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L'invenzione della virilità, Sandro Bellassai, Appunti di Storia Delle Dottrine Politiche

Dal fascismo all'età contemporanea Bellassai analizza la costruzione della virilità e le influenze che questa genera nei rapporti tra i generi

Tipologia: Appunti

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Scarica L'invenzione della virilità, Sandro Bellassai e più Appunti in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! L’invenzione della virilità Sandro Bellassai Politica e immaginario maschile nell’Italia contemporanea Nell’Ottocento il concetto di virilità ha ricoperto un ruolo importante nelle retoriche pubbliche per poi divenire, alla fine del secolo, costantemente ricorrente all’interno delle dinamiche politiche e sociali. Nonostante il forte legame con i principi gerarchico tradizionali, il virilismo è stato un importante strumento della modernizzazione della società contemporanea. «La sostanza intrinsecamente illiberale – quando non apertamente autoritaria o reazionaria – del virilismo non può essere sottovalutata. La misoginia, altro tratto eccezionalmente rilevante nella storia politica italiana, costituì sempre una dimensione fondamentale [...] il virilismo misogino fu una delle “zone franche” ideologiche grazie alle quali la politica della modernità, in origine inspirata ai valori della libertà e dell’uguaglianza, poté convivere di fatto – e spesso anche di diritto – con la politica della tradizione, classicamente fondata sulla gerarchia» (Bellassai, 2012, pp. 19). Così tra l’Ottocento e il Novecento la nazione ha rappresentato la manifestazione politica della virilità collettiva il protagonista di questa dinamica gerarchica di potere era sempre un soggetto maschile il quale esercitava violenza e predominazione su un soggetto ritenuto inferiore. Nello stesso periodo le rivendicazioni civili e politiche delle donne e il loro tentativo di occupare uno spazio nella sfera pubblica, aumentò visibilmente. «Questa apparente avanzata delle donne veniva riassunta in molti discorsi maschili in un’espressione dal tenore tristemente inesorabile: femminilizzazione della società. Si trattava, secondo svariate analisi dell’epoca, di una tendenza sciaguratamente moderna, una sorta di frutto avvelenato del progresso» (Bellassai, 2012, pp. 42). La modernità e i fenomeni ad essa correlati nell’immaginario di molti uomini andavano ad indebolire il corpo, il carattere e la virilità maschile, nelle relazioni di genere questa donna nuova generava insicurezza, panico e misoginia, quest’ultima poi è stato uno strumento prezioso attraverso il quale si proclamava il ritorno ai ruoli ed alle identità di genere tradizionali. «Un ordine millenario pareva minacciato dalla femminilizzazione della società, il cui speculare corrispettivo era la mascolinizzazione delle donne. Mentre invadevano la sfera pubblica - esclusivo territorio maschile – femminilizzandola, le donne perdevano la loro femminilità e così facendo causavano una catastrofe storica» (Bellassai, 2012, pp. 46). Con l’avvento dell’antimodernismo fascista la mascolinità tradizionale fu una tematica centrale nel discorso politico-culturale italiano, attraverso l’uso legittimato della violenza si voleva restaurare l’ordine sociale e morale tradizionale. Un altro elemento fondamentale della strategia antimodernista fascista fu la retorica ruralista, tale modello esaltava la famiglia patriarcale esempio di ordine sociale fortemente gerarchico. «Tale strategia venne esaltata molto chiaramente come un efficace programma difensivo nei confronti delle degenerazioni della civiltà contemporanea, tra le quali si dovevano di sicuro contare il desiderio delle giovani donne di una vita migliore e di una maggiore cura di sé, il declino di regole e usanze di sapore feudale che servivano a ribadire le antiche gerarchie patriarcali, nuove forme di svago e socializzazione che favorivano la promiscuità tra i sessi e indebolivano il sentimento religioso e, ovviamente, il virus della denatalità, che dalle città infette minacciava costantemente di propagarsi alle virilissime aree rurali» (Bellassai, 2012, pp, 73). Durate il periodo fascista la misoginia non è stato l’unico strumento di oppressione e dominio, anche il razzismo risultava essere conveniente per riaffermare la gerarchia e il potere maschile. La legislazione coloniale fascista legittimò la superiorità della razza producendo violenza, prevaricazione sessuale, brutalità e segregazione raziale. Con la caduta del potere fascista venne meno la riproduzione del modello maschile basato sulla disciplina, la forza, l’aggressività e il dominio assoluto su un soggetto “inferiore”, non mancarono però i tentativi di riaffermare i valori gerarchici e virilisti. «In un vortice sostanzialmente compulsivo, l’impossibilità di rilanciare nel nuovo contesto un virilismo con simili caratteristiche non faceva che aumentare l’insicurezza di una fascia ampia della popolazione maschile, e tale insicurezza generava a sua volta una domanda di rilancio virilista, non essendo concepibile per molti uomini una sana mascolinità avulsa dal virilismo stesso» (Bellassai, 2012, pp. 99-100). La crescente affermazione femminile nella società, il declino della tradizione e il boom economico avevano destabilizzato la cultura virilista, in particolare «Il mercato dei beni di consumo in espansione richiedeva sempre più interlocutori, e specialmente interlocutrici, dotati di una certa autonomia: nel momento in cui questa sua superiore esigenza incontrò un serio ostacolo nella pretesa maschile di una subordinazione assoluta delle donne, il mercato mosse verso l’eliminazione dell’ostacolo scavalcando gli uomini e rivolgendosi direttamente alle donne» (Bellassai, 2012, pp. 106). Era allora necessario rassicurare l’uomo dalla cultura moderna: «Se guardiamo ad alcune rappresentazioni della mascolinità nei media degli anni Sessanta, quindi, vi ritroveremo vari segnali di una rassicurazione virile. Non di rado, insomma i linguaggi mediatici che venivano specificamente costruiti per un pubblico di uomini, negli anni del miracolo italiano, apparivano in gran numero orientati a ricostruire un’immagine del maschile autorevole, insistendo spesso su un’associazione tra virilità tradizionale e caratteristiche moderne della mascolinità» (Bellassai, 2012, pp. 116). Una tematica ricorrente che rientrava all’interno dei linguaggi mediatici era il successo, era uno strumento per misurare la mascolinità, attraverso questo l’uomo poteva sperimentare ed esibire il proprio potere, «un modello di mascolinità dotato non solo di individualismo e competitività, ma anche di freddezza morale necessaria a raggiungere i propri obiettivi personali con ogni mezzo» (Bellassai, 2012, pp. 118). A partire dagli anni Settanta si diffuse un nuovo femminismo molto più radicale che andò a colpire la cultura virilista, il movimento femminista aprì uno spazio di riflessione critica sulle relazioni tra uomini e donne, sulle dinamiche di potere e i modelli tradizionali; in questo spazio si inserirono anche gli uomini i quali si impegnarono in un attivismo politico che denunciava la tradizionale mascolinità, avanzando una presa di coscienza politica. Contemporaneamente molti gruppi di uomini che riflettevano sull’identità maschile, non partivano da una critica al sistema patriarcale «ma dall’esigenza diffusa di curare le ferite dell’individuo» (Bellassai, 2012, pp.136). Se prima l’identificazione con modelli virilisti sembrava una strada forte e sicura in questo contesto appariva invece difficoltosa.
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