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L'Italia degli anni '70 Balestracci Papa, Appunti di Storia Contemporanea

riassunto dettaglaito del testo balestracci papa

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 20/07/2022

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Scarica L'Italia degli anni '70 Balestracci Papa e più Appunti in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! STORICI E PRATICA STORIOGRAFICA 1. L’Italia degli anni settanta. narrazioni e interpretazioni a confronto – Balestracci Papa Introduzione. Il testo esprime la volontà di articolare la ricerca intorno agli anni Settanta aprendo le prospettive di analisi e i terreni di ricerca, nonché la metodologia sulla scia di un rinnovato interesse storiografico. Gli anni ’70 sono al centro della ricerca per il loro ruolo di cerniera, che collega ad una nuova fase storica, il presente. In dipendenza dal paese di indagine si susseguono più interpretazioni: nella storiografia GB, prevale idea del declino in chiave economica; in FR, ci si concentra sulla nuova società che si modifica col ’68; in GE, prevale l’interesse sociologico legato ai cambiamenti dopo il boom del benessere; in IT, si insiste sulla crisi e sul momento di transizione del paese, intrecciato al terrorismo, che avrebbe portato al fallimento del sistema politico e partitico. Il volume propone invece di valutare anche gli aspetti socio-culturali che non rientravano nella grande narrazione Novecentesca, legando la dimensione nazionale a quella internazionale. 1. L’Italia nella trasformazione globale. Appunti per una lettura non eccezionalista della crisi – Francesco Pertini La pubblicistica sugli anni Settanta predilige, per la maggiore, una visione catastrofista del periodo, in cui il Paese viene definito “allo sbando”, pilotato da forze esterne e strategie altrui. Petrini vuole soffermarsi sulla storia della integrazione europea, analizzando il contributo dell’Italia nella definizione di equilibri e ambiti di azione comunitari. Il saggio si inquadra sulla scia del contributo di Guido Formigoni pubblicato nel 2003, in cui si sottolineava: A) la necessità di far risaltare la specificità del periodo B) non isolamento delle peculiarità italiane perché interessarono tutti i paesi sviluppati C) attenzione ai legami internazionali con quelli interni. - La prima questione da affrontare è il rapporto con Stati Uniti e alleati occidentali. Nelle nuove ricerche, l’Italia appare centrale nella competizione bipolare e la sua instabilità non configurava una potenziale uscita dal blocco atlantico, ma la permanenza come fattore destabilizzante. A ciò gli USA, durante il governo di Nixon, con Kissinger e le ambascerie di Graham Martin, emblemi di una svolta politica che predilige una strategia di congelamento, basato sul supporto delle forze conservatrici e reazionarie a discapito dei comunisti (Nixon: i neofasci sono il minor male rispetto ai comunisti). La strategia salta a causa della sconfitta in Vietnam e degli eventi cileni e del clima di distensione fra le due superpotenze; in più, a livello nazionale, Aldo Moro sviluppava la strategia dell’attenzione verso il Pci e Berlinguer lanciava il compromesso. Dal 1974, gli Usa cambiano strategia verso l’Italia e coinvolgono anche altri alleati europei, comportando meno ingerenza nel clima politico interno, mantenendo viva la stretta anticomunista: emblema è l’incontro di Puerto Rico gli del 1976, in cui l’aiuto occidentale all’economia italiana era subordinato all’esclusione dei comunisti da responsabilità governative (venne interpretato come grave ingerenza). Nuove ricerche hanno sottolineato, poi, come non ci fosse l’obbiettivo effettivo di preparare un golpe in Italia (nonostante Usa finanziassero dei partiti di centro e dx, e terrorismo neofascista), tuttavia la sola ipotesi del golpe era strumento di pressione sulla Dc, affinché abbandonasse il dialogo col Pci. Al contempo, è apparso meno passivo il ruolo della politica italiana, che in dialogo diretto con l’amministrazione USA, spesso creava un clima di allarme per usufruire dei finanziamenti → è chiaro lo iato fra volontà e capacità effettiva di condizionamento; se l’Italia ebbe sovranità limitata fu soprattutto per il mutamento delle reti di interdipendenza economica, non per la Guerra fredda. Di particolare rilevanza anche le riflessioni sviluppate intorno all’azione di Moro come ministro degli esteri (1969-72,73-74), interessato alla distensione europea e alla cooperazione efficace fra i membri dell’Europa comunitaria. - Rapporto crisi italiana e crisi capitalistica. Molti studi si concentrano fra due poli legati o all’idea che l’Italia fu al centro della rivalità della Guerra fredda, o al primato della politica interna. Petrini predilige prospettiva meno eccezionalista, che tenga insieme inter e nazionale, e vuole capire che tipo di crisi abbia vissuto l’Italia e come si sia diversificata dalle crisi dei paesi a capitalismo avanzato. Si può dire che la crisi sia stata: ▪ Economica, ma emblematica dell’incepparsi dell’intero modello di sviluppo. Questa si manifesta con la compressione dei tassi di profitto dovuta alla crisi di sovraccumulazione (saturazione del mercato). ▪ Egemonica, poiché palesa l’indebolimento degli USA e inaugura la fase di rivalità fra le potenze capitaliste. ▪ Sociale, a causa della democratizzazione interna che aveva permesso ai subalterni di rivendicare i loro diritti, ma anche internazionale (richiesta del Sud di rivedere le configurazioni politiche). In questo senso è anche causa della crisi stessa, perché la caduta dei profitti era anche dovuta all’avanzamento della classe lavoratrice. La piena occupazione, i diritti salariali avevano aumentato il potere contrattuale del lavoratore che ora apriva conflitto, trascinando anche altri settori sociali in un’impostazione antiautoritaria. - Conclusione. La crisi italiana non è una anomalia ma espressione della crisi generalizzata, più forse a causa della contraddittorietà fra modernità e arretratezza presente sul tessuto. Con la crisi del regime di Bretton Wods crolla il sistema di interdipendenze in cui l’Italia era inserita. A ciò si aggiunge anche che la fine di B.W. implica la sospensione del vincolo esterno, che aveva mantenuto l’Italia nel sistema dei paesi capitalisti. Dunque, gli anni Settanta andrebbero letti alla luce delle categorie della Guerra fredda, ma anche del conflitto mondiale dovuto alla crisi di sovraccumulazione, la preoccupazione per l’insubordinazione e per l’ascesa al potere della sinistra. SI potrebbe parlare di una riedizione del concerto delle potenze controrivoluzionarie. Ad oggi non si riesce a vedere la tensione di quegli anni come una classica crisi dell’accumulazione capitalistica. è stato evidenziato da molti studi che la crisi degli anni ’70 fu il modo in cui si manifestò l’esaurimento del modello di economia sorto post WWII. Fu l’importanza dell’URSS e della sua forza a imporre alle economie occidentali un ripensamento del rapporto tra Stato e mercato. Come abbiamo visto le riforme furono interrotte dall’esaurimento della forza del sindacato, sullo sfondo di una crisi complessiva dell’industria fordista, in cui si inserisce anche lo spartiacque del delitto Moro Il filone poco esplorato in questo senso che potrebbe dare nuove risposte, ad esempio nei processi decisionali che portarono l’Italia all’inserimento nello Sme. Dovrebbero essere rilette, oggi, diverse cose→la femminilizzazione del mercato del lavoro (che mutò gli equilibri di genere sul terreno occupazionale); la crescita della disoccupazione giovanile; il nuovo peso assunto dalla manodopera fornita da immigrati; il passaggio da fordismo a post-fordismo. 3. Partiti, Stato e riforme – Paolo Soddu Soddu parte dall’assunto che ci siano stati 4 cicli riformatori nell’Italia Repubblicana, che hanno condotto a innovazioni strutturali, ma non a mutamenti del sistema politico economico, rimanendo inseriti nel movimento dei sistemi politici globali. ▪ Primo ciclo, ultimi tre anni dei governi De Gasperi → politiche newdealistiche che promuovono riforma agraria, Cassa del Mezzogiorno, Piano Fanfani, liberalizzazione degli scambi e riforma elettorale (Legge truffa). ▪ Secondo ciclo, quarto anno del governo Fanfani, i cui obiettivi programmatici sono riassunti nella nota aggiuntiva di Ugo La Malfa (il settore agricolo; l'industrializzazione nel Mezzogiorno e lungo la dorsale adriatica; i consumi e servizi pubblici, in particolare istruzione, sanità, previdenza sociale e gestione del territorio.) Penalizzato, come il primo, dagli elettori del ’63. ▪ Terzo ciclo, autunno 1974, governo Moro – La Malfa. Riforma diritto di famiglia, diritto di voto ai 18enni, riforma fiscale, creazione del Ministero dei Beni, stabilizzazione finanziaria, contrasto dei partiti armati. La forza del ciclo si intravede a partire dalla nuova strategia del PCI nelle elezioni del 1976 e poi culmina con il SSN nel 1978. Dopo l’assassinio Moro, segue un decennio di esaurimento della Repubblica dei partiti e la tensione riformatrice si ripresenta solo nel 1993 con il Governo Ciampi. ▪ Quarto ciclo riformatore, fra 2014-2017 (Renzi-Letta), in concomitanza governo Obama. - Di particolare interesse il terzo ciclo che riguarda gli anni Settanta, inaugurato il 12 dicembre 1969- concluso il 2 agosto 1980. In questo ciclo, alla rivoluzione culturale innescata dai movimenti giovanili a livello globale, si aggiunge la mancata riforma della società nella legislazione civile e nei modi dello sviluppo, fondato su spontaneismo e bassi salari → l’Italia si era trovata in una via di mezzo fra vita democratica e richiami alla soluzione greca (sfociata nella dittatura dei colonnelli 1967) + ciò si contestualizza in uno scenario di irrigidimento dei campi sovietico e americano, consequenziali all’emergere della RPC con cui l’amministrazione Nixon aveva aperto dialogo = i margini di manovra erano stretti e portano all’accantonamento dei socialisti e all’emergere dei liberali nell’esecutivo di governo del 1972, con Malagodi al Tesoro e Andreotti presidente del consiglio. Il governo Andreotti I affronta l’inflazione e il bisogno pubblico e cerca la stabilità attraverso formazione sistema prestabilito di fluttuazione tra le monete europee + misure pensionistiche. Dopo il centrismo, succede il governo Rumor con la riproposizione del centrosinistra: in questo contesto nasce il referendum abrogativo sul divorzio, specchio del tentativo di ripristinare la egemonia democristiana e la ricerca di un’alternativa. - Con lo shock petrolifero emergono le fragilità del sistema partitico italiano; si prospettano due strade: 1) via evolutiva che portasse alla ricomposizione consensuale, sostenuta da La Malfa, Berlinguer, Moro, Zaccagnini e che implica evoluzione costituzionale, istituzionale e partitica 2) via della democrazia conflittuale, su modello francese, in cui si contrappongono due schieramenti e di diluisce la tensione internazionale, sostenuta da Craxi e Pannella, che prevede il mutamento costituzionale. Le ipotesi hanno il fine di superare la democrazia dissociativa affermatasi nel 1948. Essa consisteva nel fatto che maggioranza e opposizione avevano vissuto se stesse come alternative di sistema, in cui una vedeva l’altra come pericolo da evitare, l’altra come regime da abbattere. Essa era superabile attraverso creazione del partito pivot, ovvero un partito centrale ed egemonico. Essa era ormai in decadenza come dimostrò la reazione dei partiti armati, pur contenendo una risorsa: ovvero, l’approccio consociativo alla convivenza collettiva. In più, non mette in discussione i ruoli, ma produce consenso senza trasformare; in questo senso era fondamentale un partito comunista che ideologicamente radicale, ma materialmente prono nel condividere questa visione. Dal 1974 la via consensuale diventa ineluttabile e l’Italia si appresta a percorrere un cammino simile a quello della RFT con la Grosse Koalition, attraverso il compromesso storico, presentato da Berlinguer in seguito ai fatti in Cile, in cui il PCI sarebbe entrato a far parte formalmente dell’opposizione non votando a sfavore del governo democristiano. Il legame con l’URSS, in questo senso, mutava; il PCI diventa una variabile interna al mondo comunista e il rapporto con l’URSS diventa soggettivo e non più costitutivo dell’identità del PCI. L’esecutivo fu molto attivo portando avanti riforme civili, culturali, finanziarie e la lotta ai partiti armati. - Dal 1976 inizia la “terza fase difficile”. La solidarietà nazionale era fragile e contrastata da settori conservatori, anticomunisti, dai radicali, dalla nuova sinistra e dai partiti armati; tuttavia Berlinguer perseguì l’obiettivo facendo una revisione della cultura politica del PCI: essa si manifesta con la sottoscrizione di una mozione sulla politica estera in cui si sosteneva come termine fondamentale l’alleanza atlantica e gli impegni comunitari. Il PCI cominciava a logorarsi, non essendo né partito di opposizione, né di governo, ma coinvolto nelle azioni dell’esecutivo (risanamento finanziario, realizzazione del welfare con il SSN, legge sull’aborto). Gli obiettivi ambiziosi erano però osteggiai dalle elitè dirigenti, intellettuali, religiose, che avrebbero potuto perdere rendite; al contempo anche dalla sx del PCI dentro e fuori. La fragilità è testimoniata anche dal fatto che il progetto fu definitivamente affossato dal rapimento Moro. Su di esso di concentrano le ragioni internazionali ed interne che contrastavano la normalizzazione democratica nel paese crocevia; da un lato inserito nelle alleanze atlantiche, dall’altro con un partito comunista la cui leadership abbandonava la guerra di posizione. - Bilancio. Dopo l’omicidio Moro, il PCI esce dalla maggioranza che sostiene Andreotti e si apre nuova stagione che tiene insieme tutte le forze nell’area della legittimità. Nel corso degli anni Ottanta, l’unica forma di alternanza si vede nel cambiare dei presidenti del consiglio: dall’81 Spadolini, poi Craxi, poi nell’87 di nuovo la DC. Gli anni Settanta furono un periodo di non ritorno per il sistema politico; il lascito maggiore fu nelle istituzioni, soprattutto quella del Presidente della Repubblica, che con Pertini nel 1978 diventa figura reinventata, autorevole e prestigiosa, che nel momento di incertezza dei partiti diveniva depositaria di una visione di interesse nazionale. 5 – Azione collettiva e movimenti per i diritti di cittadinanza, Marica Tolomelli Tolomelli apre ricordando una conquista con cui si aprono gli anni Settanta, ovvero lo Statuto dei lavoratori, risultato di prassi politica virtuosa, basata su rapporti di reciprocità, confronti spesso conflittuali, fra società civile ed istituzioni. Lo SDL implementa i principi democratici nei rapporti di lavoro e porta nei luoghi di lavoro sindacati e principi costituzionali → ricordare lo SDL supera la chiave di lettura degli anni ’70 tutta incentrata su violenza e terrorismo. Lo statuto non è unico esempio di sinergia fra società civile ed istituzioni, ma lo sono anche le riforme sul diritto di famiglia, l’assistenza medica, la tutela della salute, della maternità. Questi passaggi sono esempio di forte legittimità dell’azione collettiva e di avvicinamento fra livello formale e materiale della democrazia → la democrazia, dunque, passa da forme rappresentative a forme più partecipative, espresse dall’azione collettiva della cittadinanza. Per questo, la politica democratica raggiunse livelli di radicamento senza precedenti anche in un decennio convulso. In Italia, più che in altri paesi, l’impatto politico della mobilitazione collettiva sull’arena delle istituzioni fu ambivalente; da un lato, la pressione popolare ebbe effetti propulsivi; dall’altro, la crescente autonomia indeboliva la funzione pedagogica dei partiti, comportando una riconfigurazione dei gruppi sociali e partiti verso forme partecipative, che però non arrivò a nessun punto, a causa di atteggiamenti di resistenza e incapacità di negoziare nuove forme politiche. Vediamo alcune manifestazioni della partecipazione civile, che raggiunge l’apogeo fra 1974-1976. Questi progressi spinti dallo sforzo alla mobilitazione vanno presi in considerazione e non possono liquidare i Settanta come unicamente periodo di crisi. A) Lavoro − Riconoscimento del diritto alla formazione con le 150 ore. Seppure con i limiti del caso, furono strumento di promozione della cittadinanza. Per coloro che ne usufruiscono, le 150 ore sono motivo di affermazione sociale e di dignità indipendentemente dal lavoro. Portarono a nuove forme di organizzazione politico sindacale e alla formazione dei Comitati Unitari di Base B) Scuola, in cui le novità erano gli elementi di discontinuità introdotti dal 1968. − Legge 447, articolata nei decreti delegati. La legge concretizza la partecipazione collettiva alla scuola da tutti i soggetti coinvolti, corpo studente, docenti, genitori. Ovviamente non contestò l’impostazione classista della scuola, tuttavia permise di ampliare lo spazio della partecipazione riducendo la distanza fra l’istruzione scolastica e gli utenti: più che l’obiettivo politico, fu importante il tentativo di riorganizzare su principi di partecipazione e condivisione la pubblica istruzione. C) Società − Ampliamento dei diritti civili delle donne, attraverso referendum sul divorzio, riforma del diritto di famiglia, istituzione dei consultori famigliari a gestione regionale, legge sull’aborto, legge per la parità fra generi nel mondo del lavoro − Riforma del SSN; a lato, anche la riforma della psichiatria concretizzata con la riforma Basaglia, che però non dipese dalla cittadinanza, quanto piuttosto dalla professionalità e specializzazione dello psichiatra da cui prese nome. D) Cultura, oltre ai movimenti delle donne, ecologisti, ambientalisti, circoli culturali e radio libere, l’impegno collettivo viene raccolto anche dall’Arci, che fa propria la difesa della democrazia dopo il Golpe Cileno e organizza moltissime iniziative. Tolomelli si concentra, in conclusione, sullo studio di Rosanvallon sugli anni Settanta come fase di avvento di una società civile più autonoma e socializzata. Ciò che interessa è sottolineare come cambiano, di fronte a questa evoluzione, i rapporti fra cittadini ed istituzioni: infatti, mutando le forme della cittadinanza mutarono anche le forme della politica→ si andava verso la democrazia deliberativa, tuttavia non si riuscì a raggiungerla. L’ostacolo più grande fu probabilmente il terrorismo che attraversò la scena politica e sociale; tuttavia, la stessa partecipazione attiva ebbe come risultato quello di mettere in discussione la forma partito. L’entusiasmo collettivo da partecipazione favorì indebolimento della funzione mediatrice dei partiti, in favore di una visione della democrazia in cui i partiti potevano essere sostituiti dall’azione collettiva. Ciò comportò uno scollamento senza precedenti fra istituzioni e società civile, testimoniata dall’uso antipartito degli anni Ottanta e Novanta dei referendum, sempre più usati per delegittimare l’iniziativa parlamentare e il ruolo di mediazione politica. 6 – Storia del lavoro e della conflittualità sindacale, Pietro Causarano Gli anni Settanta rappresentano un punto di svolta per il mondo del lavoro e delle organizzazioni sindacali. Essi discutono le coordinate e l’organizzazione del capitalismo dopo la prima metà del Novecento e aprono lo scenario al sindacato, sempre più legittimato politicamente. In questo periodo, lo scarto fra aspettative e risultati del benessere economico sociale dei paesi industrializzati, porta all’esplosione di bisogni e di obiettivi rivendicativi. Non a caso, il periodo fra 1960-1985 è chiamato apogeo dei sindacalismi, prima del declino, dello svuotamento delle rigidità negoziali, la riduzione dell’autonomia, la globalizzazione dei mercati e l’accelerazione tecnologica. Gli anni Settanta, dunque, possono essere colti alla luce della loro specificità attraverso il sindacato e la sua connotazione di quel periodo, cioè la dimensione di classe del conflitto e dell’azione sociale, che si sovrapposero come non mai in precedenza e saranno destinati al declino di lì a poco. Questo avvenne attraverso la costruzione della tuta blu come figura sociale di riferimento, ovvero l’operaio massa, legato alla produzione in serie. Sarà proprio la classe operaia a trascinare l’universo dei lavori e a costringere tutti gli attori economici, politici, istituzionali a tenere conto del dissenso. Venne richiesta mobilità per sganciare i lavoratori dal processo produttivo, si garantì la non- negoziabilità delle condizioni psico fisiche; tuttavia le trasformazioni misero in luce due elementi che incidevano sulla coesione sociale: A) frammentazione delle soggettività espresse dai lavoratori, con il gap fra giovani generazioni e vecchie e con l’emergere della questione femminista e B) bassa sostenibilità economica delle strategie di allargamento dei diritti e di soddisfacimento dei bisogni dal punto di vista aziendale, davanti ai mercati aperti e competitivi. È possibile, afferma Causarano, stabilire una cronologia degli anni Settanta a partire da due caratteristiche del sindacato: − La sua doppia faccia; da un lato istituzione e dall’altro movimento sociale, trovandosi sempre fra piazza e palazzo − altra specificità è lo sviluppo particolare della cultura sindacale industriale nella storia del sindacato, dall’Autunno caldo al ripiegamento degli anni 80. Inizio anni ’70: la parabola del sindacato comincia con la rottura del ’68, l’Autunno caldo; protagonista è la classe operaia, come movimento di massa con caratteristiche diverse da quello degli anni’50: gli operai sono un po’ più scolarizzati, immigrati, giovani, qualificati per mansioni medio basse e non sono avviati alla formazione militante o sindacale. Gli obiettivi non riguardano solo il salario l’orario di lavoro, ma anche le condizioni di lavoro e la possibilità di incidere sull’organizzazione, denunciando, ad esempio, la gerarchizzazione e differenziazione del lavoro, il cottimo. Ciò porta al ciclo di lotte 68-69 e 73-74, segnati da: − esperienza unitaria dei metalmeccanici − ricerca di riconoscimento nella partecipazione alle relazioni di lavoro attraverso il consiglio di fabbrica; − trasformazione dei livelli contrattuali CCNL e esperienze negoziali più diffuse in periferia. − Nel 1974, viene raggiunta la parità normativa operai-impiegati ed istituite le 150 ore. Metà anni ‘70: la crisi economica della metà degli anni Settanta, inoltre, non si tradusse subito in crisi del sindacato e anzi, il tasso di sindacalizzazione fino agli anni ’80 rimane intorno al 50%; tuttavia si cominciano a vedere delle crepe e l’incapacità del sindacalismo italiano di adattarsi ai autorganizzazione e pratiche quotidiane di liberazione; tutta questa riflessione portò, nel 1976, ad un primo ciclo di occupazioni in varie parti d’Italia per riappropriarsi degli spazi della vita. I circoli formatisi e i giovani di cui ne facevano parte, nell’autunno dovettero confrontarsi con la riforma Malfatti che reinseriva criteri di selezione. Ciò comportò l’esplosione, nel 1977, di nuove occupazioni e di forme di contestazioni prevalentemente armate, ingenerando un’ondata di violenza e repressione unica nel suo genere. Nel giugno le testate delle riviste dell’area titolavano la vittoria del movimento, che era morto realizzandosi, esaurendo le concezioni di politica e lavoro caratteristiche della società capitalista. Accanto ai giovani attivisti militanti, tuttavia, vi era anche un’altra fascia che si muoveva in un universo giovanile più orizzontale, unitosi attraverso gruppi nati a scuola o nelle palestre. Per concludere: il disimpegno giovanile e il reflusso è stato interpretato, da una parte, come risultato dell’incapacità del paese di ammodernare il quadro politico e istituzionale; gli anni Settanta sarebbero, in questo senso, solo la deflagrazione della crisi democratica che si compie poi negli anni Novanta. D’altro canto, una linea interpretativa che ha visto del riflusso una consunzione delle subculture politiche del dopoguerra verso la modernità post-ideologica, in cui la disillusione dei giovani avrebbe condotto ad un pragmatismo positivo sotto cui ricadrebbero lo sviluppo del pacismo e dell’ambientalismo. 8– Fare storia de neofemminismo italiano: origini, ipotesi, risultati e prospettive. Paola Stelliferi La storia del neofemminismo comincia, in Italia, negli anni Ottanta. Nella prima fase, le iniziative di didattica e ricerca hanno come obiettivo di ricostruire le origini dei movimenti politici delle donne per contrastare l’amnesia del femminismo, cioè la tendenza dei movimenti a tagliare con gli antecedenti storici. In più, si cerca di ridiscutere il paradigma storiografico che si dichiara universale, ma che è maschilista; e ridiscutere il rapporto fra storia e politica. Stelliferi metodologicamente, vuole: − Eseguire lavoro genealogico, ritracciare il percorso dinamico compiuto per far riflettere sui sentieri da esplorare. − Analisi dei rapporti con i soggetti coevi, politici e non. − Orientare gli addetti ai lavori. Origini. Alle origini del movimento ci sono vari elementi: − l’impatto del protagonismo giovanile − il 1968 e il suo contributo critico verso la cultura patriarcale − rivendicazione di spazi separatisti e le pratiche di autocoscienza − percorsi marxisti e progetti radicali La periodizzazione classica si suddivide in: 1) 1972-74, periodo di formazione e crescita dei gruppi, poco interessati ai referenti esterni; 2) 1975-1976, momento con caratteristiche di massa, alta visibilità e legittimità politica 3) 1977-1979, periodo fumoso di crisi e disfacimento, poco vagliato e che viene legato al clima di repressione generico; molti gruppi smettono di riunirsi e alcune importanti leggi per le donne vengono discusse in Parlamento. Svolta culturale. Negli ultimi anni Settanta, la fine della stagione dei movimenti e della forte politicizzazione inaugura comunque una nuova progettualità femminile, adesso più incentrata sui progetti editoriali e su esperimenti didattici e di ricerca. Particolarmente importanti sono le librerie; il primo esempio è l’esperienza di Maria Luisa Moretti che apre la prima libreria delle donne, che tenta di modificare sia l’impresa economica, sia la sua vita stessa, ricalcando le dicotomie fra personale e politico proprie del periodo precedente. La svolta può essere raccontata anche attraverso i centri di documentazione femminista, I primi archivi sono costituiti dalle femministe storiche che avevano dato vita al movimento, come testimonia il Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia, fondato nel 1979, con il fine di trasmettere al nuovo femminismo il senso politico; oppure, Coordinamento per l’Autodeterminazione della donna di Catania, che nello stesso periodo raccogliere materiale legato a battaglie politiche. Il momento “conclusivo” dell’interesse politico è il 1986, anno di Chernobyl, che fa interagire politiche scienziate e attiviste. In Italia, dopo il convegno sugli studi femministi tenutosi a Modena nel 1987, inizia una nuova stagione in cui il femminismo si intreccia ad altre discipline e viene ridiscusso il connubio fra militanza e ricerca scientifica, a cui si collega il nodo storia-memoria-autobiografia. Soprattutto la corrispondenza fra autobiografia e storia diventa fondamentale e l’opera di Emma Baeri I lumi e il cerchio ne è emblema, poiché si porta avanti un esercizio di storia ridefinendo i limiti di collettivo e individuale. Viene anche pubblicata Storia di donne e femministe, classico della storia orale e delle donne. Dagli anni Novanta ai Duemila. Gli anni 90 chiudono in negativo perché chiudono molte testate femministe. Le novità arrivano col secolo nuovo, quando i women’s studies cominciano a godere di maggiore dignità scientifica. Questo implica lo strutturarsi delle prime monografie e sintesi, che però devono confrontarsi con il problema delle fonti: vanno interpretati e raccolti volantini, verbali, trascrizioni di riunioni, lettere; importanti i centri di documentazione, fra cui il convengo Archivi del femminismo. Conservare progettare comunicare tenuto nel 1994. Un passaggio cruciale si ha fra 2004-2005, anni in cui la riflessione si articola sul piano della politica del femminismo e dell’autodeterminazione delle donne. Nel 2005 c’è il convegno Nuovi femminismi, che abbandona l’ottica della memoria per avviare una riflessione storica. Come sottolinea Anna Rossi-Doria, la malinconia circa il momento alto ed utopico del femminismo ha investito anche il suo studio, privilegiando la memoria ancor prima della storia; solo ora che la dinamica si è invertita si comprende come soprattutto per l’Italia sia da sondare e studiare il rapporto, ad esempio, fra femminismo e culture politiche della sx, nonché la mancata adozione della prospettiva intersezionale, e la debole analisi delle differenze di classe tra donne. 10 - Crisi e trasformazione della società dei consumi negli anni’ 70. Paolo Capuzzo Gli anni Settanta, sia per la storiografia italiana che internazionale, sono visti come fase di crisi o discontinuità nell’ambito degli studi sui consumi. Ciò ha fatto sì che essi venissero tralasciati fino a tempi recenti, dove la crisi è stata ridimensionata. In questo periodo, infatti, si alternano ristagno e debole crescita che colpisce in maniera diseguale la penisola. La debole crescita viene sbloccata dal calo dei prezzi di genere alimentare (tranne il pane), che permette alle famiglie di investire su altri consumi: settore della comunicazione, con la diffusione degli apparecchi domestici; settore dei trasporti, con le automobili che dilagano; settore abitativo, che fu alimentato soprattutto dal processo di espansione suburbana che non fece aumentare la spesa; aumentano le pese per elettrodomestici e mobili, al punto che il mercato del mobile diventa sviluppato; i consumi culturali, subirono invece un aumento lieve e soprattutto il cinema entrò in crisi. Tutto questo processo fu alimentato dall’espansione del marketing e della pubblicità, che ricercano nuove forme di vita sociale e permettono alla cultura del consumo di diventare elemento fondamentale nella costruzione delle identità e delle differenze sociali. La cultura del consumo aveva già mostrato dei lati inquietanti, segnalati da papa Paolo VI, e da intellettuali come Pasolini. Con la crisi del ’73, l’individualismo consumista subì una battuta d’arresto, mentre le politiche di austerity del governo Rumor riportano l’attenzione sui bisogni collettivi. Proprio su questi elementi si avvia una profonda riflessione del Pci sul consumo come mezzo di emancipazione soggettiva; Berlinguer vide nella crisi l’opportunità di reindirizzare i consumi in senso socialista, ma ormai il rapporto fra mondo dei consumi e cultura delle masse era così stretto da diventare fonte di identità sociale. Le teorie si Berlinguer hanno diviso gli accademici, che analizzano o il nesso fra austerità e compromesso storico alla luce dell’etica cattolica e quella comunista; chi, invece, lo giudicava antimoderno e pauperista. La tesi di Berlinguer faceva riferimento al contesto internazionale e al processo di decolonizzazione del Terzo Mondo, sul cui sfruttamento si era legittimato il consumo: perciò l’austerità appariva una chiave di ripensamento del modello di sviluppo. D’altro canto, fu Craxi ad elaborare invece una prospettiva basata sull’esaltazione del consumo, sancita con la conferenza Governare il cambiamento tenutasi a Rimini e che presenta la neomodernità consumista. In questo scenario è fondamentale cogliere anche l’importanza delle controculture in relazione all’innovazione commerciale. Infatti, anche se la società dei consumi era obiettivo della contestazione giovanile, proprio essa portò a riconfigurare la sfera commerciale. Pensiamo agli hippies: movimento basato sulle esperienze della Beat Generation e sul ritorno alla natura, promosse nuove soluzioni estetiche che influenzarono la vita commerciale e la cultura materiale, tramite vestiti colorati, musica, droghe psichedeliche, viaggio, amore per la natura ecc. Questo tipo di esperienze porta, in alcuni stati, alla nascita di comuni rurali, esperienze d’elitè basate sul vivere comune per rinnovare la vita quotidiana. L’alimentazione doveva essere naturale e vegetariana, permettendo di bypassare la grande distribuzione; l’abbigliamento comodo, creativo, favoriva la libera esposizione; le abitazioni spartane e prive di lussi in eccesso. 11 – Tra vecchio e nuovo: la televisione nel decennio del cambiamento. Giulia Guazzaloca Nei paesi dell’Europa occidentale gli anni ’70 rappresentarono uno spartiacque decisivo per l’assetto e il funzionamento del sistema dei media → fino a quel momento il settore radiotelevisivo era stato soggetto al controllo diretto o indiretto dello Stato, perché considerato un servizio per la collettività. A differenza del modello statunitense, nel dopoguerra, la radiotelevisione in Europa assunse la forma del monopolio pubblico col compito di informare, educare e intrattenere. In alcuni casi, come quello italiano, servì a legittimare lo stretto controllo dei partiti e delle classi dirigenti sulle aziende. Sia sociologi sia storici concordano nel dire che in questo periodo si chiuse la fase di ancien régime delle televisioni europee. Fu l’intero universo della comunicazione ad entrare in un periodo di riassetto globale che trasformò le funzioni dei diversi media, le loro interazioni, gli usi del pubblico, i rapporti con la politica e con l’economia. L’industria dell’informazione e dell’intrattenimento conobbe una costante espansione diventando un settore cruciale con un pubblico sempre più frammentato e segmentato: il sistema televisivo e l’industria della comunicazione nel corso di questo decennio vissero una vera rivoluzione → dai ’70, in Italia la televisione, partita con intenti pedagogici, si riscoprì ambito di intrattenimento, emblema dell’Italia degli individui. Il punto di vista politico che adotta questo saggio, ovviamente, non è l’unico utilizzabile → sarebbe l’ora che anche la storiografia italiana sui media allargasse il proprio sguardo ai fattori di crisi della Rai, il contesto politico che vede nascere le radio libere e le reti televisive private. La crisi della Rai vide l’avveramento della previsione di Scalfari del 1972 → in breve, infatti, entrarono operatori stranieri e aziende private nel mercato delle televisioni, spezzando il vecchio regime monopolistico. La Rai agli inizi degli anni ’70 fu travolta da una serie di polemiche riguardanti sia i suoi rapporti con i partiti di governo, sia la gestione del direttore Bernabei, l’uomo di fiducia di Fanfani: cambiamenti dei media facevano partire dibattiti che portavano all’attenzione del grande pubblico il problema di come gestire il sistema all’interno delle moderne democrazie. Con Telebiella, il 1971, si ebbe la prima televisione via cavo attiva in Italia e la seguente esplosione di radio libere, prima Radio Montecarlo nel 1966, favorendo la concorrenza di tv a colori estere → nel 1973 il governo si intromise emettendo il divieto di installare impianti di comunicazione a distanza senza l’autorizzazione del governo, ma ciò non fermò il fenomeno. La Corte Costituzionale emanò due sentenze nel 1974 che legittimava le emittenti estere, rosicchiando il monopolio Rai, e poi autorizzò le trasmissioni di emittenti private, dando via al far west di tv commerciali e fine del monopolio. Furono soprattutto le radio private ad incarnare lo spirito dei tempi esprimendo il bisogno degli individui di partecipare alla comunicazione. Chiusosi il periodo delle piccole televisioni locali, a contendere il primato della Rai erano rimasti quattro grandi network, tra cui Primarete Indipendente, Italia 1, Rete 4 e Canale 5 di Berlusconi → il gruppo Fininvest ingobla rete 4 e italia 1, primarete chiude→ si era arrivati a duopolio. Nel corso degli anni ‘70 la spinta al rinnovamento del mercato radiotelevisivo venne anche dai cambiamenti sociali e culturali in atto, dalla crescente segmentazione del pubblico e dalla crisi del modello televisivo tradizionale. Uscendo dal dopoguerra, con la necessità di plasmare un’identità nazionale ancora fragile, Dc e Chiesa capirono che i moderni mass media potevano essere utilizzate cementificando il tessuto politico della giovane democrazia italiana. La Rai era diventata uno strumento politico nelle mani del governo. Il biennio della contestazione giovanile ruppe gli schemi valoriali del tempo e portò allo sviluppo di nuove forme di comunicazione, mettendo in crisi anche il progetto pedagogico che aveva guidato la televisione pubblica → la generazione contestatrice si ribellava alla massificazione culturale richiedendo libertà di espressione per tutti, mentre la fase di austerity e l’inflazione testimoniavano la grande crisi e il cambiamento di tutte quelle coordinate che avevano portato alla nascita della tv modellata sull’idea pedagogica di Bernabei → apparivano indubbi i meriti della televisione per la diffusione di cultura e conoscenza in tutti gli angoli della nazione, però era evidente che quel ciclo si era chiuso e non aveva più senso continuare l’indottrinamento forzato. Mentre studiosi e giornalisti analizzavano la caduta dei valori e dei modelli culturali tradizionali, dentro la Rai non cambiò quasi nulla dal punto di vista organizzativo e anche la riforma del 1975 ripropose gli stessi schemi di gestione del passato senza cambiamento. Alla fine, l’unica novità fu quella di attribuire il controllo sulla Rai alla Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi, ma anziché migliorare la situazione, ciò rese la Rai un benefit mediatico a disposizione dei partiti. Messi da parte i programmi culturali, fu nei settori dell’informazione, dell’intrattenimento e dei programmi per ragazzi che si registrarono i cambiamenti più interessanti: vediamo il telegiornale della seconda rete di Barbato che raccoglieva e spettacolarizzava le notizie, Domenica in e L’Altra Domenica, programmi contenitori di media diversi (radio, telefono, dischi ecc.). La televisione, aperta ora al pubblico, era capace di integrarsi con la routine degli italiani facendo loro compagnia. All’inizio del 1977 debuttavano le trasmissioni a colori, con grande ritardo rispetto agli altri paesi per problemi tecnici e politici. Fra anni 70/80 c’è grande cesura. Spinta da cambiamenti anche dal punto di vista politico-culturale. La neotelevisione commerciale degli ’80 fece da sfondo alla rivoluzione neoliberista, alla crisi dei valori tradizionali, alla destrutturazione delle vecchie classi sociali. Cambiò anche il ruolo dei partiti, abbandonando la peculiarità della “missione salvifica che aveva accompagnato le democrazie del dopoguerra → si stabilirono ora spettacolarizzazione del dibattito, attenzione più alla comunicazione che all’impegno militante e la televisione stessa divenne un palcoscenico per dibattiti. In Italia la televisione divenne pura tecnologia del divertimento, abbandonando la logica della pedagogia per accompagnarsi a quelle di mercato. Non cambiò però la vicinanza della politica alla televisione: Silvio Berlusconi entrò in politica possedendo delle reti, e anche il monopolio governativo sulla Rai incontrò la riluttanza della Dc a modificarne la struttura. Primato della politica sull’industria televisiva, primato che potè consolidarsi anche grazie ai vuoti e ritardi legislativi. Nel corso dei ’70 quindi una serie di cambiamenti mutarono il volto e gli assetti dei media audiovisivi; la televisione divenne un’industria matura e complessa, vincolata al mercato e collegata ad altri mezzi di comunicazione. complessiva situazione politica. Sono diverse le conclusioni; si pensa che la religione abbia favorito la disarticolazione delle appartenenze politiche, oppure abbia incubato alcune genelogie del terrorismo, oppure abbia rafforzato le virate tecnocratiche o la degenerazione clientelare del governo del paese. Il 1978 è stato un anno di cerniera tra la morte di Moro e di Montini, con la fine della solidarietà nazionale; allo stesso tempo si attenuavano i dibattiti ideologici più accesi nelle Chiese protestanti, ma anche l’avvio della stagione della riforma del concordato con la Chiesa cattolica e delle intese con le Chiese valdese e metodista, con le Comunità ebraiche. Sarebbe rilevante ricostruire le ricadute nelle singole comunità religiose della spinta partecipativa e, a volte, eversiva presente nei movimenti sociali del ’70 e le reazioni di fronte all’emersione di nuove forme di soggettività giovanile, operaia e femminile. Allo stesso modo, l’esame delle posizioni dei gruppi tradizionalisti e fondamentalisti cristiani/ebraici può essere arricchito con la ricostruzione delle rispettive reti di collegamento internazionale che ne favorirono il contatto con i settori politici neoconservatori e neoliberisti. Gli anni ’70, anche dal punto di vista religioso, registrarono la confluenza di tensioni e spinte per il cambiamento che provocarono all’interno delle singole confessioni tentativi di stabilizzazione e creazione di nuovi equilibri. 12 - Oltre Pasolini: storicizzare la cultura degli intellettuali negli anni Settanta. Cesare Panizza Se si pensa alla cultura degli anni ’70, la prima immagine che torna alla mente è il corpo dilaniato di Pasolini il 2 novembre del 1975. Questa immagine riporta al trauma collettivo apertosi con la strage di Piazza Fontana, di cui Pasolini avrebbe anticipato la portata. Fu, infatti, grande premonitore deòa crisi irreversibile che avrebbe investito la società nei decenni successivi e soprattutto la figura dell’intellettuale: se, infatti, nel pieno delle contestazioni, esso portò avanti “l’andata al popolo”, con i cambiamenti strutturali successivi perderà la sua funzione sacerdotale e verrà relegato nel ruolo di esperto e tecnico della cultura. Tuttavia, se vuole analizzare e cogliere il valore della cultura e soprattutto della produzione pasoliniana, lo storico deve oltrepassare il cono d’ombra della violenza e della crisi che imperversa nell’analisi degli anni Settanta, sempre colti come epopea dell’impegno e della crisi. Gli intellettuali erano consapevoli delle trasformazioni in atto e si divisero sulle interpretazioni, poiché vi era chi le vedeva come possibilità di vivere meno angustie per tutte, chi come una condanna per il sapere umanistico. A ciò si legano tutte le discussioni circa la crisi del romanzo, la funzione pedagogica della letteratura, l’impoverimento della lingua e, più in generale, la messa in discussione della figura dell’intellettuale. Esemplificativa è la pubblicazione di La storia di Elsa Morante, che aveva dimostrato l’irrilevanza della critica nell’orientare i gusti dei lettori e preannunciava l’esaurirsi delle grandi narrazioni novecentesche. In alcuni momenti, l’effervescenza dei movimenti, permise di ritrovare l’impegno in parte, attraverso pratiche al di fuori degli spazi tradizionali, come fecero Dario Fò e Franca Rame con la creazione di una compagnia itinerante che portava il teatro politico attraverso i circuiti arci. Un altro motivo di approfondimento è il rapporto con la politica. Si tende a generalizzare affermando che fosse il Pci ad esercitare egemonia politica; tuttavia questa prospettiva si rivela fumosa, sia tenendo conto delle lacerazioni interne della sx, ma anche prendendo in considerazione la strategia legata agli intellettuali portata avanti da Berlinguer, che era lontana dal conquistare i settori più giovani e dinamici; furono soprattutto gli intellettuali NON comunisti e più anziani ad accogliere l’invito vedendo nel Pci l’unica possibilità di salvare la democrazia. → il grande cambiamento fra politica e intellettuali si ha con il caso Moro e la linea della fermezza, insieme con il movimento del ’77. Con esso il dialogo era stato quasi impossibile a causa della furia iconoclasta e aveva sancito il passaggio dalla generazione della Resistenza, a quella della società dei consumi. Si era avviata quella condizione postmoderna di cui parlerà Lyotard, che aveva comportato un sovvertimento della distinzione fra genere e fra cultura alta e bassa. Scompaiono anche figure storiche dell’editoria, come Mondadori, e compaiono gruppi finanziari estranei a quel mondo dando vita alla concentrazione oligopolistica dell’editoria che continua anche oggi. Nacque anche Repubblica, che soppianto il Corriere e si moltiplicarono le voci dal basso, con le riviste underground tipo Re Nudo, esplosione delle radio libere. A ciò si accompagna la caduta a picco dei generi letterari alti, come la saggistica, a favore di quelli di intrattenimento; in ambito cinematografico esplode la tematica sessuale e il porno, che non salvò il cinema dal crollo causato dalla televisione. Infine la musica: fra le sottoculture musicali quella che ebbe più successo di il cantautorato che poneva la sua attenzione nel testo. I cantanti (Jannacci, Gaber, PFM, Venditti, Vecchioni) assumevano la funzione di opinion leaders. Giovanni Moro ha letto il decennio dei ’70 come l’intreccio tra il conflitto di sistema ideologico, e un conflitto di cittadinanza, prevalentemente culturale, in cui la violenza sprigionata dal primo ha condizionato il secondo. Qualcosa di simile sembra esser successo anche alla cultura: si può dire che anche gli intellettuali abbiano contribuito a depotenziare (generalizzazione) le istanze del conflitto di cittadinanza, irretiti forse dal timore di perdere la loro aurea sacerdotale di fronte alla società della conoscenza. In ogni caso la ricerca su questi temi è ancora ai primi passi.
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