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l'italia dei consumi, Appunti di Storia Sociale

manuale del corso di storia sociale dello spetttacolo con Emanuela Scarpellini

Tipologia: Appunti

2017/2018
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Caricato il 16/07/2018

veronica.francomacaro
veronica.francomacaro 🇮🇹

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Scarica l'italia dei consumi e più Appunti in PDF di Storia Sociale solo su Docsity! Capitolo 1: L’Italia liberale 1. Un paese dai mille volti Il periodo tra il 1870 e il 1913 è stato definito quello della “grande trasformazione”, in riferimento ai cambiamenti introdotti dalla rivoluzione industriale. In realtà in Italia la trasformazione avviene molto lentamente. È proprio nell’800 che finisce il regime demografico dell’antico regime e inizia una nuova fase di equilibrio, caratterizzata da bassi tassi di natalità e una lunga aspettativa di vita. La conseguenza è un forte aumento della popolazione e un cambiamento nelle classi di età. In quegli anni, per quanto riguarda i consumi, l’alimentazione faceva la parte del leone , seguivano a grande distanza le spese per l’abitazione, il vestiario, i trasporti e tutte le altre voci. La forte spesa per il vitto non comportava però una dieta ricca e variegata. Si consumavano grandi quantità di frumento, patate e legumi a discapito di carne e pesce. 2. I contadini Gran parte della popolazione era impiegata nell’agricoltura. Le condizioni di vita dei contadini erano molto dure, le entrate erano scarse e quasi interamente assorbite dalla “triade” dei bisogni primari: cibo, casa e vestiario. La situazione era relativamente migliore per i contadini autonomi mentre era profondamente drammatica per i braccianti. Di norma i contadini mangiavano polenta, legumi, patate e castagne e niente carne se non in particolari festività. Tipici alimenti erano anche minestra di legumi e pane con acqua salata e qualche goccio d’olio. Il cibo, anche se scarso, era carico di significati simbolici. Il tempo della festa, ad esempio, era scandito da una quantità e qualità di alimenti (come i dolci) diversi dal tempo del lavoro. I cibi grassi erano poi associati a privilegio e vita agiata ed erano negati ai contadini. Un elemento basilare come il grano, prima ancora di diventare cibi, era addirittura personificato, divenendo uno spirito che poteva assumere varie forme e significato, come quella di un lupo ad esempio, se i contadini vedevano le spighe ondeggiare sotto il vento dicevano: “ecco il lupo del grano che passa”. Se poi un lupo passava per davvero guardavano la coda; se questa andava verso l’alto lo maledicevano e cercavano di ucciderlo, se invece andava verso il basso, quindi fecondava il campo, lo ringraziavano e gli davano del cibo. L’alimentazione dei contadini si basava soprattutto su alimenti locali anche se non mancavano apporti esterni. Si pensi all’introduzione delle piante americane: patate, peperoni, pomodori, fagioli e soprattutto mais che però furono cucinate secondo le tecniche della tradizione italiana. Le modalità di consumo del cibo erano anche esse molto importanti. In genere si tratta di un evento collettivo, spesso introdotto dalla preghiera. Era importante anche l’ordine con cui venivano distribuite le portate, la selezione delle porzioni migliori e la disposizione gerarchica dei posti a tavola (a capotavola il capofamiglia e al suo fianco tutti gli altri in ordine di importanza). La fame era comunque infinita e sembrava attanagliare senza speranza i contadini. Ne danno una testimonianza i numerosi proverbi popolari e anche la letteratura (Pinocchio ne è un esempio). Solo nel Carnevale vi era una totale inversione: la privazione si trasformava in abbondanza e anche il mondo contadino si abbandonava alla sfrenatezza nel mangiare e nel bere. La seconda voce di spesa per i contadini era la casa. Le case, seppur diverse fra loro, avevano delle caratteristiche comuni: l’uso di materiali costruttivi locali e il legame con il sistema di organizzazione produttiva. Troviamo le “corti padane”, complessi di edifici disposti intorno a un’aia centrale, dove si trova: una dimora padronale, numerose case per i contadini, stalle, fienili e depositi. Si tratta di una struttura in cui abitano anche 7/8 famiglie. Più ampie sono le abitazioni dei mezzadri dell’Italia centrale dove si notano un numero maggiore di stanze ad uso della famiglia contadina e ampi spazi comuni. Qui le famiglie vivono isolate sui fondi che coltivano, formanti un’unica grande azienda: la fattoria che integra diversi tipi di coltivazioni. In altri casi prevalgono abitazioni unifamiliari poverissime e di dimensioni molto ridotte. Entrando si può trovare una cucina, unico locale riscaldato, dove si trova il focolare e dove si possono trovare vari oggetti di uso quotidiano: pentole di coccio, paioli in rame, tegami di latta, posate, piatti, bicchieri e utensili vari. Se non vi sono altri spazi la cucina è usata per svolgere vari lavori: le donne tessono, cucinano, accudiscono i bambini e gli uomini riparano o fabbricano attrezzi. Nelle famiglie contadine c’è una marcata divisione dei compiti e una forte gerarchia e anche i bambini svolgono mansioni leggere. Nelle camere da letto troviamo uno o più grandi letti, bauli o armadi che custodivano biancheria e vestiario. 3. Gli operai Le condizioni di vita degli operai non erano poi molto migliori. La quota destinata all’alimentazione rimaneva sempre la maggiore, la casa era sempre la seconda fonte di spesa mentre le spese varie e per l’abbigliamento erano marginali. Per quanto riguarda il cibo la carne consumata era scarsa, il pesce anche (al sud quello sottosale), latte e uova erano evitati perché costosi mentre c’era una discreta varietà di verdure e cereali. Anche nel loro caso la dieta risulta insufficiente e monotona. Anche se gli standard di vita in molti casi sono simili a quelli dei contadini, gli operai mettono in atto comportamenti molto diversi. Intanto nelle città il tasso di natalità è inferiore, i matrimoni più limitati e spesso contratti in età più alta. Questi elementi ci suggeriscono che vi è uno spazio maggiore per i consumi individuali. Una seconda differenza risiede nella mobilità spaziale: essere operai significa condurre una vita di continui spostamenti sul lavoro a causa dell’instabilità occupazionale. A ciò va aggiunto il fatto che la città fornisce maggiori occasioni di contatto sociale. Le case degli operai si raggruppavano in alcuni luoghi, spesso nelle periferie più povere e degradate delle grandi città. La famiglia operaia in genere si adattava a spazi angusti e sovraffollati. Fra le tipologie più caratteristiche troviamo le “case di ringhiera”: case d’affitto a più piani, dotate di ballatoi orientati verso un cortile interno. Dai ballatoi si accedeva a numerosi piccoli alloggi di ½ stanze e alla latrina comune. Mancavano illuminazione e fognature e l’acqua corrente era spesso disponibile solo in cortile. Un’eccezione è però rappresentata dai villaggi operai come “la nuova Schio”. Questo villaggio modello includeva giardini, scuole e servizi comuni e, per quanto riguarda le abitazioni, c’erano villette per i dirigenti, abitazioni per famiglie di impiegati e case a schiera per gli operai. Altri imprenditori, come i Crespi a Crespi d’Adda, seguirono questo esempio ma si tratta di esperienze particolari più che della normalità. La Società Umanitaria, ai primi del ‘900, costruì palazzi da affittare agli operai. Questi erano edifici di ¾ piani ben distanziati tra loro e senza ballatoi comuni. Entrando in questi appartamenti si accedeva ad un unico ambiente polivalente, oppure a due stanze: una cucina e una camera da letto dove trovavano posto anche toilette di ferro o ceramica, provvista di una brocca per lavarsi. L’illuminazione era assicurata da lampade a gas e vi era una latrina per Le stanze da letto private schierano letti a baldacchino e arredi antichi mentre ben diverse sono le semplici stanze destinate alla servitù, collocate spesso all’ultimo piano dell’edificio. Le dimore nobiliari erano poi dotate di numerosi comfort come acqua calda e bidet, diffusisi anche grazie ad una rinnovata attenzione verso l’igiene. Un altro ambiente importante era la cucina: grande in quanto doveva soddisfare le necessità di molti individui. Per quanto riguarda il cibo non è importante sapere solo cosa mangiavano gli aristocratici ma anche il modo in cui consumavano i loro pasti. Etichetta e galateo cominciano a diffondersi e a dettare le proprie regole le quali prevedono in prima istanza il corretto uso delle posate. Decade quindi l’uso di mangiare insieme da un piatto comune o di passarsi i bicchieri da un commensale all’altro. Troviamo quindi preziose stoviglie e bicchieri, una lunga tavola coperta da una tovaglia bianca, un tovagliolo per ogni individuo (da mettere sulle gambe), piatti, posate d’argento e bicchieri di cristallo oltre a preziosi centrotavola. L’apparecchiatura avveniva prima dell’arrivo dei commensali per via del diminuito numero dei domestici disponibili per servire. Gli ospiti con i padroni di casa si apprestano a pranzare intorno alle sei con: una minestra in brodo o asciutta (pasta, gnocchi o risotto), seguono gli antipasti a base di salumi, ostriche e crostini, c’è poi una prima importante portata (fritto, lesso o umido), un intermezzo (pasticcini ripieni di carne, soufflé o piatti in gelatina). Segue poi la portata principale che è quasi sempre un ricco arrosto di carne con contorno di verdure e più raramente un piatto di pesce. Infine arrivano i dolci e talvolta anche frutta e formaggi, il tutto accompagnato da buon vino. L’attenzione all’estetica dei cibi non è da sottovalutare. Molti dei piatti serviti avevano nomi francesi, segno del dominio indiscusso di tale cucina. Solo alla fine dell’800 in Italia si iniziò a privilegiare una cucina di tipo nazionale. I gruppi nobiliari si presentano differenti a seconda delle regioni di residenza. L’aristocrazia romana si presentava come un gruppo dotato di grande prestigio e influenza nella vita cittadina. Godeva di una salda base economica e ostentava uno stile di vita che non aveva uguali in Italia. La nobiltà napoletana mostra la tendenza a dare grande spazio ai consumi di prestigio anche a costo di intaccare i patrimoni famigliari. L’aristocrazia piemontese al contrario mantiene i propri patrimoni grazie ad attenti investimenti e miglioramenti nella conduzione delle terre. I nobili piemontesi mantengono un distacco sociale nei circoli, nelle zone di residenza e in quelle di villeggiatura. A Milano la nobiltà si impegna più che altrove in attività bancarie e imprenditoriali. La nobiltà ambrosiana non era appariscente pur essendo molto attenta alla qualità. Per quanto riguarda gli svaghi anche i ricchi frequentano volentieri il teatro, entrando da apposite entrate a loro riservate e occupando i palchi e la platea, i posti più prestigiosi. Ci sono poi gli sport: escursionismo, alpinismo, caccia e regina di tutto l’equitazione. Gli sport equestri sono quelli che da sempre hanno caratterizzato maggiormente la nobiltà. Alla fine dell’800 si assiste ad una vera e propria frenesia e ogni città o località di villeggiatura vuole dotarsi di un proprio ippodromo. Proprio nel momento in cui arrivano le automobili la nobiltà conferisce maggior prestigio all’equitazione, questo perché andare a cavallo significa per i nobili sottolineare la propria diversità rispetto agli altri ceti sociali, riaffermare una sorta di continuità con il passato e ostentare un cerimoniale d’altri tempi tipico del ceto nobiliare. 2. Lo stato e i consumi pubblici Va ricordato un fatto importante e cioè che non tutti i costumi esistenti sono privati ma ci sono anche consumi che vengono fruiti collettivamente. L’intervento dello stato era necessario dal momento che il singolo individuo, nel corso della sua vita, poteva essere colpito da disgrazie (malattie o incidenti) e in questo caso doveva essere assistito. Già dopo la costruzione del regno d’Italia si moltiplicano gli appelli che denunciano la grave situazione di contadini e operai e richiedono un intervento pubblico. Il primo problema preso in esame riguarda l’assistenza sanitaria: la sorte di un malato nell’Italia liberale dell’ 800 dipendeva prima di tutto dal suo reddito. Se era benestante poteva chiamare un medico privato e sostenere cure costose a casa o negli ospedali cittadini, se era povero poteva solo ricorrere alle associazioni caritatevoli. Queste gestivano ospedali e centri di assistenza e di carità, riconosciute dallo stato tramite una legge. Qualche anno dopo si stabilì che gli enti locali si occupassero degli sventurati: alle province spettavano alcuni malati (handicappati o infermi psichici) mentre ai comuni era affidato il carico delle spese ospedaliere per orfani e poveri. Alla fine degli anni ’80 verrà fatta una riforma sanitaria e si stabilirà così la presenza a livello locale di un medico e una levatrice per i poveri, pagati dal comune e una rete di medici provinciali con compiti di prevenzione e di igiene. Intanto vengono create anche strutture ospedaliere adeguate (come il Policlinico di Roma). Negli ultimi decenni dell’800 si sviluppa anche la nuova industria farmaceutica che affianca e sostituisce i preparati artigianali dei farmacisti con compressi, sciroppi e pastiglie confezionate. Dal lato della previdenza sociale la situazione appariva anche peggiore. Solo alla fine dell’800 furono approvate norme come la l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni per gli operai dell’industria e la cassa per l’invalidità e la vecchiaia. Per quanto riguarda l’istruzione le classi più abbienti potevano permettersi maestri privati e la frequenza degli studi fino all’università. Negli anni ’60 l’istruzione elementare fu resa obbligatoria ma un deciso miglioramento arriverà solo nel primo decennio del ‘900 a seguito dell’assunzione dell’onere scolastico da parte dello stato. Le tasse sono l’ultima questione importante; fino alla prima guerra mondiale il grosso delle entrate proveniva metà dalle imposte dirette e metà da quelle indirette. Queste ultime colpivano vari prodotti sotto forma di imposta di fabbricazione: tabacchi, sale e zucchero. C’erano poi i dazi doganali. Infine per alcuni prodotti esisteva il monopolio da parte dello stato: tabacchi, sali e polveri. Le imposte andavano quindi a gravare fortemente sulle classi popolari e spesso diedero origine a gravi episodi di violenza. 3. Il mondo della produzione Produzione e consumo si influenzano in modo reciproco ma alla produzione è sempre stato dato un peso maggiore da parte degli economisti. Tuttavia dobbiamo riconoscere che il ruolo dei consumatori è notevolmente cresciuto nel corso del tempo, portandoli ad essere soggetti attivi. I produttori restano di fondamentale importanza sulla scena economica dal momento che le scelte dei consumatori si basano esclusivamente su ciò che viene presentato loro dai produttori. Due aspetti vanno considerati: importazione e autoconsumo. Per quanto riguarda il primo l’Italia, in un periodo di transizione, importa frumento, materie prime, semilavorati e prodotti industriali finiti. Molti beni di consumo di lusso arrivano dall’esterno tuttavia le importazioni non esercitano un ruolo decisivo nel complesso dei consumi. Per quanto riguarda invece l’autoconsumo è un problema redigere statistiche precise dal momento che la produzione industriale è affiancata dal lavoro a domicilio, da quello domestico e da quello effettuato da parenti e amici. Molte delle operazioni condotte in ambito famigliare vengono però destinate all’industria. Per quanto riguarda l’industria alimentare proviamo ad immaginare di entrare in una dispensa ben fornita di inizio ‘900. Possiamo vedere che la maggioranza dei prodotti ha forme, colori e imballaggi che non ci sono famigliari. Molti alimenti sono conservati in vasi di vetro, altri posti in cassette di legno e ben avvolti in stracci o carta. Prevalgono cibi secchi o conservati sotto sale, al soffitto sono appesi salumi mentre sui ripiani ci sono pezzi di formaggio più o meno stagionati. La maggioranza di alimenti è secca (compresa frutta e verdura) pochi sono gli alimenti freschi (carne, uova, latte e burro merci più deperibili) e questi ultimi sono posti nelle zone più fresche della dispensa. Infine troviamo le conserve fatte in casa, marmellate, gelatine e frutta sotto spirito. Quasi tutte le merci sono prodotte nel raggio di pochi km, al massimo all’interno della stessa regione. Il settore dell’industria alimentare, pur avendo una manodopera elevata, risulta in genere arretrato dal punto di vista tecnologico ponendosi a metà strada fra industria e artigianato. I grandi produttori del ‘900 devono fare i conti con i problemi legati al marketing, primo fra tutti la marca. Il significato del termine conosce nel tempo una grande evoluzione; alle origini indicava semplicemente il nome o il simbolo del prodotto commercializzato da un’impresa, successivamente diventa il mezzo per caratterizzare e vendere la merce. La marca ha due funzioni: la prima informativa (ci dice quali sono le caratteristiche del prodotto) la seconda è valoriale (costituisce una sorta di valore aggiunto, ci fa sentire alla moda, ricchi, moderni o appartenenti ad un gruppo). La costruzione della marca si basa sulla pubblicità che punta soprattutto all’aspetto dell’informazione, ciò non sorprende perché in quel momento era importante far conoscere il prodotto e spiegare a cosa serve. Importante era anche il packaging, la confezione esterna del prodotto che doveva essere riconoscibile e perciò rimanere uguale nel tempo. Se tutto ciò funzionava si sperava che il consumatore si affezionasse e fidelizzasse alla marca. Tra le marche esistenti già nel primo ‘900 troviamo: Buitoni, Barilla, De Cecco, Agnesi, Perugina e Cirio. Tra i prodotti già in commercio il grana padano, il pecorino romano l’Invernizzi e il Bel Paese. Sono presenti anche marche straniere come Nestlè e Knorr e, per quanto riguarda gli alcolici: Gancia, Campari, Peroni e Poretti. L’industria dell’arredamento fatica invece a prendere piede in Italia dove pochi potevano permettersi i mobili creati da artisti alla moda ma molti potevano chiamare il falegname per l’arredamento di casa. I mobili prodotti in serie erano utilizzati solo dalle classi meno abbienti e composti da pezzi semplici e assemblati con finiture scadenti. 4. Gli spazi del commercio Nell’800 appaiono le prime Gallerie commerciali dirette ad un consumo spettacolarizzato. Erano luoghi coperti, di passaggio tra una strada e l’altra, lussuosamente pavimentati e ben arredati. L’ingresso invogliava ad entrare e passeggiare, soffermandosi accanto alle sfavillanti vetrine, sostituzione delle importazioni con prodotti italiani. Alle merci veniva assegnato un valore aggiuntivo: l’italianità: comprare italiano non era sprecare, ma adempiere a un compito patriottico. Sfogliando le riviste e i manifesti dell’epoca si nota questo processo di italianizzazione; si moltiplicano i richiami patriottici e i termini “prodotto italiano” compaiono in tutte le pubblicità. L’uso della leva patriottica per promuovere le produzioni non è nuovo né limitato all’Italia. Il fascismo compie in questo modo uno sforzo per creare un’identità e un profilo tipico del “consumatore italiano”. L’autarchia entra direttamente nella sfera della famiglia, rivolgendosi in primo luogo alle donne, usualmente incaricate di fare gli acquisti e gestire la famiglia. A loro viene chiesto di risparmiare sulla spesa, evitando gli sprechi, di comprare italiano e di ingegnarsi a trovare surrogati per tutto. Il rivolgersi alle donne fu una novità introdotta dal fascismo, dal momento che le precedenti politiche si erano rivolte esclusivamente agli uomini. In secondo luogo ci fu il tentativo di allargare lo spazio dei consumi anche alle colonie, importando e vendendo le merci esotiche, come caffè e banane, provenienti dalle colonie africane. Molti prodotti sono pubblicizzati ricorrendo allo stereotipo positivo dell’indigeno. Non è da sottovalutare anche la presenza nelle città italiane di negozi di prodotti coloniali (caffetterie e torrefazioni) con nomi esotici e arredati con immagini e oggetti coloniali. 1.2 Emigrazione Il consumo di prodotti nazionali non si limita però all’Italia e alle colonie ma segue anche gli immigrati italiani in Europa e nelle Americhe, dove si era creata un’importante domanda di prodotti tipici. Già dalla fine dell’800 i governi italiani avevano favorito questi scambi per motivi economici e politici. Nel caso degli italoamericani il desiderio non era solo quello di consumare prodotti italiani ma anche il modo di mangiarli era influente. Si desiderava mangiare riuniti tutti insieme intorno alla tavola o con tutti i parenti. Ugualmente importante era la preparazione casalinga di prodotti genuini, il tramandarsi delle ricette tipiche e il dono del cibo ad amici e parenti. La differenza stava nel fatto che l’America era un paese ricco, dove anche i poveri potevano mangiare di tutto. 1.3 Politica fascista dei consumi Durante il periodo fascista lo Stato non solo cercava di orientare i consumi privati ma appariva sempre più protagonista nell’offerta di consumi pubblici. Il fascismo riorienta la spesa pubblica prendendo varie iniziative nei diversi ambiti. Per quanto riguarda l’istruzione si spende quasi meno nel fascismo che sotto i precedenti governi liberali. Ma ci sono importanti differenze; la prima è la gestione, ora in gran parte nelle mani dello Stato, che ha esautorato gli enti locali. La seconda riguarda la crescente politicizzazione dell’educazione. Per gli scolari l’istruzione elementare è in buona parte assicurata, tuttavia il proseguimento degli studi è ancora molto condizionato dal livello sociale della famiglia. Solo chi appartiene all’elite può sperare di frequentare il liceo classico e poi l’università, altrimenti dovrà scegliere una scuola di livello inferiore. Nella maggior parte dei casi, chi appartiene al ceto medio - basso, si limita a pochi anni di studio e si avvia velocemente al mondo del lavoro. Ovviamente per le femmine le condizioni per proseguire gli studi sono ancora più precarie. Il fascismo utilizza l’istruzione come mezzo attraverso il quale formare “l’uomo nuovo” totalmente plasmato dal regime. Si offre una preparazione più diffusa ma politicizzata. Per quanto riguarda l’assistenza la preoccupazione per l’integrità della stirpe spinge ad assicurare obbligatoriamente alcune categorie di lavoratori e ad ampliare la provvidenza contro le malattie. Per tutto il regime si conducono campagne per debellare malattie come la tubercolosi e la malaria. Per quanto riguarda la previdenza il fascismo interviene con numerosi leggi. Una delle novità introdotte è la creazione di enti parastatali per la previdenza: Infps (per le pensioni) Infail (per gli infortuni dei lavoratori privati). Questi enti sopravvivranno al regime e costituiranno la base la struttura assicurativa e previdenziale dell’Italia del dopoguerra. C’è un altro aspetto importante da considerare e questo riguarda le specifiche norme previste per le donne. Il fascismo promuoveva una campagna a favore della maternità, ponendosi contro la gracile donna – crisi e a favore della sana e florida madre italiana. Numerose sono le leggi approvate a favore delle donne lavoratrici: norme contro il lavoro notturno delle donne, due mesi di congedo obbligatorio pagato dopo il parto, periodo di astensione facoltativa, allattamento, bonus per la nascita di un figlio, creazione di asili nido e assegni famigliari. Anche i consumi pubblici divengono così uno strumento di consenso politico mirato. 1.4 Consumi collettivi In epoca fascista ad essere importanti non sono solo i consumi privati e quelli pubblici ma nascono consumi di un terzo tipo: quelli collettivi. Si tratta dei consumi legati al tempo libero: sport, cultura e divertimento. Qui non si parla di beni o servizi di prima necessità ma di tempo libero e di consumi accessori. Il fascismo decide di occuparsene per diversi motivi: Il primo è di tipo pragmatico = in Italie le associazioni ricreative operaie, spontanee o d’ispirazione socialista, erano molto diffuse e popolari. Una delle prime preoccupazioni del fascismo è quindi fare piazza pulita del retroterra avversario, colpendo bande musicali e associazioni sportive anche solo sospettate di avere simpatie socialiste. Queste furono sciolte o inglobate entro le organizzazioni del partito fascista. Il secondo motivo è legato all’influenza degli USA dove fioriscono le attività dopolavoro aziendali. Tutte queste attività vengono portate dentro lo Stato, affidate al partito fascista affinché ne faccia uno strumento di organizzazione del consenso. La scelta rivela però anche un cambiamento epocale = i consumi dedicati al tempo libero sono diventati così importanti da meritare l’attenzione delle autorità. È importante specificare i cambiamenti intervenuti nella nozione di tempo. Dall’800 esso diventa più strutturato, separando rigidamente i tempi dedicati alle diverse attività che non vengono sovrapposti. Anche le varie classi sociali hanno concezione diversa del tempo: per l’aristocrazia esso è indifferenziato, per i contadini è basato su ritmi naturali mentre per i borghesi il tempo è calcolato e bisogna sfruttare ogni minuto e se ne condanna lo spreco. Quest’ultima visione è quella che prende piede maggiormente dopo la rivoluzione industriale. Il tempo è così prezioso che vengono fatte molte battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro, per la conquista delle ferie e del sabato. Cosa fare di questo tempo libero? Certo non sprecarlo oziando ma impiegandolo in attività di svago e cultura. Il teatro rappresenta un tipico consumo riservato alle classi alte. Negli anni ’30 nascono i teatri mobili, da spostare in continuazione per presentare spettacoli nelle aree rurali prive di sale. Le rappresentazioni non erano a carattere propagandistico ma grandi successi del teatro italiano contemporaneo e opere liriche. Il regime porta dunque il teatro, tipico consumo d’elite, a fasce più ampie di popolazione. Un discorso simile viene fatto anche per lo sport, che non solo si allarga ad una fascia più ampia della popolazione ma arriva anche alle donne. L’aristocrazia con i suoi beni e il suo prestigio resta il modello che tutti desiderano imitare, anche se veramente pochi possono farlo. C’è anche un’influenza proveniente dagli USA e in particolare dal cinema hollywoodiano; il quale propone donne bellissime e appariscenti che conducono una vita all’insegna dell’agiatezza economica e accompagnate da uomini eleganti, dinamici e sicuri di sé. L’Italia subisce però anche in parte l’influenza della Germania con il nazismo che impone alcune limitazioni dei consumi privati per concentrare le risorse economiche a favore della guerra. 2. La vita quotidiana e la casa in epoca fascista Per avere un’idea delle novità rispetto al periodo precedente bisogna osservare una casa della borghesia medio – alta. Vediamo innanzitutto i componenti tipo: Il marito = notiamo il suo completo giacca/pantalone sicuramente prodotto da un sarto, la camicia proveniente dalle industrie di Milano o Torino, l’impermeabile e il cappello, elemento tipico dell’appartenenza al ceto medio. La cameriera = ha l’aspetto dimesso e campagnolo, indossa un camice azzurro e tacchi bassi. I bambini = pronti per la scuola, indossano pantaloncini corti e grembiuli neri con fiocchi rosa o azzurri. La moglie = porta un elegante vestito aderente, un cappottino scuro con il collo di pelliccia, cappellino e calze velate. La signora segue la moda, cosa molto apprezzata dal regime, e si tiene al passo con le ultime tendenze grazie ai giornali di moda che ha a disposizione. I suoi abiti sono opera delle sarte locali o di case di alta moda. La casa = ciò che colpisce subito è la pulizia e l’ordine dell’ambiente, resa più semplice dalle innovazioni dell’industria chimica che forniscono nuovi prodotti per la pulizia della casa e della biancheria. Per quanto riguarda la cucina troviamo i fornelli, su uno dei quali si trova sempre un recipiente per l’acqua calda, sotto un ampio forno dal costo però elevato. Non mancano poi importanti servizi come: corrente elettrica, acqua calda e gas. La cucina è anche lo spazio principe dei lavori femminili e per questo uno degli oggetti che possiamo trovare al suo interno è la macchina da cucire. Questo strumento, seppur costoso, si rivelò molto utile perché permetteva di cucire e rammendare un po’ tutto. Altra presenza è il ferro da stiro elettrico. Il salotto ha la stessa struttura solenne che avevamo riscontrato nel periodo precedente: divani, poltrone, tappeti e decori e mobilio ancora artigianale più che industriale. Tuttavia ci sono anche oggetti nuovi: la radio, piuttosto grossa e pesante, che con il suo aspetto vuole nascondere la sua anima meccanica, confondendosi con il resto dei mobili. La radio diffonde il gusto per le canzoni, le dirette sportive e con i suoi programmi scandisce il ritmo della giornata. Accanto alla radio alta novità è il grammofono, un’elegante valigetta che consente di ascoltare la musica e che ha accanto a sé puntine di ricambio e dischi 78 giri. Il telefono chiude la gamma degli oggetti di novità. Il bagno ha un’ampia vasca in ghisa, uno scaldabagno e un armadietto contenente medicinali. 2.2 Trasporti Centinaia di persone arrivano ogni giorno sulle banchine ferroviarie delle stazioni di Milano, Genova e Torino con i “treni della speranza”. Davanti a loro solo la speranza di un futuro migliore. In questo passaggio da una cultura contadina ad una urbana è più facile vedere il significato della cultura materiale. Gli immigrati cambiano molti oggetti, lasciando dietro di sé una gerarchia sociale diversa e la pratica dell’autoconsumo. La realtà è diversa ma non si presenta come un totale salto nel buio dal momento che, per via di amici e parenti già migrati prima, l’impatto con la nuova realtà non è così forte perché questi immigrati hanno un aiuto su cui poter contare per trovare un lavoro e una sistemazione anche provvisori. Ciò che rappresenterà un sogno per tanti immigrati sarà l’automobile,o meglio l’utilitaria a cominciare dalla Fiat 600. Essa appare un oggetto scintillante, spaziosa all’interno con i suoi 4 posti ed è la prima vera auto pensata per tutti (anche se il prezzo non è poi così abbordabile). Il successo della 600 porterà a nuovi modelli che seguono la stessa ispirazione. Ma per molti immigrati quest’auto è destinata a rimanere solamente un sogno e i dati raccolti ci parlano di una diffusione molto lenta. L’auto è però soggetta a critiche e obiezioni, tanto che sottoufficiali e graduati dell’esercito non possono acquistarne una e preti e monaci possono farlo solo dopo essere stati autorizzati dai loro superiori. Per non parlare poi delle donne, nei confronti delle quali si sviluppano argomentazioni riguardo la loro inettitudine alla guida per via della loro emotività e disattenzione. Lo stesso vale per i giovani troppo immaturi di fronte alle responsabilità della guida. In parte resta vero il fatto che, con l’aumento delle automobili, crescono anche gli incidenti, spesso mortali, che coinvolgono automobilisti smodati e pedoni innocenti. In questi anni l’idea di mascolinità viene ridefinita e non c’è dubbio che alcuni oggetti rivestano un ruolo importante in questo processo; primo fra tutti l’automobile. Le famiglie del ceto medio in questi anni redistribuiscono le risorse economiche a loro disposizione per includere costosi oggetti di lusso, magari anche limitando il consumo di altri beni di base. Anche chi non potrà permettersi un’auto, troppo cara, potrà acquistare forse una motocicletta. Di grande importanza saranno in questa categoria la Vespa e la Lambretta. La prima, al suo apparire, suscita molte critiche dal momento che è molto diversa da una moto tradizionale. Ebbe subito, però, un grande successo anche fra i giovani della classe media, complice anche un prezzo iniziale molto abbordabile. Insomma, all’inizio degli anni ’60, la moto, prerogativa di operai, agricoltori e giovani si contrappone alla macchina, prerogativa delle classi medie urbane. Oltre alla macchina diventa una priorità anche la casa di proprietà, la quale diventa il simbolo di stabilità e futuro. Ma farsi una vera casa non è facile, ci si può arrangiare in alloggi di fortuna un po’ degradati e così nelle periferie urbane sorgono migliaia di abitazioni abusive. Gli operai si accontentano di appartamenti decisamente piccoli, nonostante i loro nuclei famigliari più estesi, e di condizioni abitative molto precarie. Gli operai non cercano di imitare le classi superiori, la loro volontà è quella di integrarsi nella società moderna attraverso questi consumi. I nuovi beni comunicano nuovi valori: la tele è simbolo dell’uscita da una comunità stretta e chiusa, l’auto e la moto comunicano autonomia di mobilità spazio/temporale e la casa permette un’intimità famigliare prima sconosciuta. 1.3 Donne (e uomini) Vediamo un po’ quali mutamenti sono avvenuti all’interno della casa e consideriamo un appartamento, appena costruito, nella semiperiferia di una grande città. Primo luogo che troviamo è l’ingresso un piccolo spazio dotato di un grande specchio, un attaccapanni e un tavolinetto con sopra un telefono Sip. Il lungo corridoio, che un tempo portava alle stanze, ora è cambiato. La cucina ha un tavolo coperto da una tovaglia fantasia, attorno al quale ci sono delle sedie. Ai lati ci sono mobili in legno che contengono stoviglie e piatti senza però mostrarli. La cucina è interessante perché contiene i nuovi elettrodomestici, tutti bianchi e perfettamente allineati. Troviamo una lavatrice Candy, semplicissima da usare e in grado di fare tutto da sola in modo da far dimenticare la fatica fisica dei numerosi lavaggi a mano. Il frigorifero Ignis ha le forme arrotondate tipiche degli anni ’50 e l’interno è diviso in piccoli comparti. Questi due elettrodomestici rientrano nella categoria del time saving (ossia ci fanno risparmiare tempo) mentre la radio o la tele rientrano in quella del time spending (ossia ci fanno spendere il tempo nell’intrattenimento). Ma ci sono alcune complicazioni. Gli elettrodomestici time saving sono considerati oggetti per le donne e, di conseguenza, il basso valore attribuito al lavoro femminile ha ritardato la loro introduzione. Il primo a comparire è il frigo che consente un risparmio nel consumo degli alimenti. Al secondo posto si trovano a pari merito tele e lavatrice mentre per la lavastoviglie bisognerà aspettare ancora qualche tempo, per non parlare poi dell’asciugatrice. Quindi l’esigenza di risparmio del lavoro femminile non è stata una molla abbastanza potente nello spingere la diffusione dei nuovi apparecchi. In genere le funzioni di questi elettrodomestici erano già da tempo diffuse a livello industriale e quindi potevano già essere fruite al di fuori della famiglia ma la valorizzazione dell’intimità famigliare porta queste funzioni anche all’interno delle case. Le donne, comunque, sono soddisfatte dell’aiuto che questi elettrodomestici danno al loro lavoro fisico e il risparmio di tempo consente loro di dedicarsi maggiormente alla cura di sé, al divertimento e agli impegni lavorativi. È interessante però notare, come nel caso dell’auto, una sorta di ambivalenza nei confronti di questi nuovi beni. L’accettazione degli elettrodomestici non è stata sempre facile: molte donne temevano infatti che essi fossero dannosi o quantomeno inutili, quasi fossero dei “concorrenti” pericolosi, in grado di mettere in dubbio le loro qualità di donne di casa. Con il tempo, però, è anche intorno agli elettrodomestici che si definisce l’identità della “casalinga moderna” più efficiente e competente. Cosa comunicano questi oggetti con la loro forma fisica? Prima di tutto è importante considerare il colore: bianco. Esso vuole rimandare ad un’idea di ordine e pulizia e rinvia idealmente alle ceramiche del lavabo o del bagno. La loro forma è simile a scatole avvolgenti a cubo o parallelepipedo con pochi e semplici comandi (on/off oppure per la lavatrice una manopola per scegliere il programma). Ecco un punto interessante: negli oggetti femminili la tecnica è nascosta e non richiede grandi forme di interazione, al contrario in quelli maschili (come l’auto) essa è esposta visibilmente e comporta un coinvolgimento da parte dell’utente. In questo modo vediamo come i prodotti tecnologici stabiliscano un rapporto diverso con i maschi e con le femmine. Nella camera da letto invece ben poco è cambiato: il letto matrimoniale occupa gran parte dello spazio, c’è poi un grande armadio e una specchiera. La stanza ha una aspetto intimo e chiuso che ci rimanda ad atmosfere antiche nonostante i mobili moderni. Se apriamo l’armadio troviamo, nella parte del marito, un elegante abito da sera, completi giacca e pantaloni, cappotti, cappelli, cravatte e camicie perfettamente stirate. Dalla parte femminile troviamo invece vestiti e vestitini, tailleur, gonne e camicette, pantaloni, cappotto, impermeabile, bigiotteria e soprattutto cosmetici. Fra questi ultimi quello che assume una valenza simbolica è il rossetto. Essi, insieme a vestiti e gioielli, contribuiscono a costruire una figura femminile più sensuale. Sul comò troviamo anche varie boccette di profumo, tra le quali spicca Chanel n°5. Il profumo rimanda a significati molto profondi; esso simboleggia l’anima e la purezza contrapposte alla corruzione del corpo fisico. Un altro oggetto presente merita attenzione: l’orologio, esso nasconde una storia straordinaria. I loro antenati erano gli orologi da tasca, molto utilizzati dagli uomini. È solo con la Grande guerra che si diffondono gli orologi da polso tra gli ufficiali e i soldati per esigenze di praticità e precisione. In Italia bisogna attendere i primi anni ’50 per vedere una concreta diffusione di questi strumenti. Negli anni ’60 l’orologio sarà un accessorio fondamentale per gli uomini. Passiamo ad un’altra stanza: il bagno. Esso è bianco con qualche accessorio di colore pastello e, anche se lo spazio è ristretto troviamo: vasca, lavandino, water e bidet. Grande novità sta nel fatto che molti degli articoli che troviamo in questa e altre stanze sono ora fatti con un nuovo materiale: la plastica. Questa permette di dar vita ad oggetti infrangibili, leggeri, resistenti e dalle mille forme. La diffusione di questi oggetti ha una motivazione pratica, legata alla maneggiabilità e una economica legata al loro bassissimo costo. Ma ne ha anche una simbolica: incarna il fascino della modernità. Tuttavia anche essa diventa oggetto di sospetti poiché è artefatta, non naturale, e ha meno valore di materiali naturali come ad esempio il legno. Va però precisato che il legno che compone i mobili non è legno allo stato naturale ma anche esso è trattato, dipinto e lucidato. Anche i rumori sono cambiati; a quelli forti e secchi del passato si sostituiscono quelli blandi e continui di sottofondo emessi dai nuovi elettrodomestici piuttosto che dalla tele o dalla radio. Anche il salottino è un ambiente molto diverso rispetto al salotto di una volta. Nella stanza troviamo un divanetto e due poltrone di velluto e un tavolino lucido con sopra alcune riviste. C’è poi un basso mobile – bar nel quale si trova tutto l’occorrente per preparare un buon aperitivo e i soprammobili non sono più esposti in quantità come una volta. Non siamo più nel luogo consacrato all’accoglienza di ospiti ma ci troviamo anche in questo caso in un ambiente più intimo e privato. È il luogo in cui la radio, ma soprattutto la tele, svolgono la funzione dell’intrattenimento prima extradomestico. Abbiamo un consumo incrociato dei nuovi mass media, differente a seconda dell’istruzione, del genere, dell’età e del reddito. Si verifica inoltre un incrocio tra i diversi media: i rotocalchi si occupano sempre più di tele, la tele riprende i programmi della radio e così via. La televisione sembra essere la regina dell’intrattenimento; essa si presenta come un grosso cassone dallo schermo bombato, con un rivestimento esterno color legno e 4 manopole per i comandi. Ad accendersi è un po’ lenta e quando la si spegne rimane fisso un punto luminoso al centro. Ma per i fortunati possessori questo apparecchio ha portato un intero mondo dentro casa: i personaggi tv diventano qualcosa di famigliare dal momento che entrano nelle case ogni giorno e alcune trasmissioni (come lascia o raddoppia?) hanno come protagonisti davvero gente ordinaria. La tele rafforza anche la cultura del consumo in due modi: indirettamente, mostrando nei suoi programmi un mondo di beni materiali desiderabili e direttamente, introducendo la pubblicità e programmi come Carosello. Questo intermezzo diventa un programma popolarissimo e lancia attori o personaggi immaginari che acquisiscono grande successo. Sul tavolino di questo salotto troviamo anche numerose riviste (epoca, gran hotel, Annabella e gioia). Ovviamente è bene ricordare che ci troviamo in una casa della classe media, la situazione degli abitanti delle case costruite nei borghi periferici era decisamente diversa, essi non potevano permettersi nessuno di questi comfort. Ci sono poi gli studi sul campo, analisi come quelle di Alberoni ascoltano la voce dei soggetti e ritengono valida la loro interpretazione. La tele non è vista dai contadini come un consumo superfluo m come un bene che consente di migliorare la conoscenza del mondo (una conoscenza che permette di esplicitare i bisogni e di chiamare le cose con il proprio nome). Un secondo aspetto che emerge è che nelle trasmissioni più diffuse c’è un continuo dialogo: si parla, si discute e si ripetono frasi e motivi musicali. Terzo elemento importante è il divertimento. Un nuovo elemento della democrazia del dopoguerra è poi il “welfare state”, è nel secondo dopoguerra che si realizzano i diritti sociali di cittadinanza (istruzione e servizi di base per tutti). La struttura delle spese assistenziali che prende forma in Italia ha una connotazione simile a quella degli altri stati europei. Si può dire che tra il 1950-1973 venga edificato il moderno welfare italiano. Questo vuol dire che la presenza dello stato in questi settori alleggerisce la corrispondente spesa privata. Per quanto riguarda la scuola possiamo dire che i governi del dopoguerra investono molto nell’istruzione. Il ragazzo inizia la sua avventura scolastica alle elementari, organizzate con 5 anni di corso e un esame finale. La novità è che ora può, anzi deve, proseguire i suoi studi per tre anni alla scuola media unica. Gli studi superiori continuano ancora a dividersi in due settori: i licei e gli istituti tecnici – professionali. Dopo alcune battaglie anche il corso tecnico consentirà l’accesso all’università. Quest’ultima, inizialmente pensata per l’elite, si apre alle masse anche se non mancano alcune difficoltà e il numero degli abbandoni e dei fuori corso è molto più elevato di quello dei laureati. Per quanto riguarda la sanità ogni persona è iscritta ad una delle numerose casse mutue pubbliche o professionali; per le prime diagnosi può andare dal medico convenzionato mentre per i problemi più gravi direttamente in ospedale. È quindi questo un sistema basato sulle assicurazioni, molto frammentato e disomogeneo, in cui pubblico e privato spesso si incontrano. Cambiano però le patologie, scompaiono le grandi malattie infettive e parassitarie (anche grazie ai nuovi farmaci) e si registra un avanzamento di quelle degenerative (cancro e arteriosclerosi) e quelle al sistema cardiocircolatorio. L’attenzione si sposta sulla prevenzione. Alla fine degli anni ’70 verrà introdotto il Sistema Sanitario nazionale che porterà alla creazione delle Usl, all’uguaglianza di trattamento e ad una speciale attenzione riservata a problematiche come handicap, tossicodipendenza e malattia mentale. La previdenza è il punto forte del nuovo welfare, affidata ad enti parastatali. Le pensioni dei dipendenti migliorano notevolmente, viene introdotta la pensione di anzianità (dopo 35 anni di contributi) e viene creata la pensione sociale, assegnata a chi abbia compiuto 65 anni di età e sia privo di altri redditi. A questo si aggiungono anche i sussidi di disoccupazione, forniti a fronte delle difficoltà aziendali dalla Cassa integrazione guadagni. In realtà buona parte di questi importanti servizi è pagata dal cittadino stesso tramite le imposte e i contributi previdenziali. Vengono introdotte l’Iva e L’irpef che vanno a colpire i consumatori finali. Il nostro assistito non è del tutto convinto; a lui sembra che i servizi che ottiene siano spesso di scarsa qualità e quantità e che le strutture siano inefficienti. 3. Pubblicità e produzione La crescita dei consumi privati e il lancio di nuovi prodotti sul mercato spingono molte più imprese ad utilizzare forme pubblicitarie, alcune delle quali diventeranno molto amate e popolari. È il caso della Mucca Carolina, il simpatico animale utilizzato per pubblicizzare un formaggino confezionato. Sono anni in cui non basta solo saper produrre, bisogna soprattutto saper vendere. La contemporanea moltiplicazione dei media a disposizione contribuisce a dare alla pubblicità una visibilità maggiore che prima non aveva. La pubblicità si specializza; c’è una maggior divisione del lavoro tra il copywriter, che si occupa dei testi, e l’art director, responsabile delle immagini pubblicitarie. Alle prime agenzie italiane degli anni ’30, come quella fondata da Armando Testa, si aggiungono ben presto anche le succursali delle agenzie americane (Young&Rubicam); queste ultime portano in Italia nuove tecniche di lavoro. I ricercatori americani iniziano a comprendere che i messaggi non possono rivolgersi a tutti indistintamente ma devono differenziarsi a seconda del target a cui intendono rivolgersi (non esiste un consumatore tipo ma tanti gruppi diversi con modi di vita differenti). Dunque la pubblicità, prima di realizzare qualsiasi messaggio, deve svolgere accurate indagini di mercato. Slogan e immagini si semplificano per adattarsi ad un pubblico di massa e a mezzi di comunicazione diversi dal momento che ogni campagna deve saper parlare attraverso tutti i media. Per quanto riguarda la produzione in Italia la grande industria non assume quasi mai una rilevanza assoluta mentre prospera una piccola imprenditoria. Per quanto riguarda l’industria chimica ad avere successo sono soprattutto i produttori di detersivi. Sono questi gli anni in cui proliferano in ogni stato europeo i vari detersivi sintetici, tra i più importanti ricordiamo: Dash, Ava, Aiax e Dixan. Per quanto riguarda l’industria meccanica nel settore automobilistico l’Italia con la Fiat ricopre oltre l’80% delle auto circolanti nel paese e le cose vanno anche meglio per le motociclette (Vespa e Lambretta). Esperienze più originali si hanno nel campo degli elettrodomestici dove nasce a Varese una piccola fabbrica di cucine e scaldabagni che dagli anni ’50 inizierà a produrre frigoriferi moderni a marchio Ignis. Sempre in Italia viene fondata la Candy,che produce lavatrici più piccole e più semplici da usare di quelle prodotte in Germania o negli USA. Nelle Marche nasce la Ariston, altra azienda leader nella produzione di elettrodomestici. Queste imprese esportano metà della loro produzione e soddisfano i ¾ della produzione interna. Due cose le accomunano tutte: • Il ricorso alla pubblicità, necessaria per lanciare nuovi prodotti e spiegarne utilità e funzionamento. • L’incapacità di consolidarsi sul mercato quando questo è saturo o aumenta la concorrenza. Ciò che accade nell’industria alimentare lo si può vedere guardando cosa contiene una cucina degli anni ’50. Troviamo prima di tutto confezioni di pasta Barilla; essa si afferma grazie ad un logo ben identificabile e una confezione blu ben riconoscibile, oltre ad una costante pubblicità spesso affidata anche a personaggi di prestigio come la cantante Mina. Innovativo è il settore delle conserve: la Star diventa importante nella produzione di dadi mentre la Cirio si dedica alle conserve di pomodoro. Accanto a questi prodotti troviamo piselli e fagioli in scatola Arrigoni e una pila di scatolette Simmenthal. Questo prodotto suscita particolare curiosità dal momento che la carne in gelatina, partita come rancio per soldati si trasforma in un pranzo comodo per la famiglia. Si punta sulla praticità e sulla spinta, dettata da molti dietologi, a mangiare più carne per una migliore forma fisica. Troviamo poi farina, caffè già macinato, riso e zucchero. Importanti sono anche condimenti come olio e aceto e oli di semi che si adattano a nuovi tipi di cottura come il fritto. Altro prodotto presentato come rivoluzionario è la margarina, più leggera e conveniente del burro. Anche per quanto riguarda pentole, utensili e posate le cose appaiono diverse. Le pentole non sono più di rame ma in acciaio e alluminio, addirittura fanno la loro comparsa la pentola a pressione e il frullatore, il quale permette di modificare la consistenza dei cibi. Tutte queste innovazioni permettono di preparare pietanze elaborate risparmiando tempo e denaro e rendendo tutto appetibile e morbido. Vera innovazione del dopoguerra è l’aumento dello zucchero, il quale arriva addirittura a triplicare rispetto al periodo precedente. Ecco allora nascere biscotti e merendine che si rivolgono soprattutto ai bambini. Importanze aziende in questo campo sono la Motta, produttrice del panettone e la Pavesi. Quest’ultima oltre a creare i famosi pavesini lancia sul mercato altre due grandi novità: gli autogrill e i cracker, tipico prodotto americano. Anche la Ferrero costruisce la sua fortuna nel campo dolciario e lo fa producendo una crema di nocciole e cioccolato conosciuta come la nutella. Questa viene venduta in vasetti di vetro che poi possono essere riusati come bicchieri. È interessante come anche le strategie commerciali prestino molta attenzione al genere e all’età: i prodotti per cucinare sono indirizzati alle casalinghe, quindi i packaging sono comunicativi e funzionali, usa e getta. I prodotti dedicati ai bambini mostrano invece scatole attraenti e colorate, pubblicizzate spesso con pupazzetti e cartoni animati. In questo periodo i bambini non devono subire le privazioni dei tempi passati ma mangiare, crescere ed essere felici. Vi sono poi i prodotti che si indirizzano ai giovani come i gelati Algida e le gomme da masticare provenienti dagli USA. Anche in questo caso questo prodotto all’origine era consumato dai soldati durante la 2° guerra mondiale al fine di tenere i denti più puliti, placare la sete e distendere i nervi. La prima prodotta in Italia ha un chiaro riferimento all’America ed è la gomma Brooklyn, il cui successo è da subito strabiliante. Aprendo il frigo si trova una profusione di prodotti freschi: verdure, frutta, pesce (poco), carne già tagliata a fettine, salame, uova, burro, margarina e formaggi dentro una formaggiera di plastica. Non manca il latte la cui confezione di vetro è stata sostituita da un moderno tetrapak. Troviamo poi birre Peroni, acqua Sangemini per i bambini e San Pellegrino oltre a qualche bottiglia di Coca cola. Ovunque non manca attenzione all’igiene e alla pulizia. Non manca però una certa ambivalenza nei confronti delle novità, in particolare per i dadi che danno origine a forme di boicottaggio da parte dei consumatori. I nuovi prodotti non soppiantano però del tutto le tradizioni culinarie, anzi l’industria valorizza prodotti alimentari tipici, in particolare quelli meridionali, e li lancia sul mercato nazionale. È in questo periodo che la “dieta mediterranea” diventa un mito; essa si basa sulla longevità dei contadini del Cilento che mangiano meno proteine animali e più pasta, verdura e frutta fresca e olio d’oliva. Troviamo anche l’industria dell’abbigliamento la quale ha fatto numerosi progressi, tanto che “capo pronto” non è più sinonimo di capo povero o malfatto. Sarti e sartine restano ma il loro ruolo appare molto ridimensionato. È nel periodo fascista, ma in particolare nel 2° dopo guerra, che l’Italia muove i primi passi per l’emancipazione della moda italiana dal predominio francese. Fra i numerosi tentativi fatti spicca quello del buyer Giorgini che organizza a Firenze, nel 1951, il Fashion show. Sulle passerelle di palazzo Pitti sfilano i grandi nomi della sartoria italiana tra i quali il marchese Emilio Pucci. Presto però rivalità interne creeranno una spaccatura con Firenze che vedrà il trasferimento dell’alta moda a Roma, mentre capitale del pret –a – porter sarà Milano. I giovani inventano una loro moda, o antimoda, e iniziano a comprare in negozi specializzati nell’abbigliamento giovane. Va, inoltre, sottolineato che è proprio tra gli anni 70 e i successivi anni 80 che i consumi si diffondono anche fra i ceti popolari; a parte i consumi alimentari sono ormai diffusi quasi in tutta la popolazione anche frigo e tele. Il loro possesso non è più indicativo di uno status sociale, la differenziazione si basa ora su consumi più costosi; condizionatori e lavastoviglie o sugli svaghi. Dal punto di vista della storia dei consumi gli anni ’70 sono quindi da rivalutare. Inaspettatamente, però, negli anni ’80 l’economia italiana e quella internazionale conoscono una nuova fioritura, i consumi riprendono la loro corsa e per l’Italia si arriva a parlare di un “secondo miracolo”. È il momento della moda, delle tv private, dei viaggi, dei cosmetici, delle palestre, di seconde case e seconde auto. Insomma, sembra che gli italiani non siano mai stati meglio. È dagli anni ’80 che inizia ad avere un ruolo più importante anche la pubblicità, grazie anche all’avvento di tv private come la Fininvest di Berlusconi nata nel 1984. Il successo dei suoi tre canali è enorme non solo per la pubblicità ma anche per i film e le fiction presenti. È vero che in questo periodo i consumi si trasformano da famigliari (frigo, tele, tostapane) ad individuali (cure per il corpo, vacanze e divertimenti). Dal punto di vista demografico si assiste ad un calo del tasso di natalità e la dimensione della famiglia va sempre più riducendosi. Negli anni ’90 però i nodi iniziano a venire al pettine: il mercato del lavoro si fa incero per i giovani, si affaccia il terrorismo internazionale, ci sono preoccupazioni per l’ambiente e per la globalizzazione. Studiosi e pubblicitari iniziano a parlare di diversi stili di vita per meglio spiegare la segmentazione presente sul mercato. Alla fine del ‘900 è quasi impossibile classificare la gente che si incontra per strada, vestita quasi tutta allo stesso modo. Restano però determinanti alcuni fattori quali: classe sociale di origine, genere, generazione e area geografica anche se essi hanno un peso diverso. Il fattore che resta più determinante è la classe di appartenenza; essa consente infatti di avere un più elevato grado di istruzione, di accorciare i tempi di attesa del nuovo impiego, di trovare un lavoro stabile e di raggiungere una posizione elevata. Quindi l’origine sociale di una persona determina ancora il suo destino. Più ambigua è l’evoluzione del fattore di genere; le donne delle ultime generazioni hanno colmato il gap scolastico e migliorato notevolmente le disponibilità di reddito e l’accesso al lavoro. Hanno però aggiunto la stessa quantità di lavoro domestico di un tempo e quindi la disuguaglianza si è attenuata solo in parte. Per quanto riguarda il fattore generazionale possiamo dire che le persone nate negli ultimi decenni del ‘900 presentano un livello più alto di scolarizzazione ma si distinguono per il ritardato ingresso nel mondo del lavoro e per una più lunga permanenza in famiglia che non gli consente di avere presto una famiglia propria. Anche il fattore geografico resta importante, sottolineando differenze fra Nord e Sud. Quindi se è vero che due persone per strada, poniamo due giovani, sono molto simili ciò non vuol dire che le differenze tra loro siano sparite. Vediamo da una parte vestiti firmati, auto e moto nuove, vacanze alla Maldive e cene o aperitivi in locali alla moda. Dall’altra parte troviamo vestiti non di marca, auto vecchie o usate, vacanze al paese della nonna e cene in trattorie o pizzerie a buon mercato. Apparire simili non vuol dire essere simili, le differenze permangono sono solo meno visibili. Detto questo possiamo analizzare nel periodo 1973- 2003 le tendenze generali in atto nel campo dei consumi. In primo luogo vediamo la diminuzione delle spese alimentari. La nuova dieta delle famiglie italiane è sempre meno a base di carne e comprende sempre di più frutta e verdura quindi si mostra più variata. Anche la voce relativa all’abbigliamento si contrae mentre le spese per casa e combustibili aumentano. Anche i trasporti e le comunicazioni continuano la loro crescita; notiamo una grande impennata dei beni tecnologici e un cambiamento di status di alcuni consumi come l’automobile. Essa non è più un simbolo di status o mezzo per i fine settimana e le vacanze ma diventa uno strumento indispensabile di lavoro e spostamento. Infine anche l’afflusso di immigrati stranieri ha influito sui consumi: nelle città sono fioriti negozi specializzati, rivendite di alimentari, boutique e ristoranti di varie etnie. Non dimentichiamo poi che anche gli immigrati sono consumatori. Le loro spese maggiori sono a favore di vitto e alloggio, ci sono poi delle rimesse al paese d’origine, una percentuale spesa per i beni secondari e qualcosa tenuto di risparmio. Il bene posseduto praticamente da tutti è il telefono cellulare, seguito dalla tele e, ad una distanza maggiore, dall’auto usata. In generale possiamo dire che molti beni hanno cambiato il proprio significato culturale passando dall’essere oggetti di lusso o eccezionali ad essere oggetti d’uso comune. 1.2 Politica e consumerismo Sulla scena politica del ‘900 ci sono importanti novità: i movimenti dei consumatori. Usiamo il termine consumerismo per indicare le varie forme di organizzazione dei consumatori che prendono forma negli anni ’50 a seguito dei primi scandali alimentari. Esse operano su un piano privato, spesso appoggiandosi a riviste, per informare e difendere il consumatore da frodi e raggiri e per mettere a confronto prodotti simili. La questione però è più ampia e in tutto l’occidente si assiste da parte dei consumatori ad una crescente intensificazione di azioni individuali e collettive che hanno un sottofondo politico. Si inscenano scioperi della spesa per protesta contro le politiche fiscali del governo, si boicottano per ragioni etiche prodotti di imprese accusate di scarso rispetto per l’ambiente o di sfruttare i lavoratori nei paesi del terzo mondo (Nike), si boicottano merci provenienti da paesi stranieri per motivi politici oppure si acquistano in modo selettivo solo i prodotti che rispettano i diritti dei lavoratori. Non sono mancate anche azioni violente contro catene di negozi e imprese multinazionali. In primo luogo i principali protagonisti di queste azioni sono soggetti politicamente sottorappresentati nel mondo della politica “ufficiale”: donne, giovani e gruppi marginali. I luoghi dell’azione sono diversi: negozi e centri commerciali ma anche Internet. 1.3 Nuovi prodotti Sono principalmente due i settori in cui le proposte dei produttori hanno avuto un impatto significativo. Il primo è quello dei beni tecnologici in particolare quelli relativi alla comunicazione e all’informazione, come pc e cellulari, che assumono però un significato diverso a seconda delle generazioni. I genitori apprezzano le loro potenzialità didattiche ed educative mentre i figli sono più interessati all’aspetto ludico (videogiochi); diciamo che ognuno piega il prodotto tecnologico alle proprie esigenze. La preoccupazione più grande che questi nuovi mezzi di comunicazione mettano in pericolo la tradizionale distinzione fra pubblico e privato. In Italia si può dire che il pc abbia avuto una diffusione simile a quella che a suo tempo aveva avuto l’auto: dapprima visto come bene di lusso e che si diffuse nella società italiana con relativa lentezza, nel corso dei decenni. Il vero strappo è stato invece il telefono cellulare che si è diffuso nel giro di pochi anni in tutti gli strati sociali. Grazie ad un basso costo e alla semplicità d’uso, esso ha provocato una vera e propria rivoluzione nella comunicazione, soppiantando in poco tempo l’apparecchio fisso che aveva avuto bisogno di parecchi anni per affermarsi. Il secondo settore preso in considerazione è quello alimentare. I due terzi dei prodotti offerti ai consumatori è di tipo tradizionale, un’ulteriore fetta è rappresentata da cibi elaborati e trattati per risparmiare tempo (sughi pronti, surgelati, cibi precotti) e il rimanente è dedicato ai nuovi consumi. Questi comprendono: cibi dietetici (zero grassi, barrette energetiche), prodotti tipici della tradizione italiana (Dop come il lardo di colonnata) e infine i prodotti biologici, decisamente di nicchia. All’interno dell’industria alimentare c’è stata poi una “manipolazione della natura” che ha portato le uova ad essere tutte belle, scure e uguali e le fette di carne belle, uguali e sempre fresche. Questo processo, già iniziato nell’800, si consolida nel ‘900 quando anche gli animali devono adattarsi alle esigenze degli esseri umani: devono essere sani e belli grassi ma anche standardizzati per far diminuire i costi del packaging e del trasporto. Il prodotto deve poi essere esteticamente corretto (pesce bianco, carne rossa, uova scure) dato che i consumatori si affidano all’immagine visiva per valutare la qualità. Ma questo livello di manipolazione ha un rovescio della medaglia ed ecco che, alla fine del’900, arriva una nuova ondata di ansietà nei confronti del cibo. Malattie e scandali fanno il resto contribuendo a diffondere un desiderio di ritorno alla natura. I produttori cercano di reagire con campagne pubblicitarie che evocano mulini bianchi, contadini e mucche felici nei pascoli. Tuttavia, almeno dalla fine degli anni ’90, vi è una maggiore attenzione alla naturalità degli alimenti e all’ambiente da parte dei produttori e delle imprese. 1.4 I limiti e i costi del consumo Qui ci interessa osservare come i processi di consumo siano sempre più collegati al problema ambientale nel discorso pubblico. La produzione utilizza quote di capitale naturale che non sono sempre rimpiazzabili; il consumo non si esaurisce con l’atto di comprare e utilizzare il prodotto ma prosegue nello scarto residuo. Le montagne di rifiuti sono una realtà, così come l’inquinamento urbano e l’assottigliarsi di alcune risorse naturali. Con il passare del tempo la crescita potrebbe rivelarsi con svantaggi superiori ai benefici. Sappiamo bene che la questione ambientale è una delle maggiori sfide del ‘900 e che non ci sono facili soluzioni. Gli studiosi hanno avanzato analisi diverse e sono nate nuove discipline di studio come l’economia ecologica. Sono sorte anche molte iniziative spontanee per limitare l’impatto ambientale nelle nostre attività quotidiane (bici al posto della macchine, riciclo dei rifiuti). Ad esse vanno aggiunte quelle organizzate da associazioni o autorità amministrative che però assumono spesso solo un valore simbolico. L’unica strategia vincente è quella collaborativa. Tra i vari esperimenti intrapresi ricordiamo quello del comune di Venezia che ha proposto ad un campione di mille famiglie di limitarsi ad acquisti rispettosi dell’etica e dell’ambiente per dieci mesi. Non sono mancati anche esperimenti estremi come quello intrapreso da una giornalista americana che non ha comprato nulla per un anno ad eccezione delle cose indispensabili alla sopravvivenza (nessun cibo pronto, cinema, ristorante, vestiti, libri ecc.). al termine dell’anno la giornalista spiega come tutto questo abbia aumentato la sua sensibilità verso un consumo responsabile, ma al tempo stesso l’abbia isolata in una sorta di universo parallelo. Una consolazione ci viene dal mondo dell’arte che ha saputo riutilizzare i rifiuti in un nuovo linguaggio artistico. L’arte contemporanea si ispira sempre di più al rimosso e allo scarto; un po’ per denuncia, un po’ per provocazione e un po’ per presentarci le nostre abitudini.
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