare una pia eremita carmelitana del quartiere di Passy, lei che notoriamente conduceva una vita di vizi e lussi. Sa che il culto di sé va continuamente alimentato ed ecco che entra in gioco la fotografia: la sera stessa di una sua uscita in società, travestita da uno dei personaggi fantasiosi e immaginari che ama interpretare, eccola presentarsi di fronte all’obiettivo fotografico di Pierson per recitare quell’identità fittizia ma resa credibile, perché fotografata (Anna Bolena, Lady Macbeth, Medea, La Madonna, Rachele, ecc.). Con il suo narcisismo estremo, un’immaginazione sfrenata, a mise en scéne di no studio per ritrattistica e un otturatore meccanico, si può ottenere il passaporto per l’eternità, e questa donna, innamorata allo sfinimento della propria immagine, ha usato la fotografia attribuendole quel ruolo che pochi avevano fino a quel momento intuito: costruisce una vita parallela nella certificazione della fotografia. Anche quando sarà depressa e isolata, vivendo appartata e nascondendo il suo volto invecchiato, la Contessa sarà pronta a rinunciare a tutto ma non alla fotografia: fino quasi alla morte accetterà di sottoporsi allo choc dello scatto fotografico, come testimonianza che solo la fotografia le permette ancora di sognare e vivere un’esperienza “altra”. Un’osservazione ultima va fatta alla partecipazione attiva che la nobildonna dava al suo fotografo Pierson: su molti dei negativi che sono stati trovati c’è traccia delle tante indicazioni che lei gli forniva su come tagliare, evidenziare o colorare dei particolari nelle immagini; la Contessa non è solo colei che sceglie i travestimenti e le messe in scena, ma anche la responsabile di tutte le fasi successive dell’ideazione, come oggi possono fare gli autori contemporanei incuranti di chi realizza materialmente l’opera, ma totalmente “proprietari” della progettazione del lavoro nel suo complesso, offrendoci una delle storie ottocentesche di sfruttamento concettuale della fotografia più avvincenti che ci siano mai state. 12.1 L’ossessione dello specchio L’azione di ostentazione e di ripetizione della propria immagine, di cui la nobildonna è stata una grande pioniera, è stata anche al centro di alcune esperienze importanti 13.1 La costruzione dell’icona mediatica Nonostante la critica severa che fa alla fotografia, Charles Baudelaire posa di fronte a Nadar. Quindi, anche se nel suo pensiero la fotografia non può pretendere di essere considerata un’arte, Baudelaire ne intuisce alcuni potenziali. In questo ritratto mette su la maschera del dandy. È solo con gli strumenti nuovi, fotografia e poi cinema, che nasce il concetto di mito moderno, cioè di un’icona massificata, replicata all’infinito, vendibile e commerciabile. Capitolo quattordici: La morte di re Artù . (Margaret Cameron, 1875) Per Margaret Cameron l’incontro con la fotografia è stato casuale. Vissuta in india per molto tempo, torna in Inghilterra nel 1860, ma il marito continua a viaggiare a lungo. Margaret Cameron inizia a soffrire di depressione e sua figlia le regala tutti gli attrezzi fotografici. A partire dal ritratto di Annie Philpot del 1864, Margaret si dedica a fotografare giovani donne ritratte come ninfe o muse. I suoi ritratti diventano subito motivo di discussione e ironia: lei usa degli effetti fuori fuoco molto spinti (effetti alla Rembrant), ma che qualcuno sostiene che derivano dalla sua poca perizia tecnica o da problemi di vista. In realtà il fuori fuoco (influenzato dal Simbolismo), è una scelta consapevole che registra la grandezza dell’uomo interiore oltre ai lineamenti dell’uomo esteriore. Margaret usa tempi di posa lunghissimi; in seguito, realizza delle serie fotografiche che prendono spunto dai tableaux vivants e che rappresentano scene tratta dalla Bibbia o dalla letteratura. Affitta quindi costumi e accessori, e nel 1874 inizia a lavorare alla trasposizione fotografica degli Idilli del re, realizzando 245 negativi dai quali ottiene dodici immagini. Su scene e sfondi ispirati ai Preraffaeliti le sue scene prendono corpo. Per Margaret Cameron la fotografia è uno strumento di attività performativa capace di far scattare l’evasione dalla realtà e la sperimentazione dell’immaginario. Allestire e mettere in pratica queste scene è come vivere in una fantastica realtà parallela, credibile perché fotografica, ma suggestiva perché un sogno ad occhi aperti. Capitolo quindici: due donne nude (1850) Nella biforcazione che si può individuare tra fotografia di nudo e fotografia pornografica si ritrova un dualismo di fondo tra un’immagine realizzata su presupposti formali e compositivi adeguati all’idea di quadro, e quello in cui emerge invece la forza di traccia della realtà. Nel primo caso si può parlare di un’identità prevalentemente ottocentesca, nel secondo di un’identità che sarà dominante nelle pratiche artistiche dal Novecento in poi. Il nudo, come il paesaggio, è una categoria classica della tradizione pittorica e i fotografi del genere applicano fedelmente le regole e gli stilemi dei quadri di nudo; una tipologia fotografica come quella del dagherrotipo, si mostra assai predisposta a ospitare nudi fotografici: è evidente che nella testa e negli occhi dei fotografi c’è una lunga tradizione di nudo accademico, d’ispirazione classica, mitologica o letteraria. Da sempre il nudo nell’arte, collocato in un’ambientazione lontana dalla quotidianità, immette l’elemento rendendolo meno provocante perché appunto distante nello spazio e nel tempo (il famoso “Le dejeuner sur l’herbe” di Manet non avrebbe avuto la stessa carica trasgressiva per il pubblico se i due uomini distesi tranquillamente nel prato non avessero potuto essere identificati, per l’abbigliamento, con due normali borghesi contemporanei). Nella seconda metà dell’Ottocento, alcuni laboratori e atelier di fotografia si specializzano nel genere del nudo, avviando collaborazioni con famosi pittori contemporanei a cui forniscono immagini fotografiche dalle quali possono realizzare le loro tele (es. Eugene Durieu con Delacroix o Julien Vallou de Villeneuve con Gustave Courbet); le fotografie di nudo hanno infatti l’obbligo, per poter circolare, di possedere l’etichetta “d’apres nature” poiché si assicuri il fatto che sono studi anatomici d’accademia il cui fine è funzionale alla realizzazione dei quadri. Ma da un lato scatta subito un altro meccanismo inarrestabile, in cui il confine tra nudo e pornografia si fa sempre più sottile: diventa finalmente chiaro che si tratta di corpo (nudo) fotografato a scopi voyeuristici; se infatti le scenografie da harem orientale destinate ai Salon fingono maliziosamente di dimenticare che quelle giovani donne nude sono fotografate e non dipinte, accanto c’è una fitta produzione di immagini fotografiche dichiaratamente e sinceramente pornografica. La diffusione è immediata, ma non è semplice farle circolare in quanto le giovani modelle rischiavano di essere arrestate, così il bordello diventa il set ideale, un luogo intensamente fotografico; uno dei pochi casi autoriali di fotografia di bordello risale ai primi del Novecento, cioè quello relativo alla produzione dell’americano Ernest Joseph Bellocq, di cui il grande fotografo Lee Friedlander alla fine degli anni Cinquanta riscopre un discreto numero di lastre riguardanti fotografie di nudo: sono immagini che appartengono al 1912 circa e sono state scattate a Storyville. Friedlander quando finalmente ne entra in possesso le sottopone a un complesso procedimento di stampa, su carta aristotipica, in modo da offrire un esempio simile a ciò che si otteneva ai primi del Novecento. Nel 1970 una parte di esse viene esposta al Museum of Modern Art di New York. 15.1 Il bordello senza muri Nel Novecento molti furono gli autori appassionati di questo genere (Bellocq, Brassai, Helmut Newton, Nobuyoshi Araki), ma già nell’Ottocento la fotografia diviene uno strumento molto utilizzato nei bordelli di mezzo mondo, che diventano (secondo l’espressione usata da McLuhan) dei “bordelli senza muri”. L’esempio più curioso del tempo è stato l’Atelier del Quattro Pontefici che, a quanto racconta Gilardi, viene aperto nel 1850 da un certo Martino Sauvedieu (italianizzatosi in Martino Diotallevi) dopo essersi registrato come fotografo nel quartiere di Santa Maria in Trastevere a Roma; al suo fianco ci sono la moglie Carolina, un castrato di nome Antonio e la moglie Costanza. Si specializzano in immagini oscene in cui sono coinvolti personaggi famosi (re, regine, papi e uomini politici) e grazie all’uso del fotomontaggio (tecnica introdotta da Rejlander nel 1857) dall’atelier escono immagini in cui tanti Garibaldi, Cavour, diversi papi e regnanti sono immortalati in atti e pose pornografiche. Ovviamente le caricature volgari urtano infine la sensibilità di qualcuno e così, il 22 maggio 1862, le autorità arrestano i fondatori. Altra vicenda affascinante è quella del francese Eugene Vidocq, un ex delinquente che ottiene la libertà dal carcere mettendosi a collaborare con la giustizia, egli può usare e organizzare tutto l’archivio fotografico con cui si costruiscono le schede dei criminali, dove pare si raccogliessero almeno 100.000 immagini riguardanti crimini sessuali e atti di prostituzione. Dopo la morte di Vidocq, nel 1888 il nuovo direttore del Servizio Nazionale d’identificazione della polizia francese assume la giurisdizione sul suo archivio e diede il compito a un giovane poliziotto fotografo di nome Jules Jarnes di disfarsi di tutto il materiale in eccesso, ma fortunatamente non lo fa e riesce a giustificare tutte le immagini pornografiche di Vicocq e la loro necessaria permanenza in archivio, riuscendo così a “consegnare alla storia dell’arte grandi capolavori del nudo fotografico” (Galardi, 2002). Capitolo sedici: L’interno della Galleria Vittorio Emanuele a Milano . (Fratelli Alinari, 1915) permanente della condizione di abitanti del mondo degli esseri umani. Il voyeur è colui che trova appagamento nell’impadronirsi di informazioni visive che riguardano le vite degli altri. Il voyeurismo fotografico mette in modo l’idea di poter guardare senza essere visti ed è legato al principio del gossip. Ci sono diversi grandi voyeur fotografici nel Novecento come Brassai, ossia “L’occhio di Parigi” che nei suoi libri fotografici Paris de nuit e Paris secret des annèes 30, diventa il testimone per eccellenza di una Parigi notturna e malfamata. Ricordiamo anche Weegee, reporter di nera, dove fotografa la NY degli anni Trenta e Quaranta e immortala un universo di tragedie, omicidi e povertà, pubblicando il volume Naked City. Infine, citiamo Salomon, che muore con moglie e figlio ad Auschwitz, ma che pubblica Contemporanei celebri fotografati in momenti inattesi. Qui Salomon ha abbattuto le barriere del privato, mostrando ci che si considerava non fotografabile. Capitolo diciotto: Autoritratto di Alphonse Bertillon in una foto segnaletica di prova . (Alphonse Bertillon, 1912) Quando il 7 gennaio 1839 Arago presenta al m ondo la scoperta della fotografia, probabilmente non ha piena consapevolezza di come contemporaneamente egli stia fornendo a tutti i sistemi di controllo delle organizzazioni sociali di metà Ottocento un incredibile impareggiabile, strumento d’ausilio; così il brevetto fotografico è anzitutto visto come strumento al servizio della conoscenza del mondo e in quanto tale fondamentale per nuovi traguardi scientifici, sociologici e antropologici. Una disciplina nota come fisiognomica: dalla “Storia degli animali” di Aristotele fino a un presunto “Trattato di fisiognomica” di Leonardo, molti studiosi e scienziati si sono applicati allo studio delle corrispondenze tra le linee del volto e le inclinazioni psicologiche e caratteriali di un soggetto, ma dopo pochi secoli di studi delle teorie fisiognomiche si comincia a parlare sempre meno e nella seconda metà dell’Ottocento si definiscono nuove scienze e discipline che ne prendono il posto: l’antropologia, la criminologia, la psicologia e la psicoanalisi. Qui interviene la fotografia, che nasce come strumento perfetto per la realizzazione d’immagini fedeli al vero, meccaniche e automatiche, utilissime per poter studiare il reale. Servendo così la nobile causa della curiosità e del desiderio di conoscenza, la fotografia affronta il capitolo della schedatura scientifica manicomiale, di quella criminale e di quella antropologica-etnologica. Nel 1851 viene installato il primo laboratorio fotografico in un’istituzione manicomiale, quella diretta dal dottore inglese Hugh Welch Diamond; le dimostrazioni che tiene il famoso neurologo Jean Martin Charcot dell’Ospedale della Salpêtrière, dove fa “esibire” delle isteriche di fronte ai suoi studenti (tra cui il giovane Freud), diventano un vero fenomeno mediatico; Charcot crea uno dei laboratori fotografici più famosi dell’Ottocento, dalle cui produzioni viene edito tra il 1878 e il 1881, l’Iconographie photographique, un “piccolo atlante illustrato sull’inconscio” (cit. Freud). Anche in Italia, nel 1878, il direttore del manicomio di Reggio Emilia, Augusto Tamburini, introduce l’uso del ritratto fotografico per schedare gli ospiti; la cosiddetta tabella nosologica approntata dai vari fenomeni (con foto descrizioni e misure dei pazienti) accomoda un’esigenza di ordine e classificazione, ma anche un tentativo di registrare e dunque verificare gli andamenti della malattia stessa. Nella fotografia che deve completare la scheda nosologica dei malati mentali, si predilige uno sguardo frontale e asettico, uno sfondo neutro, un’impassibilità da cui non possano trapelare ì sentimenti e distrazioni: si deve comunicare, con un linguaggio di grado zero, che ci stratta di scienza e non di arte. Le stesse caratteristiche vengono adottate nella schedatura poliziesca che ha nel francesce Alphonse Bertillon il suo principale ideatore; dal 1882 il servizio d’identità giudiziaria della polizia di Parigi mette a punto un sistema globale di classificazione criminale: il cosiddetto bertillonage, costituito da un cartellino segnaletico contenente la fotografia di fronte e di profilo, i segni particolari e le misure derivanti dal rilevamento antropometrico del sospettato. Questo sistema permette ai sistemi sociali di organizzare degli studi, di chiara derivazione fisiognomica, che devono riconoscere se ci sono continuità visivamente rilevanti e somiglianze ricorrenti tra varie famiglie delinquenziali, creando così dei pannelli detti “ritratti parlanti”, che devono appunto dimostrare se una certa inclinazione (tipo l’omicidio) è ricorrente in soggetti con determinate caratteristiche fisiche. In Italia aveva già dato il suo contributo Cesare Lombroso che costruisce uno dei più affascinanti archivi fotografici ottocenteschi, ispirando la nascita nel 1878 della prima polizia scientifica italiana, realizzata dal suo assistente Salvatore Ottolenghi e il commissario Umberto Ellero (inventore delle “Gemelle Ellero”, apparecchio in grado di scattare contemporaneamente la foto frontale e di profilo da inserire nella schedatura). Anche le potenze coloniali, come la Gran Bretagna, mettono in campo una campagna fotografica per conoscere, separare e umiliare, gli abitanti indigeni delle popolazioni assoggettate; la Corona britannica ottiene da Thomas Henry Huxley l’organizzazione di un fondo fotografico dei nuovi sudditi: gli aborigeni australiani e le donne indigene, nudi, con un cartellino applicato direttamente sul corpo, non riescono a nascondere che, dietro a un tentativo di apparire senza pregiudizi, la fotografia è anzi in questo caso la migliore attestazione di una “violenza dello sguardo oggettivante". 18.1 Archiviare il volto del mondo Non è un caso forse che, tra gli artisti che hanno utilizzato l’idea dell’identikit poliziesco, si trovino due giganti del calibro di Marcel Duchamp ed Andy Warhol; in “Wanted $2000 Reward” del 1923, il dadaista francese utilizza una sua stessa foto di fronte e di profilo per dare corpo e identità fotografica a uno dei tanti alter ego dell’imprendibile Rrose Selavy. In “Thirteen Most Wanted Men” del 1964, Warhol recupera l’idea duchampiana della foto antiartistica per eccellenza creando un ready made degno di nota: nell’installazione del padiglione dello Stato di New York per il World’s Fair, attacca alle pareti degli ingrandimenti di vere foto segnaletiche, col risultato di essere immediatamente obbligato a rimuoverle (destra). Si deve sottolineare come la grande eredità che passa, transitando dalla dimensione del pratico a quella dell’estetico, della schedatura dell’umanità fatta da medici, criminologi e potenze coloniali del XIX secolo, all’arte del Novecento. Altri due grandi nomi sono quelli del tedesco August Sander e dell’americana Diane Arbus; un antecedente alla modalità sanderiana sono le immagini scattate a fine Ottocento da Karl Blossfeldt, professore di disegno a Berlino che approntò un archivio d’immagini di piante e fiori a uso dei suoi studenti, fotografandoli su sfondi neutri e punto di vista zenitale. Dal 1909 August Sander comincia a coltivare l’idea di realizzare una raccolta fotografica di uomini e donne tedeschi di ogni classe e censo, raccolti nel volume “Volti del nostro tempo” (a destra “Pugilatori” 1928). La prassi artistica scelta da Sander per il suo progetto di archiviazione umana è volutamente ripetitiva, antiartistica (nel senso ottocentesco) e neutra, è come se si mimetizzasse con la macchina, sparendo dietro le sue caratteristiche ontologiche. Altro caso sarà Thomas Ruff che dalla seconda metà degli anni Ottanta, lavorerà su anonimi ritratti di persone in formato tessera (sinistra), richiamando appunto la schematicità straniante della foto schedativo-meccanica di stampo sanderiano, passata attraverso la lezione dei coniugi Becher e della “Scuola di Dusseldorf”. E anche Diane Arbus, che ha fotografato tra anni Sessanta e Settanta un’umanità stralunata e “mostruosa”, sceglie un automatismo secco e freddo per fotografare i “freaks” che incontra in zone e locali squallidi della New York notturna; giovani coppie, nudisti in poltrona (destra), gemelli e persone con anomalie genetiche, costituiscono una famiglia allargata in cui la Arbus sembra sentirsi a proprio agio. Su quei “lenti tracolli personali” posa il suo obiettivo né pietoso né compassionevole, ma anzi distaccato, “freddo e duro” (come lei definirà l’apparecchio fotografico). Capitolo diciannove: La valle dell’ombre della morte (Roger Fenton, 1855) Capitolo 20: Il club delle maledette . (Alice Austen 1891) Il rapporto tra donne e fotografia nell’Ottocento rappresenta un capitolo assai curioso: già nella seconda metà dell’Ottocento molte donne trovano nella fotografia uno sfogo lavorativo e una via possibile al processo di emancipazione che si sta in quegli anni letteralmente mettendo in moto, ma dal lato del riconoscimento artistico le donne fotografe sono ancora molto al di là della possibilità di attestare una loro presenza importante (fino a inizio Novecento, le sole donne che hanno accesso alle Accademie di Belle Arti sono le modelle che posano, nude, per le lezioni di anatomia). Si è già accennato al fatto che la stessa Cameron ha avuto a che fare con l’atteggiamento sprezzante che la circondava a che attribuiva i suoi difetti “flou” a dei difetti di vista o all’imperizia tecnica, anziché a una sua precisa scelta poetica; dando quindi per scontata la frustrazione che le donne subiscono nelle loro ambizioni artistiche, in alcune di loro si distingue un uso della fotografia che si può definire addirittura “proto-concettuale”. Le donne che vogliono usare la fotografia ed essere artiste devono scontare almeno due epurazioni: una che viene loro imposta dall’arte e una imposta dagli uomini. Mentre infatti i loro colleghi e artisti uomini sono impegnati nei club e nei circoli fotografici, le donne mettono le loro aspirazioni, i sogni, le ambizioni, le frustrazioni e le follie dentro al rapporto che instaurano con l’apparecchio fotografico, dando vita così a progetti, performance ed esperienze più da artiste contemporanee che da fotografe ottocentesche. Esse si rivelano capaci di sfruttare la forza che ha la fotografia nel recupero della corporeità e dell’azione, si mostra come il mezzo perfetto per permettere alla donna di riscrivere quel corpo e, soprattutto, fungere da strumento che le conceda di ricostituirsi in identità, un’identità sociale, storica, politica e di genere; pare che con la fotografia possano riprendersi il diritto di essere loro a parlare e dire cosa sia il corpo delle donne, sottraendolo al secolare voyeurismo dello sguardo altrui. Infatti quando nell’arte del Novecento le donne saranno davvero presenti in modo significativo, cioè negli anni Sessanta-Settanta, lo saranno proprio in un clima legato all’arte del corpo e della performance. Tra donne e fotografia s’instaura così nell’Ottocento un rapporto di solidarietà, simbiotico, che diventerà un legame di necessità nel processo di costruzione visiva della “new woman” (basta pensare all’importanza affidata da Coco Chanel all’obiettivo fotografico nell’affermazione del suo stile sportivo e anticonformista), divenendo anche veicolo di una messa in discussione delle rigide separazioni di genere, finalizzata a rendere visibile e concreta la strada del “gender bending”. La vicenda di Alice Austen sottolinea le esigenze di rivendicazione e autonomia da parte delle donne in una forma di femminismo visuale, e la richiesta di liberazione dagli stereotipi di genere; conosciuta come fotografa professionista di reportage sociale, lei utilizza la fotografia come certificazione continua e fedele della propria autobiografia, finendo per costruire visivamente la sua vita in un personale album di famiglia: si fotografa con le sue amiche in tutte le occasioni di socializzazione che si presentano, ogni occasione è utile a fermare il tempo, il racconto della sua vita e delle sue amicizie, in particolare membri femminili del gruppo denominato il “club delle maledette”, al quale parteciperà a un certo punto anche Gertrude Amelia Tate, colei che diventerà compagna di vita di Alice. La fotografia le permette di infrangere i tabù che anche nella vita sta cercando di negare: nascono così i travestimenti in abiti maschili, le foto dove le donne fumano e bevono, si abbracciano teneramente e dormono nello stesso letto, raccontando la dimensione intima e privata e concretizzando visivamente la sua scelta omosessuale. Certamente le immagini ottocentesche di Alice Austen sono la dimostrazione migliore che, quando insieme all’arte scende in campo la vita, non c’è forza più dirompente dello specchio fotografico. 20.1 La fotografia nel discorso di genere Agli inizi del Novecento a Parigi sta vivendo e lavorando Lucy Schwob, adottando dal 1917 lo pseudonimo di Claude Cahun (per sottolineare la tradizione materna ebraica, e soprattutto per alludere all’ambiguità che ha in francese il nome Claude) ma già dal 1911, quando ha solo diciassette anni, utilizza la fotografia come un regolare e privato appuntamento con la propria indagine identitaria, infatti dalla sua omosessualità e dalla sua esigenza di poterla certificare, nascono le pratiche fotografiche che l’accompagneranno per tutta la vita. Pur frequentando il progressista ambiente surrealista, Claude Cahun è guardata con sconcerto da Andrè Breton ogni volta che entra nei bistrot abbracciata alla compagna Marcel Moore, avverte la diffidenza che provoca chi non si adegua agli stereotipi e rifiuta i dogmi (dirà “Il neutro è l’unico genere che mi si addice” oppure “Il mio corpo mi serve da transizione”). Con una semplice Kodak Pocket Camera, inizia il suo percorso personale costruendo una delle raccolte di autoritratti fotografici più significative della storia visuale contemporanea e, come nella realtà, vive la sua diversità senza soffocarla ma anzi sfidandola (si tinge i capelli e le sopracciglia d’oro e di fucsia, si rade a zero esaltando il suo profilo androgino [destra]), cangiante come un camaleonte, si trasforma in marinaio, farfalla, bambola, ginnasta, idolo orientale, odalisca e dandy. “Ho sfregato così forte per togliermi la maschera che mi sono tirata via la pelle. E la mia anima, come una faccia graffiata, spellata, non ha più forma umana”. Claude Cahun continuerà nel tempo a fotografarsi, anche quando si trasferirà sull’isola di Jersey dove morirà nel 1954, dopo aver combattuto i nazisti che la ripagheranno con la carcerazione, una condanna a morte non eseguita, il saccheggio della sua abitazione e la distruzione di una parte dell’archivio fotografico. Capitolo ventuno : Near Naked Man running ( Eadweard Muybridge. 1887) Com’è noto, quando la fotografia viene presentata al mondo non possiede ancora la capacità di cogliere un corpo in movimento, non conosce cioè l’istantanea; questo è dovuto alla scarsa luminosità dei primi obiettivi e all’insufficiente fotosensibilità iniziale delle sostanze chimiche usate nei processi fotografici. Quando la tecnica lo rende possibile, sono due fotografi che si applicano allo studio del movimento e soprattutto al sogno di poter vedere e capire in che modo di muovono i corpi nello spazio; il primo è Eadweard Muybridge, che era stato chiamato nel 1872 da un ricco industriale californiano, Lelan Stanford, per fotografare il cavallo Occident nella sua tenuta di Palo Alto: il magnante desiderava conoscere la dinamica del cavallo che corre per allenarlo meglio. Muybidge mette sul percorso di Occident dodici apparecchi fotografici a intervalli di spazio regolari e collegati a dei cavetti metallici in modo che, passando e strappando i cavalletti, il cavallo azioni gli otturatori tramite delle elettrocalamite; questi esperimenti di cronofotografia avvengono già nel 1873, ma solo nel 1878 Stanford ottiene le immagini richieste, che ottengono vasto eco uscendo sul “Scientific American” il 19 ottobre 1878). Nel 1880 Muybridge può brevettare un apparecchio, detto zooprassinoscopio, grazie al quale è in grado di proiettare su uno schermo, durante alcune conferenze, delle immagini che scorrono in rapida sequenza; nel 1887 pubblicherà un atlante visivo sul movimento umano e animale dal titolo “Animal locomotion” e nel 1888 ottiene anche il primo photofinish della storia fotografando una gara sportiva. L’altro studioso del movimento è Etienne-Jules Marey, un professore di fisiologia al College de France che si era già interessato al movimento di un cavallo rilevato grazie a un sistema pneumatico; mettendosi in contatto e incontrandosi con Muybridge, pubblica poi il suo materiale in “La Machine Animal” del 1873, mettendo a punto un metodo differente da quello del collega, cioè sperimenta l’utilizzo di un fucile fotografico dotato di una lastra di vetro circolare che ruotando è capace di registrare dieci- dodici pose in mezzo secondo e sulla medesima lastra, mentre col metodo di Muybridge si ottengono tante diverse immagini che riportano in sequenza staccata le fasi del moto. Entrambi scomparsi nel 1904, non si occupano dei potenziali sviluppi di ciò che hanno scoperto in relazione a un suo utilizzo verso la nascita del cinematografo: Georges Demeny brevetterà uno sviluppo del proiettore di Marey, e nel 1894 sarà Thomas Edison a mettere in commercio il cinetoscopio, apparecchio in grado di far scorrere le immagini a una velocità sufficiente da non far percepire gli stacchi ma che, non potendo proiettare, poteva essere guardato da una persona alla volta. Poi il 28 dicembre 1895, presso il Salon Lumiere del Grand Cafè sul Boulevard Building, la sensazione è quella che il fotografo stia glorificando il lavoro e la fatica degli operai, senza i quali un progetto così grandioso non avrebbe mai potuto prendere vita. 22.1 La denuncia sociale La tradizione della documentazione sociale dei grandi padri Jacob Riis e Lewis Hine trova, in un altro periodo “caldo” della storia americana (la Grande Depressione del 1929 seguita al crollo della borsa di Wall Street), degli interpreti altrettanto ideali. Nasce così, sotto l’egida di Roy Stryker, la grandiosa missione fotografica della Farm Security Administration (Fsa), cui parteciperanno Walker Evans, Dorothea Lange, Arthur Rothstein, Ben Shahn. Per questi autori l’uso di uno stile asciutto e impersonale, frontale e schematico, diretto verso soggetti miserevoli e meschini, diventa omologo alla funzione del racconto di una provincia americana disperata e abbandonata. “In quel periodo alcuni fotografi raffinati scoprirono l’uso poetico dei fatti guardati in modo diretto, […]. Questo nuovo stile si fece chiamare “documentario” e si è definito in modo più chiaro nell’opera di Walker Evans” (Szarkowski, 1973). Walker Evans, autore delle immagini di “American Photographs” del 1938 e di “Let Us Now Praise Famous Men” del 1941, è certamente il nume tutelare della fotografia novecentesca americana che viene definita documentaria (destra). Dopo di lui ci furono altri a impegnarsi in questo genere come Robert Frank e Lee Friedlander, ma da un punto di vista linguistico, è al tedesco August Sander e al francese che si deve far risalire, in apertura del XX secolo, l’utilizzo di una prassi fotografica anonima e di schedatura oggettiva di tipi e ambienti umani. Capitolo 23 George Eastman a bordo del S.S. Gallia (Frederick F. Church, 1890) “Una collezione di fotografie può fornire una storia illustrate della vita di ognuno, il che diventerà sempre più prezioso con il passare del tempo” (Slogan pubblicitario Kodak, 1888). Il brevetto della “carte de visite” di Disderi aveva già portato, a partire dal 1854, un importante contributo all’inarrestabile processo di massificazione della fotografia, ma già negli anni Sessanta questo brevetto comincia a perdere le sue attrattive nei gusti del pubblico comune. Nel 1888 l’americano George Eastman mette sul mercato una macchina di piccolo formato, con fuoco fisso e unica velocità di scatto a 1/25 secondo, venduta già caricata con cento scatti che una volta usati, bastava spedire la macchina al laboratorio di Rochester che le sviluppava e la ridava indietro di nuovo carica: è l’inizio di un mito, quello della Kodak. Alcuni dei suoi slogan sono divenuti famosissimi: “Chiunque abbia un’intelligenza sufficiente per guardare dentro una scatola e premere un bottone, può ora far fotografie” oppure “Voi premete un bottone, noi facciamo il resto”. Il nome Kodak viene scelto dallo stesso Eastman, che dice: “In primo luogo, è conciso; il secondo luogo non può essere pronunciato male; in terzo luogo non assomiglia a nient’altro nel campo dell’arte e non può essere associato a nulla in campo artistico”. Il successo immediato è dovuto alla facilità del suo uso, che la rende indispensabile per l’esperienza del viaggio e del turismo: “Una fotocamera insuperabile per tutti i turisti” (altro slogan). Il ritratto che l’avvocato, amico e socio, Frederick Church scatta ad Eastman mostra proprio l’inventore a bordo della nave S.S. Gallia, nel classico formato circolare usato nelle prime macchine, mentre tiene in mano uno dei suoi prototipi (qui la n. 2). La fotografia però, nei suoi primi decenni di vita, non può ancora definirsi pienamente “democratica”, sia per i costi non ancora modici, sia per le conoscenze tecniche richieste per lo sviluppo; la società Eastman Kodak Co. diventa invece il simbolo di un’imprenditoria legata ai fenomeni e ai bisogni delle nuove masse: dopo i modelli tascabili del 1895, nasce nel 1900 la Brownie, che renderà la fotografia davvero accessibile a tutti (un dollaro l’una). Dice Gisele Freund “Fin dalle origini la fotografia ebbe i suoi dilettanti. Ma soltanto a partire dal 1888 si può parlare di un vero fiorire di dilettanti” (1976). E’ qui che la fotografia diventa una pratica sociale, un’arte per tutti, un’arte possibile solo nell’epoca benjaminiana della riproducibilità tecnica: “In meno di sessant’anni dunque, la foto era passata da dominio privilegiato dei primi progenitori a uno dei mezzi più accessibili e accettati di raffigurazione visiva. Era la forma d’arte democratica per eccellenza, rendeva tutto e tutti potenzialmente importanti, e tutto e tutti ormai potevano essere fotografati e da questo acquisire prestigio, e consentiva a chiunque di realizzare foto e costruirsi una visione individuale, le proprie storie” (Clarke, 2009). Con minori pretese formali e di posa, le immagini diventano ovviamente anche più spontanee e scherzose, aumentano i soggetti e le situazioni “fotografabili” e davvero la fotografia comincia a diventare un hobby; antiartistica (in senso ottocentesco) e antielitaria per vocazione, volgare (la pittura realista di Gustave Courbet viene definita “volgare come un dagherrotipo”) e istintivamente votata a riflettere e guardare al mondo nei suoi aspetti fenomenici, alla vita nelle sue declinazioni banali e quotidiane, la tendenza naturale del mezzo fotografico è quella di inventare brevetti in cui la tecnica si semplifica sempre di più. La fotografia insomma partecipa, e anzi è una dei protagonisti, dell’allontanamento dell’arte dai principi di originalità e autorialità che il Novecento incarnerà in maniera preponderante, quando la techne e le capacità creative non saranno prerogative indispensabili all’esercizio artistico. 23.1 Lo stile “snapshot” Tra i primi autori che hanno scelto in modo privilegiato la fotografia stile snapshot (termine introdotto nel lessico fotografico da sir John Herschel) e cioè l’istantanea colta al volo, senza grandi pretese formali, legata a storie e situazioni di vita più che a pose pretenziose e accurate, va certamente ricordato il francese Jaques Henri Lartigue: a cavallo tra Ottocento e Novecento, questo aristocratico immortala in modo spesso buffo e antiretorico parenti e amici, posando il suo obiettivo anche su occasioni mondane; certo è il passaggio da un secolo all’altro, e l’avvio a un sistema culturale, che rende possibile un tipo di attività come la sua. In Italia il conte Giuseppe Primoli diventa un grande ritrattista della Roma delle feste borghesi e dei rituali nobiliari. Tra gli autori che nel Novecento hanno dato più spazio nella loro pratica fotografica alla modalità stile snapshot, la molla che scatta è quella dell’attivazione di un’esibizione di partecipazione diretta agli eventi in svolgimento; come in una performance autorivelativa, lo scatto istantaneo e “in progress” suggerisce un’atmosfera che si allontana dall’idea di “opera”, per aderire a quella di “comportamento”. La studiosa americana Jean-Marie Twenge, i giovani degli ultimi decenni hanno dato vita a pratiche esistenziali definibili della “Generation Me”, nell’arte contemporanea è stata la poetica del “private aspect” che già dagli anni Ottanta ha interpretato questo tipo di dimensione relazionale. Con Nan Goldin e Wolfgang Tillmans (destra) come autori di riferimento, questa poetica del fare immediato e senza esibizione di tecnica fotografica ha trovato in alcune esperienze fotografiche di moda una declinazione molto efficace; per un’intera generazione di giovani fotografi europei, fu fondamentale lo choc visivo portato alla mostra “American Images” tenutasi a Barbican londinese nel 1985, con autori come Bill Owens, Larry Clark, Weegee e Diane Arbus. L’americano Terry Richardson (sinistra, Campagna Sisley 2001), gli inglesi Juergen Teller e Corinne Day, ma anche l’italo- americano Mario Sorrenti, sono alcuni dei protagonisti di una corrente snapshot nella fotografia di moda che ha privilegiato l’approccio autobiografico, l’esplicitazione di una tecnica sgrammaticata fatta di inquadrature sbagliate, fuori fuoco, occhi rossi ed errori compositivi vari (Marra, 2004). L’atmosfera oggi più spesso ricorrente nelle immagini di moda è quella derivante da scatti fatti con le microvideocamere incorporate nei telefoni cellulari, un’allusione a una dimensione intima, amatoriale, dilettantistica, impensabile prima che la concettualità del fotografico divenisse la via privilegiata dell’arte. Capitolo 24 Lady Filmer nel suo salotto, Lady Filmer, 1860 Era l’epoca in cui gli album fotografici cominciavano a riempirsi. Si trovavano particolarmente nei punti più squallidi delle abitazioni, sulle consolle e sue tavolini
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